II.
Lacrimando.
La storia di Virgilio e dell’Eneide
La mia pace meccanica, asciutta,
tutta in possesso della mano,
la mia pace terrestre
senz’ira, ignota agli angeli,
sta tutta nella bianca
costola del libro,
la pagina rettangolare
virgole, maiuscole;
elude l’arguzia della mente
in calme prospettive
gli argomenti dell’inferno.
(Giorgio Manganelli, in Poesie)
Piange Enea. Intanto Troia, espugnata, va a fuoco.
Anche Virgilio si augurava lo stesso destino di fiamme per l’Eneide, quando erano le istituzioni repubblicane di Roma a essere in cenere.
Sunt hic etiam sua praemia laudi,
sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt.
Anche qui la gloria ha il suo premio,
le cose hanno lacrime e le vicende mortali toccano il cuore.
Se tutte “le cose hanno lacrime” (Aen., I, 461-462), chissà quante ne deve aver versate il poeta mantovano in otto o nove anni di incessante lavoro. Incompiuto. Perché l’Eneide non è che un abbozzo. Una prova. Una brutta copia. L’Eneide fu giusto un tentativo. Non riuscito. E che Virgilio voleva assolutamente distruggere per impedire che giungesse così com’era nelle mani dei posteri. Ovvero, le nostre.
Lacrimando in Gallia Cisalpina
Tantum magna suo debet Verona Catullo,
quantum parva suo Mantua Vergilio.
Tanto la grande Verona deve al suo Catullo,
quanto la piccola Mantova al suo Virgilio.
A voler essere pignoli, nel parafrasare Marziale (Epigramma 195), debitrice più che Mantova deve esserlo l’antica Andes, il cui territorio oggi è identificato (sebbene non unanimemente) con Pietole, una frazione del comune che porta, appunto, il nome di Virgilio. Fu questo sparuto villaggio a dare i natali al poeta il 15 ottobre del 70 a.C.
Se la vicenda letteraria di Virgilio è un crogiolo di presagi, di coincidenze e di appuntamenti irripetibili della Storia, tutti da lui tutti rigorosamente adempiuti – vissuto a cavallo tra repubblica e impero, negli anni di Giulio Cesare e Ottaviano Augusto al potere, e, per non farsi mancare nulla, morto alla soglia dell’avvento di Gesù Cristo –, anche la sua vicenda umana, al pari dell’Eneide, comincia sotto il segno delle lacrime.
A partire dall’etimologia del nome della sua città d’origine. Pare, infatti, che Mantova debba il suo nome alla profetessa Manto, figlia dell’indovino tebano Tiresia – da lei deriva anche la parola mantica, dal greco μαντικὴ τέχνη (mantikḗ techne), ovvero l’arte di prevedere il futuro interpretando segni di varia natura. In fuga da Tebe, dopo lungo errare, non si sa come, indecisa se fermarsi nella soleggiata Turchia o nella bassa pianura padana infestata oggi come allora di tenaci zanzare, Manto scelse di fondare Mantova riempiendo un lago paludoso con le sue stesse lacrime. Superfluo qui ricorrere ai servigi di un indovino per comprendere sotto quale stella sia dunque venuto al mondo Virgilio.
Secondo alcuni, suo padre era un vasaio; secondo altri, un contadino o un apicoltore. Quel che è fuori questione è che l’uomo fosse quanto di più distante dal profilo dell’intellettuale impegnato à la Cicerone che, proprio in quegli anni (nel 63 a.C., per la precisione), ascendeva al consolato a colpi di reprimende e di orazioni – con le quali intendeva, tra l’altro, illustrare ai contemporanei e pure ai posteri come deve andare il mondo.
La svolta nella vita di Marone senior si ebbe quando riuscì a sposare Magia Polla, la figlia del suo padrone, ottenendo così in dono la manciata di zolle su cui da sempre si spaccava la schiena. Si tratta proprio di quei paesaggi agricoli che saranno in seguito cantati da Virgilio nelle Bucoliche e nelle Georgiche – e che non risparmieranno al poeta nostalgia, dolore e infine delusione; insomma, altre lacrime.
È chiaro, quindi, come tutte le ambizioni della famiglia, che era appena diventata “proprietaria” e dunque un po’ borghese, fossero allora riposte nel piccolo Virgilio, le cui braccia vennero subito strappate all’agricoltura e inchiodate ben composte sui banchi di scuola. Furono i libri e le lezioni, prima a Cremona e poi a Milano, ad attutire alle orecchie del ragazzo le urla e lo sbigottimento di Roma, dove il primo triumvirato di Cesare, Pompeo e Crasso (60 a.C.) stava per sprofondare nelle sabbie mobili delle guerre civili.
Terminata con brillanti risultati l’educazione di base, il ventenne Virgilio non avrebbe potuto scegliere momento storico peggiore per affacciarsi sulla scena intellettuale della città dell’imperium sine fine, “l’impero sconfinato” (Aen., I, 279) promesso da Giove a Enea e ai suoi discendenti. Eppure presto le cose si aggraveranno ancora di più, a conferma che non c’è limite al peggio. E al pianto, aggiungo.
