Katherine

Sulla via verso casa di Nath sento squillare il cellulare. Accosto per rispondere. È Victoria che mi avverte del fatto che Lucas era molto stanco e si è addormentato. Ha giocato per tutto il giorno con i nipoti di Nath. Sono rimasti a dormire lì, perciò mi chiede di lasciare anche Lucas da loro.

“Fa molto freddo, ha ricominciato a nevicare, sarebbe crudele portare Lucas fuori”, penso, quindi acconsento a lasciarlo lì. Domani il mio turno inizia alle nove. Ho tutto il tempo di andare a riprenderlo e portarlo a scuola.

Oggi abbiamo fatto un’eccezione e gli ho permesso di rimanere a casa. Succede ogni volta che ho il

doppio turno e Stephanie, la babysitter, è troppo impegnata con lo studio per occuparsi di Lucas.

Interrompo la comunicazione dopo aver ringraziato Victoria e faccio inversione per tornare a casa.

Sono quasi le dieci. L’infermiera Abbot mi chiama per dirmi che mia madre dorme dopo aver preso le

sue medicine, e che la lascia per tornare a casa a preparare la cena ai suoi figli. Le dico che va benissimo. Mia madre dorme comunque tutto il giorno. La presenza della signora Abbot serve di più a tranquillizzare me. Mi costa un occhio della testa pagare infermiera e babysitter, ma non posso permettermi di restare a casa, nella mia situazione.

Appoggio il capo sul poggiatesta e sospiro. A volte ho l’impressione che tutto mi sfugga di mano. Il più delle volte ho paura di non riuscire a mantenere il controllo sulla faticosa vita che mi è toccata.

Tutto è cominciato con la morte di mio padre, quando avevo solo diciassette anni. Mia madre non ha

retto il colpo ed è iniziato il suo declino. Ogni giorno la tristezza si è impadronita sempre di più della sua anima, fino al punto da renderla inerme, apatica, una sorta di vegetale che ha bisogno anche di essere imboccato per mangiare. Le medicine servono a molto poco.

Pensavo di aver trovato quel poco di serenità che, credo, spetti a tutti, quando ho incontrato il padre di Lucas. Justin era un militare in carriera, figlio di un generale. Ci siamo piaciuti fin da subito, ma abbiamo cominciato a uscire insieme circa un mese dopo.

Non è andata bene. Dopo circa tre mesi Justin ha iniziato a essere insofferente. Mia madre lo metteva a disagio con il suo strano modo di fare. La sua depressione era peggio di una malattia fisica, così, ogni volta che aveva una licenza, Justin si inventava le scuse più improbabili per non venire: la morte improvvisa di una zia, suo padre ammalato, il matrimonio di un lontano cugino.

Capii che era finita quando era troppo tardi. Aspettavo già Lucas. Lo dissi subito a Justin che mi rispose senza mezzi termini di non volerne sapere niente. Aveva la sua vita, la sua carriera, non aveva intenzione di occuparsi di un figlio, in nessuna maniera.

Gli risposi semplicemente che, forse, era meglio così. Mio figlio meritava un padre che lo volesse.

Non ebbi più notizie di lui. Solo una volta mi chiamò per sapere se il bambino era nato. Mi fece le congratulazioni, come si fa con una lontana parente, come se lui non fosse l’uomo che aveva generato quel figlio.

Ammetto di aver desiderato che tornasse. Che apparisse alla porta e mi dicesse che avrebbe pensato a tutto lui, che si sarebbe preso cura di me e di nostro figlio. Ma sono passati più di tre anni e non è mai accaduto. E, dopotutto, un uomo così a che mi sarebbe servito?

Ho rinunciato da un pezzo ai miei sogni romantici. È quello che tocca fare se sei una madre sola.

In casa regnano il buio e il silenzio quando rientro. Alcuni giocattoli sono sparsi sul pavimento in

salotto. Mi finiscono fra i piedi e rischio di cadere. Sul tavolo in cucina ci sono ancora i piatti della colazione.

La signora Abbot è stata assunta per fare l’infermiera, non posso certo pretendere che faccia anche le pulizie.

