CAPITOLO VIII

 

 

"Noi non vogliamo giocare con te. Ritorna dai negri, tu che puzzi come loro."

"Sei un selvaggio; un buono a nulla!"

"Guardate come mangia!"

"Spione; spione."

"Togliti, che sei sporco tu!"

"Vai via! Via!"

Con queste, ed altre espressioni peggiori, i ragazzi allontanavano Isa dai loro giochi, dalla loro vita d'ogni giorno.

Due settimane erano trascorse dalla partenza di Paul. Nel villaggio Isa era a malapena sopportato. Per tutti egli era un selvaggio, perciò un essere inferiore che non era degno di star con loro.

"Bianco lui?!... Un bianco non sarebbe riuscito a vivere neppure un giorno tra gli Zulù! "

Se non l'avevano ancora ucciso, era solo perché uccidere era peccato mortale.

Se non l'avevano ancora scacciato, era solo perché Paul aveva chiesto che lo tenessero.

E a Paul bisognava ubbidire.

Ma qualsiasi lavoro, il più duro, il più faticoso, il più nauseante, gli veniva affibbiato senza rimorso.

"Ehi, cafro, c'è da pulire le stalle!"

"Ehi, cafro, c'è da spaccare la legna."

Si, cafro.

L'infedele, ossia. E la parola veniva pronunciata con tal disprezzo, da essere più che ingiuria.

"Cafro, sai portare i buoi al pascolo?"

Quante volte lo aveva fatto nel villaggio Swazi?

"Animo, allora! E attento a non farteli scappare da sotto il naso."

Anche lo scherno!

Il sangue gli pulsava veloce nelle vene in quei momenti. Molte volte la mano corse all'arco. Solo il pensiero di Paul lo fermava.

Doveva imparare a vivere come un bianco.

Non aveva detto questo Paul?

Allora abbassava il capo ed obbediva.

Chi si curava di Isa, era Anna, la madre di Irghin, la fanciulla che Isa aveva salvato dal cobra.

Ma Anna non era Paul. Gli voleva bene a modo suo. Lo curava, gli preparava da mangiare, gli faceva trovare il letto pulito, ordinato; ma mai che avesse per lui un gesto affettuoso, mai che scambiasse con lui una parola in più del necessario.

Stefano, il più grande dei suoi figli, quando Isa entrò per la prima volta nella loro casa, aveva detto:

"Madre, se questo selvaggio mangia alla nostra tavola, io me ne vado."

"Questo ragazzo dormirà con noi e dormirà nella vostra stanza."

"Ma madre, è un selvaggio!"

"È un ragazzo come voi. Bianco o nero non importa. Siedi fra noi, Isa, e sii il benvenuto."

"Se il papà fosse qui!..."

"Se vostro padre, sia benedetta la sua anima, fosse ancora tra noi, avrebbe approvato il mio agire. Egli" indicò Isa "è sempre un ragazzo!"

Questa era la vita di Isa tra la gente della sua razza.

"Non mi vogliono, non mi vogliono. Mi trattano come un estraneo. Hanno ribrezzo di me, schifo, odio. Cosa ho fatto loro?" gridava al vento, mentre i buoi pascolavano tranquilli.

E sperava che il vento gli rispondesse, o, almeno, gli portasse la risposta di Paul.

Poi accadde qualcosa che gli fece nascere la speranza di mostrarsi degno, di fronte ai bianchi, di essere ammesso fra loro.

  Per due notti consecutive le stalle dei buoi furono visitate da un grosso carnivoro. La prima notte furono dilaniati i quattro buoi di Erminio. La seconda notte toccò alle giumente di Emanuele.

"Bisogna montar di guardia" disse George, l'anziano. "Se si va avanti cosi rimarremo senza animali."

Tutti approvarono.

I tre che erano andati ad esplorare i dintorni, ritornarono sfiduciati. Del selvatico nessuna traccia.

"Comunque" concluse Filips, il più abile cacciatore del villaggio "lo scoveremo. È un grosso felino: un leopardo, credo."

Isa, accucciato in un angolo, si gingillava con l'arco.

Aveva tentato di parlare, ma George gli aveva detto bruscamente:

"Sappiamo cacciare anche noi, senza dover ricorrere all'aiuto di un cafro! "

Cosí due uomini montarono di guardia.