È così che intorno al 50 a.C. (o poco prima) un ragazzo nato nei pressi di Mantova si presentò a Roma, nel bel mondo delle scuole di retorica, carico di sogni, di speranze e di ottimismo – e perciò del tutto privo di ogni lungimiranza nel decifrare la precarietà politica del suo tempo.
***
Doverosa è qui una precisazione sullo stato dell’oratoria all’epoca. Si dimentichino le voci incorruttibili dei greci Lisia o Demostene a squarciare le tenebre e le coscienze. Nella Roma tardo-repubblicana tutto era retorica. Lo scenario politico era così convulso che non c’era nemmeno il tempo necessario perché qualcosa accadesse; e se proprio doveva accadere, il fatto non era più tale in sé, era già diventato la sua narrazione.
A tutti – o almeno a tutti coloro che nutrivano una qualche ambizione politica (ergo tutti tranne gli schiavi, e ben presto pure quelli) – erano concessi almeno quindici minuti di celebrità nel Foro per declamare a gran voce ciò che era giusto o intollerabile, almeno a parer loro. L’arte di parlare in pubblico con discorsi convincenti ed eloquenti, detta a Roma più comunemente ars dicendi, era ormai sempre più lontana dall’integerrima sobrietà sancita da uno dei più celebri e specchiati retori di sempre, Catone il Censore. Di converso, la retorica era sempre più vicina a uno show; i discorsi erano diventati spettacolari e gli oratori si sbracciavano ad affermare tutto e il contrario di tutto in performance che attiravano orde di pubblico, come se si trattasse di un intrattenimento non dissimile dal circo – per il quale la retorica si proponeva adesso come alternativa radical chic.
Quel che contava per la modesta famiglia Marone – e quel che conta ora per la nostra storia – è che la retorica era allora rimasta l’unica maniera per avanzare nelle tappe previste dal cursus honorum dai tempi della prima orazione pronunciata a Roma, secondo la tradizione, da Appio Claudio Cieco nel 280 a.C. Non c’è traccia di un solo console che non abbia cominciato la sua carriera politica con almeno un’orazione ben assestata e ben declamata nel Foro.
Fu ad esempio con due orazioni a dir poco sorprendenti, pronunciate tra l’81 e l’80 a.C. – una, la Pro Quinctio, con cui sfidò, vincendo, il più celebre oratore dell’epoca, l’altra, la Pro Roscio Amerino, in cui difese un giovane accusato addirittura di parricidio, anche in questo caso ovviamente con successo –, che Cicerone si affrancò presto dalla piccola, anzi minuscola, nobilitas di Formia cui apparteneva (ma purtroppo non si affrancò anche dall’ingombrante verruca sul naso a forma di cecio, cicer, cui doveva il suo soprannome). Tuttavia, la differenza di stile di vita, di ambiente, di frequentazioni, insomma di milieu umano e culturale, che intercorreva tra le origini di Cicerone e quelle di Virgilio era titanica.
Ragionevolissima e del tutto comprensibile – anzi, degna di plauso – fu dunque la scelta dei genitori di Virgilio, novelli parvenus, di puntare ogni loro risorsa sulla retorica a Roma, al fine di garantire al figlio il miglior futuro possibile – nulla di male nemmeno oggi nello spedire i rampolli più promettenti a Oxford, Cambridge, Harvard o nella più domestica Università Bocconi per studiare business, management, marketing o information technology.
Epperò, un conto era essere nati, come Cicerone, ad Arpino, alla periferia del Caput Mundi, cioè alla periferia non tanto della capitale di uno Stato quanto della capitale del mondo – “la più grande delle ricompense che un generale potesse mai ottenere”, come Lucano definì Roma in un verso della Farsaglia (II, 655). Un altro conto era essere nati nei dintorni di Mantova, circondato da ingenui pastorelli e rozzi braccianti, tra i campi umidi e afosi, alla periferia di una cittadina di periferia. Città che era romana da meno di centocinquant’anni: la Gallia Cisalpina, divisa dal Po in Cispadana e Transpadana, fu annessa definitivamente alla S.P.Q.R. solo nel 190 a.C. Il diritto romano vi arrivò meno di vent’anni prima della nascita di Virgilio, nell’89 a.C. per gentile concessione del comandante Gneo Pompeo Strabone (omonimo ma non parente del più noto geografo greco).
C’è dunque poco da essere ironici e non c’è nulla da essere crudeli se Virgilio, da poco giunto a Roma, ebbe il suo primo momento di debolezza – il primo di meno di una manciata in una vita agra che è stata tutta una disperata resistenza. Le malelingue, che non mancano mai nelle biografie degli scrittori che hanno lasciato un segno nel grande libro della letteratura (la loro assenza, altresì, è indice di opere e autori del tutto dimenticabili), insinuano che, giunto finalmente il momento di aprir bocca e di pronunciare la sua prima orazione, Virgilio non ce la fece. Non se la sentì.
