CAPITOLO XII

 

 

"Acqua!... acqua!... ho sete!... sete!... Pao! Pao!"

Isa barcollava lungo l'ampio sentiero degli elefanti; procedeva aggrappandosi ai cespugli, alle liane, trascinandosi in terra. E gli pareva che tutta la foresta fischiasse, urlasse, schiamazzasse cosí forte, tanto forte da trasformare ogni più lieve cinguettio in un colpo sordo che si ripercuoteva centuplicato nel suo cervello.

Quanti giorni erano trascorsi dal momento in cui, grazie all'intervento imprevisto di Amebais, era riuscito a fuggire dal villaggio, Isa non lo sapeva.

 Gli pareva trascorsa un'eternità dacché stava vagando per la foresta alla ricerca del fiume e del sentiero che lo riportasse dai bianchi. Spesso esausto, s'era abbandonato in terra sfinito dalle ferite e dal sangue perduto. Ma un ruggito, un sibilo, o l'alito caldo degli sciacalli che impavidi gli si avvicinavano, come comprendendo la sua debolezza, gli avevano dato sempre la forza di rialzarsi e riprendere la marcia.

Ora aveva raggiunto il fiume. Lo vedeva, laggiù, scorrere lento, placido.

Ma la febbre era aumentata.

Il delirio si era impadronito di lui.

Si trascinava avanti senza comprendere, senza vedere dove; lanciandosi contro nemici inesistenti; urlando, gemendo.

Molte volte cadde.

Poi, spinto dalla febbre stessa e dagli incubi, si drizzava sghignazzando, ridendo; annaspava nell'aria, barcollava, arrancava per un tratto fino a cadere nuovamente.

Di nuovo in piedi; di nuovo steso sul suolo felpato dal muschio o fra le spine d'un basso cespuglio.

 Due iene lo seguivano pazientemente, attendendo il momento propizio, per fare, di quel corpo stremato dalla febbre, loro facile preda.

E i loro sghignazzamenti commentavano quel procedere pazzo.

Finalmente il fiume.

Si trascinò fino a tuffare la testa nell'acqua. Questa gli ridonò lucidità di pensiero.

Non doveva essere molto distante dal villaggio dei bianchi, se non sbagliava; ma non era certo che doveva attraversare il fiume.

Strisciò lentamente, con fatica, nell'acqua; al contatto di essa ebbe un lungo brivido per cui tentò di ritirarsi.

In quel momento una zagaglia gli sfiorò la spalla.

Si volse e vide Mései corrergli incontro. Tre guerrieri lo seguivano.

"È lí! È lí!" urlava Mései.

Raccogliendo, con uno sforzo disperato, tutte le energie, prese a nuotare seguendo la corrente. Non sapeva dove andava, né gli importava.

Vedeva soltanto la faccia di Mései sghignazzante; Mései che ora lo stava per raggiungere.

Infatti il giovane guerriero nuotava velocemente verso di lui, seguito dai compagni.

Ma Isa non vedeva gli altri. Per lui c'era solo Mései.

Sentiva un gran freddo. Un tremore convulso l'aveva invaso.

Eppure le sue braccia fendevano con forza l'acqua, mentre i piedi ritmicamente davano la velocità.

Ma lui non se ne accorgeva.

Poi udí Mései gridare, ma non comprese le sue parole.

Cercò di andare più in fretta.

Se si fosse voltato avrebbe veduto i suoi nemici raggiungere la riva ed inoltrarsi nella boscaglia.

Qualcosa si mosse vicino a lui e udí lo scatto secco, caratteristico, delle mascelle che si chiudono a vuoto.

Ma non ebbe un brivido.

"Meglio i coccodrilli" pensò "che Mései!"

Quando però per la seconda volta senti battere le possenti mascelle degli abitanti dei fiumi cosí vicine al suo corpo da credere, per un attimo, d'esser stato preso, allora tentò disperatamente di raggiungere la riva.

Gli alligatori gli sbarravano la strada. Ed erano ovunque. Nel centro del fiume, dietro di lui; o sulle sponde crogiolandosi al sole, pronti però a tuffarsi appena lo avessero scorto.

Se la febbre non lo avesse ingannato, egli non sarebbe mai venuto a nuotare in quel sito.

Non per nulla quel tratto di fiume veniva chiamato "la fossa della morte".

Nessuno era mai riuscito ad attraversarlo in quel punto ove regnavano incontrastati i coccodrilli.

Il pericolo gli aveva ridato nuova energia.

Ma non poteva durare a lungo.

Lo sentiva.

Ad ogni spinta in avanti le sue braccia divenivano sempre più pesanti, tanto da obbedire con fatica al suo desiderio di fuga.

Il cerchio si restringeva sempre più.

Fra poco il suo corpo sarebbe stato disputato dall'orda famelica.

Egli non avrebbe contato più nulla.

