Katherine

Sono quasi in procinto di mettermi a letto dopo una giornata da dimenticare. A parte l’averla trascorsa interamente pensando a Kyle e a come ci siamo lasciati la sera della fiera, alla tavola calda è stato l’inferno. La fiera ha attirato più turisti del previsto quest’anno e sembra che tutti, ma proprio tutti, abbiano deciso di cenare alla locanda di Tracy. Non ho avuto un attimo di respiro. Da una parte questo mi ha aiutato a gestire l’ansia che la discussione con Kyle mi ha provocato, ma dall’altra mi ha distrutto fisicamente. Spengo le luci l’esatto istante in cui sento suonare il campanello. Mi sollevo di scatto. Mi affaccio alla finestra chiedendomi chi possa essere a quest’ora. Penso subito a Kyle, ma invece vedo suo nonno che alza lo sguardo verso di me. In pochi attimi sono da lui. L’anziano si stringe nel cappotto di panno. Ha lo sguardo preoccupato e sbircia all’interno della casa non appena apro.

«Mi scuso per l’ora, Katherine. Mi chiedevo se… per caso… Kyle fosse qui». Il fatto che Tom supponga che Kyle possa essere qui all’una e tre quarti del mattino mi fa capire che l’uomo sa della nostra frequentazione. Evito di arrossire solo perché, in questo momento, mi sto chiedendo dove possa essere suo nipote, visto che non lo vedo dalla sera della fiera, due giorni prima.

«Non è qui, Tom». Mi assale l’ansia. Temo che Kyle si possa essere cacciato in qualche guaio.

«Non ho un cellulare, ragazza mia, e il telefono è fuori uso per un guasto alla rete telefonica, da ieri sera. Kyle è uscito verso le sette con quel suo amico, Steve. So che di solito fa tardi… Forse non dovrei preoccuparmi, ma tu sai che Kyle…».

«Non dica altro. Entri in casa. Fuori si gela». Mi precipito in camera da letto. Pochi istanti dopo sono al cellulare in attesa che Kyle risponda. Il cuore mi batte frenetico nel petto. Sento le punte delle dita pungere, come se il sangue avesse cominciato a scorrere così veloce che la pelle non riesce più a contenerlo.

Sento un lieve respiro. Una specie di gemito, un’imprecazione. Infine, la sua voce da lontano.

«Aspetta, mi è cascato il telefono». Una pausa in cui sento la testa girare. «Eccomi… Katherine, sei tu.

Tesoro…». La sua voce strascicata non lascia adito a dubbi. Kyle è ubriaco.

«Dove diavolo sei?», ringhio al telefono. «Hai idea di che ore siano? Tuo nonno è preoccupato». E

anch’io, deficiente.

«Ho fatto un giro con Steve, niente di che. Una serata fra amici, anzi, ex amici. L’ho preso a pugni.

Quello stronzo ti ha chiamata puttana».

Sento le viscere contorcersi. Lo stomaco si ribella. «Dove sei, Kyle?», insisto.

«Non ne ho idea. Sono a piedi. Steve è andato via. Sono a… direi un’ora di strada da Pretty Creek.

Cammino da mezz’ora e in tutta sincerità, non sento più i piedi. Mi si è congelato il cervello».

«Dammi il nome di una città, una via, un locale». Kyle mi dà le informazioni che gli ho chiesto, fra un’imprecazione e l’altra.

«Tieni acceso il cellulare. Il GPS aiuterà. Vengo a prenderti».

«Resta dove sei. La strada è ghiacciata. Il tuo rottame non è in grado di fare tanta strada».

«Mi farò accompagnare».

«Da chi? Katherine? Da chi? Da…». Ho già chiuso la comunicazione. Mi vesto in fretta, raggiungo il

nonno di Kyle e gli spiego la situazione. Gli chiedo di restare in caso mia madre o Lucas si dovessero svegliare. Intanto, mentre esco e mi chiudo in macchina, al riparo dal freddo, digito il numero dell’unica

persona che non abbia una moglie incinta e che so si butterà giù dal letto in men che non si dica per aiutarmi in questa dannata situazione.

Su una cosa Kyle ha ragione: la mia auto è un rottame e non può percorrere tanta strada, ghiacciata fra l’altro, senza abbandonarmi sul più bello.

Il SUV nero affianca la mia auto neanche dieci minuti dopo. Jordan si sporge dal finestrino e mi fa cenno di salire. Lo raggiungo in fretta, stretta nel mio giaccone. Non appena entro in auto le sue prime parole sono: «Hai bisogno di altri motivi per convincerti che quell’idiota non fa per te?».

Preferisco non rispondergli. Mi limito ad annuire e ad allacciarmi la cintura di sicurezza, mentre lui parte a velocità sostenuta.

