CAPITOLO IX

 

 

"Dove sei stato?"

Isa si voltò di scatto.

Aveva atteso apposta la notte per non farsi scoprire; era entrato senza far rumore nella casa di Anna, ed invece...

"Vieni qua" disse la donna.

Isa le si avvicinò.

"Non hai messo né i pantaloni, né la camicia. Prendi freddo cosí."

La donna si tolse lo scialle di lana, un grosso scialle marrone che portava sempre la notte, e lo mise con cura sulle spalle del ragazzo.

"Non devi più andar via senza dirmelo. Son due giorni che t'aspetto. Va' a dormire ora, che devi essere stanco."

Isa era stupito.

Non sapeva cosa dire. Amebais, la nutrice, l'avrebbe frustato per una scappata simile, sempre che Amebais se ne fosse accorta e preoccupata.

Senti qualcosa vibrargli nel cuore e fu lí lí per abbracciare Anna.

Ma la donna tese il braccio:

"Vai, è tardi" disse.

Lo slancio gli si smorzò a metà. Sussurrò un " buona notte" e andò a sdraiarsi.

Ma non dormi.

Perché Anna lo aveva atteso?

Perché gli aveva messo lo scialle sulle spalle?

Forse perché gli voleva bene?

Ma allora perché non aveva voluto abbracciarlo?

Non sapeva cosa rispondere.

Si rigirò lungamente nel letto e appena fu giorno usci fuori.

"Se vuoi," gli disse Anna ch'era già in piedi a preparare la colazione, "se vuoi puoi aiutare gli uomini a scaricare i carri. Sono giunti ieri."

Isa li aveva già veduti; ma non disse nulla.

"Il leopardo s'è più visto?" chiese.

"No. Ma fanno sempre la guardia."

"Non lo prenderanno."

"Perché?"

"Solo 'Fior di granturco' riuscirebbe a prenderlo." "Chi?!"

" 'Fior di granturco', il mio amico."

La donna rise.

"Non sapevo che Paul avesse anche un altro nome: 'Fior di granturco'!..."

"Non devi canzonare. Egli è migliore di tutti voi. Se fosse un Swazi sarebbe già un Ring-kop."

"Non puoi proprio dimenticarli!" sospirò Anna.

Isa non rispose. Uscí, avvicinandosi ai carri.

"È ritornato il cafro!" gridò Enrico, un giovanottone biondo.

George si sporse da un carro.

"Ehi, tu! " chiamò rivolto ad Isa. "Dove sei stato? Lo sai che non ti devi muovere senza farmelo sapere?"

"Lo so."

"Se ci riprovi ancora sentirai la sferza!"

"Lo so."

"Anima nera! Che gli è saltato in mente a Paul, Dio solo lo sa! Metterci fra i piedi un selvaggio..."

Borbottando George rientrò nel carro. Isa se ne andò verso l'ultimo della colonna.

Lí incontrò Filippo.

Accovacciato in terra guardava innanzi a sé, immobile.

Isa gli si fermò di fronte.

 Di quel viso butterato dal vaiolo, dal naso schiacciato e i capelli rossi che gli scendevano abboccolati fin sulle spalle, lo colpivano gli occhi.

Occhi celesti, luminosi, che parevano rispecchiare il cielo. Lo scrutò a lungo, senza che il ragazzo si muovesse o distogliesse lo sguardo dal punto indefinito che stava fissando.

"Sei maschio o femmina?" chiese improvvisamente Isa.

Solo allora l'altro lo guardò.

"E tu chi sei?"

"Isa."

"Maschio o femmina?"

"Sono un guerriero, io!" rispose Isa gonfiando il petto.

"Sei bianco?"

Prima di rispondere ristette un attimo incerto, poi disse:

"La mia pelle è bianca, ma io sono Swazi!"

Provava gusto a dirsi Swazi tra i bianchi. Essi temevano i Swazi, pur disprezzandoli. E come fra la sua tribù, dopo la grande prova, aveva gridato che lui era un bianco e gli altri degli sciacalli dipinti di nero, cosí ora era felice di dirsi negro.