Fu allora che udí, vicinissimo, un colpo di fucile.

Poi due, tre, quattro colpi.

Vide alcuni coccodrilli contorcersi nello spasimo della morte, vibrando furiosi colpi di coda sull'acqua.

Ma gli altri si avvicinavano sempre. Gridò.

E gli parve che lo facesse qualcuno che non era lui.

I colpi si fecero sempre più frequenti, sempre più vicini.

Sollevò il capo e vide una barca. Su di essa, in piedi, alcuni uomini sparavano.

 Qualcuno lo afferrò per le braccia. Si sentí tirare fuori dall'acqua mentre una scarica di fucileria si abbatteva sul più audace dei rettili che aveva tentato di trattenerlo per sé.

Quando riaprí gli occhi non riuscí, subito, a rendersi conto di dove si trovasse, poi riconobbe il lume appeso alla parete di fronte.

Era nella casa di Anna.

Chiamò.

"Hai sete?" chiese Irghin avvicinandosi.

"No. Voglio vedere Anna."

"Ora la chiamo. Mamma! Mamma... Isa si è svegliato! Corri!"

Un attimo e la donna fu al suo fianco.

"Come ti senti, ragazzo mio?"

Isa la guardò negli occhi. Allungò una mano come per accarezzarla, ma si fermò.

Anna gliela prese delicatamente e la strinse fra le sue.

"Riposa" disse "sei stato molto male."

"I coccodrilli non ci sono più, vero?"

"No. E neppure quel Mései che ti ha spaventato tanto."

Isa sorrise.

"Devo essere stato molto male, se riusciva a spaventarmi. Chi m'ha preso sulla barca?"

"Gente che non conosci. Ma ora riposa. Ti preparo qualcosa di caldo e poi mi racconterai."

"E Filippo?"

"Lo chiamerò subito. Riposa, ora."

"Non lasciare la mia mano. Mi piace addormentarmi cosí."

Si risvegliò più tardi.

Anna non era vicino a lui.

Nessun rumore si udiva per la casa.

Ai piedi del letto vi era il suo arco e la pelle di leopardo intrisa ancora del suo sangue e di quello dei suoi nemici. Si sedette.

Le fasce che gli ricoprivano il petto e le spalle gli davano un senso di sgomento. Gli parevano lacci messi per imprigionarlo.

Tirò via le coperte e tentò di alzarsi.

Le gambe gli tremavano, barcollando sotto il suo peso; la vista gli si annebbiava e lo stomaco gli si rivoltava dentro.

Si trascinò pian piano alla finestra. Schiuse le imposte e guardò fuori.

Per tutto il vasto piazzale non si vedeva una persona.

Un carro era di fronte alla casa di George, ma i buoi erano stati staccati.

Solo il sole, che dardeggiava con violenza, animava la piazza. Pareva che tutti avessero abbandonato il villaggio in fretta e in furia.

Su qualche rozza sedia, all'ombra di un portico, era abbandonato un lavoro di cucito, un mestolo, uno scialle.

Qualcosa stava accadendo.

Ma non un rumore giungeva a lui, ad eccezione di un brusio lontano, come d'un tuono remoto, uno strascicar di bandoni di latta.

Dovevano essere passate solo poche ore dall'alba.

Più tardi il brusio aumentò d'intensità. Pareva il lamento della foresta sotto i colpi violenti del vento.

S'udiva ora, sempre più chiaro, lo stridio di molti carri in movimento e le voci degli uomini che incitavano gli animali. E le grida, i richiami, le risa, i canti di una folla che si avvicinava.

Poco dopo il terreno rimbombò sotto il calpestio di numerosi cavalli e le voci degli uomini risuonarono nella piazza.

Al primo drappello, una cinquantina di cavalieri che erano già intenti a toglier le selle alle bestie, s'uni poco dopo un secondo e poi un terzo.

Alcuni uomini, fra i quali Isa riconobbe gente del villaggio, guidarono i cavalli verso un vasto campo che altri già stavano recintando.

Isa osservava attento.

Era la prima volta che vedeva un cosí fitto stuolo di cavalieri. Erano tutti armati. Le lunghe carabine luccicavano sotto i raggi del sole.

Riuniti in gruppi, sedettero in terra, all'ombra delle querce o delle case, in attesa del resto del convoglio.

"Son venuti per difendere il villaggio dal kraal delle 'Pantere rosse'," pensò Isa.

Durante la sua assenza le "Pantere rosse" potevano aver fatto qualcosa che aveva costretto i bianchi a chiedere dei rinforzi.

Lui non sapeva se ciò era avvenuto.

Ma, se non era cosí, perché tutti quegli uomini armati?

Ma allora perché non avevano chiamato i soldati?

Come arrivò il primo carro comprese di essersi sbagliato.

Gli uomini erano giunti con le loro famiglie.

La piazza in breve si popolò di donne.