Raggiungo la camera di mia madre, al piano di sopra. È rannicchiata sotto le coperte. Sembra una bambina. Mi avvicino. Mi siedo accanto a lei, sul letto. Le accarezzo i capelli biondi, leggermente incanutiti alla radice. Ha il volto sereno quando dorme; quando è sveglia, invece, sembra che i suoi occhi riescano a percepire solo dolore. Vorrei vedere in lei la splendida donna che era quando c’era mio padre, ma credo che servirebbe un miracolo.

Si amavano così tanto e l’assenza di quell’amore ha reso Jade Hutchinson un’ombra. Il suo corpo esiste, ma la sua anima è andata via da tempo.

Le do un bacio su una tempia. «Ti voglio bene, mamma», le sussurro. La copro meglio, mi assicuro che il riscaldamento sia accesso ma non sia troppo alto, e scendo a fare le pulizie. Porto subito fuori la spazzatura. Nevica più forte. Il furgone di Tom parcheggiato di fronte al negozio è pieno di neve.

Il pensiero corre a suo nipote Kyle. Non avrei mai pensato di rivederlo. Eravamo due ragazzini l’ultima volta. Quel ragazzo è stato il mio primo amore, il mio primo sogno a occhi aperti, il mio primo bacio alla fiera invernale, quando suo fratello maggiore, che sapeva della mia cotta, organizzò una piccola scommessa che mi avrebbe permesso di baciarlo.

Austin mi raccontò tutto prima della fiera. Mi disse che aveva escogitato un modo per farmi baciare da Kyle, visto che si vedeva lontano un miglio che non desideravo altro, dato che gli guardavo la bocca come si guarda un gelato.

Lo trovai così tenero. Mi dissi che, forse, mi ero presa una cotta per il fratello sbagliato. Kyle era spaccone, maleducato, mi chiamava Pelleossa perché ero troppo magra, e non credevo di piacergli, anche se mi guardava in modo curioso a volte. Austin, invece, era convinto del contrario e pensava che Kyle avesse solo bisogno di una spintarella.

Eravamo dei bambini. Sorrido a quei dolci ricordi. Una volta la mia vita era davvero spensierata.

Trovarmi di nuovo di fronte Kyle mi ha riportato indietro e, per un attimo, mi sono permessa di provare le stesse sensazioni. Il batticuore, le mani sudate, la voglia di fare colpo, ma sono cambiata, non sono più quella ragazzina. E nemmeno Kyle lo è.

Al contrario di lui, però, io l’ho riconosciuto subito, nonostante la sua corporatura sia cambiata. È più muscoloso, i tratti del suo volto sono più marcati, la mascella più definita, le mani sono quelle di un uomo, attraversate da vene più visibili rispetto a quando era un ragazzino con le dita esili.

Gli occhi, però, sono gli stessi. Del colore del mare. Ricordo che, sotto le coperte, durante i miei sogni a occhi aperti, pensavo che i nostri tre figli sarebbero venuti fuori tutti con quello sguardo.

Mi stringo nel cappotto, sollevo il volto verso la finestra di quella che è sempre stata la sua camera da letto, al primo piano, proprio di fronte alla mia, e scuoto il capo con un mezzo sorriso.

Il tempo dei sogni è terminato e, da quello che mi è parso di capire, credo sia finito anche per Kyle.

Riesco a immaginare quello che ha passato quando ha perso il fratello maggiore. Erano molto legati e Kyle era praticamente l’ombra di Austin.

Rientro in casa, finisco di fare le pulizie e a mezzanotte e un quarto finalmente riesco a fare un bagno e a infilarmi a letto.

Mi manca non poter dare il bacio della buonanotte a mio figlio, ma domani lo rivedrò. Domani… sì…

domani.

6

Quattordici anni prima

Le vacanze a Pretty Creek non erano mai state un granché per i fratelli Hawkins, ma Austin, il maggiore, era sempre riuscito a trovare dei lati positivi nonostante pensasse che la cittadina non offrisse tutti i divertimenti della capitale.

Amava stare in compagnia dei nonni quando i suoi genitori trascorrevano la maggior parte del tempo a casa di vecchi amici del luogo, mentre suo fratello Kyle si lamentava del caldo, del fatto che non ci fossero abbastanza ragazzi della sua età con cui trascorrere il tempo e, quelli che c’erano o erano troppo stupidi, o troppo antiquati. Pochi di loro, infatti, conoscevano le ultime uscite in fatto di videogames. E

alcuni non sapevano nemmeno cosa fosse la X-Box.

