Il sacro inizio

Nei primi tempi del loro matrimonio e anche per molti anni a seguire, a Rabih e a sua moglie viene posta sempre la stessa domanda: «Come vi siete conosciuti?», di solito accompagnata da un’aria di trepidazione e da un giocoso entusiasmo di riflesso. Allora la coppia scambia uno sguardo (magari timido, se l’intera tavolata si è messa in ascolto) per stabilire a chi dei due tocchi raccontarlo. A seconda dell’uditorio, la butteranno sullo spiritoso o sul tenero. Riempiranno una sola riga o un capitolo intero.

L’inizio di un amore riceve un’attenzione così sproporzionata perché non è destinato a essere solo una fase tra le tante; per i romantici, è un concentrato di tutto ciò che c’è di significativo nell’amore in sé. Ecco perché il narratore delle storie d’amore, dopo che la coppia ha trionfato su una sfilza di difficoltà iniziali, è spesso costretto a consegnarla a un non meglio specificato futuro di felicità o a farla fuori. Quello che chiamiamo amore di solito non è che l’inizio dell’amore.

È curioso, osservano Rabih e sua moglie, che venga chiesto loro così di rado cosa sia successo dopo il primo incontro, come se la curiosità per la vera storia della loro relazione non fosse né lecita né utile. In pubblico non hanno mai affrontato la domanda che davvero li preoccupa: «Com’è essere sposati da qualche tempo?»

Le storie di relazioni rimaste salde per decenni senza calamità e senza gioie eclatanti rimangono – cosa affascinante e preoccupante – eccezioni tra quelle che osiamo raccontarci sul corso dell’amore.

È stato così, questo inizio a cui si dedica troppa attenzione: Rabih ha trentun anni e vive in una città che conosce e capisce poco. Prima abitava a Londra, ma di recente si è trasferito a Edimburgo. Lo studio di architettura presso cui lavorava ha dimezzato il personale per la perdita inaspettata di una commessa, e lui è stato costretto a gettare le reti più lontano di quanto avrebbe voluto, finendo per accettare un posto in uno studio scozzese di urbanistica, specializzato in piazze e svincoli stradali.

Da qualche anno è single, dopo il naufragio di una relazione con una grafica. Si è iscritto a una palestra e a un sito di appuntamenti. È stato all’inaugurazione di una galleria che espone manufatti celtici. Ha partecipato a un fiume di eventi vagamente legati al suo lavoro. Tutto invano. Gli è capitato di provare una sintonia intellettuale con una donna, ma senza attrazione fisica e viceversa. O peggio ancora: una scintilla di speranza e poi l’accenno a un compagno, di solito poco lontano e con un’aria da carceriere.

Eppure Rabih non si rassegna. È un romantico. E alla fine, dopo tante domeniche vuote, finalmente succede, quasi come gli è stato insegnato – soprattutto dall’arte – ad aspettarsi che accadesse.

La rotonda è sulla A720, in direzione sud dal centro di Edimburgo, e collega la strada principale a una via chiusa di villette affacciate su un campo da golf e uno stagno. È un incarico che Rabih ha accettato non tanto perché gli interessi, quanto per gli obblighi imposti dalla sua posizione di nuovo arrivato.

Dalla parte del cliente, in un primo tempo la supervisione era stata assegnata a un geometra dell’ufficio topografico municipale, che però, il giorno prima dell’inizio dei lavori, aveva subito un lutto ed era quindi stato sostituito da una collega più giovane.

Si stringono la mano sul cantiere, una mattina nuvolosa all’inizio di giugno, poco dopo le undici. Kirsten McLelland indossa un giubbino catarifrangente, l’elmetto e un paio di scarponi pesanti. Rabih Khan non riesce a sentire molto di quello che gli sta dicendo, non solo per il sussulto ripetitivo di un compressore idraulico lì vicino, ma anche perché, come imparerà presto, Kirsten parla spesso a bassa voce, la voce della nativa Inverness che ha l’abitudine di scemare prima di aver completato una frase, come se chi parla avesse improvvisamente scoperto un’obiezione a quello che sta dicendo o fosse passato ad altre priorità.