Vecchie, giovani, ragazze; con i piccoli in braccio, attaccati alle sottane, stretti a loro si da impedirle persino nei movimenti.

E parlavano tutte.

Tutte insieme.

Ridevano, sospiravano, gridavano.

  Pareva che tutti gli abitanti dell'aria si fossero dati convegno nel piazzale. Strida acute, sottili, cupe, gorgheggianti, profonde, trillanti, dolci, tenere, rauche, s'incrociavano con le grida dei ragazzi, col pianto dei piccoli, col muggir dei buoi, con le urla degli uomini.

Isa vide Anna parlare agitatamente, ridendo, scherzando, con una decina di donne forestiere, mentre Irghin gesticolava, fra un gruppo di ragazze, e Stefano correva qua e là, all'impazzata, con i compagni.

Altri carri giunsero. Altre donne scesero.

 Il piazzale, benché molti degli arrivati fossero già entrati nelle case, rigurgitava sempre di gente.

Isa non vedeva altro che teste, teste e teste.

"Saran venuti per costruire un nuovo villaggio" pensò.

E ansiosamente spiò lungo i campi vicini, ma vide solo drizzare tende: gialle, marroni, rosse; fatte con pelli, con coperte, con frasche; ma tende, tende, solo tende.

Per un lungo tempo la confusione regnò sovrana.

Poi gli uomini portarono via i carri; i ragazzi seguirono gli uomini e, padrone del campo, rimasero le donne.

Isa era stato preso in tal maniera da tutto ciò che vedeva da non accorgersi che la casa s'era venuta animando. Si riscosse solo quando udí un passo leggero avvicinarglisi.

Si voltò e vide Anna raggiante in volto.

"Che accade?" chiese.

La donna tentò di far gli occhi cattivi e cercò di brontolare:

"Perché ti sei alzato? Non lo sai che non ti devi muovere ?"

Ma lo disse cosí affrettatamente che Isa non comprese nulla.

"A letto!" intimò quando riuscí a calmarsi.

Prese il ragazzo sotto braccio e l'accompagnò.

"Non ti devi alzare, Isa. Non sei ancora guarito."

"Cosa accade?" ripetè il ragazzo. "Chi è tutta questa gente?"

"Miei connazionali" rispose la donna.

"Cosa?!"

"Gente come me. Boeri."

Un'idea le balenò nella mente e soggiunse ridendo:

"Sono della mia stessa tribù, capisci?"

Isa accennò di si

"E dove vanno?"

"Si fermeranno qui per un po' di tempo. Poi proseguiremo."

"Anche tu?"

"Si. Tutti."

"Perché?"

"Che vuoi che ne sappia! Né perché, né dove andremo. E anche gli uomini non lo sanno. O, almeno, non lo dicono."

"Perché?"

"Chetati ora, e riposa."

"Sto bene. Voglio alzarmi."

"Sei matto? Vuoi che prenda la frusta?"

Isa accennò di si.

"Anna, son guarito grazie a te. Ma ora posso muovermi."

"Ma se le tue ferite sono ancora aperte!"

"Quando un leopardo caccia, vien sempre ferito. Ma non aspetta che le ferite si chiudano per cacciare nuovamente."

"Non ti comprendo. Comunque, non ti muoverai."

Per altri tre giorni Isa fu costretto a letto.

La fuga gli fu impossibile.

La stanza era sempre gremita di gente ch'egli non aveva mai veduta. Per lo più donne.

Si mettevano a chiacchierare con Anna ed intanto sbirciavano dalla sua parte facendo finta di niente.

Mai nessuna si avvicinò a lui.

Solo Anna.

Ogni tanto entrava qualche ragazzo e rimaneva a guardarlo con occhi cosí stupiti che ad Isa veniva da ridere.

Ma nessuno si avvicinò a lui.

Solo Anna.

Poi venne il dottore.

Lo visitò ben bene e: "Puoi alzarti" gli disse, battendogli una mano sulla spalla.

Irghin lo accompagnava.

In mezzo ai campi centinaia di carri formavano un triplice cerchio. Entro il cerchio minore s'ergevano tende e capanne. Un grosso villaggio.

"Quanti sono?" chiese Isa.

"Più di mille persone. Lo diceva ieri George che ha dovuto contarle" rispose Irghin.

"Perché non fanno le loro capanne di pietra?"

"Devono andarsene. Tutti dobbiamo andar via, al di là del fiume."

"Perché?"

"Non lo so. La signora Grimsk dice che è per colpa degli Inglesi. Ma io non credo alla signora Grimsk. Sai chi è? Quella donna piuttosto grassa che ha un figlio con una cicatrice sulla mano..."

Isa non l'ascoltava più.

Irghin chiacchierò un'ora ripetendo tutti i pettegolezzi del villaggio.

Poi rientrarono.

All'alba del nono giorno dall'arrivo della numerosa carovana, si videro avanzare, lontani ancora, un folto gruppo di cavalieri seguiti da una sessantina di carri.