Osservo Jordan alla guida. La sua sicurezza. Quell’alone di forza che emana senza neanche rendersene conto. Una mano stretta attorno al volante, l’altra sulla leva del cambio. Il profilo dritto e il velo di barba che ricopre la mascella dura. Potrebbe essere mio. Mi basterebbe una sola parola e potrebbe essere mio, ma il mio stupido cuore ha scelto di voler battere per un imbecille ubriacone che ha deciso di mandare a puttane la sua intera vita.

Jordan non dice una parola fino a che, dopo circa tre quarti d’ora, notiamo una figura traballante che cammina sul marciapiede, con le braccia strette intorno al corpo.

Ho un sussulto. Kyle.

Quando lo raggiungiamo noto che ha il volto arrossato per il freddo. Trema. Ma sorride. Sorride come non dovrebbe. Sorride come uno che ha i sensi piegati, spenti, come uno che è completamente sbronzo. In una mano stringe una fiaschetta.

Il mio primo istinto è quello di raggiungerlo e prenderlo a pugni. Ma vincerei facile. Jordan scende dall’auto e si avvicina a Kyle. Lo afferra per un braccio. Io dall’altro.

«Era lui, allora? Ti sei fatta accompagnare da Captain America? Suppongo che dovrei essergli grato», dice, guardandomi negli occhi. I suoi sono annacquati e il suo fiato puzza terribilmente.

«Sta’ zitto», dice Jordan strattonandolo.

«È la mia ragazza, hai capito?», continua Kyle, rendendosi sempre più ridicolo e facendomi salire la bile fino alle orecchie.

«Certo. Sei l’ubriacone più fortunato della Terra».

Kyle non risponde. Inciampa. Jordan lo sorregge, ma sono certa che se non ci fossi io lo avrebbe già sbattuto sull’asfalto ghiacciato.

Ripartiamo poco dopo, con Kyle disteso sui sedili posteriori dell’auto. Ha gli occhi chiusi. Non capisco se sta dormendo oppure finge di farlo. Gli lancio delle occhiate di tanto in tanto. Jordan, invece, le lancia a me. Sembra chiedermi perché diavolo mi preoccupo per Kyle. Non posso farne a meno, sebbene sappia che sto solo aggiungendo altro veleno alla mia vita.

D’un tratto sento tossire. Un grugnito viene fuori dalla gola di Kyle, che si trasforma ben presto in un conato rumoroso.

«Merda!», esclama Jordan. «Non in macchina». Ferma l’auto con uno strappo violento. Scende, apre la portiera posteriore e tira fuori Kyle un secondo prima che cominci a vomitare. Lo tiene per un braccio, chino sulla strada. Volta il capo dall’altra parte per evitare di vedere il contenuto dello stomaco di Kyle.

La sua espressione è disgustata.

Mi sento morire.

Li raggiungo quando ormai Kyle ha svuotato lo stomaco. Solleva il capo e mi guarda con il volto paonazzo. Gli occhi iniettati di sangue e le labbra umide.

Mi viene da piangere a vederlo ridotto in questo stato. Davvero ho pensato di poterlo salvare? «Come ti senti?», gli chiedo e mai domanda mi è sembrata più stupida di questa.

Lui sorride e si asciuga la bocca con una manica della giacca. «Portatemi a casa, per favore». Non

aggiunge altro mentre risale in macchina.

Suo nonno lo abbraccia quando lo vede sano e salvo. Ha gli occhi lucidi, il povero Tom. Sono certa

che Kyle si renda conto benissimo di quanto faccia soffrire l’anziano uomo, lo capisco dal fatto che scuote il capo senza sapere cosa dire.

È un naufrago. E non tenta nemmeno di salvarsi. Resta in balia delle sue paure e del passato, scagliato contro scogli che lui stesso ha eretto.

«Posso parlare da solo con te?», mi chiede di punto in bianco. Lo guardiamo straniti. Il primo ad aprire bocca è suo nonno.

«Ti aspetto a casa, ragazzo». L’uomo ci lascia.

Poco dopo è il turno di Jordan. «Sono qui fuori, se hai bisogno di me».

«Non serve, Jordan», gli assicuro. «Torna pure a casa e grazie di tutto», lo congedo.

«Sono qui fuori», ripete lui e non posso fare altro che annuire. Non ho voglia di discutere. Voglio solo sentire cos’ha da dirmi Kyle.

Rimaniamo in salotto. Io, lui, e una montagna di imbarazzo. Kyle si appoggia al muro, accanto alla credenza. Piega la testa all’indietro, infine torna a guardarmi. «Avanti, Kathy, versami addosso tutto il tuo veleno: me lo merito».

Vorrei farlo, vorrei davvero, ma non ci riesco. «Perché continui a punirti, Kyle? Perché ti comporti in questo modo?», gli chiedo, invece.