Andò nel panico, in confusione, in iperventilazione, gli si piegarono le ginocchia (come già ammise di sé Cicerone, con falsa modestia ovviamente). Si dimenticò tutto o più semplicemente gli passò la voglia, chissà. Richiuse la bocca, se mai l’aprì, e restò in silenzio davanti alla folla. È richiesta qui al lettore la rara arte dell’empatia. Non tanto per assolvere Virgilio (che comunque poi si riprese dalla débâcle non con una, bensì con tre opere divenute immortali); ma per assolvere tutte le nostre, di scene mute, tra le quali quelle prettamente scolastiche sono le meno vergognose.
Se non si vuole scendere così in basso da prestar fede ai maliziosi e agli invidiosi (che peraltro da sempre rappresentano una delle fonti più eloquenti della frammentaria storia della letteratura classica), e senza voler immaginare per Virgilio una simile disfatta, ancorché pubblica, rimane però certo che il giovane mantovano, a Roma, si trovò male. Anzi, malissimo. E non solo per la totale invivibilità di una città della quale il caos sembra un elemento costitutivo, anzi, genetico, quasi mescolato alla calce delle sue fondamenta il giorno stesso della fondazione da parte di Romolo, il 21 aprile del 753 a.C. (è lecito sospettare che il caos romano l’abbia importato direttamente Enea da Troia). Le fonti sono tutte concordi nel descrivere una Roma caotica, rumorosa, sporca, maleodorante e popolata di personaggi equivoci – sto parlando di fonti antiche, non degli attuali improperi contro questo o quel sindaco da parte di cittadini alla fermata di un autobus che non arriverà mai.
Le stesse fonti sono tutte concordi anche nel descrivere Virgilio come un giovane uomo mite, gentile, di buone maniere, di solidi valori filosofici e di nobili ideali politici. Nessun temperamento avrebbe potuto rivelarsi più inadeguato a Roma nel pieno della tempesta delle guerre civili, che si concluderanno presto con Giulio Cesare nominato dictator a vita.
Lacrimando a Roma
Chi non si commuove nemmeno davanti a questi versi (Buc., I, 19-25), allora, nella vita non si è mai commosso:
Urbem, quam dicunt Romam, Meliboee, putavi
stultus ego huic nostrae similem, cui saepe solemus
pastores ovium teneros depellere fetus.
Sic canibus catulos similes, sic matribus haedos
noram; sic parvis componere magna solebam.
Verum haec tantum alias inter caput extulit urbes,
quantum lenta solent inter viburna cupressi.
La città che chiamano Roma, credevo
scioccamente, Melibeo, che fosse simile a questa nostra,
dove spesso noi pastori portiamo gli agnelli appena nati.
Come sapevo che i cuccioli sono simili ai cani,
e i capretti alle madri, così confrontavo il piccolo al grande;
ma questa città ha di tanto sollevato il capo sulle altre,
come i cipressi sui viburni flessibili.
Ancora più toccante è il prosieguo della storia di Virgilio; d’ora innanzi le sue vicende umane diventeranno inseparabili da quelle letterarie. Lasciata ogni ambizione retorica, comunque fosse andata quella sua prima volta nel Foro, i primi ad abbandonare Virgilio furono i genitori. Amareggiati e delusi dal saper naufragata ogni speranza di riscatto sociale riposta nel figlio, non avevano alcuna intenzione di veder naufragare oltre anche i loro sudati quattrini. Smisero quindi di finanziare la (poco dolce) vita romana di Virgilio, essendo tra l’altro affaccendati nel tentativo disperato di preservare il loro campicello dalle confische ordinate da Cesare per placare le pressanti richieste di risarcimento da parte dei veterani.
Dismessa – o mai indossata – la toga, Virgilio non si piegò al ricatto economico degli anziani genitori. Ormai aveva deciso cosa “voleva fare da grande” e qual era lo scopo ultimo della sua esistenza: la letteratura. Una scelta che a quanto pare, oggi come ieri, suscita le lacrime, quasi sempre isteriche, di coloro cui questa scelta viene comunicata. Non si tratta delle virgiliane lacrimae rerum, è proprio la prostrazione fatale che colpisce, avvilendoli a morte, coloro ai quali viene annunciato il desiderio di consacrare la propria vita alle lettere classiche. Poco importa se, a quei tempi, greco e latino lingue antiche non erano, ma vivissime e contemporanee.
Forse a Virgilio sarà stato almeno risparmiato il moderno sarcasmo a proposito delle cosiddette “lingue morte”, ma certo deve essersi sentito snocciolare pure lui il trito catalogo di apocalittiche domande che si abbatte su chi sceglie di intraprendere gli studi umanistici: “A cosa serve? In cosa ho sbagliato con te? Proprio il classico di questi tempi! Ma trovarsi un lavoro vero, no? Sì, ma poi cosa vai a fare? Non vorrai mica fare l’insegnante? Il futuro è digital, è smart!”.
