IV.
Essere Enea.
L’audacia nella pietas

Chissà non trovi tregua

l’anima girandola

un giorno, e in una pausa

getti le mani indietro

in traccia d’un’origine

qualsiasi, una

genealogia posticcia,

un sacramento araldico;

che più sgomenta dell’incertissimo futuro

il passato assente.

(Giorgio Manganelli, in Appendice IIA, Poesie)

Privilegio degli eroi è poter riassumere la vita in un aggettivo soltanto – in biografie senza smarginature. Tra i gloriosi, Enea è il pio. E la sua meta è l’Italia.

Sum pius Aeneas, raptos qui ex hoste Penates

classe veho mecum, fama super aethera notus;

Italiam quaero patriam.

Sono il pio Enea e porto sulle mie navi i Penati

strappati al nemico – sono noto fin oltre il cielo.

Cerco in Italia una patria.

Bastano questi soli tre versi (Aen., I, 378-380) a illuminare tutto il senso dell’Eneide – e a farne il poema necessario. Quello essenziale per chi non sempre ha intenzione di combattere per dieci anni una città straniera in nome di una donna e poi impiegarne altrettanti in un contorto periplo per ritornare a casa. Non perché non se ne abbia il tempo o perché manchino le forze, nessuno osi dirlo. Ma perché è la voglia a venire meno quando, a un certo punto, si è preso a catalogare la sconsideratezza non come attestazione di coraggio, bensì quale suprema codardia. Se due o tre energie sono rimaste dopo lo sgomento, è qui, è adesso – mentre la casa brucia – che le si vogliono spendere. Con tutto il rigore richiesto.

Enea, dichiara Virgilio, è alla ricerca di un luogo da chiamare patria – non di un trono su cui sedersi, non di un regno di cui disegnare la bandiera, non di ricchezze da far dimenticare nell’ebbrezza il dolore patito. Se viaggia, Enea lo fa per arrivare a fermarsi. E per, finalmente, costruire. Anzi per ricostruire, perché Enea non è un eroe dell’ira né dell’avventura. Enea è innanzitutto un eroe del dopoguerra – la più sanguinosa di sempre, quella di Troia.

Con sé non ha schiavi né tecnologie né magie: ha solo i Penati, gli spiriti protettori della sua famiglia dispersa, sottratti ex hoste allo scempio. È tenendo per mano il passato che Enea intende costruire il futuro in Italia. Per farlo, conosce solo una strategia: la pietas.

Il significato della pietas virgiliana

Chi ha sperimentato la caduta sa che per risalire la furberia serve a poco. Anzi, non serve proprio a niente, se non a scivolare ancora più giù. Malizie, espedienti e mercanteggiamenti sono forse ammissibili per il di più; quando non si ha più nulla, invece, è la serietà a guidare la mano nel suo lento ricostruire. Non si scherza con i cocci.

Dunque, può azzardarsi a deridere il pius Enea soltanto chi appartiene a una qualche generazione beata che non ha mai conosciuto l’emergenza. Qualcuno che non è mai andato a letto una sera sapendo che il mondo di ieri non sarebbe più esistito domani. Qualcuno per cui le macerie sono soltanto un curioso spettacolo da museo, perché non è costretto a ricordarsi cosa quei mattoni tenevano in piedi, prima.

A Enea è stato troppo spesso rimproverato – gli è stato rinfacciato persino con scherno – di essere arrivato sulle coste del Lazio sprovvisto di pie’ veloce o di multiforme ingegno. È vero, l’eroe non possiede nulla di tanto memorabile da farsi omerica formula – ma chi tra noi lo possiede? Conosce la pietas, però. Certo non serve per sgozzare nemici né per zittire sirene. Eppure è tutto ciò che basta a risollevarsi da una sciagura, e a fondare l’Italia.

Arduo è tradurre la parola latina pietas – da secoli perciò si rinuncia. Non si tratta affatto di “pietà” intesa come devozione nei confronti di un dio iracondo né di compassione per un essere umano ferito. I libri di testo spesso ne aggirano il significato in inconsistenti perifrasi che sfiorano il mistico. Oppure, per eccesso di sintesi, l’eroe diventa semplicemente “il pio”, definizione pigolante che lo rende quanto di più distante da ogni immaginario epico e che non gli rende affatto giustizia.