Nonostante l’abbigliamento (anzi, a dire il vero, in parte proprio per il suo abbigliamento), Rabih nota subito in Kirsten dei tratti fisici e psicologici a cui è sensibile. La osserva reagire, impassibile e divertita, all’atteggiamento di sufficienza dei dodici energumeni della squadra; osserva la diligenza con cui passa in rassegna i vari punti del programma, la sicurezza con cui trascura i dettami della moda e l’individualità suggerita dalla leggera irregolarità degli incisivi superiori.

Terminata la riunione con la squadra, cliente e fornitore vanno a sedersi su una panchina per esaminare il contratto. Ma nel giro di pochi minuti inizia a diluviare e, siccome nell’ufficio del cantiere non c’è abbastanza spazio per le scartoffie, Kirsten suggerisce di andare sulla via principale e cercare un caffè.

Mentre si avviano, sotto l’ombrello di lei, si mettono a parlare di escursionismo. Kirsten racconta a Rabih che lascia la città ogni volta che può. Non molto tempo prima, in effetti, è andata al Loch nan Carraigean, e una volta lì, dopo aver piantato la tenda in un bosco di pini lontano da tutto, ha provato uno straordinario senso di pace ed equilibrio per essersi allontanata dalla gente e da tutte le distrazioni e le frenesie della vita urbana. Sì, ci è andata da sola, risponde, e lui la immagina sotto la tenda, mentre si slaccia gli scarponi. Quando raggiungono la strada principale, non ci sono caffè in vista, così ripiegano sul Taj Mahal, un ristorante indiano cupo e deserto, dove ordinano tè e (su insistenza del proprietario) un piatto di poppadom. Rifocillati, affrontano i moduli, concludendo che la soluzione migliore sia far venire la betoniera solo la terza settimana e organizzare la consegna delle pietre per la pavimentazione la settimana dopo.

Rabih, pur cercando di essere discreto, esamina Kirsten con occhio clinico. Nota la spolverata di lentiggini sulle guance; un curioso misto di decisione e riservatezza nello sguardo; i folti capelli ramati lunghi fino alle spalle e portati da una parte; l’abitudine di cominciare le frasi con un brusco «C’è una cosa...»

Nel mezzo di quella conversazione pratica, qua e là riesce comunque a cogliere qualche sprazzo del suo lato più personale. Quando le chiede dei suoi genitori, Kirsten risponde, con una nota di imbarazzo nella voce, che è cresciuta a Inverness solo con sua madre, perché suo padre aveva perso interesse per la vita famigliare. «Non è un punto di partenza ideale per imparare ad avere fiducia nelle persone» gli dice con un sorriso caustico (lui nota che è l’incisivo superiore sinistro a essere un po’ storto). «Forse è per questo che la prospettiva del ‘vissero felici e contenti’ non mi ha mai attirato.»

Rabih non si lascia affatto scoraggiare da questa osservazione, anzi, ripensa al detto secondo cui i cinici sarebbero solo idealisti con standard insolitamente alti.

Attraverso le ampie vetrate del Taj Mahal vede le nuvole che si muovono rapide e, in lontananza, un sole esitante che getta i suoi raggi sulle scure cupole vulcaniche delle Pentland Hills.

Potrebbe limitarsi a pensare che Kirsten sia una persona simpatica con cui passare una mattina a risolvere esasperanti problemi di amministrazione municipale. Potrebbe astenersi dal giudicare le possibili profondità del suo carattere in base alle riflessioni che fa sulla vita di ufficio e la politica scozzese. Potrebbe accettare che sia improbabile riuscire a leggere la sua anima nel pallore della carnagione e nella curva del collo. Potrebbe accontentarsi di dire che sembra interessante e che gli serviranno altri venticinque anni per saperne di più.

