CAPITOLO XIV

 

 

Per la prima volta in vita sua Filippo andò a caccia.

E forse per la prima volta la foresta vide un ragazzo zoppo tirar d'arco dietro alle gazzelle.

Il ragazzo era felice; ma molto di più lo era Isa che non stava in sé dalla gioia. Di questo si rallegravano anche " Fior di granturco " e Pao che avevano seguito i ragazzi nella loro scorribanda.

Quattro giorni erano trascorsi da che avevano ascoltato insieme il racconto di Hoomai. Erano in attesa dell'ultimo scaglione per andare.

Andries Pretorius, il capo della spedizione, aveva già date tutte le disposizioni per una partenza immediata.

 Aveva voluto incontrare Pao e s'era intrattenuto a lungo con lui. Nessuno seppe mai cosa si dissero, ma da quel giorno Pao fu veduto entrare spesso nel carro dell'aitante Pretorius e rimanervi a lungo.

Mentre i ragazzi cacciavano e i due uomini, seduti su d'un rialzo erboso discorrevano, un sibilo acuto sovrastò ogni altro suono della foresta, accompagnato subito dall'abbaiare dello sciacallo e dalla risata della iena.

Pao rimase immobile, come se nulla fosse accaduto, ma "Fior di granturco" balzò in piedi.

"È uno del tuo popolo, no?" chiese.

"Già. Ed è inseguito. Il sibilo lo dice. Non ti muovere. Isa sta strisciando verso il messaggero."

"Ma sta andando in direzione opposta al richiamo! "

"Non preoccuparti; incontrerà chi ha lanciato il segnale. Ora avvicinati al ragazzo che saltella e rimani con lui. Io raggiungo Isa."

Paul obbedí.

"Cosa accade?" chiese Filippo.

"Nulla."

"Perché Isa è andato via? Chi abbaiava cosi?"

"È un segnale. Attendiamo."

Passarono molti minuti. Parvero ore.

 Solo lo schiamazzo infernale degli uccelli e gli urli delle scimmie, il tok-tok continuo, assordante dei buceri dal becco smisurato e lo squillo metallico delle gru, rendevano viva intorno ai due, immobili come statue, la foresta.

Improvvisamente, Pao e Isa furono al loro fianco. Sedettero in silenzio; Isa fremeva. Si vedeva chiaramente, dall'espressione del viso, che voleva parlare.

Ma attendeva che Pao glielo ordinasse. Alfine, questi chiese:

"Dunque?"

"Era Komien, del gruppo di Hoomai. Ha detto: Cim-ao del deserto non è stato avvistato, né gli altri gruppi che fanno capo a lui. Gli uomini che avevi mandato, hanno incontrato le 'Pantere astute'. Komien li ha veduti mentre batteva la pista. Erano senza testa."

"Chi cacciava Komien ora?"

"Un gruppo di 'sciacalli'. Ora li sta riportando indietro. Se riesce a far perdere le sue tracce, tornerà da te più tardi."

"Chi sono i guerrieri che l'inseguono?"

" 'Sciacalli'; l'ho detto."

"Chi sono?" ripetè Pao.

Isa abbassò il capo.

"Swazi, ha detto. Non è ben sicuro, ma dice che i suoi occhi son buoni."

"Swazi?" esclamò "Fior di granturco" che aveva seguito con attenzione il discorso.

"Si" ripete Isa. "Komien dice che hanno lo scudo del Gran Re e su di esso è dipinta l'antilope."

"Forse Komien sbaglia" disse Pao.

Ma non ne era convinto. Lo diceva solo perché intuiva cosa stesse passando nell'animo del ragazzo.

"No, padre" mormorò Isa. "Solo alcune tribù, sul loro scudo di guerra, portano dipinta l'antilope. E quelle tribù sono Swazi."

"Ciò vuol dire" commentò Paul "che i Swazi si sono uniti ai guerrieri del Gran Re."

"Quelli sono 'sciacalli', non Swazi!" esclamò Isa con veemenza. "La mia tribù non ama il Gran Re e i suoi guerrieri. Le 'antilopi della foresta' li hanno sempre combattuti. Solo degli 'sciacalli' hanno potuto unirsi a loro. Gli altri no!"