Alla voce pietas il dizionario di latino riporta schiettamente: “senso del dovere”. In tutto il poema – anzi, in quasi tutto, eccetto quando si lascia sedurre da Didone – Enea fa quello che può. E lo fa de more (Aen., V, 95), cioè come si deve. Con serietà. Agisce come è prescritto dal mos, cioè dal “rito”, dall’usanza che non ha nulla di religioso, ma è il risultato del sedimentarsi nel tempo di quel patrimonio di saperi, gesti e tradizioni che fanno di un drappello, più o meno grande, di essere umani un popolo.

I Romani chiamavano mos maiorum, “i costumi degli antichi”, cioè di chi ci ha preceduto e che per noi ha lavorato, questo patrimonio di fatiche individuali a fondamento della collettività – il saper fare e soprattutto il saper pensare di un popolo, che si trasmette di generazione in generazione.

Non è dunque carità, non è fede, non è misericordia la pietas di Enea. Significa avere uno scopo. Semplicemente, l’eroe s’impegna a fare ciò che si deve, e a farlo bene – Enea fa ciò che deve come se lo volesse. Verticale, a testa alta e a schiena bella dritta. Non è affatto poco – nella catastrofe, è tutto.

Leggendo l’Eneide, il pubblico scelga quindi da che parte stare. Se tra chi fa o tra chi traffica. Soprattutto, valuti bene di quali doti dispone. In caso di caduta, non ci si strappa via la pelle che prima era la nostra senza soffrire.

Enea prima di Enea

Musa, mihi causas memora, quo numine laeso,

quidve dolens, regina deum tot volvere casus

insignem pietate virum, tot adire labores

impulerit.

(Aen., I, 8-11)

Dimmi, Musa, le cause: per quali offese al suo potere o quali

[recriminazioni

la regina degli dei spinse un uomo di devozione specchiata

a subire tante vicende e affrontare tante fatiche?

Non esistono vittorie definitive. Nessun trionfo è così totale da non tormentare con il sospetto che proprio nel momento in cui è sembrato di vincere, in realtà, si stava perdendo. La buona notizia che ci ricorda l’Eneide è che, se si fanno le cose come vanno fatte, di definitivo non esistono nemmeno le sconfitte.

C’è stato un tempo in cui Enea non era ancora l’insignem pietate virum, l’uomo insigne per pietas narrato da Virgilio. Molto probabilmente, non era ancora neppure un uomo, ma un ragazzo imberbe.

Figlio del pastore troiano Anchise e della dea Venere – del loro amore si narra anche nell’Inno omerico ad Afrodite –, nemmeno l’etimologia di “Enea” è così pacifica. Anzi, le due ipotesi avanzate sono contrastanti: il suo nome viene ricondotto al vocabolo αἶνος (ainos), che vale “lode” (ma anche “storia”, “racconto”), oppure ad αἰνός (ainós), che significa “terribile”, “tremendo”.

Allevato ed educato dalle ninfe dei monti – oppure, secondo altre leggende, da quel centauro Chirone che fu mentore anche di Achille –, Enea compare nell’Iliade in qualità di capo dei Dardani, una tribù dell’Illiria (in prossimità della costa occidentale dell’attuale Turchia) alleata con i Troiani. In Omero Enea non vince mai. Né perde mai.

Fin da subito, si vede che non è al suo posto. Si sente che Enea è lì sulla piana di Troia eppure non c’è – che abita quel presente come di passaggio, in attesa che il futuro cui è destinato diventi fatto compiuto. Come gli altri eroi, anche Enea aspira all’epica “fama”, al κλέος (kleos), che lo sottragga dall’anonimato – accadrà, certo, ma non in quella guerra insensata. Il suo destino è di erigere con onestà, non di abbattere ingannando – come fece Ulisse. Il Fato gli impone di essere un buon padre, non di rispondere alle armi lasciando un figlio orfano – come fece Ettore.

