Lezioni d’amore
Avendo sempre immaginato di avere prima o poi dei figli, dopo quattro anni di matrimonio decidono di smettere di prendere precauzioni. Dopo sette mesi, ricevono la notizia al lavabo del bagno, sotto forma di una tenue linea azzurra nella finestrella di uno stick di plastica. In effetti non sembra un mezzo adeguato ad annunciare l’arrivo di un nuovo membro della specie, un essere che potrebbe trovarsi ancora qui tra novantacinque anni e che nel prossimo futuro si riferirà a quelle due persone in mutande con un appellativo ancora incredibile: «I miei genitori».
Durante i lunghi mesi di quiete prima della tempesta, si domandano che cosa dovranno fare. Conoscendo bene le difficoltà della loro vita, vedono in questa situazione un’opportunità di fare tutto come si deve fin dall’inizio, a cominciare dai piccoli dettagli. Un supplemento domenicale raccomanda di mangiare patate con la buccia e uvette, aringhe e olio di noci, e Kirsten adotta con zelo il nuovo regime alimentare, come strumento per arginare almeno in parte il terrore che prova per la mancanza di controllo su quello che sta succedendo dentro di lei. Quando è in riunione o sull’autobus, a una festa o a fare il bucato, sa che a qualche millimetro dal suo ombelico ci sono valvole che si formano e neuroni che si saldano, il DNA sta decidendo come sarà il mento, come saranno gli occhi e quali pezzetti del loro patrimonio ereditario andranno a formare i filamenti della personalità. Non c’è da meravigliarsi che vada a letto presto. Non è mai stata tanto preoccupata in vita sua.
Spesso Rabih le mette una mano sulla pancia, protettivo. Quello che sta succedendo lì dentro è più grande di loro. Insieme sanno fare un budget, prevedere il traffico, progettare planimetrie; quello che c’è lì dentro sa costruirsi un cranio e una pompa che funzionerà per quasi un secolo senza perdere nemmeno un battito.
Nelle ultime settimane, invidiano all’alieno i suoi ultimi momenti di totale unità e comprensione. Lo immaginano nella sua vita futura, magari in una stanza d’albergo sconosciuta, dopo un lungo volo: cercherà di non sentire il ronzio del condizionatore e di vincere il disorientamento del jet lag raggomitolandosi nell’originaria posizione fetale, alla ricerca della pace primordiale del liquido amniotico perduto.
Quando finalmente emerge, dopo sette lunghe ore, la chiamano Esther, come una delle bisnonne materne di Kirsten, e Katrin, come la madre di Rabih. Non riescono a smettere di guardarla. Sembra perfetta sotto ogni aspetto, la più bella creatura che abbiano mai visto, e li guarda con occhi enormi, infinitamente saggi, come se avessero passato la vita precedente ad assorbire tutta la saggezza del mondo. Più avanti, nelle notti insonni, la fronte ampia, le dita modellate ad arte e i piedini morbidi come palpebre svolgeranno un ruolo niente affatto secondario, contribuendo a calmare i nervi dei genitori, spinti sull’orlo della pazzia dagli strilli della neonata.
Cominciano subito ad affliggersi per averla messa al mondo su questo pianeta. Le pareti dell’ospedale sono di un verdolino nauseante; un’infermiera la tiene in braccio malamente mentre un dottore la punzecchia con una spatola; le sue urla si sentono fin negli altri reparti; ha troppo caldo o troppo freddo, a momenti alterni. Insomma, nella stanchezza e nel caos delle sue prime ore di vita sembra che non le resti altro da fare che piangere senza sosta. I suoi strilli trafiggono il cuore dei due disperati che se ne prendono cura e che non trovano un dizionario con cui tradurre i suoi furiosi ordini. Mani enormi le accarezzano la testa e sente voci che le mormorano in continuazione qualcosa, ma non riesce a capire cosa dicano. Le lampade sul soffitto emettono una luce bianca, troppo forte per le sue palpebre sottilissime. Attaccarsi al capezzolo è come cercare di aggrapparsi a una boa in un oceano in burrasca. È quanto meno disorientata. Dopo una lotta titanica, alla fine si addormenta fuori dalla sua vecchia casa, straziata dal dolore di esserne uscita senza portarsi le chiavi, ma un po’ consolata dall’oscillazione di un respiro familiare.