"Tu sei d'un altro popolo" disse Pao "e potresti odiare chi ti scacciò dal villaggio e ti trattò sempre da 'orzowei'. Ma il tuo cuore è generoso. Hai vissuto molti anni con loro e non riesci a disprezzarli, perché hai imparato a conoscerli. Tu li ami, come ami il piccolo popolo e la gente della tua razza. Ciò mi riempie il cuore di gioia. Son fiero di te."

"Tu non credi che tutti i Swazi siano con il Gran Re, vero?"

"Anche se lo fossero, ciò non può cambiare un giudizio. Chi non sbaglia almeno una volta? Cosí" prosegui rivolgendosi a "Fior di granturco" "i pericoli aumentano. Dingaan ha sollevato tutta la gente nera contro di voi."

"Già, sembra che sia come tu dici" rispose Paul.

"Gli uomini dell'antilope hanno seguito Komien. Essi vogliono sapere dove si nasconde il mio popolo. È un conto vecchio questo. Vogliono saldarlo. Ma li vedranno anche troppo presto i piccoli uomini!"

"Cosa intendi fare?"

"Far funzionare la trappola. Ma ho bisogno degli uomini del deserto. Siamo ancora in pochi."

"Vuoi che vada io a chiamarli?" domandò Isa.

Pao lo guardò.

"Hai inteso?" disse; "chi avevo mandato è ora pasto dei grandi uccelli. Perché dovrei mandare te, che non sei del mio popolo ?"

"Tu stesso hai detto che io sono tuo figlio. E come un figlio mi hai sempre trattato. Ho cacciato con te e mangiato la stessa carne. Il mio arco è tuo, ma anche tuo è il mio cuore."

"Cosa dice 'Fior di granturco'?" chiese Pao.

"Il ragazzo lo hai mandato a me affinché io lo educhi come un bianco, poiché egli è un bianco. Ma un uomo bianco è leale, non tradisce gli amici. Sa mantenere la sua parola. E Isa ha promesso. Questa caccia, come lui la chiama, la deve fare con te. Mi ha chiesto il permesso. Io gliel'ho accordato. Sarà la sua ultima battaglia da uomo della foresta. Poi abiterà nelle case di pietra e farà tutto ciò che fanno gli uomini bianchi. Ma per ora, egli è con te."

"Conosci il sentiero?" domandò Pao ad Isa.

"Fino alla terra infuocata. Poi no."

"Per tre giorni dovrai camminare sulla terra che brucia, verso le montagne della sete. Su quelle montagne è Cim-ao."

"Che debbo dirgli?"

"Parlagli delle 'Pantere rosse'."

"Altro?"

"Che Pao segue la pista e l'attende. Buona caccia, figlio."

"Buona caccia anche a te."

 All'alba del sesto giorno Isa lasciò dietro di sé l'arsa savana e s'inoltrò sul terreno pietroso del deserto.

Il sole nasceva allora all'orizzonte.

Comparve tutto ad un tratto; pareva una palla infuocata pronta a scoppiare.

Isa l'osservò meravigliato.

Poco dopo, però, la luce abbagliante lo costrinse a camminare con gli occhi socchiusi. Il calore era già forte.

S'inoltrò per una stretta gola dalle pareti a strapiombo e creste ad angoli acuti.

Il terreno era disseminato di grossa ghiaia e di scaglie. Più avanti una ghiaiolina minuta come chicchi di granturco crepitava stranamente sotto il soffio leggero del vento.

Per più di un'ora segui il canalone; poi risalí una piccola altura e affondò i piedi nella sabbia finissima color oro.

Un ronzio continuo lo accompagnava. Pareva che migliaia di insetti lo seguissero.

Durante le ore più calde si fermò ai piedi d'un gruppetto di acacie che stendevano i loro rami stecchiti a guisa di ombrello.

Tese su quei rami la pelle del leopardo e cercò ristoro in quell'ombra. Ma la sabbia su cui si sdraiò era infuocata come l'aria che respirava.

Cercò, abbagliato dalla gran luce, di dormire; ma il caldo e la sete glielo impedirono.

Verso il tramonto l'improvvisa lotta tra un serpentario e una vipera cornuta lo fece restare, incuriosito.

L'uccello era piombato improvvisamente di fronte al rettile che strisciava verso un basso cespuglio.

Il serpente si rizzò tutto di fronte al nemico, gonfiando il collo. Ma il serpentario non ne fu punto intimorito.

Spiegando un'ala, corta e fornita di protuberanze ossee tali da formare una terribile arma di offesa, la portò innalzi a sé, a mo' di scudo per le gambe e la parte inferiore del corpo.