I bianchi lo chiamavano cafro?

Ebbene, sarebbe stato un cafro.

"Io sono Filippo" disse l'altro "e mi piacerebbe essere un guerriero Swazi."

Questo sconcertò Isa. Era il primo ragazzo che udiva desiderare di essere come lui. Il primo a cui sarebbe piaciuto essere un Swazi.

"Tu... un guerriero, tu?!"

Non seppe dir altro; e per la sua stessa confusione gli venne da ridere.

L'altro lo fissò con i suoi occhioni celesti ed Isa smise.

"Volevo dire..."

"Se sei Swazi, perché sei tra i bianchi?"

"È stato 'Fior di granturco'; e Pao."

"Chi sono?"

"Non conosci 'Fior di granturco', Paul, il cacciatore?"

"Ah, Paul! Si, è mio amico. È lui che mi ha regalato questo."

 Sollevò un lembo d'uno straccio che ricopriva una cesta ed il musetto aguzzo d'un dix-dix fece capolino belando.

"È molto piccolo" disse Isa.

"Paul dice che non ha neppure otto giorni. Gli devo dare il latte con il cucchiaino. Vedi, ha come una stellina nera sulla fronte. Ti piace?"

"Si. È bello. Quando te lo ha portato 'Fior di granturco'?"

"Sei giorni fa."

"Allora è ritornato!"

"No. Io ero alla mia fattoria. A cinque giorni di strada da qui."

"E 'Fior di granturco'?"

"È ritornato indietro. Andava al villaggio dei Monrei."

"A che fare?"

"Non lo so."

"Perché tu sei venuto qui?"

"Paul ha parlato con mio padre e con gli altri della fattoria. Il giorno dopo siamo partiti. Prima però Paul m'ha portato il cucciolo."

"Perché t'ha portato il dix-dix?"

"Perché è mio amico. Mi vuole bene. Quando non ha da fare, viene sempre a trovarmi. E mi porta sempre qualcosa."

Isa era desolato. Il suo unico amico bianco non voleva bene soltanto a lui. Fremeva: era geloso.

Filippo ricoprí il cucciolo, poi disse:

"Mi piace il nome che gli hai dato."

"Cosa?" domandò Isa, distolto dalle sue riflessioni.

"Dicevo che mi piace come hai chiamato Paul. 'Fior di granturco'. Un bel nome. Gli vuoi bene?"

"Non lo so. Mi piace stare con lui."

"Chi è Pao?"

"Un grande guerriero."

"È un Swazi?"

"No. Un uomo dei cespugli."

"Uno del piccolo popolo! Oh, come vorrei conoscerlo!"

"Cosa sai tu del piccolo popolo?"

"Me l'ha detto Paul."

"Ah!... Se non hai paura, un giorno te lo farò conoscere."

"Non ho paura."

"Sono stato ieri da lui. E mi ha detto che verrà qui. Vedi, questo è l'arco che lui m'ha regalato."

Filippo lo prese e l'osservò con curiosità.

"Tu sai tirare?" chiese.

Isa sorrise. Prese una freccia, l'incoccò; poi disse:

"Cosa vuoi che colpisca?"

Filippo indicò un ramo sottile d'una quercia.

"Quello!"

La freccia sibilò nell'aria e si conficcò nel ramo.

"Sei bravo!"

Disse solo queste parole.

Ma i suoi occhi esprimevano un'ammirazione vivissima.

Era la prima volta che Isa si sentiva guardato cosi. E ne fu felice.

"Se vuoi" esclamò allegramente "ti posso insegnare. Alzati!"

"Un'altra volta, Isa."

"Ora. Alzati."

"Io..."

"Alzati. O griderò a tutti che sei una femmina e che hai paura di toccare l'arco. Avanti, su."

Il ragazzo non si mosse.

"O non vuoi perché l'arco è mio; d'un trovato?"