Il poeta voleva fare, Virgilio, e difatti lo fece – confermando la mia esperienza secondo la quale la parte più difficile degli studi classici non è tanto lo studio del classico in sé (studiare chimica o architettura è altrettanto impegnativo, immagino), bensì resistere alle domande che ruotano intorno al classico. E alla conseguente irrisione, beninteso. Perché non è soltanto un brutto voto in una versione a bruciare, ma sentirsi anche dire che, pure se fosse impeccabile, quella versione non servirebbe comunque a nulla, perché, in un sistema formativo moderno, evoluto, allineato al mercato, il classico è del tutto inutile. (È così che sono arrivata alla conclusione che il primo nemico del classico siano i pareri superficiali e sciatti a proposito del classico.)
Questo bruciore però struttura, corrobora, fortifica e regala uno strumento strategico straordinario: l’effetto sorpresa. Al termine degli studi umanistici, ha un che di glorioso sbalordire gli astanti e dimostrarsi capaci di realizzare qualcosa di buono e di grande, e intanto zittire il ludibrio del pubblico che, dagli spalti, ha sempre tifato per la disfatta, per la catastrofe, per la disoccupazione certa e la conseguente morte per fame.
Di fatto, chi ha scelto la strada del classico e la percorre nonostante le opinioni (peraltro mai richieste) altrui – incontrando assai raramente qualcuno che lo sostenga, lo sproni, pure doverosamente lo applauda – negli anni sviluppa una pervicacia e una fedeltà a sé stesso capaci di aumentare in modo esponenziale le possibilità di riuscita, qualunque cosa si scelga poi di fare. Che sia decifrare lapidi bizantine, inventare Facebook come ha fatto Mark Zuckerberg, grande estimatore di Omero, o insegnare (la professione più nobile e degna che esista, l’unico investimento a rendere garantito). Oppure scrivere libri – dedicati agli indimenticabili scorci rurali della bassa pianura padana, ad esempio.
Così fece Virgilio con le sue Bucoliche. E ce la fece, peraltro, a dispetto di tutti gli iettatori.
***
Fu con le sue egloghe o ecloghe – dal greco ἐκλογαί (eklogài), “poesie scelte” – di ambientazione pastorale che nel 39 a.C. Virgilio si affermò sulla scena letteraria come poeta. Ma, soprattutto, fu così che sopravvisse emotivamente al collasso della repubblica di Roma e all’inizio di un’altra guerra civile nello spazio di pochissimi anni. Ci fu chi scelse l’esilio volontario, come Cicerone in fuga dalla delusione di sé stesso prima di venire brutalmente decapitato. Chi scelse lo scudo, chi il suicidio.
E ci fu chi, come Virgilio, scelse la dignità della poesia. Spesso – quasi sempre – delle Bucoliche non resta in mente che il primo verso della I ecloga, quello con cui a scuola si viene iniziati sia alla poesia di Virgilio sia alla metrica dell’esametro latino. Così, a rimanere indelebile è Tìtyre, tù patulaè recubàns sub tègmine fàgi – pronunciato rigorosamente tutto attaccato e tutto d’un fiato, finendo soffocati a furia di ripeterlo a memoria singhiozzandone gli accenti.
No, Virgilio non cadde preda di un attacco di nostalgia per la schiettezza rurale della sua terra d’origine. Né tantomeno era disposto ad abbandonarsi alla letteratura disimpegnata, perseguita senza alcun fine ultimo se non il mero piacere formale – anche se non si sottrasse comunque all’erudita occasione di confrontarsi con la lirica alessandrina di Teocrito. Le Bucoliche furono la maniera in versi che Virgilio trovò per interrogare sé stesso, ormai divenuto uomo, e per esaminare le scelte fino ad allora prese.
Il bilancio decretò: fallimento, e lacrime. Perché non trovava alcun sollievo alle sue angosce nella filosofia, che pure aveva tanto studiato? Niente sembrava aiutarlo: né lo stoicismo, da cui aveva mutuato un senso del dovere quasi religioso, né l’epicureismo, con i suoi valori di comunione e di solidarietà. Davanti ai suoi occhi incombeva il vacuo spettacolo della fede tradizionale, svilita in formule canoniche e riti meccanici; quello delle villane macerie della politica, ridotta a guerra e mercimonio.
Colui che “credeva scioccamente”, per riprendere i versi citati poc’anzi (Buc., I, 19-20), non è soltanto il pastore Melibeo che dà conto a Titiro dell’amara decisione di andarsene dalla campagna per trasferirsi a Roma. È soprattutto Virgilio. Il “cucciolo” smarrito è lui stesso, che confidava nell’esistenza di un ordine atto a dettare il corso degli eventi. È lui “l’agnello” che credeva che un rigore morale fosse fulcro e misura del tutto, come nella vita di campagna e di periferia. Smisurata si rivelava invece Roma, e così la sua superbia – una città senza pari che “tanto solleva il capo sulle altre”.
Alle Idi di Marzo, Giulio Cesare cadde. Con lui, cadde ogni fiducia di Virgilio. E, intanto, si vedevano anche “le stelle / cadere a precipizio dal cielo e dietro, nell’ombra notturna, / risplendere lunghe tracce di fiamme” (Georg., I, 365-367).
