CAPITOLO II
Avanzava al trotto leggero, instancabile, che aveva imparato osservando le gazzelle durante le lunghe giornate d'estate quando, portando i bufali al pascolo, li abbandonava per addentrarsi nella foresta.
Un trotto che non stancava e che, spesso, l'aveva salvato dagli assalti dei compagni.
Quei giochi, quelle fughe, l'avevano addestrato; per esperienza sapeva ch'era meglio mettere molta strada fra lui e gli inseguitori.
L'eco del "tam-tam" si spandeva d'intorno.
Per molte miglia l'avrebbe ancora intesa e, con lui, l'avrebbero intesa tutti i cacciatori che battevano la pista; e i villaggi che erano al di là del fiume.
Tutta la grande tribù dei Swazi avrebbe saputo; e gli esploratori lo avrebbero cercato.
Si fermò nel folto d'una macchia.
Poco distante l'urlo di caccia del leone aveva risvegliato la foresta.
Doveva abbandonare il sentiero. Non era prudente seguire quella via.
La pioggia del giorno avanti aveva reso il terreno molle e su di esso si stagliavano, nitide, le sue impronte.
Correndo tutt'intorno confuse le tracce; poi si accucciò presso un cespuglio.
Era inutile andare cosí, a caso.
Al di là del fiume, nel cuore della foresta, in un'ampia radura, vi erano i resti d'un grande villaggio, antico quanto il sole, dalle capanne di pietra.
Glielo aveva raccontato Amunai. E quando gli parlava della "città morta", faceva tutti gli scongiuri possibili, perché il luogo, diceva, era abitato dagli spiriti del male.
Se voleva sfuggire ai cacciatori, doveva raggiungere quel luogo. Li nessuno lo avrebbe cercato. Ci volevano tre, quattro giorni, conoscendo la pista.
Con la rapidità di uno scoiattolo s'arrampicò su di un albero. Lassù, a cavalcioni del ramo più alto, osservò il cielo.
La grande stella era alla sua destra.
Doveva tenerla sempre alla sua destra, se voleva raggiungere la città morta.
Stava per discendere quando un leggero rumore lo fece rimanere immobile, con il cuore in gola.
Uno scricchiolio; un ramo spezzato.
Trattenendo il respiro, aguzzò lo sguardo. Tra le fronde dell'albero poteva scorgere il sentiero.
Scivolò un po' più in basso ed attese. Nessun rumore estraneo alla vita della foresta.
Il leopardo stava cacciando un miglio distante. Poco prima il suo grido disperato — d'animale affamato che non trova cibo — era echeggiato nella giungla e aveva raggelato il sangue nelle vene del ragazzo.
Un capriolo aveva attraversato di corsa il sentiero ed una scimmia gli urlava, dispettosamente, dietro. Lontano un gruppo di iene stava ridendo.
Un riso beffardo, crudele.
Poi Isa udí un rumore che non riuscí a definire.
Pareva come se qualcuno si schiaffeggiasse leggermente.
Attese. Ed ecco comparire Sem-husci e due giovani guerrieri del villaggio.
"È passato di qui. Le tracce son nitidissime" diceva Sem.
"Una vacca e tre pecore per ciascuno se riusciamo a prenderlo. Sarà uno scherzo!"
Camminavano soddisfatti, quando Sem-husci fece un cenno.
Gli altri due gli si avvicinarono e si chinarono ad osservare il terreno.
Cominciarono a discutere.
"Deve essere nei dintorni" disse poi Sem.
"Ci scommetto che sta dormendo qui vicino."
"Già, le tracce si confondono... Guardate" disse uno dei più giovani.
Era lui che faceva lo strano rumore. La piccola daga legata alla cintola gli batteva, ad ogni passo, sulla coscia.
"Ascoltate" disse Sem-husci "io proseguirò lungo il sentiero. Tu" e si rivolse all'uomo della daga "frughi fra queste macchie mentre Soliman batterà la zona più avanti. Volete?"
"Bene" rispose Soliman; "andiamo!"
Avevano fatto pochi passi quando Sem-husci gridò :
"Ehi, Mur! La daga ti batte sulla coscia e fa rumore! "
Mur la sciolse e non si udí più nulla.
Presero ognuno per la loro via e scomparvero.
Isa attese ancora, poi scivolò lentamente sul tronco.
La caccia era iniziata.
Se voleva ritornare un giorno al villaggio doveva aprire bene gli occhi e le orecchie.