Il serpente sibilò più forte. L'uccello rimase immobile.

 Ritto sui lunghi tarsi, pareva una statua. Solo il ciuffo sull'occipite oscillava leggermente.

Con il becco, adunco e fortissimo, pronto a colpire, e lo sguardo fisso sul rettile, era in quel momento l'immagine stupendamente dimostrativa della forza del popolo alato.

Improvvisamente il rettile attaccò.

Un salto; un colpo d'ala; un guizzo.

L'uccello era nuovamente immobile al suo posto, pronto a colpire.

Il serpente fischiava rabbiosamente.

Di nuovo guizzò in avanti; con tanta rapidità che Isa non se ne accorse quasi.

Ma con altrettanta rapidità l'uccello si gettò da un lato, dall'altro; saltò, colpi, e di nuovo fu immobile, col ciuffo ritto, di fronte al nemico.

Se Isa non avesse seguito attentamente i loro rapidi movimenti, avrebbe giurato che i due animali non si erano mossi dalle primitive posizioni.

Altre due volte l'attacco si ripetè. Poi il serpentario passò all'offensiva.

Saltò, indietreggiò, colpi. Si gettò da un lato; dall'altro. Balzò per ogni dove. Pareva non toccare il suolo tant'era la rapidità dei suoi movimenti.

Intanto con un'ala colpiva fortemente, ripetutamente; mentre presentava al dente velenoso dell'avversario l'estremità dell'altra ala difenditrice.

Cosí, mentre il rettile esauriva inutilmente il suo veleno mordendo le penne insensibili, l'uccello continuava a colpire.

Il serpente, stordito, barcollò; cadde.

Prontamente ghermito fu gettato in aria ripetute volte. E quando non ebbe più la forza di rialzarsi, l'uccello, con un colpo di becco, gli spaccò il cranio.

Cosí, poco dopo, preso delicatamente per la coda, scompariva nel vorace stomaco dell'avversario.

Soltanto quando il sole scomparve improvvisamente dietro le basse colline di sabbia, Isa trovò ristoro. L'aria e la terra si rinfrescarono rapidamente, ed il ragazzo s'avviluppò con piacere nella pelle del leopardo.

Scavò una piccola buca e vi si distese. Ora poteva respirare a pieni polmoni.

Nessuna voce all'intorno, nessun rumore, nessun ronzio d'insetti. In quel momento, Isa comprese la grandezza, la maestà e la calma solenne del deserto.

Nei suoi occhi, ricolmi ancora dei barbagli del sole, passarono visioni affascinanti, luminose, fantastiche. Man mano si annebbiarono, si confusero e terminarono in un profondo sonno ristoratore.

Dopo tre giorni di marcia nel deserto raggiunse le "Montagne della sete".

Le aveva vedute già, lontane, azzurrine, durante la marcia di avvicinamento.

Le aveva vedute, all'alba e al tramonto, tingersi di porpora sotto i raggi del sole.

Ora esse gli offrivano una visione grandiosa.

Si stagliavano nitide contro il cielo terso, sfolgorante; il nero delle rocce assumeva, secondo la profondità dei crepacci, delle tonalità differenti.

Isa cercò un sentiero e vi si inoltrò.

Per due giorni salí e discese ripidi pendii, urlando il grido di richiamo.

 Una notte una torma di cani selvaggi affamati, l'assalí. Cercò riparo su d'una roccia e dette battaglia.

La torma latrava continuamente ai suoi piedi mentre tentava di raggiungerlo. Si fermavano solo per divorare i corpi dei compagni colpiti; poi, ululando tetramente, cercavano, balzando, di raggiungere la roccia. Isa dovette scacciare i più audaci a colpi di coltello; e con più di uno dovette lottare corpo a corpo. Solo all'alba la torma si allontanò. Sul terreno non rimanevano altro che le ossa, ben scarnite, dei caduti.

Isa era esausto.

Doveva trovare Cim-ao, subito. Soprattutto per smorzare la sete che lo tormentava.

Da due giorni non beveva.

Si diresse verso ovest. Ma se nella notte aveva dovuto lottare contro la torma affamata, dovette ora affrontare qualcosa di più tremendo ancora d'un branco di cani urlanti.

Una tempesta s'abbatté sul deserto.