Fu con questi sinistri presagi che, tra il 44 e i primi mesi del 43 a.C., Virgilio fece mesto ritorno nella nativa Andes. Lì scoprì che, in sua assenza, le terre di famiglia erano state definitivamente espropriate da colui che Cesare aveva scelto come suo erede: il figlio adottivo Ottaviano.
Lacrimando tra amici
Postera lux oritur multo gratissima; namque
Plotius et Varius Sinuessae Vergiliusque
occurrunt, animae, qualis neque candidiores
terra tulit neque quis me sit devinctior alter.
O qui conplexus et gaudia quanta fuerunt.
(Orazio, Satira V, I, 39-43)
L’alba seguente sorge lietissima come non mai;
a Sinuessa ci vengono incontro Plozio, Vario e Virgilio,
anime che più candide non nacquero su questa terra
e a cui nessun altro è più legato di me.
Che abbracci furono i nostri e che gioia!
La poesia non aveva consegnato a Virgilio soltanto domande irrisolte. Gli aveva offerto anche amici sinceri cui porle. Se già intorno al 50 a.C., da ragazzo, aveva conosciuto a Roma i letterati Cornelio Gallo, il suo amico più caro, Vario Rufo, Plozio Tucca, Asinio Pollione (con lui, fervente cesariano in Gallia Cisalpina ai tempi della prima guerra civile, Virgilio cercò di intercedere per evitare l’esproprio delle sue terre), la Satira V di Orazio non lascia spazio a equivoci.
L’amicizia che legava tra loro i poeti più brillanti della Roma sulla soglia della nuova era non aveva nulla a che vedere con l’entusiasmo – o con la disperazione – giovanile. Quindici anni dopo l’arrivo di Virgilio da Mantova, ritroviamo nel 37 a.C. i compagni in marcia lungo la via Appia, diretti a Brindisi, con l’ambizioso intento di far ragionare Ottaviano e di spingerlo a rappacificarsi con Antonio – il terzo membro del triumvirato, Lepido, era ormai ridotto al ruolo marginale di comparsa, quale del resto era stato fin dall’inizio.
Non è chiaro con quali armi i poeti avessero pensato di convincere il quasi Augusto a sotterrare l’ascia di guerra; chiaro è però che la lungimiranza politica, per la quale Virgilio aveva già rivelato in passato scarsa attitudine, negli anni non si era affatto affinata. E non importa se a Brindisi arrivarono tardi, quando Antonio era già a Taranto e aveva ormai stretto un frettoloso accordo con Ottaviano (per sapere quanto fosse solido basti pensare a tutti i tumulti che condussero alla resa dei conti, avvenuta con la fatale battaglia di Azio nel 31 a.C.).
Quel che è indubbio è che nel viaggio non mancarono il vino, i sollazzi e gli scorci di un’Italia provinciale dalla bellezza feroce – oltre al consolidamento di un’amicizia che sarebbe stata per Virgilio l’unica certezza della vita, fino alla morte e, come scopriremo, persino oltre. Dalla stessa satira oraziana (si veda il riferimento a Sinuessa, oggi Mondragone, città al confine tra il Latium adiectum, il “Lazio aggiunto” a quello da sempre romano, e la Campania) abbiamo inoltre conferma che, all’epoca, Virgilio si era ormai trasferito stabilmente a Napoli. La città, con il golfo accarezzato da un’aria sempre gentile e con i suoi vivaci circoli filosofici, divenne la patria d’adozione di Virgilio, il suo definitivo rifugio dagli assilli del tempo.
Fu proprio a Napoli che, negli anni successivi, il poeta si dedicò alla stesura delle Georgiche, un poema epico-didascalico in esametri ispirato all’opera di Esiodo. Dei quattro libri che le compongono due sono dedicati all’agricoltura, due all’allevamento del bestiame. Una certa fuliggine aveva però iniziato ad adombrare i versi di Virgilio. Già molte ne aveva viste, e molte altre ne aveva sofferte, perché sed fugit interea, fugit inreparabile tempus, “fugge intanto, fugge irrecuperabile il tempo” (Georg., III, 284).
La natura, in questo poema, non è più la vergine e idealizzata fonte da cui scaturisce soltanto bellezza, com’era stato nelle Bucoliche. Ora richiede costanza, fatica, sudore e scudisciate, non di rado, per essere domata. E per trarne qualcosa di buono. Proprio come la vita aveva richiesto a Virgilio.
***
Chiunque conosca il sale delle lacrimae rerum sa che a nulla serve il potere retrospettivo della memoria. Guardarsi indietro e chiedersi come sarebbe potuta andare se.
È un potere infedele. Non aggiunge né toglie nulla al reale. Non assolve né condanna. Se proprio, aggiunge altre lacrime.
Della storia di Virgilio possiamo soltanto chiederci cosa accadde poi – ovvero dopo il 29 a.C., quando la stesura delle Georgiche era ormai conclusa e un amico molto influente gli suggerì di proporre il poema nientemeno che a Ottaviano. Quell’amico era Mecenate, il nobile di antico lignaggio etrusco dal quale, per antonomasia, prendono il nome ancora oggi tutti i sostenitori di artisti e di intellettuali di disparata natura.