Isa li osservava andare avanti e indietro chiacchierando sommessamente.

Accoccolato sui rami d'una quercia il ragazzo sorrideva.

"Neppure Amebais, la pazza del villaggio, farebbe la guardia in questo modo."

S'aggiustò su una biforcazione e si addormentò.

Il leopardo non sarebbe venuto.

Si, perché era un leopardo. Le tracce parlavano chiaramente. Ed era grosso e cieco ad un occhio.

Lo aveva capito dal modo con cui aveva assalito le bestie. Doveva essere anche molto cattivo, se osava avventurarsi tra gli uomini.

"Ma non verrà!" ripetè a se stesso mentre si addormentava.

Per una settimana ancora gli uomini batterono la zona e montarono di guardia.

Ci furono dei falsi allarmi; ma il leopardo non venne più e tutto fu dimenticato.

Una sera Isa, osservando il cielo, vide la luna piena. Grande, gettava la sua luce argentea tra i vasti campi.

Salí nella casa di Paul, gettò via gli abiti e rimise la pelle del leopardo.

Poi, leggero come un'ombra, s'allontanò verso la foresta.

Tre volte l'abbaiar dello sciacallo interrotto dalla risata sghignazzante della iena.

Da un cespuglio vicino fu ripetuto il segnale.

Vide un'ombra muoversi silenziosa ed avvicinarsi a lui.

"Chi sei?" gli fu chiesto.

"Isa. Mohamed Isa."

"Non ti conosco. Cosa vuoi?"

"Vedere Pao."

"Pao?! Perché?"

"Sono suo amico."

"Vai avanti."

Isa s'incamminò. Le sue orecchie percepirono il lieve rumore della freccia incoccata nell'arco.

"Uomo dei cespugli," disse senza voltarsi "le mie frecce parlano lo stesso linguaggio delle tue. Ed hanno gli stessi segni."

"Fermati" ordinò l'uomo "e parla senza doppia lingua. Tu sei Swazi. Cosa vuoi dal piccolo popolo?"

"Una sola luna è trascorsa da quando ho lasciato il piccolo popolo. Pao è mio amico e tu dovresti conoscermi."

"Io conosco Pao, ma non ti ho mai visto con lui. Vengo dalla terra infuocata."

"Allora prendi il mio arco. Me lo donò Pao. Osservalo."

Gettò l'arco ai piedi dell'uomo e questi lo scrutò ben bene.

"Vieni" disse poi "ma se hai mentito non avrai il tempo per pentirtene."

Giunsero sul gran piazzale. Due uomini si fecero loro incontro.

"Sei ritornato, Isa?" chiese il più anziano dei due.

"Lo conosci?" domandò colui che l'accompagnava.

"Isa è del nostro popolo. Pao l'ha detto."

L'altro tese l'arco.

"Riprendilo" disse. "Io sono Cim-ao. Non sapevo che tu fossi del mio stesso sangue. Ci rivedremo, fratello."

"Grazie a te. E Pao?" chiese agli altri.

"Lo troverai nella grotta."

Isa entrò senza far rumore.

Voleva fare una sorpresa al suo amico, ma rimase sorpreso a sua volta.

Pao, dando le spalle all'ingresso, era di fronte alle due pietre piramidali che recavano incisi degli strani geroglifici.

 Una nube leggerissima d'incenso si spandeva per la grotta dando ad ogni corpo una forma evanescente. I dipinti alle pareti parevano cose vive.

La grande pantera sembrava muoversi, come pure il bimbo che stringeva tra le fauci.

Ad accrescere questa sensazione contribuivano le fiamme che, da un grande braciere posto fra le due pietre, s'innalzavano guizzando, crepitando; ora abbassandosi, ora cercando di raggiungere, il soffitto.

E la figura di Pao, immobile, ne era tutta illuminata.

Il suo piccolo corpo pareva stare in quel fuoco e dominarlo.

Isa, accucciato in un angolo, attese.

Guardava le fiamme guizzanti.

E le due pietre.

E Pao.

Il fuoco gli ricordava le danze della sua tribù: le lotte, le feste, lo stregone.

Anche Pao stava pregando; lo capiva.

Ma era una cosa silenziosa, da far venire un leggero brivido su per la schiena. Come quello che ora l'assaliva.