Invece Rabih ha la certezza di aver scoperto una persona dotata di una straordinaria combinazione di qualità interiori ed esteriori: intelligenza e gentilezza, umorismo e bellezza, sincerità e coraggio; una persona di cui sentirebbe la mancanza se adesso uscisse dalla porta, nonostante due ore prima fosse una perfetta sconosciuta; una persona a cui vorrebbe accarezzare e stringere le dita, al momento impegnate a tracciare vaghe linee sulla tovaglia con uno stuzzicadenti; una persona con cui vorrebbe avere dei figli e passare il resto della propria vita.

Per il terrore di offenderla, incerto sui suoi gusti, consapevole del rischio di fraintendere i suoi segnali, le dimostra una sollecitudine eccessiva e un’attenzione meticolosa.

«Scusami, preferisci tenere tu l’ombrello?» le chiede, mentre tornano al cantiere.

«Figurati, non importa.»

«Mi fa piacere tenerlo, ma se tu...» insiste lui.

«Come preferisci, davvero.»

Si controlla con rigore. Aprirsi sarebbe piacevole, ma si sforza di rivelare solo pochi tratti del suo carattere. Mostrare il suo vero essere, in questa fase, non è prioritario.

Si incontrano di nuovo la settimana dopo. Mentre tornano al Taj Mahal per fare il punto sul budget e l’avanzamento dei lavori, Rabih le chiede se può darle una mano con la borsa dei documenti e lei, per tutta risposta, si mette a ridere e gli dice di non essere sessista. Non sembra il momento giusto per rivelarle che sarebbe ben felice di aiutarla a traslocare o perfino di assisterla durante un attacco di malaria. Ma il fatto che Kirsten non sembri aver bisogno di aiuto in alcun frangente serve solo ad amplificare l’entusiasmo di Rabih, perché la debolezza, alla fin fine, è una prospettiva affascinante soprattutto nei forti.

«Hanno lasciato a casa metà del mio reparto, quindi mi tocca lavorare per tre» spiega Kirsten, quando si sono seduti. «Ieri sera ho finito alle dieci, anche se devo dire che è soprattutto perché sono maniacale e accentratrice, come forse avrai già capito.»

Lui ha talmente paura di dire la cosa sbagliata che non riesce a trovare nulla di cui parlare, ma siccome il silenzio gli sembra un segno di ottusità, non vuole permettere che ci siano troppe pause. Finisce per propinarle una descrizione fin troppo lunga del modo in cui il peso dei ponti si distribuisce sui pilastri, seguita da un’analisi della velocità di frenata relativa degli pneumatici sulle superfici asciutte e bagnate. La sua goffaggine è quanto meno un segnale di sincerità: tendiamo a non essere molto ansiosi quando cerchiamo di sedurre una persona che non ci interessa più di tanto.

Avverte di continuo quanto sia inconsistente la sua pretesa di avere l’attenzione di Kirsten. L’impressione che sia libera e autonoma lo spaventa tanto quanto lo eccita. Si rende conto che non c’è alcuna buona ragione per cui lei dovrebbe iniziare a provare qualcosa per lui. Capisce benissimo che non ha il minimo diritto di chiederle la comprensione che le sue molte mancanze richiederebbero. Sul limitare della vita di Kirsten, è all’apogeo della modestia.

Poi arriva il momento della svolta, la sfida di sapere se i sentimenti sono ricambiati, argomento di una semplicità quasi infantile eppure oggetto di infiniti studi semiotici e di dettagliate congetture psicologiche. Lei gli ha fatto i complimenti per l’impermeabile grigio. Gli ha lasciato pagare il tè e i poppadom. L’ha incoraggiato quando ha accennato alla sua ambizione di tornare all’architettura. Tuttavia gli è sembrata a disagio, perfino un po’ irritata, nelle tre occasioni in cui Rabih ha cercato di portare la conversazione sulle sue storie passate. E non ha raccolto quando lui ha buttato lì la proposta di andare al cinema insieme.