"No, non è per questo. È che io..."

"Alzati, allora."

Isa si chinò e strinse Filippo fra le sue braccia tentando di sollevarlo.

In quel momento la frusta gli sibilò sul capo e s'abbattè sulle sue spalle lasciandogli un lungo segno sanguinante. S'alzò di scatto. E nuovamente la frusta lo colpi. E questa volta in pieno viso. Il ragazzo barcollò; gli occhi gli si velarono di lacrime; ma strinse i denti e preparò l'arco.

"No, Isa! No!"

Una donna si slanciò verso lui e si,mise di fronte all'uomo che l'aveva colpito.

"Ora, se vuoi, tira pure!" disse.

Era Anna. Isa stette immobile, fremente d'ira, con l'arco teso. Poi tolse la freccia e si allontanò.

L'uomo che l'aveva colpito gli gridò dietro:

"Se oserai toccare ancora una volta mio figlio, sarà la tua fine, bastardo! "

Per tutto il giorno vagolò lungo il fiume rimuginando tetri pensieri di vendetta.

Molte volte fu sul punto di ritornare al villaggio per colpire l'uomo che l'aveva frustato.

Cosa aveva fatto per meritare ciò?

Aveva parlato con Filippo; aveva voluto insegnargli a tirar d'arco. Ecco come era stato ricompensato.

E poi Pao diceva che doveva esser lui a voler bene!

Ma come, se era stato gentile e la frusta l'aveva colpito ?

Le sue dita passavano leggere sulla ferita che il cuoio sottile gli aveva aperta sul viso. Raccolse delle erbe e ve le poggiò per spegnere il bruciore.

Ma non c'era nessuna erba che potesse spegnere il bruciore che gli ribolliva nel petto.

La colpa era di Filippo. Solo sua. Perché non si era voluto alzare.

"Ha paura dell'arco e di me. Bene. Farò paura a tutti. Farò vedere a tutti se sono un 'orzowei' o un guerriero. Si! Ritornerò al villaggio e lo vedranno. Ritornerò anche da Amunai e lo farò vedere anche a loro."

Bastardo!

Non comprendeva il significato della parola, ma dal tono con cui gli era stata detta, doveva significare la stessa cosa di "orzowei". Anche i Swazi la pronunciavano con quello stesso disprezzo.

No; non sarebbe rimasto più con i bianchi. Essi erano uguali ai Swazi. Volevano solo la gente della loro tribù, non i trovati.

"Prendo le mie cose e ritorno nella foresta."

Lo ripetè a se stesso cento e cento volte. E quando la decisione gli si fu ben radicata nell'animo, ritornò al villaggio.

Entrò nella casa ove era stato con 'Fior di granturco', si stracciò di dosso gli abiti e rimise la pelle di leopardo. Proprio quella mattina ve l'aveva riportata per far contenta Anna.

Ora non avrebbe indossato più i vestiti dei bianchi.

Se ne andava. Sarebbe ritornato fra gli uomini dei cespugli. Erano piccoli, si, ma avevano il cuore grande.

"Isa!"

Sul vano della porta era comparsa Anna.

"Isa, la cena è pronta."

"Non mangio la tua roba. E non mangerò più nulla che sia di voi tutti. Vattene! " disse.

"Aspettiamo te, Isa. È tardi e i ragazzi hanno fame" mormorò dolcemente la donna.

"Vai via. Non voglio più stare con te."

"Ti fa molto male la ferita?"

"Non sento nulla. Vattene e lasciami passare."

"Come vuoi, Isa."

Anna si trasse da parte lasciandogli il passaggio libero.

"Quando vorrai ritornare la mia casa sarà sempre aperta per te."

"Non ritornerò."

"Come vuoi."

La donna si avvicinò lentamente alla finestra.

"Ehi, Isa; guarda!"

Nel piazzale c'era Filippo.

Isa l'aveva udito poco prima chiamare qualcuno.