A voler essere onesti, più che un letterato Mecenate era un faccendiere. Insomma, un umanista in senso molto, molto lato; forse oggi lo definiremmo un lobbista. Così lo descrisse lo storico Velleio Patercolo (Storia romana, II, 88): “insonne nella vigilanza e nelle emergenze, lungimirante nell’agire, ma nei momenti di ritiro dagli affari più lussurioso ed effeminato di una donna”. La posizione privilegiata di confidente privato e di consigliere politico del princeps forniva a Mecenate ogni occasione possibile per esercitare il mestiere del potere in una fase storica di Roma, come quella seguita alla battaglia di Azio, in cui il potere stava tutto da una parte sola. E in sole due mani.
L’appuntamento – oggi diremmo audizione o provino – che Mecenate organizzò per concedere un’opportunità a Virgilio è tra i più singolari della storia, bisogna riconoscerlo. Certo, si trattava di trovare spazio nell’agenda del capo dell’imperium più grande dell’ecumene allora conosciuta, nel calendario del figlio adottivo di quel Divus Iulius che con un’apoteosi era direttamente entrato a far parte del pantheon romano. Si trattava di guadagnare la protezione (e la relativa sponsorizzazione, anche economica) del dictator a vita che, di lì a poco, sarebbe stato il primo imperatore della storia di Roma – e dunque il boia della repubblica romana.
Tuttavia, non si è mai sentito di un poeta di belle speranze che quasi circuisce il sovrano costretto a letto dall’influenza, leggendogli per intero e ad alta voce un poema di oltre duemila esametri. Eppure andò proprio così.
Costretto a fermarsi ad Atella di ritorno da una campagna in Oriente per via di un’indisposizione passeggera, Ottaviano si sorbì – se mosso da interesse o dalla noia della convalescenza non è dato sapere – tutte le Georgiche. Declamate dall’inizio alla fine dallo stesso Virgilio – ma pare che, talvolta, Mecenate gli abbia dato il cambio nella lettura quando aveva bisogno di riprendere fiato. Il risultato fu che Ottaviano se ne innamorò.
Quando, ormai guarito, ripartì per Roma, il princeps aveva già assegnato a Virgilio il compito di cantare la gloria passata, presente e futura di Roma. Scrivendo qualcosa di più grande e di più immortale dell’Iliade e dell’Odissea messe insieme.
Chiunque dotato di buonsenso si sarebbe rifiutato, fosse solo per soggezione nei confronti di Omero. Invece Virgilio accettò.
***
Due anni dopo, il 16 gennaio del 27 a.C. Ottaviano divenne l’Augusto, colui che avrebbe “accresciuto” – il titolo deriva dal verbo latino augeo, “aumentare” – la gloria, la ricchezza, il benessere, la pace e il potere di Roma e dei suoi cittadini.
Tre anni dopo, nel 26 a.C., Gallo, l’amico fedele di Virgilio cui era rivolta la X ecloga delle Bucoliche e il cui nome appariva a mo’ di dedica al termine dell’opera, si suicidò in seguito ad accuse politiche rimaste ignote. Di Gallo nulla è giunto fino a noi – nemmeno una notizia, un sussurro, niente. Per lui il senato – quel poco o niente che ne restava sotto Ottaviano – decretò la damnatio memoriae. Anche Virgilio fu costretto a espungere e sostituire i versi che gli aveva dedicato nelle Georgiche.
Intanto, alle lettere con cui l’Augusto lo tempestava per chiedergli, impaziente, di poter leggere il nuovo poema, Virgilio rispondeva che era soltanto all’inizio, di avere pazienza. Ma Virgilio aveva già smesso di voler scrivere l’Eneide molto tempo prima.
Lacrimando tra le fiamme
Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc
Parthenope; cecini pascua, rura, duces.
(Epigrafe sulla tomba di Virgilio, Parco Vergiliano di Piedigrotta, Napoli)
Mantova mi generò, la Calabria [il Salento] mi rapì, ora mi tiene
Napoli; ho cantato i pascoli, i campi, i condottieri.
La chiamano esaltazione quando è solo bisogno di crederci. Virgilio aveva una disperata necessità di sperare in qualcosa, e soprattutto in qualcuno. Di fissare in versi la fine di quella penosa età del ferro in cui era nato e sino a cui era vissuto. Di celebrare con la poesia l’imminente nascita del puer cantato nella IV ecloga delle Bucoliche, il bimbo che avrebbe portato con sé la luce splendente dell’età dell’oro. Dopo tante lacrime, la stagione della iustissima tellus (Georg., II, 460), l’alba di un mondo finalmente dominato dalla Giustizia, stava per cominciare. D’ora innanzi Ordine, Legge e Pace avrebbero governato per sempre il vivere degli uomini, destinati a gustare i prelibati frutti di Roma in solidarietà e in comunione. Di tutto questo, Ottaviano era l’epicentro stabilito dal Fato.