Anziché proseguire ritornò sui suoi passi.
E quando vide, lontani ancora, i fuochi della tribù, s'arrampicò su d'un albero e, a cavalcioni di una biforcazione, s'addormentò.
Le prime due settimane furono terribili per Isa. Il piccolo spiedo non era buono per cacciare a distanza. Doveva strisciare fin presso l'animale se voleva colpirlo; ma ogni volta questi notava a tempo la sua presenza e fuggiva spaventato.
Cosí doveva accontentarsi di rodere qualche radice o di masticare qualche ciuffo d'erba. Ma anche questo cibo bisognava saperlo trovare.
I primi giorni aveva mangiato una pianticella gradevole lí per lí; poi atroci dolori l'avevano assalito ed aveva creduto che gli spiriti del male fossero venuti a prenderlo per punirlo di tutte le volte che egli s'era infischiato di loro.
Imparò cosí a conoscere quali piante fossero commestibili e quali velenose.
Anche per la frutta dovette esercitarsi a lungo, ed escoriarsi in tutte le parti del corpo, prima di imparare a destreggiarsi agevolmente di ramo in ramo fino a raggiungere quello più sottile ove, immancabilmente, erano i frutti più saporiti.
Diversi capitomboli dall'alto, per fortuna senza gravi conseguenze, gli insegnarono a riconoscere un ramo buono da uno tarlato, e le scimmie gli furono ottime maestre nel mostrargli come ci si potesse lanciare da un ramo all'altro senza spaccarsi la testa sul terreno.
Ma la cosa più difficile fu accendere il fuoco.
Non aveva pietre focaie e, ricordando ciò che aveva visto fare spesso nel villaggio, provò ad accenderlo sfregando due pezzi di legno. In quei giorni si penti amaramente di non aver osservato bene come procedeva la faccenda.
I due legni si riscaldavano, la fronte gli si imperlava di sudore, le braccia gli doloravano, ma il fuoco non veniva.
Allora invocava tutti gli dei; e gli spiriti buoni e i maligni. Poi li imprecava tutti insieme. Ma del fuoco nessuna traccia.
" O dio del lampo " gridava " infuriati verso questo tuo indegno servo e gettagli contro i tuoi dardi infuocati! "
Ma la preghiera era vana.
Forse perché il dio invocato sapeva bene che i suoi dardi sarebbero giunti come una benedizione per quel monello ricciuto che s'affannava tanto.
Un giorno riuscí; ed allora sorse un secondo problema.
Aveva infatti appena acceso il suo primo fuoco quando risuonò poco distante un corno.
Qualcuno, avendo notato il fumo, si dirigeva verso di lui.
La modulazione del suono aveva fatto comprendere ad Isa che un cacciatore credeva d'aver trovato dei compagni.
Fuggi. Cosi il primo frutto di tante fatiche non potè neppure goderselo.
Da allora scelse con cura la legna da ardere, affinché il fumo non denunciasse la sua presenza.
Osservò come il leone tendeva gli agguati alle antilopi; come strisciava al suolo, come scattava improvviso. E provò.
Ripeteva tutte le mosse del felino; i suoi balzi, lo strisciare silenzioso, i suoi lunghi slanci.
Furono giorni duri, di continuo esercizio.
Finalmente uccise il suo primo capriolo.
Non aveva mai creduto che scuoiare un animale fosse tanto faticoso e difficile.
I giorni che seguirono gli insegnarono a farlo più celermente e con meno fatica.
Nel frattempo, con un largo giro nella foresta, Isa aveva raggiunto il fiume che l'attraversava tutta.
Al di là del fiume, distante due o tre giorni di marcia, era la città morta. Lí avrebbe costruito la sua capanna.
Si tuffò.
A lente bracciate raggiunse il centro del fiume e lo risali di un centinaio di passi.
Il fiume scorreva placido, solenne, nell'ampio letto.
Qua e là, lungo le sponde ricoperte da una fitta vegetazione, qualche albero s'incurvava sull'acqua lambendola con i frondosi rami.
Poi il ragazzo si lasciò andare con la corrente fino a che non vide spiccare, nel centro del fiume, una bianca roccia. L'acqua le gorgogliava attorno, spumeggiando.
S'inerpicò sul masso e prima di distendersi sul centro levigato, osservò il suo corpo. La tinta biancastra non accennava ad attenuarsi.