Era accucciato in terra. Il sole che stava per scomparire nella foresta, dava dei riflessi di fuoco ai lunghi riccioli.

Stringeva fra le braccia qualcosa che zampettava. Il dix-dix. Filippo chiamò ancora e dalla casa vicina un uomo uscí correndo. Dissero qualcosa, poi l'uomo, chinatosi, lo sollevò. In quel momento la coperta che ricopriva le gambe del ragazzo, cadde.

Isa rimase impietrito dallo stupore.

Filippo aveva una sola gamba.

"Per questo stamane non si è alzato" mormorò Anna come parlando a se stessa. "E gli sarebbe piaciuto farlo. M'ha raccontato tutto, quando tu sei andato via. Ed ha pianto tanto. Ma suo padre credeva che tu lo stessi insultando."

"Quando gli è successo?" domandò Isa.

"La gamba? Molti mesi fa. Dieci o dodici. Portava da mangiare al padre e agli uomini dei campi, quando un serpente l'ha morso. Il dottore è riuscito a salvarlo, ma la gamba l'hanno dovuta amputare."

"Perché non l'ha detto?"

"Non lo dice mai a nessuno. Anzi, oggi sorrideva stando con te. Da quando gli è accaduto il terribile fatto non parla più con nessuno, eccettuato Paul e i suoi genitori. Ha paura che i ragazzi lo canzonino e che i grandi lo compatiscano."

"Suo padre m'ha frustato, però!"

"Ma lui non voleva. Ed ha pianto." "Lo... lo posso salutare? Gli regalerò una freccia. Sarà contento ? "

"Credo di si. L'andremo a trovare domani mattina."

Anna gli tese la mano. Isa vi poggiò la sua, timoroso. Per la prima volta nella sua vita uscí stretto per mano, come un bimbo accompagnato dalla mamma.

Per la prima volta provò la più dolce sensazione che ad un fanciullo è dato godere.

"Ehi, là! Che succede?"

Al grido Isa balzò dal letto.

Si udirono grida e passi precipitosi. Poi due colpi di fucile.

Il ragazzo s'avvicinò ad un uomo appostato dietro un muro.

"Cosa accade?" domandò.

"Il ladrone è nella stalla di Hangens, quella là in fondo."

Il leopardo era venuto nuovamente.

Isa s'avvicinò furtivamente alla stalla, come lui solo sapeva fare fra tutti quegli uomini, ed osservò.

 L'unica giovenca che vi si trovava giaceva sgozzata e dilaniata fra la paglia, ma il leopardo non c'era.

Isa annusò l'aria.

Il selvatico doveva essersi rintanato in qualche angolo. Si sentiva il suo odore.

Bisognava attendere.

Proprio vicino alla stalla una quercia s'ergeva maestosa.

Isa si arrampicò ed attese.

Passarono delle ore. Lunghe, snervanti.

Gli uomini avevano circondato il basso edificio ed acceso dei fuochi.

No, non erano dei bravi cacciatori. Non sapevano attendere. Isa era sempre immobile con l'arco pronto. Sarebbe stato fermo cosí, se fosse stato necessario, anche un giorno intero.

La foresta gli aveva insegnato che la pazienza è la prima arma. Solo chi è paziente, vince.

Gli uomini si stancarono.

Qualcuno gridò qualcosa. Il leopardo ruggí.

Gridarono ancora e i fuochi furono spenti.

Isa guardò.

Vide gli uomini nascondersi dietro i cespugli che fiancheggiavano la strada, mentre due di essi si avvicinavano al suo albero. Con una corda legarono al tronco, dopo averlo tolto dal sacco, un piccolo animale che piangeva disperatamente.

"Il dix-dix di Filippo" mormorò Isa.

"Andiamo, svelto!" disse uno dei due.

"Non si scioglierà?"

"L'ho legato bene. Via ora!"

"Una trappola" pensò Isa "una trappola per la grande pantera!"

I belati del cucciolo si facevano sempre più insistenti e lamentosi.