Tutti erano ad attenderli.

 Il giorno prima una staffetta li aveva preannunciati.

Molti andavano loro incontro; altri li attendevano lungo la strada.

Isa stava crogiolandosi al sole in un luogo appartato.

Nei giorni precedenti aveva cercato Filippo, ma gli era mancato il coraggio d'entrare nella sua casa. Fuori non l'aveva più incontrato. Era andato due volte verso il fiume, ma aveva dovuto rinunciarci.

Uno stuolo di ragazzi lo aveva seguito osservandolo in quella stessa maniera con cui si guarda un mostro da baraccone. Non lo deridevano solo per le ferite ancora vive che gli segnavano il corpo.

I suoi salvatori avevano raccontato come l'avevan trovato. E la voce s'era sparsa tra i nuovi venuti e ritornò a galla anche la faccenda del leopardo. Il "cafro" venne dipinto come un selvaggio pericoloso, amico della foresta e dei suoi abitanti.

Molti lo dissero persino uno stregone invasato dal demonio.

Ragioni queste più che sufficienti per allontanarlo da loro, ma ottime però per destare la curiosità dei ragazzi.

Il "cafro" era trattato come un animale strano.

Ma Isa non vi faceva più caso. Era abituato.

I Swazi lo avevano trattato sempre così.

Ora, sdraiato sul muschio, per nulla interessato al fatto che nuova gente stesse per arrivare, pensava a Pao. Doveva rimettersi alla ricerca del suo amico. Ma era ancor debole per partire. Nella foresta le "Pantere rosse" stavano esercitandosi; un nuovo re guidava la grande tribù. Ed i tamburi non avevano più parlato. Segno di guerra o di pace?

Assorto nelle sue riflessioni, non udí le grida di gioia dei nuovi arrivati e il trambusto che dovunque s'era acceso.

Se avesse Soltanto sollevato il capo avrebbe visto gente abbracciarsi (quanti anni eran trascorsi dacché s'eran visti l'ultima volta?), piangere di gioia, scambiarsi reciprocamente notizie.

Avrebbe visto un uomo scendere da cavallo e salutare, con un cenno, i vecchi abitanti del villaggio.

Lo avrebbe visto avviarsi, con passo svelto, alla casa di Anna e uscirne poco dopo guardando qua e là, mentre a tutti chiedeva informazioni.

L'avrebbe visto percorrere l'ampio sentiero verso il fiume; intrufolarsi fra le piste della foresta mentre gridava forte il suo nome.

Poi l'uomo tornò al villaggio. Entrato nella casa di "Fior di granturco" s'affacciò all'ampia finestra di centro ed emise un urlo cosí bestiale da far rabbrividire chiunque l'udisse.

Un silenzio profondo si fece tra tutta quella moltitudine.

Chi non poteva vedere chi urlasse cosí, imbracciò il fucile, pronto a far fuoco. Le donne, angosciate, s'erano strette i figli al grembo.

L'urlo, il ruggito d'una belva ferita che si slancia all'assalto, ruppe nuovamente il silenzio; poi si troncò a metà, tramutandosi subito in un lamento lungo, sommesso.

Isa era balzato in piedi con l'arco teso; ma quando udí il lamento della gazzella morente, corse verso il luogo del richiamo rispondendo col grido acuto, sgraziato della civetta.

Era "Fior di granturco" che chiamava.

Aveva riconosciuto il suo modo imperfetto d'imitare il lamento della gazzella. Paul non era mai riuscito a dargli l'inflessione giusta.

Si trovarono sul piazzale.

I loro sguardi s'incontrarono; rimasero a fissarsi, cosí.

Poi Paul allungò la mano ed Isa la strinse a lungo.

Allora l'uomo l'attirò a sé, in un affettuoso abbraccio.

"Parlami, piccolo selvaggio," disse scompigliandogli i capelli. "Ti sei fatto un uomo. Ehi, cosa sono queste cicatrici ancor fresche?... No, non rispondere. Voglio indovinare. Sei fuggito e sei ritornato nella foresta, no?"

Isa abbassò il capo.

"È cosí, no?"

"Si, son ritornato al villaggio."

"Non dovevi farlo. Se ti fosse accaduto qualcosa avrei sentito la tua mancanza... Non vedevo l'ora d'essere nuovamente con te."

Isa guardò l'uomo negli occhi.

Non mentiva.

Gli si strinse; felice.

"Andiamo nella nostra casa. Parleremo meglio" disse Paul.

Un cerchio di curiosi s'era formato intorno a loro; Isa, però, non vedeva nessuno.

Era tanta la sua gioia che tutto gli pareva luminoso d'attorno; più bello.

Gli altri? ma lui era solo in quel momento. C'era Paul. Lui e Paul. Nessun altro.

Nella stanza parlarono a lungo.