I suoi genitori non hanno mai provato un affetto così intenso e definitivo. Il suo arrivo trasforma quello che sanno dell’amore. Riconoscono che fino a quel momento non si erano resi conto di cosa ci fosse in gioco.
Maturità vuol dire riconoscere che l’amore romantico potrebbe essere solo un aspetto limitato e forse anche gretto della vita emotiva, un aspetto concentrato principalmente sulla ricerca dell’amore e non sul dono; sull’essere amati e non sull’amare.
I bambini possono rivelarsi maestri inaspettati per adulti che hanno molti più anni di loro. Sono in grado di fornire – con una dipendenza, un egoismo e una vulnerabilità totali – un insegnamento avanzato su un genere di amore del tutto diverso, un amore in cui non si pretende gelosamente di essere ricambiati né ci si pente di aver ricambiato; in cui il vero obiettivo è trascendere se stessi per il bene dell’altro.
La mattina dopo il parto, la nuova famiglia viene dimessa senza suggerimenti né consigli, se non un volantino sulle colichette e uno sulle vaccinazioni. Un qualunque elettrodomestico è dotato di istruzioni più dettagliate di un neonato, perché la società tramanda la commovente credenza che una generazione, in fondo, non possa insegnare molto alla successiva sull’argomento della vita.
I bambini ci insegnano che l’amore, nella sua forma più pura, è una sorta di servizio. Si tratta di una parola che ha assunto connotazioni negative. Nella nostra cultura individualista, basata sull’appagamento personale, difficilmente essere a completa disposizione di qualcuno si può equiparare alla soddisfazione. Siamo abituati ad amare gli altri in cambio di quello che possono fare per noi, per la loro capacità di intrattenerci, divertirci e placarci. Ma i neonati non sanno fare niente. Come spesso concludono i bimbi più grandi, con enorme sconcerto, non «servono» a niente; ma è proprio a questo che servono. Ci insegnano a donare senza aspettarci nulla in cambio, semplicemente perché dipendono dall’aiuto degli altri e noi siamo in grado di offrirglielo. Siamo indotti a un amore basato non sull’ammirazione per la forza ma sulla compassione per la debolezza, per una vulnerabilità comune a tutti i membri della specie, che anche noi abbiamo avuto e torneremo ad avere. Siccome si tende sempre a dare fin troppa importanza all’autonomia e all’indipendenza, queste creature indifese ci ricordano che, sotto sotto, nessuno si è fatto da solo; siamo tutti profondamente debitori a qualcuno. Dobbiamo renderci conto che la vita dipende – letteralmente – dalla capacità di amare.
Impariamo anche che essere al servizio di qualcuno non è umiliante, anzi, perché ci libera dalla logorante responsabilità di provvedere sempre al nostro essere contorto e insaziabile. Impariamo il sollievo e il privilegio di vivere per qualcosa di più importante di noi.
Le puliscono il sederino, più e più volte, e intanto si domandano come mai non abbiano capito prima che in realtà è questo che gli umani devono fare l’uno per l’altro. Le scaldano il biberon in piena notte, sono sopraffatti dal sollievo se dorme per più di un’ora di seguito, si preoccupano per la tempistica dei suoi ruttini, ci litigano. Lei ben presto si dimenticherà di tutto questo e loro non potranno e non vorranno farglielo capire. Riceveranno la sua gratitudine solo in maniera indiretta, attraverso la consapevolezza che anche lei, un giorno, avrà un livello di benessere interiore sufficiente per voler fare tutto questo per qualcun altro.
La sua assoluta incompetenza è formidabile. Deve imparare tutto: come stringere le dita attorno a un bicchiere, come ingoiare un pezzo di banana, come passare la mano sul tappeto per afferrare una chiave. Niente le viene facile. La sua mattinata di lavoro prevede: costruire una torre di mattoncini e abbatterla, pestare una forchetta sul tavolo, buttare sassi in una pozzanghera, tirare giù da una mensola un libro sull’architettura dei templi indù, sentire di cosa sanno le dita della mamma. Tutto è incredibile. Una volta.