Si stese al sole. Al grato tepore (il periodo del grande caldo non era ancora giunto) socchiuse gli occhi e ripensò al villaggio, a Mései, al vecchio Ring-kop, al Gran Capo.
Rivide l'albero sacro, i campi coltivati, le mandrie dei bufali al pascolo; ed ebbe allora un leggero senso di rimpianto, di nostalgia.
Anche se era vero che quello non era il suo villaggio, come tutti dicevano; anche se era vero che quello non era il suo popolo, cosí tutti giuravano; lí lui aveva vissuto e sofferto; con loro aveva gioito, e pianto, ed amato. E poi, perché quello non era il suo popolo?
Non era egli come loro? Non faceva ciò che essi facevano? Non viveva come loro vivevano?
"È la tua pelle, il tuo viso" dicevano.
Che ne poteva lui se era un tantino più chiaro?
Quante volte si era esposto completamente nudo, per lunghissimo tempo, al sole della grande calura per far sí che la sua pelle divenisse più scura, simile a quella dei suoi compagni!
Eppure c'era qualche incantesimo in lui.
La sua pelle non voleva divenire lucida, di quel bel colore ebano che era l'orgoglio della gente del villaggio.
Ma che pensieri erano mai questi?
Sbadigliò, mentre si stiracchiava tutto.
Egli era un Swazi. Faceva la gran prova. Questo era un segno di riconoscimento della sua appartenenza alla tribù. Poteva essere felice.
Si alzò.
Rimase cosí, immobile, da parer tutt'uno con la roccia. La sua snella figura si stagliava nettamente tra il verde cupo della foresta.
Poi, a lente bracciate, raggiunse la riva.
Si ridestò al tramonto.
Il bagno ed il riposo gli avevano aguzzato l'appetito. Si diresse verso il fiume e, scrutandone bene la sponda, cercò il luogo dell'abbeverata dei selvatici.
Lo trovò mezzo miglio distante.
La foresta si apriva in un'ampia radura e, tra l'erba alta, notò il sentiero della sete.
Qui, fra non molto, sarebbero giunte e le antilopi" veloci, e i bufali selvatici, e le timide gazzelle per dissetarsi. Il terreno mostrava chiaramente i segni dei loro precedenti passaggi.
Proprio vicino alla riva s'innalzava un gigantesco baobab. Tra i suoi rami più bassi Isa si nascose con l'assegai pronto.
La luna era già spuntata. Sembrava giocare con la punta degli alti alberi. Ora vi si nascondeva dietro, ora mostrava il suo faccione ridente.
Un leggero calpestio risvegliò l'attenzione del ragazzo. Sotto di lui un grosso gnù, dal corpo tarchiato e muscoloso, alto come un asino all'incirca, avanzava guardingo.
Sollevava lentamente, con grazia, le snelle zampe simili a quelle di un cervo, mentre il muso carnoso da bue era tutto proteso in avanti, con le froge umide dilatate, pronte a carpire il più tenue odore.
Ad una decina di passi, in fila indiana, calcante le sue orme, lo seguiva il resto del branco.
Lo gnù raggiunse il fiume; si piantò con le zampe anteriori nell'acqua, fissò attentamente ogni cespuglio vicino, poi bevve a lunghe sorsate.
I compagni attendevano silenziosi.
Isa non si mosse.
Se avesse avuto un arco e delle frecce il suo pranzo sarebbe stato assicurato; ma con quel piccolo ferro!...
Attese. Tra la mandria, una sessantina di individui circa, aveva notato dei cuccioli.
Li vedeva scalpitare qua e là, subito richiamati al dovere, con leggeri colpi di testa, dalle madri. Avrebbe tentato su uno di quelli. Le grosse corna degli adulti gli incutevano un certo rispetto.
Il capo del branco drizzò la testa e si ritrasse indietro. Allora a cinque, sei per volta, gli gnù s'avvicinarono al fiume. Gli altri pascolavano silenziosi tra l'alta erba.
Solo il capo, ritto su d'un leggero rialzo, scrutava attentamente in ogni dove.
Quando i piccoli si furono dissetati si misero a ruzzare avanti e indietro cozzando fra loro, entrando nell'acqua e spruzzandola attorno.
Quando il capo si mosse, tutti s'incolonnarono dietro di lui.