Di Pao, di Filippo, della gente bianca.

"No," l'interruppe ad un certo punto Paul, "non ti disprezzano. Essi non ti hanno ancora compreso; questo è tutto. Per loro sei ancora un selvaggio. Vedrai che quando ti conosceranno meglio, ti stimeranno."

Poi Isa parlò di Mései, di Amunai, del sacrificio della vecchia Amebais, delle "Pantere rosse" e di ciò che i tam-tam avevano detto.

Paul volle conoscere molti particolari sui guerrieri del Gran Re. Le loro abitudini, le loro cacce.

"No, non ci attaccheranno" rispose ad una domanda di Isa. "Ciaka era un amico dei bianchi. Un patto correva tra noi e lui. Cosí sarà per il nuovo re."

"Andrai nuovamente via?"

"Verrai con me, questa volta. Ma non con quella pelle, brigante! Vestito da bianco" e sorrise.

Il giorno seguente attraversarono il fiume insieme per cacciare.

Una ventina di uomini erano con loro.

Occorreva molta carne per nutrire quel migliaio di persone raggruppate nel villaggio.

Isa aveva avuto il permesso di mettere, sui corti calzoni, la pelle di leopardo, lasciando a casa la stretta camicia che gli impacciava i movimenti; cosí affermava.

Ora guidava i cacciatori verso il gruppo degli gnu dei quali seguivano la pista.

Paul era dietro di lui.

Gli altri li seguivano alla distanza d'un cento passi.

Mentre attraversavano una piccola radura, Isa si fermò improvvisamente.

Paul, pur non comprendendone il motivo, imitò il suo esempio. Aveva fiducia nel ragazzo e fece cenno agli altri di fermarsi.

Passarono alcuni attimi, poi Isa, con uno scatto felino, si gettò in avanti scomparendo fra i bassi cespugli.

Se Paul non l'avesse veduto muoversi, avrebbe giurato che il ragazzo era ancora al suo fianco. Non il più leggero rumore si era udito.

Passò una buona mezz'ora, poi Isa ricomparve, silenziosamente, come se ne era andato.

"Che c'è?" sussurrò Paul.

"Boscimani."

"Dove sono?"

"Qui. Ovunque." "Cosa facciamo?"

"Di' ai tuoi amici di non sparare."

"C'è pericolo, Isa?"

Il ragazzo sorrise.

"No. Il piccolo popolo è mio amico. Ma i tuoi uomini non debbono sparare, se non vuoi che muoiano."

"Lo dirò."

"Fai presto. I piccoli uomini sono in guerra. Devono aver saputo del villaggio di Pao. Ne ho visto uno; porta i segni della grande lotta. Sono pronti ad uccidere. Vai; di' le cose con calma. E che gli altri non si agitino. Tengano le armi abbassate. Una sola mossa, e le frecce parleranno."

Paul s'avvicinò agli uomini.

Parlò sottovoce.

Isa li vide stringersi in cerchio ed osservare attentamente gli alberi.

Sorrise.

I Boscimani erano vicinissimi a loro, ma nei cespugli.

" 'Fior di granturco'," disse "ora lancerò il segnale dell'amicizia. Qualunque cosa avvenga, rimani immobile."

Poco dopo l'abbaiar dello sciacallo, ripetuto tre volte, e la risata sghignazzante della iena, si diffusero sotto la volta cupa della foresta.

Due frecce si conficcarono nel terreno ad un palmo dal ragazzo; un cespuglio ondeggiò lievemente e un uomo ne sbucò fuori.

Il suo piccolo corpo era rigato di nero.

S'avvicinò ad Isa.

"Chi sei?" chiese.

"Fratello del tuo popolo."

"Chi sei?" ripeté l'altro.

"Isa, figlio di Pao. Lui lo ha detto."

"E loro, chi sono?"

"Miei fratelli."

"Cosa vogliono?"

"Seguono le piste dello gnù. I loro piccoli hanno fame."

"Gli gnù saranno molto lontani fra poco. Quando udranno i lamenti delle pantere, fuggiranno come le nubi spinte dal vento."

"Le 'Pantere rosse' son qui?"

"Che ne sai tu delle 'Pantere rosse'?"

"Ho promesso al Gran Padre che le mie frecce si dovranno lavare nel sangue dei guerrieri del Gran Re, fino a che non saranno cancellate le macchie di sangue lasciate dagli uomini del villaggio di Pao."

"Sai molte cose, tu. Chi sei?"

"Tuo fratello; l'ho detto."

"Io non ho mai bevuto alla tua tazza e non ho diviso con te l'antilope. Ma se tu lo dici, lo sei."

"Ecco" disse Isa mostrando l'amuleto che Pao gli aveva dato. "Lui parla per me."

Il Boscimano si prostrò ai suoi piedi.

"Mio fratello ha nobile sangue. Ritorni indietro con i suoi amici. Fra poco le frecce oscureranno il sole e queste potrebbero colpirlo."