 Il vento, che soffiava violento da qualche ora, dopo pochi istanti di tregua, s'era ridestato con tanta veemenza da sollevare in aria grosse colonne di sabbia che s'aggiravano vorticose sul piano, succhiando e spezzando tutto ciò che incontravano.

Il sole, illuminandole, le rendeva simili a colonne di fuoco che, d'un tratto, diventavano spaventosamente nere.

Ed il vento le sdoppiava, le riuniva in un solo vortice che sollevava sino alle nubi. Isa, riparato dietro un masso, guardava con apprensione la furia scatenata degli elementi.

Poi il vento diminuí, fino a morire del tutto. Ma l'aria si fece soffocante; un vapore leggero, rossastro offuscò il cielo; la nebbia, infittendosi sempre più, lo copri e avvolse il deserto nell'oscurità.

Isa senti il sangue pulsargli più forte nelle vene, mentre, involontariamente, gemeva.

A mezzogiorno cominciò a spirare un vento leggero ma rovente, che gli provocò un sordo dolor di capo, sonnolenza e affanno di respiro.

 Le folate di vento si fecero sempre più frequenti ed il ciclone avanzò tuonando, fischiando, ululando.

La sabbia veniva sollevata in vortici paurosi. L'afa continuava a crescere, sí da parer che tutto bruciasse.

Isa, con la lingua secca e pesante, osservava istupidito i vortici che gli ballonzolavano innanzi, mentre l'ululato del vento gli era penetrato nel cervello. Per delle ore stette immobile.

Poi gli parve che un mostro, un mostro enorme, di fuoco, dalle fauci spalancate, gli si precipitasse contro.

S'alzò di scatto urlando.

Il mostro allungò le zampe, sottili, vaporose per lambirlo.

Con un urlo Isa balzò all'indietro. Il mostro si ritrasse, ma tornò subito all'attacco.

E questa volta Isa fu colpito in pieno.

Si sentí trascinato in aria, vide la montagna farsi vicina, vicinissima. Ora il mostro lo avrebbe gettato, sbattuto, fracassato sulle rocce.

Gridò. Più forte del vento; più forte del tuono.

Poi, quando ormai la montagna era a pochi passi da lui — già sentiva le rocce sfiorargli la pelle — il mostro lo lasciò. Cosí, senza motivo.

Si dileguò nell'aria lasciandolo bocconi a terra, che faceva sangue dal naso e dalla bocca.

Un altro mostro giunse però velocemente. Isa lo vide, ma non ebbe la forza di gridare.

Il mostro rideva e vomitava fiamme. Rideva beffardamente, crudelmente. Era pronto a divorarlo. Poi Isa gli vide il viso.

Era quello di Mései. Un Mései sghignazzante, trionfante. Ma, oh! il mostro aveva un'altra testa. La testa d'un cobra; ma no... era lo stregone; o no, un leopardo... Sem-husci. Ma quante, quante facce aveva ?

E tutte ridevano, ridevano, ridevano.

Il mostro voleva ucciderlo e loro ridevano. Ma se doveva morire era meglio farlo combattendo. Balzò in piedi. Urlò disperatamente il richiamo del piccolo popolo e s'avventò contro il mostro diabolico.

Ma qualcosa lo colpi.

Sentí un forte dolore alla nuca e cadde pesantemente sulla sabbia ardente.

"Sono Cim-ao... Sono Cim-ao."

La voce era dolce, suadente.

Isa non riusciva a capire come mai si trovasse fra gli uomini che aveva tanto cercato.

Sentiva solo un forte dolore al capo e un languore per tutto il corpo.

"Come sono qui?" disse.

"T'abbiamo raccolto nel deserto. Il vento di fuoco ti aveva preso."

"La testa... chi mi ha colpito?"

"Ricorda" mormorò Cim-ao agli uomini che gli erano vicini.

"Ecco" disse. "T'abbiamo visto lottare contro le grandi colonne di sabbia. È il primo segno della pazzia. Bastava lasciarti fare ancora un po' ed il tuo corpo ora sarebbe sepolto sotto l'ardente manto del deserto. Allora uno di noi ti ha colpito. Ci dispiace. Il figlio del grande Pao ci perdoni. Ma è meglio il colpo del nostro bastone, che il rimaner preda del 'simun'."

"Simun?"

"Il grande vento. Il vento della morte. Sai chi sono io?"

"Cim-ao. Ti riconosco. Il capo dei villaggi del deserto."