Due sono le scene dell’Iliade in cui Enea ha un certo ruolo, anche se mai di primo piano. Non si sottrae al combattimento – né sono gli ultimi quelli con cui si scontra –, ma per volere divino sarà sempre il combattimento a sottrarsi da lui. Nel V canto del poema omerico, Enea si scaglia contro Diomede, figlio di Tideo, uno tra i più arditi guerrieri Achei che già aveva preso parte alla guerra degli Epigoni. Sceso in campo contro i Troiani con armi infuocate, suggerimento di Atena, l’eroe uccise Pandaro, che combatteva sul carro insieme a Enea.

Quest’ultimo abbandonò allora il cocchio per recuperare da terra il cadavere del compagno, affinché non restasse insepolto. Enea “gli si mise accanto come un leone che della sua forza si fida; teneva davanti a sé la lancia e lo scudo rotondo, pronto ad uccidere chiunque gli venisse di fronte, e gridava in modo terribile” (Iliade, V, 299-302). Ma non gli bastò digrignare i denti in faccia al nemico: Diomede gli scagliò contro un masso, ferendolo quasi a morte.

Poi, ecco il verificarsi di una delle sparizioni che fanno dell’assenza la cifra di Enea nell’Iliade. È sua madre Afrodite a intervenire e a soccorrere il figlio, avvolgendolo in un velo e portandolo via – l’ira di Diomede è tale che inveisce persino contro la dea, ferendola a una mano. Al posto di Enea, sulla terra rossa di Troia, a combattere resta un fantasma. Lui, intanto, è ormai ricoverato presso il tempio di Apollo – le sue ferite sono medicate da Artemide e da Latona.

Nel XX canto dell’Iliade è invece la nebbia inviata da Poseidone a salvare Enea da morte certa – il suo sfidante è nientemeno che Achille. In questo episodio omerico, ripreso anche nell’Eneide dove è narrato direttamente da Nettuno (Aen., V, 808-810), il lettore scopre per la prima volta che la pietas di Enea può rivelarsi assai più solida del suo scudo – che la freccia scagliata da Achille non fatica a trapassare. Per una ragione sola il dio del mare decide di intervenire in soccorso del troiano: “Ma perché quest’uomo innocente deve patire dolori, invano, a causa di pene altrui, lui che offre sempre doni graditi agli dèi, signori del cielo infinito?” (Iliade, XX, 297-299). In sintesi: Enea ha sempre dimostrato di saper fare ciò che deve. Perché lasciarlo morire come non dovrebbe?

Del resto, il Fato impone che la fine di Troia sia solo l’inizio della storia di Enea (Aen., IV, 227-231):

Non illum nobis genetrix pulcherrima talem

promisit Graiumque ideo bis vindicat armis;

sed fore qui gravidam imperiis belloque frementem

Italiam regeret, genus alto a sanguine Teucri

proderet, ac totum sub leges mitteret orbem.

Non così ce l’ha promesso la sua bellissima madre,

non per questo l’ha strappato due volte alle armi greche,

ma perché ci fosse qualcuno a governare l’Italia, gravida

d’impero e fremente di guerra, e a continuare la stirpe

dell’alto sangue di Teucro e a sottomettere alle sue leggi il mondo.

***

Anche nelle sembianze fisiche Enea è un fantasma. Nell’Eneide (e altrove nella storia della letteratura), non c’è alcuna descrizione precisa dell’eroe. Non un gesto in grado di renderlo unico, nessun tratto fisico che possa farsi inconfondibile epiteto. Certo, Virgilio non risparmia i riferimenti alla straordinaria bellezza dell’eroe – “Enea, più bello di tutti” (Aen., IV, 141) –, ma questa sua avvenenza è lasciata sfocata, senza alcun dettaglio che sappia distinguerlo dal generico stereotipo della kalokagathìa classica che imponeva che il “buono” fosse anche “bello”, e viceversa.