Né Kirsten né Rabih hanno mai provato un simile misto di amore e noia. Le loro amicizie si fondano su una affinità di temperamento e di interessi. Invece Esther è al contempo la persona più noiosa che conoscano e quella che amano di più. Di rado l’amore e la compatibilità psicologica sono stati tanto distanti, eppure non ha alcuna importanza. Forse si esagera a sottolineare quante cose si hanno in comune con gli altri: Rabih e Kirsten hanno capito quanto poco serva in realtà per stabilire un legame con un altro essere umano. Secondo le regole dell’amore, chiunque abbia urgente bisogno di noi merita la nostra amicizia.
La letteratura non si è soffermata molto nelle stanze da gioco dei bambini e nelle nursery, forse non a torto. Nei vecchi romanzi, ci pensano le balie a portarsi via i neonati, in modo che l’azione possa riprendere. Nel salotto di Newbattle Terrace, invece, per mesi sembra non accadere nulla. Le ore sono vuote, ma in verità contengono tutto. Esther dimenticherà i dettagli, non appena si risveglierà dalla lunga notte della prima infanzia per diventare una coscienza coerente. Ma la loro durevole eredità sarà la sensazione di fiducia e di trovarsi a proprio agio nel mondo. I fondamenti della sua infanzia non saranno custoditi tanto nel ricordo di eventi, quanto nella memoria sensoriale: qualcuno che la stringe al petto, una lama di luce che entra a certe ore del giorno, gli odori, i biscotti, la consistenza della moquette, il suono della voce dei genitori, lontana, incomprensibile e calmante, durante i lunghi viaggi notturni in auto e la sensazione di fondo di avere il diritto di esistere e un motivo per continuare a sperare.
Il bambino insegna all’adulto anche un’altra cosa sull’amore: che l’amore autentico dovrebbe comportare il tentativo continuo di interpretare con la massima generosità possibile quello che sta accadendo sotto la superficie di un comportamento difficile e spiacevole.
Il genitore deve indovinare che cosa c’è all’origine del pianto, del calcio, del dolore o della rabbia. E a caratterizzare questo progetto di interpretazione – a renderlo tanto diverso da quello che succede in una tipica relazione tra adulti – è la benevolenza. I genitori partono dal presupposto che i loro figli, per quanto agitati, per quanto doloranti, siano fondamentalmente buoni. Appena il pungolo che li tormenta sarà identificato, torneranno all’innocenza originaria. Se un bambino piange, non lo accusiamo di essere cattivo o di commiserarsi; piuttosto, ci chiediamo che cosa l’abbia fatto piangere. Se cerca di mordere, sappiamo che sarà impaurito o momentaneamente contrariato. Siamo pronti a comprendere gli effetti insidiosi che la fame, un apparato digerente sottosopra o la mancanza di sonno possono avere sull’umore.
Quanto sapremmo essere gentili se riuscissimo a importare anche solo un pochino di questo istinto nelle relazioni tra adulti, se anche in quelle potessimo guardare oltre i malumori e la malignità per riconoscere la paura, la confusione e la stanchezza che quasi sempre li provocano. Vorrebbe dire guardare la specie umana con amore.
Il primo Natale di Esther lo passano con la nonna. La bambina piange per quasi tutto il viaggio in treno fino a Inverness. Quando arrivano a casa della nonna, mamma e papà sono pallidi e provati. C’è qualcosa che le fa male ma Esther non ha modo di capire cosa né dove sia. Chi si prende cura di lei pensa che abbia caldo. Le tolgono la copertina, poi gliela rimettono. Si fanno venire altre idee: magari ha sete. O magari è il sole o il rumore del televisore o il sapone che hanno usato o un’allergia al lenzuolino. È significativo che non pensino affatto che possa trattarsi di semplice irritabilità o scontrosità. Il bambino, nel profondo, è sempre e solo buono.