Incertezze del genere servono solo a infiammare il desiderio. Rabih ha già capito che per lui le persone più interessanti non sono quelle che lo accettano subito (dubita della loro capacità di giudizio) e nemmeno quelle che non gli danno mai una possibilità (la loro indifferenza alla lunga gli suscita risentimento), ma piuttosto quelle che, per motivi insondabili – forse un coinvolgimento sentimentale con un rivale o un carattere cauto, un problema fisico o un’inibizione psicologica, un impegno religioso o una diversa visione politica – lo lasciano per un po’ sui carboni ardenti.

E la smania insoddisfatta è, a modo suo, una delizia.

Alla fine Rabih cerca il numero di Kirsten sui documenti del municipio e un sabato mattina le manda un sms dicendo che secondo lui più tardi uscirà il sole. «Anche secondo me» è la risposta praticamente istantanea. «Ti va di fare un giro al giardino botanico? Kx.»

Ed è così che, tre ore dopo, si ritrovano a osservare alcune delle specie di alberi e piante più insolite del mondo, al giardino botanico di Edimburgo. Vedono un’orchidea del Cile, restano colpiti dalla complessità di un rododendro e si soffermano tra un abete svizzero e un’immensa sequoia canadese, le cui fronde sono scosse da un venticello di mare.

Rabih ha esaurito le energie per formulare i commenti privi di senso che di solito precedono certi eventi. È quindi per disperata impazienza più che per arroganza o ostentata sicurezza che interrompe Kirsten a metà di una frase mentre sta leggendo una targa informativa – «Gli alberi alpini non vanno confusi con...» – e le prende il viso tra le mani premendo con delicatezza le labbra sulle sue, al che lei reagisce chiudendo gli occhi e cingendogli la schiena.

Su Inverleith Terrace il furgoncino di un gelataio emette una musichetta inquietante, sui rami di un albero trapiantato dalla Nuova Zelanda una taccola produce il suo verso stridente e nessuno si accorge di due persone, parzialmente nascoste dalla vegetazione non autoctona, che vivono uno dei momenti più teneri e significativi della loro vita.

Eppure bisogna insistere: nulla di tutto ciò ha ancora a che vedere con una storia d’amore con la A maiuscola. Le storie d’amore non cominciano quando abbiamo paura che l’altro non voglia più rivederci, ma quando decide che non ha niente in contrario a vederci tutto il tempo; non cominciano quando ha l’opportunità di darsela a gambe in qualunque momento, ma quando ha pronunciato un voto solenne promettendo di non lasciarci andare, e di non andarsene, per la vita.

La nostra idea dell’amore è stata dirottata e abbindolata dai primi, commoventi attimi. Abbiamo lasciato che le nostre storie d’amore finissero troppo presto. A quanto pare, sappiamo fin troppo di come comincia l’amore ma sciaguratamente poco di come potrebbe continuare.

Ai cancelli del giardino botanico, Kirsten dice a Rabih di chiamarla e ammette, con un sorriso in cui all’improvviso lui vede come doveva essere a dieci anni, di essere libera tutte le sere della settimana successiva.

Lungo il tragitto verso casa sua, a Quartermile, mentre si fa strada nella folla del sabato, Rabih è talmente elettrizzato che vorrebbe fermare degli estranei a caso per raccontargli quanto è fortunato. Senza sapere come, è riuscito in pieno a vincere le tre sfide centrali dell’idea romantica di amore: ha trovato la persona giusta, le ha aperto il suo cuore ed è stato accolto.

Eppure, ovviamente, è ancora al punto di partenza. Lui e Kirsten si sposeranno, soffriranno, si preoccuperanno spesso dei soldi, prima avranno una bambina e poi un bambino, uno di loro avrà una relazione extraconiugale, ci saranno periodi di noia, qualche volta vorranno ammazzarsi a vicenda e qualche altra vorranno suicidarsi. E questa sarà la loro vera storia d’amore.