Sarebbe impossibile altrimenti: ciò per cui Enea è memorabile non risiede nel corpo, ma nell’invisibile attitudine alla pietas. Così Giacomo Leopardi annotò nello Zibaldone (3610): “tanta è la serietà dell’idea che Virgilio ci fa concepir del suo Eroe, che la gioventù e la bellezza ci paiono in lui fuor di luogo, e quasi ci giungono nuove e ci fanno meraviglia (la meraviglia poetica non dev’esser certo di questo genere), e quasi non ce ne persuadiamo, benché sieno naturalissime”.

Al lettore dell’Eneide non è concesso neppure per un istante di scorgere i lineamenti del volto di Enea. Se si volesse almeno tentare d’immaginarlo, il profilo dell’eroe avrebbe i tratti della dignità misurata del neoclassicismo, rispondendo all’ideale di “nobile semplicità e quieta grandezza” teorizzato dal Winckelmann – che peraltro utilizzò spesso il poema di Virgilio per identificare le sculture antiche rinvenute a Roma.

Ciò che è chiara in ogni scena dell’Eneide è invece l’espressione di Enea. Anzi, il suo atteggiamento. Il modo in cui i suoi occhi sono trafitti dal vivere – e come gli rispondono.

Insomma, come Enea guarda in faccia il lettore. Lo sguardo è sempre fermo. Non immobile di perplessità, né tantomeno vacuo d’inettitudine. È con costanza – con resistenza capace di farsi rivalsa – che Enea osserva il mondo.

Formidabile è la metafora con cui Virgilio descrive la reazione dell’eroe nell’ascoltare le suppliche di Didone, prossima al gesto fatale, mentre Enea sta preparando gli ormeggi per salpare definitivamente da Cartagine (Aen., IV, 441-449):

Ac velut annoso validam cum robore quercum

Alpini Boreae nunc hinc nunc flatibus illinc

eruere inter se certant; it stridor, et altae

consternunt terram concusso stipite frondes;

ipsa haeret scopulis et quantum vertice ad auras

aetherias, tantum radice in Tartara tendit:

haud secus adsiduis hinc atque hinc vocibus heros

tunditur et magno persentit pectore curas;

mens immota manet, lacrimae volvuntur inanes.

Come quando sulle Alpi i venti di tramontana

gareggiano con le raffiche da un lato e dall’altro a svellere

una quercia dal tronco antico – corre lo stridore, e le alte fronde

tappezzano il terreno intorno al tronco scosso,

ma la quercia è abbarbicata alla roccia, e quanto la cima

si eleva al cielo altrettanto con la radice affonda verso

il Tartaro, così l’eroe è colpito da ogni parte

dalle parole assidue e sente nel grande cuore l’angoscia,

ma la mente rimane immota, scendono inutili lacrime.

Evidentemente, chi accusa Virgilio di aver attribuito a Enea una scarsa personalità deve amare i violenti o gli incoscienti. Perché Enea è tutto fuorché un burattino anestetizzato che si lascia dettare i passi dal Fato. Soffre molto, invece – e quando fa male, è colpito da ogni parte.

La grandezza di Enea sta tutta nella sua solidità. Questo è il talento fornito dalla pietas: saper essere, nella bufera, quercia. Pure se i rami sono sbattuti dal vento e le raffiche tentano di svellere il tronco – che è antico –, sono le radici a tenere l’albero saldamente ancorato al suolo. Quelle di Enea sono abbarbicate: infilate profonde non al centro della terra, ma ancora più sotto, fin negli inferi.

Solidità come panacea, quindi? Come elisir da tutti i mali? No, l’angoscia è profonda lo stesso, non c’è nulla che si possa fare a riguardo. E le lacrime sono sempre inutili, perché non servono a cambiare le cose. Fermezza come arma, piuttosto. Per non scivolare a valle, per non essere strappati via dal nostro posto nel mondo – per non essere annoverati nel bollettino dei dispersi trascinati giù dalla fatica di vivere.

E quando il vento sarà passato, poter ammettere che non esiste una soglia del “troppo dolore” – sennò a forza di sopportare saremmo già morti. Invece siamo di nuovo lì, con le maniche rimboccate, a ricostruire ciò che la tempesta ha devastato.

