La lezione di Enea
Disce, puer, virtutem ex me verumque laborem,
fortunam ex aliis.
(Aen., XII, 435-436)
Impara da me, ragazzo, il vero valore e la fatica;
la fortuna da altri.
Se la storia della letteratura si potesse riassumere in una sfida tra guardie e ladri, a quanto pare fino a ieri siamo stati tutti dalla parte dei ladri. Non ho mai sentito nessuno alla domanda “qual è il tuo eroe preferito” rispondere: Enea. E dire che per un po’ ho anche vissuto a Roma.
Se di Enea si ha una qualche pur lontana impressione – cosa non scontata, perché più spesso su di lui non si ha proprio nulla da dire, totale indifferenza –, è quella del debosciato. Dell’impiegato del Fato con la spina dorsale un po’ molle. Di colui che quasi per caso, sbattuto qua e là dagli dèi, si ritrova a fondare un impero a sua insaputa. E che, quando gli accade qualcosa di veramente epico come essere sedotto da un’irresistibile regina di Cartagine disposta a donargli il suo regno, scappa impaurito. Del resto, quale eroe se ne va in giro per il Mediterraneo a mani giunte facendosi forte solo della sua pietas?
Mi sono a lungo interrogata sulle ragioni di questi severi pregiudizi che gravano sul personaggio di Enea e che farebbero dell’Eneide un racconto per i deboli di spirito. Soltanto recentemente ho capito che questo disagio misto a scocciatura che si prova nel leggere il poema di Virgilio – o anche solo a sentirne parlare – non è legato tanto alla figura poco maestosa di Enea, bensì al momento in cui la si legge, l’Eneide. E a quel mio “recentemente” di poco sopra sono costretta ad aggiungere: purtroppo.
L’Eneide non è un poema per i tempi di pace. I suoi versi non sono adatti a quando le cose filano lisce. Quando va tutto bene, l’Eneide non può che annoiare a morte – e fortunatissimi coloro che, nei secoli, hanno sperimentato il lusso di sbadigliare sui suoi esametri. Ahinoi, il canto di Enea è destinato al momento in cui si sperimenta l’urgenza di raccapezzarsi in un dopo che stordisce per quanto è diverso dal prima in cui si è sempre vissuto. Per dirlo con le previsioni del tempo: l’Eneide è la lettura caldamente raccomandata quando si è nel mezzo della bufera, e pure senza ombrello – nelle giornate di sole serve a poco o niente.
Del resto, è stato così fin dall’inizio. Anzi, era così ancora prima di cominciare. Virgilio scriveva della fatica di Enea e intanto cercava di mantenersi saldo come poteva in quella temperie storica in cui l’impero di Roma sollevava prepotente la testa tra le macerie della repubblica.
È avvenuto nel Medioevo, quando non si sapeva dove andare né a chi appartenere né che lingua parlare dopo il crollo dell’impero romano d’Occidente – Romolo Augustolo deposto con un buffetto sulla guancia da Odoacre. Così è stato anche nella Firenze di Dante, divisa, come si separano le cellule, tra Guelfi e Ghibellini, tra Bianchi e Neri – in attesa dell’arrivo, un secolo dopo, di un Lorenzo il Magnifico. E si è tornati a chiedere conto a Virgilio anche tra Otto e Novecento, in un mondo sospeso tra l’euforia dettata dalla modernità appena annunciata e il terrore di scoprirne presto gli effetti collaterali: il “nuovo” ha sempre un peso indicibile da sostenere.
Per non parlare del più grande prima e dopo che divide in due segmenti non comunicanti la storia umana, la nascita di Cristo. A lungo si è tentato di rintracciare l’annuncio della nuova era cristiana nei versi di Virgilio, piegandoli nel tentativo di dare fondamenta concrete a ciò che, proprio per la sua natura divina, non le può avere – e che dunque sgomenta per quanto è inaudito.