È vero, nel 29 a.C. Virgilio all’Eneide disse di sì. Altrettanto vero è che quasi subito dentro di sé disse di no – ma si guardò bene dal riferirlo all’Augusto. Del resto, come contraddire un semidio figlio del dio Cesare e che, tra le altre cose, aveva da poco inventato il mestiere dell’imperatore? Tito Livio, ad esempio, contemporaneo di Virgilio, preferì pubblicare i libri dell’Ab Urbe condita che trattavano di Augusto solo dopo la morte del princeps, avvenuta nel 14 d.C. – e anche un secolo più tardi Tacito trovò prudente far cominciare i suoi Annali dopo quella data.
Talvolta, il silenzio della storia contribuisce a stendere un velo pietoso di decoro. Ci sono stati così risparmiati i bisbigli di tutta la classe intellettuale romana che, con gli occhi iniettati di veleno, deve aver mormorato per almeno un secolo “lo sapevamo che sarebbe andata a finire così”. Basti Ovidio (Tristia, II, 533) che, rivolgendosi ad Augusto, chiama il poema di Virgilio “la tua Eneide” – nel senso che Ottaviano, il lavoro di Virgilio, se lo sarebbe proprio comprato. Ma Virgilio non era di nessuno, probabilmente nemmeno di sé stesso. Ancora una volta, a quell’ennesima delusione del Fato non poté che opporre resistenza. E poesia.
Non solo ci ha lasciato un’Eneide incompiuta e quindi, secondo lui, impubblicabile. Nelle parti compiute, ce l’ha consegnata pure raffazzonata.
Se ci fu un campo in cui Virgilio poté seriamente competere con Omero, fu la perfezione formale – secondo alcuni vincendo, peraltro; ma non intendo qui assumermi gli oneri del ruolo di arbitro. Basti sapere che, se non nella sostanza, almeno nella forma i due poeti tirarono calci – ovvero esametri – nello stesso campionato. Eppure quella giunta fino a noi è un’Eneide sciatta. Un’Eneide in cui un’intera frase è mancante e dunque tutto il periodo è privo di senso – il verso 340 del III libro. Un’Eneide alla quale Virgilio tolse dei pezzi – ben venti versi, dal 567 al 588, del II libro, di cui possiamo farci un’idea da spizzichi di commentari dell’epoca – e si dimenticò di sostituirli, lasciando lo spazio bianco come quando, in una verifica, non si sa la risposta.
Quasi non si contano le incongruenze interne, le anticipazioni di qualcosa che poi non accadrà o le storie accadute ma subito lasciate cadere senza trovare compimento. Persino le rotte indicate dal Fato ogni tanto s’ingarbugliano, si fanno indecise come se nemmeno la sorte sapesse bene dove andare a parare: si veda il verso 7 del III libro, che racconta la partenza di Enea e dei profughi troiani incerti quo fata ferant, “incerti su dove portano i fati”. Inutile, e pure ingenuo, attribuire quelle che non furono sviste a quella che non fu distrazione. Come può essere derubricato a refuso, ad esempio, l’incongruo nome del figlio di Enea da cui sarebbe discesa la gloria imperitura di Roma? Non è certo un dettaglio da poco – è il senso e il fine ultimo del poema. Nell’Eneide là (I, 267) si chiama Iulo, come la gens Iulia cui appartiene Ottaviano, là (VI, 760) Silvio, altrove (VI, 764) Enea muore persino prima di vederlo nascere. Epperò qua, ovvero fuor dalla poesia, solo con un nome, neppure troppo velato, quel discendente si doveva chiamare: Augusto.
Possiamo davvero parlare di leggerezza, di sbadataggine o di goffaggine per il poeta che perse gli anni e la vista tormentando Bucoliche e Georgiche con un labor limae al limite tra il rigoroso e il perverso? No, non possiamo.
Nella vita, o si è come Penelope: si distrugge per finger di ricostruire e attendere. O si distrugge e basta per non aspettarsi più niente. Come Virgilio.
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Il suo non fu un momento di sconforto. Né fu uno scoramento passeggero o una giornata storta di un mese nero di un anno infausto. Tantomeno poté essere uno scatto d’ira, lui che nella vita non si era concesso il lusso della rabbia mai. Virgilio, quando cadeva, sputava lacrime e sangue e si rialzava. Nient’altro sapeva fare.
Che Virgilio avesse quasi subito smesso di credere in Augusto lo dimostrano non soltanto le sue perentorie dichiarazioni in punto di morte – che nessuno si azzardasse a pubblicare il poema così com’era, come invece prontamente si azzardarono. Soprattutto, lo dimostra la ritrosia – la decenza – di Virgilio, che fece di Ottaviano il grande assente nel poema, laddove era previsto che ne fosse il protagonista (pagante).
Sono ben dodici i canti che compongono l’Eneide. Ma alla celebrazione di Augusto sono concessi solo tre riferimenti in tutto – li vedremo più in dettaglio nel capitolo dedicato a Virgilio quale “ministro della Cultura” a sua insaputa. E tutti sono relativi soltanto ai primi tre mesi – o anche meno – dell’intero principato. Agli altri otto o nove anni di storia romana in cui Virgilio lavorò all’Eneide prima di morire, nessun accenno. Come se il tempo per Ottaviano si fosse fermato al trionfo di Azio del 31 a.C. Come se nulla fosse accaduto, dopo.