La sua bocca si allarga in un sorriso triste. «Perché non riesco a fare altrimenti. Non posso».

«Come mi dovrei regolare, adesso?». Allargo le braccia, sconfitta. «Io credevo di poterti aiutare, di poterti s…».

«Salvare?»

«Sì, Kyle. Stupidamente lo credevo. Pensavo che… non lo so cosa pensavo. Forse che ti sarei bastata io». Mi passo le mani sul viso. Sono stanca. «Mi rendo conto che non è così».

«Non è così facile, Katherine».

«Ti svelo un segreto, Kyle: la vita non è facile per nessuno. Ti lascia ferite addosso mentre la vivi. È

crudele con tutti. Non sei il solo a soffrire su questo dannatissimo pianeta. Dovrei starmene buona buona in un angolo a vederti buttare via la tua? A vederti andare sempre più a fondo e a vedertelo fare alla velocità della luce? Stai cercando di ucciderti?». Il suo silenzio è più significativo di mille parole. «Va bene, Kyle. Non starò a guardare. Se vuoi dannarti, fallo pure, ma non sarò spettatrice del tuo fallimento.

Né io né Lucas. Lui più di ogni altro ha bisogno di stabilità».

«Mi stai dicendo addio?». La sua voce ha qualcosa che non riesco a definire. Sembra pregarmi di non farlo e allo stesso tempo sembra supplicare che sia davvero così.

«Me lo stai dicendo tu, Kyle». So benissimo dove ci porterà questa conversazione e sento già il cuore incrinarsi. Domani sarò ancora qui a raccoglierne i pezzi.

«Katherine, ti prego…», supplica ancora. Ma non so se ascoltarlo. «Katherine, io…». Le sue mani tremano mentre le tende verso le mie. Nonostante tutto le afferro. Lui si stringe a me, affonda il viso nel mio collo. Gli passo le mani fra i capelli e con un sospiro dico: «Dov’è finito il mio Kyle, il ragazzo a cui ho dato il mio primo bacio sulla ruota panoramica?»

«Quel ragazzo è morto», sentenzia lui con voce affranta. «È rimasta la sua parte peggiore». Solleva il volto sul mio, ma mi afferra per la vita e mi tiene incollata a lui. «Ho paura. Paura che tu mi dica di andare via. Paura che mi chieda di restare. In ogni caso sarebbe l’inferno per te. Non voglio trascinarti nella merda con me, Kathy. Tu meriti di meglio, ma una parte di me continua a urlarmi nella testa che non posso lasciarti andare».

«Non ti capisco, Kyle, davvero. Mi sforzo ma non ti capisco». Lui sospira e chiude gli occhi. Riprende a parlare mentre le sue mani mi accarezzano la schiena. Avverto dei brividi, ma non sono provocati dal piacere, bensì dalla paura, la stessa che prova lui.

«Prima di te vivevo perché respirare è un atto involontario. Dopo la morte di Austin è stato così. Mi sono sempre detto che quella era la mia punizione, una sorta di soggiorno permanente in una specie di purgatorio. Non ero felice e questo bastava a darmi l’illusione che stessi pagando per il mio egoismo.

Dopo di te… be’ dopo di te ho cominciato a respirare perché volevo farlo. Ogni volta che ti incrociavo si accendeva in me una scintilla di vita. E… Dio… ho cominciato a essere felice. Così, dal niente. Mi hai sempre fatto questo effetto, anche da ragazzina. Insieme alla gioia cresceva la disperazione. Si può essere in paradiso e all’inferno nello stesso momento? Sì. Succede quando hai il cuore a pezzi. Austin è morto perché io ho sempre pensato più a me stesso che a chiunque altro e a me sembra di vivere una vita che dovrebbe essere la sua. Non ne ho nessun diritto».

Lo guardo esterrefatta. Gli prendo il volto tra le mani e lo scuoto «Che stai dicendo, Kyle? Che diavolo stai dicendo?». Le sue mani si posano sulle mie. Sono gelate.

«Sto dicendo che ti voglio più di qualunque altra cosa al mondo, ma che volerti significa vivere biasimandomi per il resto della mia insignificante vita».

«Che a questo punto sarà breve, molto breve», gli dico, allontanandomi. «Stai blaterando un mare di cazzate. Tu vivi già nel biasimo più totale. Non ti sei mai perdonato e… va bene Kyle, deciderò io se per te fa lo stesso, okay?». Non ho scelta, se voglio davvero salvarlo. Lo vedo impallidire, indietreggiare e appoggiarsi di nuovo al muro, come se non fosse capace di reggersi in piedi. «Katherine…». Le sue mani hanno ripreso a tremare. Anche le mie. E il cuore trema più di un terremoto.