"Bene. E tu chi sei?" "Perché mi fai questa domanda?"

"Rispondi: chi sei?"

"Isa. Mohamed Isa."

"Ecco. Ora son certo. Il vento di fuoco non ti ha dato la pazzia. Parla, ora. Perché il figlio di Pao, il nostro fratello prediletto, è venuto solo nella terra infuocata ? "

"Pao mi manda."

" Cosa vuole il saggio ? "

"Egli segue la pista e t'attende con i gruppi che dipendono da te."

"Dove aspetta?"

"Ti condurrò io sulle sue tracce."

"Bene. Domani andremo."

All'alba del giorno seguente ritornarono i messaggeri di Cim-ao e i gruppi chiamati. Le donne e i ragazzi seguivano i guerrieri.

Nessuno chiese niente. Solo Cim-ao aveva domandato chi dovevano incontrare.

"I guerrieri del Gran Re" era stata la risposta.

S'incamminarono in lunga fila, fermandosi solo a notte inoltrata. Cosí per due giorni.

Cim-ao insegnò ad Isa come dissetarsi. Gli mostrò, in alcuni profondi avvallamenti — fra estensioni vastissime di alfa — un frutto grosso come un pallone. Ne prese alcuni e li spaccò. Nell'interno di essi vi era un liquido denso, giallognolo.

"Bevi" disse. "È l'acqua del 'tsama'."

Era buona, dolciastra, dissetante.

"Se ritornerai nel deserto, ricordalo. Il 'tsama' è la vita."

"Riconosco i luoghi" disse Cim-ao.

"Siamo vicini alla 'città morta'. Alla sua destra era il villaggio di Pao" rispose Isa.

"Era?!"

"Già; poi sono passate le 'Pantere rosse'."

"Son loro che incontreremo?"

"Loro, e tutti i guerrieri del Gran Re."

"Il sole del deserto ha seccato la punta delle mie frecce. Hanno sete. Berranno sangue Zulù!"

"Taci" sussurrò Isa "non odi nulla?"

Il Boscimano si fermò in ascolto.

Poi, voltandosi verso la sua gente, emise un lungo sibilo e tutti si nascosero fra i cespugli.

"Molti uomini" disse Cim-ao.

"Eccoli!"

Attraverso il grosso cespuglio ove si erano riparati, videro avanzare dei guerrieri Zulù.

Isa strinse con forza il suo arco.

Sullo scudo degli uomini, troneggiava la rossa pantera.

Passarono loro vicinissimi.

Per un lungo tratto camminarono in mezzo al piccolo popolo. Ma tant'era la immobilità dei Boscimani che gli Zulù non si accorsero di nulla.

"Cosa fanno qui?" chiese Isa. "Gli uomini di Pao dovrebbero averli scorti."

"Guarda" sussurrò Cim-ao.

Due uomini bianchi camminavano in mezzo alla fila dei guerrieri. Le loro giubbe rosse erano a brandelli; non avevano armi. Le braccia eran legate dietro alla schiena.

" Prigionieri! "

"Son del tuo gruppo?" chiese Cim-ao.

"Non li conosco. Ci sono molti bianchi che non conosco. Ma è strano che i guerrieri del Gran Re abbian preso dei prigionieri."

"Già, è strano."

"Cosa facciamo, Cim-ao?"

"Dobbiamo raggiungere Pao."

"Son passate le 'Pantere rosse'!"

"Pao ci aspetta."

"Sarebbe stato un bel colpo."

"È un bel colpo." "Cosa intendi dire?"

"Quanto c'è ancora per la 'città morta'?" domandò a sua volta Cim-ao.

"Una mezza giornata."

"Bene."

Il Boscimano lasciò passare ancora del tempo, poi abbaiò come un cane del deserto.

Subito, dai lati del sentiero, sbucarono fuori i suoi uomini.

Ne chiamò sei, sette vicino a sé.

"Le 'Pantere rosse' non debbono perdersi nella foresta" disse loro sorridendo.

Gli uomini annuirono, e si allontanarono.

"Ora svelti" disse agli altri. E riprese di buon passo il sentiero.

Alla "città morta" si unirono agli altri gruppi.

Pao non c'era.

L'ultimo suo messaggio — di tre giorni avanti — diceva di attendere.

Cim-ao non si concesse riposo.

Affidò il suo gruppo a Kamo, uno degli anziani e, chiamati una decina di guerrieri, rifece la strada percorsa.