Aveva fiutato il pericolo e cercava di strappare il laccio che lo teneva prigioniero; e chiamava, chiamava per essere aiutato, difeso.

Per la prima volta Isa pensò ad un animale come ad un essere vivente. Il cucciolo era lí, solo; stava per affrontare un nemico che con una sola zampata l'avrebbe schiantato.

Se fosse stato con suo padre e sua madre, poteva sperare di salvarsi. Essi avrebbero fatto di tutto per difenderlo. Se non altro si sarebbero fatti sbranare loro, per dar la vita a lui. Sarebbe vissuto tranquillo, ruzzando fra l'erba alta, cozzando per gioco con gli altri cuccioli.

Invece...

Era proprio come lui. Solo, senza nessuno che lo aiutasse.

Ma lui, Isa, aveva vinto.

Si; però lui non era mai stato legato ad un tronco di fronte ad un nemico pronto ad ucciderlo.

Ma il cucciolo poteva star tranquillo. C'era Isa. Avrebbe evitato lui che la grande pantera lo toccasse. Scivolò silenziosamente lungo il tronco e s'allungò in terra.

Il dix-dix gli si avvicinò tremando.

"Stai giù!" sibilò Isa.

Come se la bestiola avesse compreso, si strinse al corpo del ragazzo e smise di belare.

In quello stesso momento un'ombra nera balzò dalla cupa occhiaia della finestra e si raggomitolò in terra.

Isa preparò la freccia ed attese.

Bisognava fare attenzione.

Con un solo balzo, malgrado dall'albero alla stalla ci fossero più di dodici passi, la grande pantera poteva raggiungerli.

Bisognava colpire mortalmente al primo colpo.

Il dix-dix si mosse e belò.

Qualcosa saettò nell'aria.

Rapido come un fulmine il ragazzo si gettò di lato, mentre il leopardo toccava leggero terra.

"Non tirate! Non tirate!" gridò qualcuno. "C'è un ragazzo!"

La belva ruggí e balzò via.

Tutto era accaduto cosi rapidamente che solo in quell'istante Isa potè tirare. Dal ruggito di collera e di dolore del selvatico comprese d'aver colpito.

Nello stesso tempo echeggiarono alcuni colpi di fucile.

Ma la belva era ormai lontana.

"Tutta colpa tua!" gridò George accorrendo.

"Lo dicevo io" esclamò un uomo avvicinandosi.

"Ma chi era il ragazzo?" chiese un altro.

"Il cafro!"

Tutti gli furono attorno.

Isa slegava tranquillamente il cucciolo.

"Volevi farci vedere la tua bravura, eh? E hai visto con quale risultato? Il ladrone è libero un'altra volta."

"Pensare che era proprio a tiro del mio fucile!"

"Se non c'era lui, a quest'ora..."

"Dovremo proseguire a montare la guardia per te, muso nero."

"E finitela!" disse una voce. "Non è che un ragazzo, in fondo!"

Isa alzò gli occhi.

L'uomo che aveva parlato era lo stesso che la mattina l'aveva colpito con la frusta.

Prese fra le braccia il cucciolo e s'alzò.

"Tieni" disse "è di Filippo, ed aveva paura."

Si fece largo tra gli uomini e s'allontanò correndo nella stessa direzione del leopardo.

"Ehi, tu! Fermati... fermati!"

Ritornò la sera seguente.

Bussò alla porta del vecchio George.

"Che vuoi?" chiese questi quando ebbe aperto.

"Tieni."

Sollevò la mano mostrando ciò che in essa stringeva.

"È la testa del ladrone. La sua. Era cieco da un occhio."

Il vecchio la prese. Il sangue era raggrumato intorno al sangue recente.

"Come hai fatto?"

"Il veleno del piccolo popolo è lento, ma uccide. Basta aspettare. La grande pantera non verrà più. Addio! "

"Ehi, ragazzo, senti!"

Ma Isa era già sulla porta di Anna ed entrò senza voltarsi.