Si, perché Pao sembrava staccarsi sempre più dalla terra come se fosse nel fuoco e con il fuoco s'innalzasse verso il soffitto.

Ed era sempre immobile.

Era quell'immobilità a dare i brividi ad Isa. L'uomo dei cespugli pareva di pietra. In certi momenti, per l'effetto dei giochi di luce pareva che la sua ombra ondeggiasse leggermente, s'allungasse, si contorcesse. E con l'ombra anche il corpo, delimitato dai riflessi delle fiamme.

Isa cercò di guardare altrove.

Le due pietre lo attrassero. Anzi, i segni che erano sulle pietre. Li guardò bene.

Su ognuna v'erano incisi quattro cerchi concentrici dai quali si dipartivano otto triplici raggi.

Dove aveva veduto quei segni?

Eppure...

Istintivamente toccò il dente di leopardo, l'amuleto di Pao che gli penzolava sul petto.

Gli stessi segni che erano sulle pietre, erano incisi sul dente. Con una sola differenza: che nel centro dei cerchi, sul dente, vi erano due dita incrociate.

"L'avevo preparato per mio figlio" aveva detto Pao. "Portalo su te!"

Appena Pao avrebbe finito di pregare, gli avrebbe chiesto il significato di quei segni.

Pao! Come desiderava che egli fosse suo padre.

Ma certamente suo padre doveva esser stato come lui. O se no, era proprio vero che lui era un bianco, come "Fior di granturco".

Ecco: se gli avessero detto di scegliere un padre, non avrebbe saputo scegliere.

Pao o "Fior di granturco"?

Erano ambedue forti, astuti, leali.

Ma Isa sentiva che in Pao c'era qualcosa che " Fior di granturco" non aveva. Forse proprio questo stare immobile, come Pao era ora.

E "Fior di granturco" a sua volta aveva qualcosa che a Pao mancava. Qualcosa che era più della lunga canna tonante; qualcosa a cui ora Isa non sapeva dare un nome, che non riusciva neppure a decifrare.

Ed era una cosa difficile per lui. C'era da decifrare nell'uomo bianco i segni che secoli di civiltà vi avevano impresso.

Ma che strane idee gli stavano venendo!

Qualcuno entrò nella grotta e gli si sedette accanto: Cim-ao.

Non disse una parola; né fece un gesto.

Rimase immobile vicino al ragazzo.

Poi entrò un secondo, un terzo, un quarto Boscimano; una quindicina in tutto. E tutti immobili, silenziosi.

"Che c'è?" chiese Isa al vicino.

Cim-ao non rispose.

Isa pazientò ancora, poi rinnovò la domanda.

"Cosa state facendo?"

"Il mio amico ha dimenticato che una delle forze del piccolo popolo è la pazienza?"

Isa scattò in piedi. Era Pao che parlava. Pao che s'era voltato verso di lui, finalmente.

Gli si gettò fra le braccia.

"Son contento d'essere di nuovo con te!"

"Chi è più felice, mio piccolo amico, il grosso albero che ospita gli uccelli o gli uccelli che vi sono ospitati? Il mio cuore è felice quando può sentire vicini i battiti del tuo! Temevo per te. Temevo, soprattutto, di non vederti più."

"Io?! Ma se..."

"Aspetta. Ho da parlare con i miei uomini. Poi mi racconterai."

"Debbo andarmene?" "No" sorrise Pao. "Tra padre e figlio non ci sono segreti. Li conosci?"

Indicò, con un largo gesto delle braccia, i presenti.

"Il primo si. Per poco non facevo conoscenza anche con le sue frecce! " rispose sorridendo Isa.

"È Cim-ao, il capo del gruppo che vive nel deserto. L'altro è Hoomai. Il suo gruppo vive lungo il grande fiume. E gli altri sono i capi dei gruppi che vivono nella foresta. Questo" disse rivolgendosi agli uomini "è Mohamed Isa. Osservatelo bene. Conosce la nostra parola. È mio figlio."

"Il figlio di Pao è nostro fratello" disse per tutti Hoomai.

"Anche se sono Swazi o bianco?" chiese Isa con una leggera punta di apprensione nella voce.