"Alzati. Perché t'inginocchi?"

"Io non posso obbligarti ad andare," rispose il Boscimano, rimanendo genuflesso, "ma ascoltami. Pao non vorrebbe che il sangue della sua pupilla macchiasse il muschio."

"Vorrei vedere Pao."

"Egli batte la pista da molti giorni. Il suo cuore è straziato. Quando lui parlerà, le frecce colpiranno. Vai, ora."

"Il mio arco è tuo. Fammi rimanere."

"Io non posso comandare chi è il mio capo. Ma ti prego d'andare e di portare con te i tuoi amici. I miei fratelli potrebbero stancarsi."

"Buona caccia, allora. Ci rivedremo."

"L'hai detto. Buona caccia anche a te."

Il Boscimano ritornò sui suoi passi e scomparve.

"Che ha detto, Isa?" domandò Paul.

"La pista non porta agli gnu. Dobbiamo ritornare."

"Ma se fino ad ora seguivamo..."

"Andremo altrove. Qui ci sarà un'altra caccia, fra poco."

"Non possiamo proseguire?"

"No. Dillo agli altri."

Ritornarono molto tardi al villaggio con soli quattro dix-dix ma con molte storie da raccontare.

Cosí, seduti attorno ai fuochi dei rispettivi gruppi, parlarono del ragazzo che vedeva le cose che loro non vedevano ed era amico del piccolo popolo.

E che "sentiva" gli animali quando loro non ne avevano scoperto neppure le tracce, e che li colpiva quando loro non li avevano neppure veduti.

Cosí aumentò fra i bianchi la certezza che Isa era veramente un selvaggio e che Paul aveva sbagliato a giudicarlo un bianco.

"A cosa pensi?"

"Niente. Aspetto."

Paul s'avvicinò alla finestra alla quale Isa era appoggiato.

"Credi che i Boscimani abbiano incontrato gli Zulù?" chiese.

"Non lo so."

"Da quando siamo tornati sei li, immobile. Siediti e mangia! "

"Non ho fame."

Paul osservò il ragazzo.

"Andiamo!" disse poi.

"Dove?"

"Verso il fiume."

"Ma... non eri stanco?"

"Ho voglia di fare due passi."

"Grazie, 'Fior di granturco'."

"Non ti faccio un favore. Ho bisogno di muovermi."

Isa sorrise. Poco prima Paul s'era gettato sul letto con un sospiro di sollievo.

Uscirono.

Molta gente chiacchierava ancora intorno ai fuochi. Più avanti, ai limiti del campo, alcuni uomini montavano di guardia.

Quando furono vicini al fiume, Isa si fermò.

"Paul!"

"No, non ti lascio andare. Anche se mi hai chiamato per la prima volta con il mio nome."

Il ragazzo abbassò il capo.

"Cosa aspetti ora?" esclamò Paul.

"Ma, hai detto che..."

"...che non ti lascio andar solo. Ma non voglio star qui in eterno. Andiamo."

Seguirono il fiume fin che non raggiunsero il guado, poi, ripercorrendo la stessa via del mattino, si inoltrarono nella foresta. Ogni tanto il ruggito di qualche carnivoro rompeva il silenzio; oppure erano le grida di uccelli svegliati dai rumori improvvisi; o l'abbaiar degli sciacalli lontani.

"Siamo giunti" disse Isa fermandosi vicino ad un grosso albero.

"Non ci capisco nulla" rispose Paul "ma se lo dici tu, va bene. Non vedo segni di lotta qua attorno, però.

"Qui non hanno combattuto."

"Allora?"

"Non so. Andiamo avanti."

"Sarà prudente?"

"La foresta è grande e molte sono le sue insidie. Ma 'Fior di granturco' è un bravo guerriero."

"Ho capito. Se dico di ritornare non sono più un guerriero. Avanti, allora."

All'alba ritornarono al villaggio.

"Buon giorno, Paul" salutò l'uomo di guardia. "Già a passeggio?"

Paul lo guardò torvamente.

"Ritorno" brontolò.

"Nottataccia d'inferno, questa. Iene e sciacalli avevano preso di mira il campo. Hanno abbaiato per tutto il tempo!" disse l'uomo.

"Potevi gettar loro qualche ramo infuocato."

"Macché! Neppur uno si è avvicinato. Eppure giurerei che erano vicini. Ma non si son fatti vedere."

"Isa, hai inteso?" "Già."

"Cosa ne dici? Io credo che..."

"Lo penso anch'io" rispose Isa. Gli occhi gli brillavano. "Noi andavamo a loro e loro venivano a noi!"

"Cosí abbiamo camminato tutta la notte inutilmente."

"Ma di che cosa parlate? Siete impazziti, forse?" chiese l'uomo di guardia scrutandoli attentamente.