Tuttavia, il tempo non si era affatto fermato dopo Azio. Molto era accaduto, dopo. E soprattutto, Ottaviano la sua Eneide la voleva.
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Prima di partire dall’Italia, aveva cercato di strappare a Vario la promessa di bruciare l’Eneide se a lui fosse successo qualche cosa; ma Vario s’era categoricamente rifiutato di farlo. Perciò nell’ultima malattia chiese ripetutamente le cassette, per bruciarla lui stesso. Nessuno gliele volle dare: allora, dell’Eneide esplicitamente non parlò più, ma lasciò a Vario e a Tucca tutti i suoi manoscritti, con questa clausola: che non pubblicassero niente di quello che non era stato pubblicato da lui.
Invece Vario, spinto dall’Augusto, pubblicò il poema con una semplice revisione, tanto è vero che lasciò come stavano persino i versi incompiuti.
(dalla Vita di Virgilio di Elio Donato, che nel IV secolo attinse alla biografia di Svetonio, indicata perciò anche come Vita di Svetonio-Donato, parr. 39-41)
Non c’è scusa migliore per uno scrittore che voglia sottrarsi agli impegni presi di millantare viaggi, ricerche, esplorazioni, cammini, scalate, ritiri spirituali finalizzati a “entrare nel personaggio”. Che nella maggior parte dei casi un certo personaggio, l’intera trama del libro, forse persino l’idea di fondo, debba ancora essere scritta, anzi, debba ancora essere pensata, poco importa. Agli scrittori si tende ad aprire qualunque porta, con un inchino. Si tende a perdonare qualunque stramberia in nome dell’arte – e a far finta di non vedere qualsiasi nefandezza, ma quella si chiama ipocrisia.
Fatto sta che, intorno al 21 a.C., a Virgilio venne l’idea – la necessità – di levarsi di torno dall’Italia. E di sottrarsi per un po’ alle pressanti richieste di Augusto che reclamava il poema con cui avrebbe dato inizio all’operazione di propaganda culturale più importante di sempre. La pazienza dell’imperatore stava per terminare.
Virgilio rispose che sarebbe andato in Grecia per ricostruire le tracce di Enea e controllare alcuni particolari del poema – per essere credibile si giustificò dicendo che non voleva peccare di leggerezza nel raccontare il viaggio dell’esule da Troia (proprio lui che volutamente si confuse sul nome del figlio).
Non è chiaro quali tracce Virgilio sperasse di trovare ad Atene, quali orme volesse inseguire di un personaggio che era già di second’ordine in Omero: secondo fra i Troiani dopo Ettore (Iliade, XVII, 513) e forse persino inviso a Priamo, di Enea in quanto capo dei Dardani, alleati dei Troiani, si fanno nell’Iliade solo rapidi accenni, per lasciare subito spazio alla profezia circa il suo futuro. Dopo tre anni spesi tra la Grecia e l’Asia Minore, fu però una malattia fatale a trovare Virgilio, forse seguita a un’insolazione.
In suo soccorso intervenne l’Augusto che lo riportò, ormai in fin di vita, in Italia – se più interessato alla salute del poeta o a quella dell’Eneide non è dato sapere. Virgilio morì poco dopo essere sbarcato a Brindisi il 21 settembre del 19 a.C. Le sue spoglie furono sepolte nell’amata Napoli, città in cui il suo epitaffio (secondo la tradizione, dettato da lui stesso in punto di morte) ancora risuona per nitidezza e brevità.
Eppure la storia dell’Eneide non era per niente terminata. Anzi.
Stava giusto per iniziare.
Le fonti, delatrici, fanno il nome di Tucca e di Vario. Sarebbero stati loro gli amici traditori delle ultime volontà di Virgilio – espresse a scanso di ogni equivoco prima di morire, come conferma il passo di Elio Donato citato poc’anzi. Chiunque sia stato, il mandante fu Augusto, che non ebbe esitazioni ad affidare alle stampe l’Eneide.
Non sarebbe stato un pugno di versi mancanti a intralciare la gloria perenne. La sua, ovviamente.
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Così fu. Così è. E forse, ancora per un po’, così sarà. Virgilio, colui che sempre dalla vita fu vinto, vinse per la prima volta. Non ebbe neppure bisogno di dimenarsi né di combattere. Dal 19 a.C., l’Eneide è un imperituro best seller che entra nelle case di ogni scolaro, dalla Roma augustea, passando per il Rinascimento, all’epoca attuale. Da allora, nessun programma scolastico ha omesso di considerarla una parte fondante del sapere, insieme all’Iliade e all’Odissea. Il suo fan più grande, quasi un ultrà come vedremo, fu Dante Alighieri, che definì Virgilio “quel savio gentil, che tutto seppe” (Inf., VII, 3).
Dove non riuscì la lucidità del poeta in punto di morte, poté la follia di Caligola. Fu l’imperatore pazzo che, appiccando il fuoco a tutto ciò che era stato di Augusto, distrusse anche la biblioteca dove il manoscritto dell’Eneide con la firma di Virgilio era esposto in bella vista.