"Non t'abbiamo chiesto chi sei e non abbiamo guardato la tua pelle. Sei nostro amico. Ciò ci basta."

"Vedi?" soggiunse sorridendo Pao "il piccolo popolo guarda al cuore, non al colore del cuore."

"Pao!" mormorò Isa stringendoglisi.

Non seppe dire altro. I piccoli uomini erano migliori dei Swazi e dei bianchi. Solo "Fior di granturco" era come loro.

Pao sedette fra gli altri.

Discussero a lungo.

Isa, vicino al fuoco, attese.

Quando tutti uscirono e lui rimase solo con Pao, chiese:

"Cosa accade? I tuoi uomini parlano di carri di buoi, d'uomini bianchi, di Swazi e di tutte le altre tribù Bantù. Perché?"

 "Molti uomini bianchi si avvicinano al fiume. E molti Bantù marciano sui villaggi ottentotti uccidendo e predando. Il piccolo popolo guarda."

"Cosa accade di preciso?"

"Nulla."

"Cosa temete allora?"

"La prudenza è saggezza. Se il piccolo popolo vuol proseguire a vivere deve essere prudente."

"Pao, non mi hai mai parlato di te e della tua gente."

"La storia del mio popolo si perde nella notte dei tempi. La mia storia non ha significato. Perciò la prima è lunga a narrarsi; la seconda non merita parole."

"Perché allora i capi dei vari villaggi son venuti da te? Chi sei tu?"

"Io sono Pao. Un piccolo uomo, dici tu; un uomo dei cespugli. Se i capi son venuti da me, mi hanno onorato con la loro presenza."

"Perché son venuti proprio da te e perché tu prima eri cosí immobile di fronte al fuoco?"

 "Quando un giovane elefante barrisce perché ha visto un pericolo, tutta la torma si volta verso il più anziano e da lui aspetta consiglio. Cosí è accaduto per il piccolo popolo. Io sono soltanto un vecchio elefante."

"Tu non sei vecchio, Pao. Ma se gli altri si sono rivolti a te significa che tu sei un saggio. Sei uno stregone, Pao?"

"Chiamami come vuoi. Io son Pao, e basta."

"Pao, sai cosa significano quei segni?" ed indicò le incisioni sulle pietre.

"Sono il simbolo del Gran Padre."

"Il Grande Padre? E chi è?"

"Chi, giovane Isa, dà vita alla grande pantera e all'elefante e al leone e a tutto il popolo della foresta? E il veleno al cobra e la stretta mortale al pitone? E le ali al popolo dell'aria? E al fulmine, e all'acqua, e al tuono, e al vento? Chi dà loro vita?"

"Gli spiriti del bene e del male. Lo diceva anche Ao-sam, lo stregone."

"E agli spiriti chi dà una legge e la vita? Uno solo, Isa. Il Grande Padre."

"E dov'è?"

"Lo cercai anch'io molto tempo fa. Ma non riuscii a vederlo. Però ora so che c'è. È nel tuono, nel vento, nel fulmine, nella pioggia, nel sole, nella luna; è nella foresta, nel deserto. EGLI è in tutte le cose, perché tutte le cose sono Sue. Egli è il Grande Padre. Ecco: guarda i segni. Quando tu lanci la tua zagaglia nell'acqua, essa fa nascere tanti cerchi che s'allargano in ogni parte. Cosi è LUI. Il Grande Padre è nel centro e muove tutto, come la tua zagaglia lanciata nell'acqua. I quattro cerchi sono il simbolo del movimento. Gli otto raggi raggruppati a tre a tre dicono che non solo c'è movimento, ma ordine, forza, giustizia. Questi segni hanno ancora un altro significato. I quattro cerchi rappresentano i quattro tempi dell'anno: la grande pioggia, il gran caldo e i due tempi di passaggio. Ogni raggio il tempo d'un giorno. E se tu unisci i quattro cerchi e tutti i raggi, hai il tempo che passa da una luna nuova all'altra. Anche questo ci parla del Gran Padre. Indica il tempo che Lui fa trascorrere sempre uguale, sempre con la medesima legge."

Isa meditò sulle parole di Pao, poi disse:

"Sei veramente sapiente, Pao. Come parli tu al Gran Padre?"

"Il Gran Padre non ha bisogno di parole. Capisce anche se non si parla."