"Non abbiamo dormito" rise Paul "ed il sonno ci ha dato alla testa. Cosa pensi di fare, Isa?"

Il ragazzo non rispose. Portò le mani alla bocca e abbaiò tre volte.

"Se non lo vedessi" disse l'uomo a Paul "crederei d'avere uno sciacallo entro i pantaloni."

Isa aveva appena terminato, che un altro abbaiare rispose al suo richiamo.

Il segnale veniva dal fiume.

"Attendimi, 'Fior di granturco' " gridò correndo verso il bosco.

"Ed ora dove va?" chiese l'uomo.

"A trovare i suoi amici sciacalli" disse Paul. "E fai attenzione che potresti trovarteli fra i piedi in un amen."

Isa intanto s'era inoltrato nel folto sottobosco che costeggiava il fiume.

Il richiamo era venuto da lí. Ora doveva fare attenzione. I piccoli uomini avrebbero riso di lui se non fosse riuscito a vederli.

Avanzò incerto per un tratto, poi si mise a correre.

Vicino ad un grosso cespuglio si fermò.

"Pao!" chiamò.

Il Boscimano comparve. Il suo corpo era dipinto di nero, traversato da strisce orizzontali rosse.

"M'han detto che mi cercavi."

"Temevo per te, Pao."

"L'albero vecchio non ha paura del fulmine."

"Ma se il fulmine lo schianta, che cosa farà l'uccello che fra le sue fronde si ripara durante le tempeste o si riposa nelle notti stellate?"

"Sei un caro figlio, Isa!"

"Non saprei vivere senza di te."

Si sedettero uno di fronte all'altro.

Per lungo tempo rimasero entrambi assorti nei loro pensieri. Isa aveva imparato questa immobilità, e la lentezza stessa del parlare, da Pao.

"È inutile sprecar parole quando il pensiero non è chiaro nella mente" aveva detto una volta Pao. "Nella foresta pochi chiacchierano, molti agiscono. Un leopardo che urlasse tutta la notte non troverebbe più un cerbiatto per miglia e miglia d'attorno. Ma egli urla solo quando l'ha trovato e non può più scappare. Cosí devi fare tu. Parlare solo quando il pensiero è ben chiaro in te e quando è necessario che quel pensiero altri lo conoscano."

"Ho veduto il villaggio" disse Isa troncando il silenzio. "Ti cercai e fui contento di vedere che tu non eri caduto."

"Io no," rispose Pao, "avrei voluto essere lí."

"M'han detto che segui la pista." "Già."

"Ma il tuo corpo è ancora dipinto. Perché le tue frecce non hanno parlato per le donne e i bambini?"

"Le 'Pantere rosse' hanno deviato dal loro cammino ed il laccio non si è potuto stringere."

"Dove sono dirette?"

"Si sono unite ad altre 'Pantere': 'nere', 'silenziose', 'astute'; se i segni non mi hanno ingannato."

"No; non ti hanno ingannato. Sono il miglior reggimento del Gran Re." "Lo sappiamo. Le 'Pantere nere' hanno portato schiave le donne del gruppo di Hoomai. Più di trecento uomini son ritornati al Gran Padre. Le 'astute' hanno fatto subire ugual sorte al gruppo di Muser. Le 'rosse'... sai quel che hanno fatto!"

"Le mie frecce son tue; tuo è il mio arco; tua è la mia vita. Se mi ritieni degno, permettimi di battermi al tuo fianco."

"Tu devi diventare un uomo fra la tua gente."

"Chi mi salvò dall'ajé? Chi mi salvò dalla foresta insegnandomi i suoi tranelli e come vincerla? Ho un debito di sangue. E pagherò il mio debito. Ma, soprattutto, ho un debito d'amore. Ho anch'io qualcosa da dire ai guerrieri del Gran Re."

"Grazie, figlio. Il piccolo popolo sarà contento d'averti con sé. Ed io sono lieto."

"Quando riprenderai la pista?"

"Le 'Pantere' sono numerose e forti. Molti del mio popolo hanno raggiunto il Gran Padre. Dobbiamo riunirci tutti. I villaggi sono molti e lontani. Occorreranno giorni e giorni affinché siano avvertiti. E molte altre volte il sole dovrà sorgere prima che tutti giungano."

"Quando pensi che ci si muoverà?"

"Alla prossima luna, credo."

"Molto tempo, allora. E i tuoi, adesso, cosa fanno? Cosa ha deciso il tuo capo?"

"Di attendere. Alcuni seguono la pista senza far rumore. Gli altri, e sono i più, attendono alla 'città morta'."

"In quanti siete qui?"

"Quante sono le dita della tua mano."

"Cosa farai?"

"Batterò i sentieri."

"Posso venire con te?"

"Puoi."

Stettero alquanto in silenzio; poi Isa disse:

"C'è 'Fior di granturco' che mi attende. Vuoi conoscerlo ? "

"Aspettavo le tue parole. Son venuto per questo."