Isa correva con loro.

Quaranta miglia di corsa per un Boscimano sono una cosa normale. Il veleno delle loro frecce agisce lentamente, sicché debbono inseguire gli animali colpiti per lungo tempo.

E quando l'animale, come spesso capita, è un agile corridore, devono inseguirlo mantenendo la sua stessa velocità.

Questione d'esercizio. E di forza e di resistenza.

Isa vi era abituato. Da piccolo per sfuggire i compagni; poi, negli anni in cui era stato un Boscimano, per cacciare.

Corsero per cinque ore; poi un sibilo li fece fermare. Era Karkum.

"Le 'Pantere rosse' son vicine. Hanno ripreso la marcia ora" disse.

"E gli uomini bianchi?"

"Son sempre nel centro della fila."

"Bisogna fare in modo che essi vivano."

"Bene."

Cim-ao, dopo aver pensato ad un piano d'azione, parlò a lungo, lentamente.

Quando il gruppo riprese la marcia, ogni uomo sapeva cosa doveva fare.

Incontrarono gli altri esploratori più tardi. Le 'Pantere rosse' erano state raggiunte.

Le seguirono fino a notte inoltrata e quando esse si fermarono, ognuno si dileguò per proprio conto.

Isa si avvicinò al luogo ove erano i prigionieri.

Il suo compito era di proteggerli durante l'assalto e, se fosse stato possibile, di liberarli.

Aveva chiesto un posto nella battaglia, un posto ove le sue frecce potessero parlare a lungo.

Ma Cim-ao glielo aveva negato.

"Quel che tu devi fare è importante come ogni altra cosa, affinché il nostro colpo riesca. Tu sei l'unico che puoi parlare con i bianchi. Non posso farlo io."

Quando gli Zulù si furono stretti attorno al fuoco per mangiare, l'abbaiare dello sciacallo si levò alto nell'aria.

Un abbaiare strano; un abbaiare pieno di gioia mal repressa. I guerrieri neri balzarono in piedi, e in quello stesso istante le frecce colpirono.

Superato il primo attimo di smarrimento, le 'Pantere rosse' si divisero in piccoli gruppi.

Le frecce sibilarono nuovamente e questa volta le zagaglie risposero.

In breve gli urli di guerra e di dolore si ripercossero nella volta cupa della foresta.

I prigionieri erano balzati in piedi, ma non si muovevano. Quattro uomini li sorvegliavano da vicino.

La battaglia si andava spostando. Come già predisposto, Cim-ao attirava lontano gli avversari affinché Isa rimanesse libero d'agire con i prigionieri.

Ma gli uomini di guardia non si mossero.

Allora il ragazzo agí. Spostandosi silenziosamente si portò di fronte ai guerrieri e prese di mira il primo. Questi cadde senza neppure gridare; gli altri balzarono avanti.

Isa si spostò più a destra e tirò nuovamente.

Cosí per quattro, cinque volte. I guerrieri credettero d'essere accerchiati.

Nel suo girare, Isa si portò vicinissimo ai prigionieri e sussurrò loro in boero:

"Via! Venite via!"

I due non si mossero.

"Indietreggiate lentamente e fuggite sul sentiero. Capite?"

Fecero cenno di si.

Isa riprese il suo girotondo saettando gli avversari. Quando non vide più i bianchi, scoccò altre due frecce e s'allontanò.

Le "Pantere rosse" erano state gabbate.

Incontrò i bianchi che fuggivano concitati.

Sbarrò loro la strada improvvisamente.

I due uomini si fermarono ansanti. Osservarono lui ed i cespugli vicini, poi uno disse qualcosa, in una lingua sconosciuta ad Isa, e improvvisamente gli si slanciarono contro come catapulte.

Ma strinsero a vuoto le braccia e caddero pesantemente al suolo.

Isa li aveva attesi a piè fermo fin che non erano giunti ad un palmo da lui; poi era balzato d'un lato.

"Seguitemi" disse in boero.

"Chi sei?"

"Un amico."

"Cosa vuoi?"

" Seguitemi."

Abbandonò il sentiero e si inoltrò tra la fitta vegetazione, seguito dai due uomini.

Cim-ao li raggiunse alla "città morta" Portava con sé le zagaglie dei vinti. Ma la lotta era stata dura. Solo quattro uomini lo seguivano. Gli altri cacciavano per sempre nelle foreste del Gran Padre.