Per Isa era il momento di agire; scivolò lungo il tronco e con cautela s'avvicinò al primo cucciolo che ruzzava lí presso. Quando gli fu a meno d'un passo di distanza, gli si slanciò contro urlando. Il branco fuggí allarmato. Il piccolo, atterrito dallo spavento, si lasciò facilmente colpire. S'accasciò a terra emettendo un lungo, lamentoso belato.
Ma la madre, lontana, non l'intese.
Isa trascinò la giovane preda lontano dal sentiero della sete; ne tagliò un grosso quarto e lo arrosti.
Per diversi giorni Isa sostò in quei luoghi.
Il cibo era abbondante, la caccia non pericolosa e il fiume era lí, pronto a dargli ristoro con le sue acque fresche, mormoranti.
Aveva cura di non girare mai, durante il giorno, nei pressi del sentiero della sete per non lasciar tracce e non intimorire, cosí, i selvatici che si recavano al fiume.
Anche quella sera si era accoccolato su un basso ramo in attesa.
Poco prima aveva udito, non molto lontano, il rauco grido della grande pantera e il suo raspare s'un tronco. Il leopardo si preparava alla caccia. Quello era il suo modo d'affilare gli artigli.
Isa era titubante; la vicinanza della grande lottatrice era un pericolo. Forse conveniva lasciar la caccia, quella sera.
Ma le scimmie avevano ripreso a gridare e un'antilope si avvicinava tranquillamente. Segno che il leopardo s'era allontanato.
Un vecchio bufalo solitario, immerso fino a metà corpo nel fiume, beveva a lunghe sorsate, sollevando ogni tanto il capo in ascolto.
Qualcosa lo rendeva inquieto, perché per ben due volte si ritrasse dall'acqua.
Tutto taceva, intorno. Solo qualche pappagallo gridava sugli alti rami. Ma Isa non ci badò.
Il bufalo era molto vecchio; poteva tentare d'assalirlo. Quando l'animale sarebbe passato sotto il suo ramo gli avrebbe lanciato contro l'acuminato spiedo.
Se il colpo gli riusciva, sarebbe balzato sulla groppa della bestia fino a che questa, dissanguata, non fosse crollata.
Improvvisamente il bufalo drizzò la lunga coda e muggí, ritraendosi con uno scarto dal fiume.
Il ragazzo attese il momento buono, lanciò l'assegai e balzò sulla groppa dell'animale che s'impennò; scartando violentemente, mentre muggiva per il dolore.
L'assegai gli era penetrato vicino alla base del corno sinistro e un fiotto di sangue usciva dalla ferita.
Isa si teneva ben saldo; a simili sgropponate ed impennate s'era abituato al villaggio, quando conduceva i bufali al pascolo e li montava.
Quand'ecco con la forza d'un bolide, si rovesciò, su lui ed il bufalo, una massa fulva.
Il ragazzo cadde riverso sul terreno. Non si mosse.
Chi gli aveva rubato la preda era la grande pantera, balzata, con uno slancio formidabile, da un cespuglio distante circa dieci passi dal sentiero.
Nascosta tra l'erba alta, aveva atteso pazientemente. Il bufalo, impazzito com'era dal dolore, non l'aveva fiutata. Ed ora lottava contro la feroce nemica che, aggrappata a lui, cercava di raggiungere la grande vena e spezzarla.
Ad un tratto, con una impennata improvvisa, il bufalo riuscí a sbalzare il leopardo e a colpirlo con le corna possenti.
La pantera schivò in parte il colpo e a sua volta balzò sulla testa della vittima dilaniandola con le formidabili zanne.
Il bufalo scalpitò, muggí; tentò di schiacciare il nemico contro la terra.
Stava per abbandonarsi esausto, quando il leopardo, contorcendosi tutto, abbandonò la presa mandando grida rauche e spaventose.
L'assegai gli era penetrato nelle fauci lacerandogliele.
Il bufalo, visto il nemico a terra, caricò nuovamente. Un urlo agghiacciante.
Il leopardo si drizzò di colpo, colpi, squarciò ed il bufalo crollò rantolando.
Solo allora Isa si mosse.
Vide il felino abbandonare la preda ancora palpitante e avviarsi verso il fiume.
Lo osservò attentamente. La grande pantera doveva avere le zampe anteriori spezzate poiché si spingeva in avanti solo con le posteriori, strisciando sul petto. Il bufalo doveva averla conciata cosí nell'ultima sua carica.
Ma pur avanzando in tal guisa, la rapidità con la quale procedeva era tale che in breve tempo raggiunse l'acqua.