Isa trovò Paul che dormiva vicino all'uomo di guardia.

" 'Fior di granturco'! "

"Che c'è?" sbadigliò Paul.

"Pao t'attende."

"E non poteva venire lui?" brontolò alzandosi.

Il Boscimano era ancora immobile ove Isa lo aveva lasciato.

"Pao" disse il ragazzo "questo è 'Fior di granturco', il mio amico."

Pao osservò bene l'uomo bianco, poi disse:

"So che sei coraggioso ed abile."

"Non quanto Pao" rispose Paul guardando negli occhi l'uomo che gli parlava. "La fama del suo coraggio ha valicato la foresta ed è giunta sino alle capanne di pietra."

"Le prime case conobbero il mio passo quando ero ancor giovane."

"E molti bianchi conobbero le frecce del tuo popolo."

"È la storia d'ogni popolo che deve cedere le sue terre ai nuovi venuti."

 "Si, molti si credettero padroni dispotici e trattarono il tuo popolo come belve. Io allora ero un ragazzo, ma ricordo bene quanti Boscimani furono uccisi, cosí, senza motivo. Solo perché non erano bianchi."

"Sei leale ad ammetterlo."

"È la verità e non può essere nascosta."

"Cosa pensano ora i bianchi del mio popolo?"

Paul tacque pensieroso, poi rispose:

"Non dovrei dirtelo, forse; ma tu lo hai chiesto. Essi dicono che siete un popolo capace solo di stendersi al sole dopo aver mangiato fino a farsi gonfiare il ventre. Sempre che riusciate a trovare il cibo."

"Altro ancora?"

"Si. Che nessun pensiero può nascere nelle vostre teste, perché il vostro cervello s'è fermato ai primordi del tempo. Ecco: siete una razza inferiore."

Isa scattò.

"Il popolo bianco non conosce il piccolo popolo, per questo parla cosí. Essi sono migliori dei bianchi e dei Swazi e di tutti. Non ti permetto, 'Fior di granturco', di proseguire oltre. Un'altra parola ancora e dimenticherò che sei mio amico."

"No," disse Pao sorridendo. "Che l'uomo bianco parli."

"Io non volevo offenderti, Pao. Ti chiedo scusa se le mie parole t'hanno dato dolore. Ma volevi conoscere la verità, no?"

"Le tue parole m'erano già note. Un solo dolore esse mi danno: il sapere che in parte sono vere. Sapevo già, Isa, cosa dicevano i bianchi."

"Perché, allora, hai voluto mandarmi fra loro?" chiese il ragazzo.

"Perché quella è la tua gente. E son lieto che tu sia amico di questo uomo che non mente. Fra la tua gente potrai fare una cosa in nostro favore. E sarà una grande, nobile battaglia, Isa. Far capire al tuo popolo che siamo tutti uguali, affinché non ci sia disprezzo, né odio. Perché, pur cambiando il colore della pelle, ed il taglio degli occhi, e la statura, abbiamo però un cuore che è uguale per tutti. Noi non siamo inferiori o migliori degli altri, bianchi o neri. Come gli altri non sono inferiori o migliori di noi. C'è chi ha saputo camminare di più, chi di meno. Chi combatte col fucile, chi ancora con l'arco; chi vive in capanne di pietra, chi in cespugli. Ma per il Grande Padre siamo tutti uguali."

"Ora capisco" disse Paul "perché il tuo popolo t'ha eletto suo capo. Non avrebbero potuto trovare neppure tra i bianchi un saggio come te."

"Sei cortese a dir ciò."

"Sono giusto, non cortese. Questa è la verità."

Isa, colpito dalle parole di 'Fior di granturco', fissava attonito Pao.

"Io" disse quando riuscí a parlare "io non sapevo. Perdonami, o Pao, per tutte le volte che ho osato avvicinarmi a te senza rispetto. Ma credimi, nessuno mi aveva mai detto che tu eri il Gran Re del piccolo popolo."

Cosí parlando si prostrò in terra. Era stato molto tempo al fianco di un Gran Re senza saperlo. Ora tremava tutto.

"Che la tua vendetta sia mite!" supplicò.

"Alzati! L'amuleto che porti t'ha fatto figlio del re. Il piccolo popolo conosce i segni. L'uomo che ti si inginocchiò dinanzi aveva letto giusto sul dente del leopardo. Ma il figlio non ha timore del padre, solo rispetto. E tu sei stato un ottimo figlio. Tu, 'Fior di granturco', abbi cura di lui quando io lo lascerò per sempre. Perché egli è un bianco, ma soprattutto perché egli ha un cuore nobile e generoso."

"Lo farò" rispose Paul. "Ma avrò ben poco da insegnargli. La tua scuola è stata la migliore. Ne hai fatto un ragazzo che sarà un uomo saggio e coraggioso. Un uomo in gamba, diciamo noi."