Enea dopo Enea

Chiedete a qualcuno che ha appena finito di ricostruire la sua casa quanto di bello ha imparato ingoiando lacrime e sudore. Informatevi circa il presunto “lato positivo” di una tragedia umana quale foriera di insegnamenti morali, propositi intellettuali e irripetibili speculazioni filosofiche. Vi manderà senz’altro a quel paese. Oppure vi risponderà con garbo: “Ne avrei fatto volentieri a meno!”.

L’Eneide non è un manuale pratico su come montare e assemblare il dolore e trarne chissà quale alta lezione di vita. I suoi dodici canti non sono le dodici buone ragioni per scoprire il senso ultimo di una catastrofe. Forse è proprio questo il dono più rivoluzionario che ci abbia consegnato Virgilio: essere finalmente liberi di ammettere che soffrire è orrendo. Che il male è agghiacciante e che nella perdita non c’è nulla di eroico, e neppure di tanto poetico. Che la morte è il supremo scandalo. E che, arrivati in fondo a una crisi, si hanno tutte le ragioni del mondo per volersene sbarazzare al più presto e procedere oltre.

Enea non è qui, nell’Eneide, per adempiere chissà quale percorso formativo fatto di lacrime e sangue. Non si sogna nemmeno di dirci cosa ha imparato in tanto soffrire – si limita a mostrarci che lui, almeno, a quel dopo ci è arrivato. Non tutti purtroppo possono fare altrettanto – suo padre Anchise, tra gli altri, non ce l’ha fatta a vedere Roma, essendo morto durante il viaggio. Dal primo all’ultimo canto, Enea non fa che ripetere: se avessi potuto scegliere, è nel prima che sarei restato.

Mai – neppure per un attimo, nemmeno in mezzo verso –, Enea cede alla tentazione di dare un senso morale o filosofico alla sua prostrazione di sopravvissuto. Non lo fa nemmeno quando la nebbia asfissiante dell’angoscia si dirada per qualche istante e prova ad essere felice – in nessun’altra circostanza l’essere umano sa ridere come in un dopoguerra, perché è di sé che ride, ride perché è vivo. Anche quando s’innamora di Didone – e s’innamora davvero, mettiamolo subito in chiaro, lo vedremo più in là in questo libro –, Enea gode sì del momento, ma non può fare a meno di pensare a quanto sia insensato tutto quello sfinimento del vivere.

Per interi secoli i versi che seguono possono giustamente sembrare quelli di un codardo. Poi arriva un maledetto giorno in cui ci siamo noi al posto di Enea e allora questi versi (Aen., IV, 340-344) fanno almeno un po’ piangere:

Me si fata meis paterentur ducere vitam

auspiciis et sponte mea componere curas,

urbem Troianam primum dulcisque meorum

reliquias colorem, Priami tecta alta manerent,

et recidiva manu posuissem Pergama victis.

Se i fati mi lasciassero vivere secondo il mio desiderio,

e dare pace ai miei affanni,

abiterei la città di Troia e le dolci reliquie dei miei,

sarebbe in piedi il palazzo di Priamo, e con le miei mani

avrei restituito Pergamo rinata ai vinti.

Bruciano i condizionali della caduta. Quelli di quando si indugia per un attimo a chiedersi: “Cosa farei, se potessi”. Enea, se potesse – se il Fato lo concedesse – non ha dubbi: non è a Cartagine con Didone che resterebbe, né è verso il Lazio che partirebbe. Se potesse, è nella sua città, Troia, che tornerebbe per trovare finalmente un po’ di “pace ai suoi affanni”. Sarebbe disposto pure a ricostruirla “con le sue mani” pur di essere accanto ai suoi vivi, e anche ai suoi morti – solo durante una tragedia, quando persino i riti funebri sono negati, le tombe dei propri cari sanno essere “dolci”, poiché non c’è violenza più ignobile del morire da soli.