È chi se ne prende cura che non sa arrivare alla causa, pur avendo tentato di tutto: il latte, un massaggio alla schiena, il borotalco, le carezze, un colletto che pizzica di meno; stare seduti, stare sdraiati, fare il bagnetto e salire e scendere le scale. Alla fine la poverina vomita un allarmante pasticcio di banana e riso integrale sul vestitino nuovo di lino, il suo primo regalo di Natale, su cui la nonna ha ricamato il suo nome, e si addormenta di botto. Le capiterà anche in futuro di essere del tutto fraintesa, ma chi le sta intorno non sarà altrettanto infinitamente preoccupato.
Come genitori, impariamo un’altra cosa sull’amore: quanto potere abbiamo sulle persone che dipendono da noi e, di conseguenza, quanto è grande la nostra responsabilità di muoverci con cautela attorno a chi è stato consegnato alla nostra mercé. Scopriamo di avere un inaspettato potere di ferire senza volerlo, di spaventare con la nostra eccentricità e imprevedibilità, le nostre ansie e i nostri momenti di irritazione. Dobbiamo allenarci a essere come gli altri hanno bisogno che siamo, e non come ci ordinano i nostri riflessi istintivi. Il barbaro deve imporsi di tenere la coppa di cristallo con delicatezza, in un pugno robusto che altrimenti la frantumerebbe come una foglia secca autunnale.
A Rabih piace giocare a fare gli animali per Esther, quando sta con lei al mattino presto o nel weekend, mentre Kirsten recupera qualche ora di sonno. Gli ci vuole un po’ per capire che riesce davvero a sembrare spaventoso. Non si è mai reso conto di essere un gigante, con strani occhi minacciosi e una voce dal tono aggressivo. Il finto leone, a quattro zampe sulla moquette, scopre con orrore che la sua compagna di giochi chiama aiuto strillando e si rifiuta di lasciarsi tranquillizzare, nonostante la rassicuri che il vecchio leone cattivo non c’è più e papà è tornato. Lei non ne vuole sapere di lui; deve intervenire la mamma, più delicata e più attenta (è saltata dal letto per far fronte all’emergenza e di certo non ringrazierà il marito).
Rabih capisce che deve prestare attenzione a come le presenta i vari aspetti del mondo. I fantasmi devono starne fuori: basta la parola per suscitare terrore. E non si può nemmeno scherzare coi draghi, soprattutto quando è già buio. Il modo in cui le spiega cos’è la polizia, le differenze tra i partiti politici e i rapporti tra cristiani e musulmani non è irrilevante... Si rende conto che non avrà mai a che fare con un’altra persona altrettanto indifesa – è stato testimone della sua eroica lotta per rotolarsi sulla pancia da supina e per scrivere la prima parola – e che sarà suo dovere imprescindibile non ricordarle mai le sue debolezze e non usarle mai contro di lei.
Sebbene cinico di natura, quando le presenta il mondo adotta il registro della speranza. Quindi i politici fanno del loro meglio; gli scienziati stanno lavorando per curare le malattie; e questo è un ottimo momento per spegnere la radio. Quando passano in macchina nei quartieri degradati, assume l’atteggiamento apologetico di un funzionario che accompagna un dignitario straniero in visita. I graffiti verranno ripuliti prestissimo, quei personaggi con il cappuccio tirato sulla testa gridano di felicità, gli alberi sono belli in questo periodo dell’anno... In compagnia della piccola passeggera, si vergogna immancabilmente degli altri adulti.
Perfino il suo modo di essere è stato addolcito e semplificato. A casa è papà, un uomo senza preoccupazioni lavorative e finanziarie, amante del gelato, un mattacchione che adora far volare la sua bambina e mettersela sulle spalle. Vuole troppo bene a Esther per osare imporle la realtà della sua ansia. Amarla vuol dire cercare di trovare il coraggio di non spaventarla.
