Il futuro
È il compleanno di Kirsten e Rabih ha organizzato di passare una notte in un hotel di gran lusso e pari costo nelle Highlands, che raggiungono in macchina, dopo aver lasciato i bambini da una cugina di lei a Fort William. È un castello ottocentesco e promette torri merlate, cinque stelle, servizio in camera, sala da biliardo, piscina, un ristorante francese e un fantasma.
I bambini hanno messo in chiaro di non essere affatto contenti. Esther ha accusato suo padre di rovinare il compleanno alla mamma. «Sono sicura che senza di noi vi annoierete e alla mamma mancheremo un sacco» insiste. «Secondo me non dovreste stare via così tanto» (si rivedranno il pomeriggio del giorno dopo). William rassicura sua sorella: i genitori potranno sempre guardare la tv e magari in albergo c’è una sala giochi con il computer.
La loro camera è nella torretta più alta. Al centro c’è una grande vasca da bagno e le finestre guardano una catena di cime dominate dal Ben Nevis, che a giugno è ancora spolverato di neve.
Dopo che il giovane facchino ha depositato il bagaglio in camera, si sentono in imbarazzo di trovarsi lì insieme. Sono passati anni, tanti anni, dall’ultima volta in cui sono stati soli in una camera d’albergo, senza i figli e senza niente di particolare da fare nelle ventiquattr’ore successive.
Hanno la sensazione di essere amanti, tanto è diverso il modo in cui si comportano nei confronti dell’altro in quell’ambiente. Condizionati dalla dignità e dal silenzio dell’ampia stanza e del soffitto altissimo, sono più formali e rispettosi. Kirsten chiede a Rabih, con insolita premura, che cosa vorrebbe ordinare dal menu del tè e lui le prepara un bagno.
Forse il trucco non è cominciare una vita nuova ma imparare a riconsiderare quella vecchia con occhi meno svogliati e offuscati dall’abitudine.
Lui si sdraia sul letto e la guarda immergersi nella vasca: ha i capelli raccolti e legge una rivista. È dispiaciuto, si sente in colpa, per tutti i problemi che si sono causati a vicenda. Passa in rassegna le brochure che ha raccolto sulla scrivania. A settembre si può andare a caccia, a febbraio si pesca il salmone. Quando lei ha finito, esce dalla vasca con le braccia incrociate sul seno. Lui è toccato, e un po’ eccitato, dalla sua riservatezza.
Scendono per la cena. Il ristorante è al lume di candela, le sedie hanno lo schienale alto e alle pareti sono appesi palchi di corna. Il capo cameriere presenta il menu di sei portate con modi assurdamente pretenziosi che però, a sorpresa, risultano molto gradevoli a entrambi. Ormai conoscono così da vicino lo squallore domestico che non resistono all’opportunità di godersi l’elaborata messinscena dell’ospitalità.
Cominciano a parlare dei figli, degli amici e del lavoro; poi, dopo la terza portata – cervo adagiato su una mousse di sedano rapa – si spostano su un terreno meno noto, tirando fuori l’ambizione repressa di lei di riprendere in mano uno strumento musicale e il desiderio di lui di portarla a Beirut. Kirsten alla fine si mette anche a parlare di suo padre. Spiega che ogni volta che va in un posto nuovo si chiede se per caso non viva nelle vicinanze. Vuole provare a mettersi in contatto con lui. Gli occhi le luccicano di lacrime trattenute, è stanca di essere arrabbiata con lui da una vita. Magari, nei suoi panni, avrebbe fatto la stessa cosa anche lei. Non è detto. Le piacerebbe che conoscesse i suoi nipoti e (aggiunge con un sorriso) il suo terribile marito mediorientale.
Rabih ha ordinato un vino francese che costa una fortuna, quasi quanto la stanza, e che comincia a fare effetto. Ne vuole un’altra bottiglia, chi se ne frega. È cosciente del ruolo psicologico e morale del vino, della sua capacità di aprire canali di sentimento e comunicazione che altrimenti resterebbero chiusi, non solo, quindi, di offrire una vile scappatoia dalle difficoltà, ma anche di dare accesso a emozioni a cui la vita quotidiana, nella sua ingiustizia, non lascia spazio. Era parecchio tempo che ubriacarsi alla grande non gli sembrava tanto importante.