In fondo, è naturale. In tempo di pace e di prosperità, chiediamo a Omero d’insegnarci la vita: giustamente reclamiamo qualcosa di più di una monotona serenità in cui lasciarci vivere. Il nostro thymós, θυμός per dirlo con i filosofi greci, ovvero il nostro “impulso vitale”, la nostra fame di vivere, galoppa a perdifiato – e se davvero, dentro, siamo guidati dall’auriga che Platone teorizzava nel Fedro, è certamente il cavallo nero della passione a trainare ora il nostro cocchio, e la razionalità del cavallo bianco può benissimo attendere.
Tuttavia, a ogni rivolgimento della Storia il lettore si affretta a deporre sul comodino l’Iliade e l’Odissea, e si precipita a prendere dallo scaffale l’Eneide. Il nostro unico impulso è la paura, e il bisogno disperato di sopravvivere – il nostro invisibile auriga non si pone più il problema di dove guidare il carro, ma di come rimetterlo in piedi dopo che è brutalmente deragliato azzoppando i due cavalli.
Perché tutto questo non ci è mai stato detto a proposito dell’Eneide? In tempo di guerra non si compilano certo raffinate edizioni critiche. E in tempo di pace si vuole solo passare oltre, dimenticare.
***
Seduti a riva aspettando l’altrui cadavere, è più che legittimo concedersi il lusso di scegliere da che parte stare tra Ettore e Achille, o sfogliare il menu delle avventure di Ulisse, insieme alle sue donne. Quando invece bisogna lottare affinché il cadavere che passa lungo il fiume non sia il nostro, ecco il bisogno di Enea. Eppure come mai, pur riconoscendo che è tanto necessario, non possiamo fare a meno di detestarlo almeno un po’? Perché l’eroe di Virgilio non fa niente per consolarci. Anzi, osa persino provocarci.
L’Eneide inizia sulle rovine, quelle di Troia – e non fa altro che smantellare ciò che crediamo di volere e di provare mentre siamo seduti sulle nostre, di rovine. La paura, innanzitutto. Soffre, Enea, soffre in ogni suo gesto, eppure sembra immune al ricatto dell’angoscia. Laddove noi restiamo sgomenti – più che giustamente –, lui passa oltre e non smette di avanzare.
Piange moltissimo, come vedremo. Ma alla paura risponde sempre con l’audacia. Non si sottrae al dovere di guardare in faccia realtà raccapriccianti. Non esita a dare un nome a ciò che fino a poco prima era a tutti ignoto. A fronteggiare fenomeni mai vissuti da nessuno.
Enea pensa, cataloga, si sforza di comprendere. Ricompone il magma indefinito del caos con il rigore della razionalità. Proprio per questo, a prima vista Enea appare così detestabile. Come noi non sa cosa fare, eppure lo fa. Come noi non sa da che parte cominciare, ma nel dubbio comincia. È irritante, è vero – perché non fa che ricordarci l’urgenza di continuare.
Per di più, Enea non corrisponde affatto allo stinto prototipo dell’uomo forte (ben vengano qui i pregiudizi sul suo conto se il rovescio della medaglia è la dittatura). È tutto fuorché l’uomo solo al comando cui mettere in mano il peso di una nazione da fondare – per lavarcene noi, le mani, assolti in questo modo dalla responsabilità di pensarci.
Enea non comanda niente, se non un manipolo di disgraziati come lui. Non è neppure tanto forte – nel suo viaggio da Troia al Lazio non fa altro che inciampare. Né tantomeno è solo, in viaggio con un padre e un figlio a carico e i Penati in tasca. Avesse almeno un’arma, una ricetta magica, un superpotere che lo distingua da noi banali sopravvissuti – qualcosa che ci risparmi dal dover concludere che, se può lui, allora possiamo anche noi.
Solo una cosa significa essere Enea. Alla distruzione rispondere: ricostruzione. Questa è la sua lezione.