Non è certo mia intenzione sminuire qui il dolore di Didone, che brucia altrettanto. Un paio di volte l’ho patito a mia volta, come l’abbiamo patito tutti – e siamo tutti sopravvissuti. Tuttavia, ritengo che abbia peccato un po’ di leggerezza chi ha sempre accusato Virgilio di scarsissima verve poetica, affermando che il protagonista dell’Eneide liquiderebbe la donna che lo implora di restare con qualcosa di trito e ritrito come “siamo in fasi diverse della vita”.

Anzi, “peccare” non è la formula esatta, né mi permetterei mai alcun giudizio. Solo: chi rimprovera a Enea di essere un vigliacco ha legittimamente goduto della spensieratezza concessa in tempo di pace nel giudicare la vita altrui – di nuovo, il discrimine nel valutare l’Eneide è interamente dato dal momento in cui la si legge. In guerra tutto si carica di un senso diverso: il prefisso ex non si applica più soltanto a un amante perduto, ma a un’intera epoca storica brutalmente interrotta.

Quando afferma che, pur se fosse concesso dal Fato, preferirebbe comunque il suo passato a Troia a quel presente a Cartagine, Enea non sta affatto sminuendo la sua storia d’amore con la regina. Non la sta denigrando né la sta abbindolando. Dice una cosa molto più semplice Enea a Didone. Con lei è stato bene, e molto. Ma senza il crollo della sua patria, e dunque di ciò che lui chiamava vita, starebbe ancora meglio.

Solo per questo adesso deve ripartire.

***

Chi ancora non è convinto della lezione di Enea può guardare come vanno a finire, nell’Eneide, gli altri. Ovvero gli antagonisti dei futuri Romani, quel re Turno e il popolo dei Rutuli che l’eroe si trova a combattere una volta approdato nel Lazio. E a sconfiggere, ovviamente.

Non è tanto il fatto che alla fine gli altri perdano – difficile che una guerra si concluda altrimenti. Bensì come gli altri si comportano, lottando. Perché se il lettore ha nostalgia dell’eroismo omerico, nell’Eneide lo trova nell’altra metà del campo. Nella metà nemica.

Gli originari abitanti del Lazio, per niente grati di essere invasi, agiscono nel poema come se credessero di essere scritti da Omero, non da Virgilio. Amano immaginarsi nell’Iliade: nessuno li ha informati che questa, però, è un’altra storia, questa è l’Eneide. Il loro impulso vitale ribolle – della vita ne godono. Traggono piacere dalla violenza, come quando Turno, nel IX canto, attacca l’accampamento dei Troiani: “lo tormenta una fame / inveterata e le fauci assetate di sangue” (Aen., IX, 63-64).

I loro amori sono ardenti e all’offesa reagiscono orgogliosi, in armi – Lavinia non farà la fine di Elena, si dicono, non si lascerà rapire da Enea per diventare sua sposa. Insomma, sono i nemici a fare tutte quelle cose che il lettore normalmente riconosce come appropriate, anzi tipiche, per un eroe epico: strapparsi i capelli, graffiarsi il volto, maledire a morte, tagliare teste per vendetta, ubriacarsi, difendere città fino allo stremo. Ma quest’omerico catalogo di gesti appare quasi subito, più che ardore, sfinente febbre.

Nell’Eneide i Rutuli scomposti si agitano, urlano, assaltano o restano atterriti. Non conoscono alcuna prudenza. Attaccano il prossimo gridando: audentis Fortuna iuvat, “la fortuna aiuta gli audaci” (Aen., X, 284). E perdono pur essendo i più forti.

Dunque come è possibile che Enea vinca pur essendo più debole? Grazie a ciò che si diceva poc’anzi: trasformando la paura in calcolata audacia. Rigettando quello che è il pericolo più grande mentre cadono i colpi: l’irrazionalità. Sul campo di battaglia, reale o metaforico che sia, il fine di entrambe le parti è aver salva la pelle. Limitando i danni.