"Non occorre allora che lo stregone parli a Lui per me? Posso anch'io parlare con Lui?" "Si."

"E Lui ti risponde?"

"No, non apertamente. Ma ti dà forza e saggezza. Basta avere fiducia."

"Quando mi servirà parlerò anch'io con Lui."

"Perché solo quando ti servirà?"

"Perché, bisogna parlarci anche quando non serve il Suo aiuto?"

"La radice del grande albero si tien salda sul terreno solo quando il vento soffia forte, o sempre, affinché mai venga sorpresa dal temporale? La forza e la saggezza non si acquistano in un momento. Quando imparavi a tirar d'arco hai impiegato molto tempo prima di poter colpire nel segno con la prima freccia. Per conquistare la saggezza occorre molto, molto più tempo che per imparare a maneggiare l'arco."

"Allora debbo parlare sempre con LUI?"

"Quando puoi."

"Devo cercare un posto per farlo."

"Non occorre. In qualsiasi posto puoi parlare con Lui. Nella foresta, nel villaggio; ovunque."

Il fuoco si stava spegnendo. Pao, raccolta una bracciata di legna, lo ravvivò.

"Ed ora" disse "parlami di te. Sei stato con l'uomo della barca?"

"Si. È 'Fior di granturco'. Io vivo in un loro villaggio di pietre."

"Dove?"

"Vicino al fiume."

"Come ti trovi?"

" 'Fior di granturco' è bravo. E forte. Son sicuro che ti piacerebbe conoscerlo."

"Lo conoscerò."

Isa parlò a lungo di Paul. Il Boscimano l'ascoltò in silenzio.

"Vorrei" concluse Isa "che 'Fior di granturco' venisse a vivere con te. Allora sarei felice."

"Hai parlato di 'Fior di granturco', solo di 'Fior di granturco'," disse Pao "eppure mi hai detto di vivere nel villaggio dei bianchi. Cosa mi nascondi, Isa? Perché non mi parli anche degli altri?"

"Ripeterei sempre la stessa cosa, le stesse parole. Gli altri sono come i Swazi. Mi disprezzano."

"Non sei tu bianco come loro?"

"Già, ma loro mi dicono negro, cafro. Ogni loro gesto, ogni loro parola, sono contro di me. Per loro

sono un Swazi. Per i Swazi un bianco. Ma per tutti e due non sono nulla. Sono un 'orzowei', un trovato."

"Ciò che mi dici è grave. Nessuno ti ama al villaggio?"

" 'Fior di granturco' soltanto."

"Chi si cura di te?"

"Lui."

"Mi hai detto che lui è andato via."

"Anna."

"Parlami di lei."

"Mi dà da mangiare, mi prepara il giaciglio, letto lo chiamano loro, e mi..."

"Vai avanti!"

Isa abbassò il capo. Si vergognava di dire che aveva dovuto togliersi la pelle della grande pantera.

"Mi lava e riordina i vestiti. Li ho dovuti mettere, Pao. 'Fior di granturco' l'ha voluto."

"Non c'è da vergognarsi. Quelli sono gli usi della tua gente. Dove ti fa dormire la donna?"

"Con i suoi figli."

"E mi dici che ti disprezza?"

"Mi fa tutto, ti ho detto. Ma non mi parla come te, non mi accarezza come fa con i suoi figli. Pao, non voglio ritornare fra i bianchi. Essi non mi vogliono. Per loro sono un 'orzowei'. Fammi rimanere con il piccolo popolo."

"Chi ti dice che il piccolo popolo non ti tratterebbe anche lui come un 'orzowei'?"

"Tu l'hai dimostrato, e i tuoi amici."

"Tu credi in noi, ecco perché sei, o credi di essere, felice. Hai provato a credere nei bianchi? Cosa hai fatto affinché nessuno ti dica più 'orzowei'?"

"Ho fatto tutto quello che essi mi hanno detto."

"Non basta, Isa. Devi essere tu che devi cominciare ad amare. L'amore richiama amore."

"Cosa devo fare, dunque?"

"Ritorna fra la tua gente e amala."

"Mi scacci?"

"No. Lo sai."

"Quando potrò ritornare da te?" "Verrò io a trovarti." "Tu?!"

"Si. E voglio vederti felice."