Si rende conto che ci sono ancora moltissime cose che non sa di sua moglie. Le sembra quasi un’estranea. Immagina che sia il loro primo appuntamento e che lei abbia acconsentito a venire a scoparselo in quel castello scozzese. Ha lasciato a casa i figli e il marito odioso. Lo sta toccando sotto il tavolo, lo guarda con occhi furbi e scettici, versa un pochino di vino sulla tovaglia.
È grato ai camerieri in divisa nera e all’agnello di un allevamento locale, che è morto per loro, e alla torta a tre strati di cioccolato fondente e ai pasticcini e alla camomilla, per aver cospirato creando lo sfondo che mette in risalto il fascino misterioso di sua moglie.
Lei non è brava ad accettare i complimenti, ma Rabih ormai lo sa e sa anche che la colpa è dell’indipendenza e della riservatezza che tanto fastidio gli hanno dato in passato, ma non gliene daranno altrettanto in futuro, perciò insiste, imperterrito, e le dice quanto è bella, quanto sono saggi i suoi occhi, quanto è orgoglioso di lei e quanto gli dispiace per tutto. E invece di respingere le sue parole con il solito commento stoico, lei sorride – un sorriso ampio, caldo e tranquillo – e lo ringrazia, gli stringe la mano e le verrebbero di nuovo le lacrime agli occhi se non fosse per il cameriere che viene a chiedere se la signora gradisce ancora qualcosa. Lei risponde, biascicando appena: «Ancora un po’ di questa delizia», e poi si controlla.
Il vino ha dato alla testa anche a lei, l’ha resa coraggiosa, abbastanza coraggiosa da essere debole. Ha la sensazione che dentro di lei una diga sia crollata. Non ce la fa più a resistergli, vuole darsi di nuovo a lui come ha fatto tanto tempo prima. Sa che sopravvivrà, qualsiasi cosa succeda. Ormai non è più una ragazzina. È una donna che ha sepolto sua madre nella terra umida del cimitero di Tomnahurich e ha messo al mondo due figli. Uno di loro è maschio, quindi sa come sono gli uomini prima di trovarsi nelle condizioni di fare del male a una donna. Sa che la malvagità maschile è quasi sempre solo una rabbia impotente. Dalla sua nuova posizione di forza, si sente generosa e indulgente nei confronti della loro offensiva debolezza.
«Scusami, signor Sfouf, se non sono sempre stata come mi avresti voluto.»
Lui le accarezza il braccio nudo e risponde: «Sei stata molto di più».
Provano una frastornata lealtà verso quello che hanno costruito insieme: il loro matrimonio litigioso, insofferente, pieno di risate, sciocco e bello, che amano da morire perché è nettamente e dolorosamente loro. Sono orgogliosi di essere arrivati fin lì, di aver tenuto duro, tentando e ritentando di capire la rispettiva demenza, negoziando un accordo di pace dopo l’altro. Ci sarebbero potuti essere infiniti motivi per non essere più insieme. Separarsi sarebbe stato naturale, quasi inevitabile. La conquista bizzarra ed esotica è proprio questa tenacia; si sentono fedeli alla loro versione dell’amore veterano, con tutte le sue cicatrici.
Tornati in camera, lui si fa intenerire dai segni che i figli le hanno lasciato sulla pancia, da come l’hanno lacerata, rovinata e sfinita con il loro innocente e primordiale egoismo. Lei nota una nuova morbidezza ondulata in lui. Piove forte; il vento fischia sui merli. Quando hanno finito vanno alla finestra, abbracciati, e bevono acqua minerale di una sorgente del posto alla luce di un lampione nel cortile sottostante.
L’hotel ha assunto un’importanza metafisica. Gli effetti che ha avuto non resteranno circoscritti a quel luogo particolare: porteranno la lezione di apprezzamento e riconciliazione nelle stanze più fredde e più semplici della loro vita quotidiana.
L’indomani pomeriggio la cugina di Kirsten gli riporta i bambini. Esther e William corrono incontro ai genitori nella sala del biliardo accanto alla reception. Esther si è portata Dobbie. I genitori hanno mal di testa, come se fossero appena scesi da un lungo volo.