Durante i primi anni di vita di Esther, quindi, il mondo assume una sorta di stabilità, tanto che in seguito lei penserà che l’abbia persa, mentre in realtà esisteva solo grazie alla sistematica e giudiziosa opera di revisione condotta dai suoi genitori. La solidità e il senso di longevità sono un’illusione credibile solo per chi non è ancora in grado di capire quanto casuale possa essere la vita, costantemente soggetta a cambiamenti e devastazioni. Per Esther, ad esempio, la casa di Newbattle Terrace è semplicemente e naturalmente «casa», con tutte le eterne implicazioni della parola, e non un’abitazione come tutte le altre scelta in base a considerazioni accessorie. Il grado di contingenza repressa raggiunge l’apice con l’esistenza stessa di Esther. Se la vita di Kirsten e Rabih fosse andata in maniera anche solo lievemente diversa, la costellazione di lineamenti fisici e tratti caratteriali che ormai sembrano fusi per sempre e in modo necessario nel nome della figlia avrebbero potuto appartenere ad altre entità, diverse, persone ipotetiche congelate in eterno sotto forma di possibilità non concretizzate, un potenziale genetico sparso e mai utilizzato perché uno dei due aveva disdetto una cena, era già fidanzato o era troppo timido per chiedere un numero di telefono.
La moquette della cameretta di Esther, una distesa di lanugine beige su cui passa ore a ritagliare pezzetti di carta a forma di animale e da cui guarda il cielo attraverso la finestra nei pomeriggi di sole, le darà sempre la sensazione immemore della superficie su cui ha imparato a gattonare. Ne ricorderà l’odore e la trama per il resto dei suoi giorni. Per i suoi genitori, al contrario, era tutt’altro che predestinata a diventare un caposaldo inespugnabile dell’identità domestica: era stata ordinata in tutta fretta poche settimane prima della nascita di Esther, sulla via principale (vicino alla fermata dell’autobus), in un negozio poco affidabile, che infatti aveva chiuso di lì a poco. L’aspetto rassicurante di essere nuovi sulla Terra deriva in parte dall’incapacità di capire la natura evanescente delle cose.
L’amore per un figlio crea un precedente impegnativo. Per sua natura, l’amore dei genitori lavora per celare lo sforzo che c’è voluto per generarlo. Protegge chi lo riceve dalla complessità e dalla tristezza del donatore, e dalla consapevolezza di tutti gli interessi, gli amici e le preoccupazioni che il genitore ha sacrificato in nome dell’amore. Con infinita generosità, mette il piccolo al centro del cosmo, almeno per un periodo, per dargli la forza di affrontare il giorno in cui dovrà, con sua dolorosa sorpresa, comprendere le vere dimensioni e l’inquietante solitudine del mondo reale.
In una serata tipo, quando finalmente hanno sistemato Esther, al calduccio nel sacco-nanna con il telino ben stirato accanto al mento, e la trasmittente posizionata in cameretta tace, Rabih e Kirsten, i due genitori dalla pazienza e dalla bontà infinite, si ritirano nelle loro stanze, prendono il telecomando o i giornali della domenica non ancora letti e ricadono rapidi in uno schema di comportamento che sconvolgerebbe la figlioletta, se miracolosamente acquisisse la capacità di osservare e comprendere le loro interazioni. Perché, al posto del delicato e indulgente linguaggio che hanno usato con lei per tante ore, spesso ci sono solo amarezza, rivalse e lamentele. Lo sforzo di amare li ha sfiniti. Non resta nulla da dare all’altro. Il bambino stanco che c’è dentro di loro è stato trascurato troppo a lungo ed è arrabbiato, distrutto.
Non c’è da stupirsi se, da adulti, quando cominciamo a intrecciare delle relazioni, andiamo alla ricerca di qualcuno che sia in grado di darci l’amore totalizzante e disinteressato che abbiamo conosciuto da bambini. Né ci sarebbe da stupirsi se provassimo frustrazione e grande amarezza per l’apparente difficoltà di trovarlo; perché le persone di rado capiscono di cosa abbiamo bisogno o ci tengono ad aiutarci davvero. Ci arrabbiamo e diamo la colpa agli altri per la loro incapacità di intuire le nostre necessità, magari passiamo da una storia d’amore all’altra, accusiamo un intero sesso di superficialità, fino al giorno in cui la nostra donchisciottesca ricerca ha fine e raggiungiamo una parvenza di maturo distacco, capendo che l’unico modo per liberarci dalla brama potrebbe essere smettere di aspirare a un amore perfetto e di sottolineare tutte le occasioni in cui non lo è; cominciando, invece, a dare amore con un abbandono incurante, senza gelosie, senza calcoli sulle possibilità di essere ricambiati.