Il discrimine tra chi si salva e chi no è dato da cosa si sceglie di fare quando si è costretti in ginocchio. Turno e i suoi, quando sono a terra vanno nel panico distribuendo colpe e accuse che non risparmiano neppure le divinità (Aen., XII, 894-895):

Turno scosse la testa: “Non mi fanno paura

le tue minacce, crudele, ma gli dèi e Giove nemico”.

Nella polvere, a Enea di chi sia la colpa importa poco. Perché sta già pensando a come risalire. È così che ha già vinto.

***

Vale la pena ritornare un momento sulle interpretazioni che farebbero dell’Eneide un racconto così poco eroico da aver messo persino in dubbio la sua natura di “poema epico”. Sarebbe un “romanzo in versi”, dicono, se proprio s’insiste un “romanzo drammatico”: i protagonisti sembrano troppo piatti, piangono troppo, i loro slanci appaiono affannati e monchi. Del resto, si tratta pur sempre di una storia di vinti – di perdenti scampati alla distruzione di Troia –, che non vincono mai (Enea e i suoi sconfiggono i Rutuli, è vero, ma non conquistano alcun regno, anzi: lo devono ricostruire ex novo sul modello di quello perduto).

Nei secoli, sulla figura di Enea si è detto molto – e quasi mai niente di positivo. Ma su Virgilio e la sua Eneide si è detto anche di peggio. Sintetizzo citando, tra mille, il filologo tedesco Eduard Norden, secondo cui l’Eneide non sarebbe altro che un poema patriottico troppo “datato”, senza alcuna prospettiva disinteressata e pure oltremodo disilluso e pessimista sulla natura umana.

Non mi stancherò di ripetere: non è per difendere Virgilio che scrivo questo libro. So benissimo che l’Eneide non risolverà i nostri problemi – ma almeno non li renderà più gravi. Mi sono accorta che Enea non mostra nel poema chissà quali slanci emotivi, non perché non ne sia capace. Ma perché non può. La sua non è freddezza né insensibilità. La sua è impotenza.

Laddove più acutamente soffre, a Enea non è concesso di mostrarlo (Aen., I, 209):

Spem vultu simulat, premit altum corde dolorem.

Simula la speranza nel volto e soffoca in cuore dolore profondo.

Già. Nell’emergenza della crisi, il dolore deve stare tra parentesi. Perché Enea non è solo. Non si tratta di Ulisse che può abbandonarsi al pianto solitario sulla riva di Ogigia per troppa nostalgia di Itaca – Penelope e Telemaco sono lontani, non lo vedono mentre il suo volto si riga di lacrime. Non sto parlando qui di compagni di viaggio. Se Enea non può piangere è perché, allacciato alla sua mano, c’è suo figlio.

In definitiva, questo è il senso ultimo della pietas di Enea. Continuare non perché lo si vuole, ma perché non è lecito crollare. Assumersi la responsabilità morale di chi abbiamo accanto. Essere audaci nella pietas significa, dunque, non ostentare disperazione quando si sta male né fare sfoggio di allegria quando si sta un poco meglio. Sulle macerie non si singhiozza quando si è dentro né si fa festa quando si è fuori.

Geniale (e sempre punk anche se campanilista) è Paul Veyne quando ribatte a chi accusa Enea di non mostrarsi abbastanza affranto nell’abbandonare Didone e a chi rinfaccia a Virgilio una penna insensibile: “vi immaginereste il generale De Gaulle dimenticare per sei mesi la sua missione nelle braccia di una bella londinese?”.

Se Enea non piange i fiumi di lacrime degli eroi omerici, non è perché soffra meno. È perché soffre di più. Ma non può dirlo. E dunque Virgilio non può scriverlo.

Un’annotazione finale.

Tutto ciò che Enea fa, non lo fa per sé. La città che ricostruisce in Italia non è il suo rifugio per la vecchiaia né lo stendardo della sua fama – il suo periplo finisce senza ricompensa né particolare gloria, condotto in silenzio, in cielo, dalla madre Venere. Pur stremato, Enea rimette insieme le macerie a forma di patria. Una patria che sa che non avrà il tempo di abitare. Ma che sa che abiteranno suo figlio, i suoi nipoti.

E dopo di loro, arriviamo noi.