I bambini si lamentano con veemenza per essere stati abbandonati come orfani e costretti a dormire in una stanza che puzzava di cane. Pretendono un’esplicita conferma che quel genere di gita non si ripeterà più.
Dopodiché, come programmato, vanno tutti e quattro a fare una passeggiata. Per un tratto seguono un fiume, poi cominciano a salire le pendici del Ben Nevis. Dopo mezz’ora escono dal bosco e davanti a loro si apre un panorama che si estende per chilometri sotto il sole estivo. Più in basso si vedono le pecore e le fattorie, che sembrano giocattoli.
Piazzano il campo base in una macchia di erica. Esther si toglie gli scarponi e corre sulle rive di un ruscello. Nel giro di qualche anno sarà una donna e la storia ricomincerà da capo. William segue una fila di formiche fino al nido. È la giornata più calda della stagione, fino a quel momento. Rabih si sdraia per terra, a gambe e braccia larghe, e segue una nuvoletta innocua che si sposta nel blu.
Vuole catturare l’attimo e li chiama per fare una foto, appoggia la macchina su una roccia e corre a prendere posizione nell’inquadratura. Sa che la felicità perfetta si può avere solo a piccole dosi, spesso non più di cinque minuti di seguito. Bisogna afferrarla a piene mani e apprezzarla.
Molto presto sorgeranno altre difficoltà e altri conflitti: uno dei bambini sarà scontento, Kirsten farà un commento spazientito sulla sua sbadataggine, gli torneranno in mente i problemi che sta affrontando al lavoro, avrà paura, ricomincerà a sentirsi annoiato, guasto, stanco.
Nessuno può prevedere il destino di quella foto: come la leggeranno in futuro, che cosa cercherà nei loro occhi chi la guarderà. Sarà l’ultima foto di loro quattro insieme, scattata poche ore prima dello schianto sulla strada del ritorno o un mese prima della scoperta che Kirsten ha un amante e ha deciso di andarsene di casa, o un anno prima che cominciassero i sintomi di Esther? Oppure se ne starà per decenni dentro una cornice impolverata su una mensola del salotto, aspettando di essere presa in mano da William quando tornerà per presentare ai genitori la fidanzata, conosciuta a un convegno a Boston?
La consapevolezza dell’incertezza gli fa desiderare di aggrapparsi alla luce con un fervore ancora più grande. Anche solo per un attimo, tutto ha un senso. Sa come amare Kirsten, come avere abbastanza fiducia in se stesso e come provare compassione per i suoi figli e sopportarli con pazienza. Ma è tutto disperatamente fragile. Sa benissimo di non avere il diritto di definirsi felice; è semplicemente un uomo qualunque che sta passando attraverso una breve fase di appagamento.
Ben poco può essere perfetto, ormai lo sa. Ha capito quanto coraggio ci vuole per vivere, anche una vita decisamente mediocre come la sua: per mandare avanti le cose, per fare in modo di continuare a essere una persona quasi sana di mente, capace di provvedere economicamente alla famiglia, alla sopravvivenza del suo matrimonio e alla realizzazione dei suoi figli. Questi progetti offrono opportunità di eroismo degne di un poema epico. È improbabile che venga chiamato alle armi per difendere il suo paese dai nemici, ma entro i suoi circoscritti domini serve comunque coraggio. Il coraggio di non lasciarsi sbaragliare dall’ansia, di non ferire gli altri per frustrazione, di non infuriarsi troppo con il mondo per le ingiustizie che sembra infliggere con assoluta noncuranza, per non impazzire del tutto e per riuscire a perseverare in qualche modo, più o meno adeguato, nelle difficoltà della vita coniugale. Questo è il vero coraggio, un eroismo che rientra in una categoria tutta sua. E per un breve attimo, sulle pendici di una montagna scozzese, sotto il sole di un tardo pomeriggio estivo – e anche dopo, di tanto in tanto – Rabih Khan sente che con Kirsten al suo fianco potrebbe essere abbastanza forte per affrontare tutto quello che la vita gli chiederà.