Vedere il feroce carnivoro, il più possente della foresta, ridotto in tal modo, fece nascere un ardito pensiero nella mente di Isa.
Chi avrebbe potuto mettere in dubbio il suo valore, se fosse ritornato al villaggio col corpo ricoperto dal fulvo mantello del macchiato?
S'avvicinò al bufalo. Una decina di iene si ritrassero latrando. L'assegai era in terra, intriso di sangue.
Lo raccolse pulendolo sull'erba umida, e tornò verso il fiume. La pantera aveva immerso il muso nell'acqua per spegnere il bruciore della ferita. Mugolava.
Il lungo corpo era percorso da brividi che lo scuotevano tutto. La coda ondeggiava qua e là irrequieta.
Isa, tremando, rimase ad osservarlo.
La paura stava combattendo la sua lotta con l'ambizione. Strinse i denti. Doveva affrontare il rischio. Solo l'uccisione della grande pantera avrebbe fatto dimenticare, cosí credeva, agli abitanti del villaggio che lui era un "orzowei", un trovato, uno sciacallo d'uomo.
Ricordava ancora — egli aveva allora sei, sette anni — le magnifiche accoglienze e le feste fatte ad Umbelai il giorno che tornò al villaggio con la pelle d'un leopardo.
Avanti, allora.
"In fondo" disse a se stesso "ha le zampe spezzate ed è ferita e stanca."
Strisciò fino a trovarsi a pochi passi dall'animale.
Gli pareva che nella foresta risuonasse il "tamtam" con lo stesso frenetico ritmo con cui il sangue gli batteva nelle tempie.
Strinse l'assegai con forza e balzò.
Nello stesso istante il leopardo si girò; spalancò le fauci con un ruggito possente e, facendo leva sulle zampe posteriori, scattò.
Isa schivò il tremendo colpo, ma non tanto repentinamente da uscirne incolume.
Gli artigli della belva gli lacerarono il petto, mentre le zanne si richiusero, con uno scatto secco, ad un pollice dalla sua coscia.
Ristettero entrambi un attimo, che parve un secolo al ragazzo, a fissarsi immobili.
Poi agirono contemporaneamente.
Il leopardo balzò in avanti. Isa approfittò dell'attimo in cui la belva scopriva la parte inferiore del corpo per conficcarvi l'assegai.
Un ruggito di rabbia gli fece comprendere che il colpo era andato giusto, mentre il leopardo gli piombava addosso rovesciandolo. I suoi artigli gli si conficcarono ancora una volta nel corpo.
Sentí un forte dolore alla gamba e svenne.
Il grido delle iene e la pungente aria notturna lo risvegliarono.
Immediatamente si guardò d'attorno. Il leopardo giaceva irrigidito presso di lui. L'assegai gli era penetrato nel cuore.
Tirò un ramo secco contro le iene che si avvicinavano e, con fatica, gemendo, si sollevò a sedere.
Sentiva un dolore acuto alla gamba. Delicatamente la sollevò. Sulla coscia s'apriva uno squarcio profondo. Gli artigli della belva avevano scoperto l'osso.
Provò a muoverla. Stringendo i denti, sudando, riuscí a fare dei piccoli movimenti. Bene; i nervi non erano stati lesi.
Si guardò il petto. Lunghe strisce rossastre lo rigavano tutto; proprio sotto le mammelle cinque profonde incisioni gettavano ancora sangue.
Si trascinò verso l'acqua e si immerse.
Il fresco dell'acqua mitigava il bruciore delle ferite, pur dandogli lunghi brividi. Ma il ragazzo si ritrasse immediatamente appena vide il fiume arrossarsi tutt'intorno. Con delle foglie di felce tamponò la ferita sulla coscia e gli squarci sul petto.
Era spossato, ma felice. Aveva vinto la grande pantera.
Cosí, mentre scuoiava la belva, prima che la rigidità dell'eterno sonno rendesse l'opera più faticosa, gli venne da sorridere di se stesso.
Gli sembrava d'essere un forte guerriero pronto per una grande battaglia, dipinto com'era di bianco e striato di rosso. Ma era un rosso che parlava della sua audacia, non un semplice tatuaggio.
Solo all'alba finí il pesante lavoro.
Prese la pelle del macchiato e la stese, su d'un cespuglio, al sole.
Estenuato, vi si accucciò sotto.
Nessuno si sarebbe avvicinato.
Era, pur sempre, la pelle del più forte cacciatore della giungla.