Suo nonno gli insegnava a suonare la chitarra nei pigri pomeriggi estivi. Austin imparava in fretta, ma non era mai stato bravo come Tom Hawkins. Diceva di avere i polpastrelli delle dita troppo delicati e premere sulle corde gli faceva un male del diavolo. Il nonno replicava che le sue dita avevano bisogno di tempo per abituarsi e presto si sarebbero formati i calli che gli avrebbero impedito di sentire dolore.

Austin annuì, certo che il nonno avesse ragione. Kyle invece, scosse il capo mentre sorseggiava una Coca-Cola, disteso sul divano del salotto. Una mano ficcata in un sacchetto di patatine, l’altra a sfogliare una rivista di software, la sua passione.

Austin non ne capiva un accidenti di tecnologia e non gli interessava nemmeno capirne qualcosa. Lui avrebbe seguito le orme del padre, avvocato di successo. A Montpelier tutti conoscevano George Hawkins. Era socio dello studio più famoso della città e tutti, ma proprio tutti, volevano essere difesi da lui in tribunale.

Un giorno avrebbe indossato la toga. Questo lo spronava a studiare di più, a dare sempre il massimo in tutto, al contrario del fratello che eccelleva solo nelle materie matematiche. Tutto il resto, diceva, poteva anche non studiarlo, tanto a cosa gli sarebbe servito conoscere le opere di Byron nella vita? Era solo un pervertito innamorato della sorella. Il fatto che, però, conoscesse questo particolare della storia di Lord Byron implicava che lo avesse anche studiato. Kyle rispondeva che era un particolare troppo aberrante per essere dimenticato.

Dopo l’ennesimo giro di do fallito in maniera misera, Austin decise di averne abbastanza della chitarra. Voleva uscire, respirare un po’ d’aria, magari fare un giro in centro, prendere un libro e una cioccolata alla cioccolateria/libreria di Gwendolyn Tantlebaum.

Salutò il nonno e diede uno scappellotto a Kyle quando passò accanto al divano. Il fratello minore gli tirò dietro una manciata di patatine, guadagnandosi i rimproveri del vecchio Hawkins.

Il sole era ancora alto quando Austin uscì. Le giornate in estate erano molto più lunghe e lui decise di sfruttare ogni ora di luce a sua disposizione. Afferrò la vecchia bicicletta del nonno e si diresse verso la piazza. Incontrò alcuni amici con cui si fermò a chiacchierare. Prese un gelato, lo divorò, prima di salutarli e dirigersi, come aveva stabilito, verso la cioccolateria.

Non era mai affollata a quell’ora del pomeriggio. Troppo caldo e nessuno mangiava la cioccolata in

estate, per questo la signora Tantlebaum la abbinava a del buonissimo gelato. Cioccolatini ripieni di gelato alla vaniglia, alla fragola, alla crema. Una vera meraviglia. La sera, quando il sole lasciava il posto alle stelle, il negozio si animava improvvisamente, riempendosi di clienti.

Austin entrò quasi in punta di piedi, temendo di disturbare la signora Tantlebaum che, forse,

sonnecchiava dietro il bancone. Nell’aria c’era odore di frutta, vaniglia e un lieve sentore di cannella. Un arco in pietra divideva la bottega dei dolci dalla libreria. La saletta adiacente era arredata in maniera semplice, con delle librerie a parete colme di libri di ogni genere. Dei tavolini rotondi ne ospitavano altri. A uno di essi era seduta Katherine Hutchinson. La vicina di casa del nonno. Austin e Katherine si conoscevano fin da bambini. Non che all’età di quattordici e sedici anni potessero considerarsi adulti, ma di certo erano cresciuti. Lei gli sorrise sollevando lo sguardo dal suo libro, prima di tornare a leggere e a sbocconcellare la sua fetta di torta al cioccolato.

Austin le si avvicinò. Gli era sempre piaciuta quella ragazza, ma lei sembrava non avere occhi che per quel debosciato di suo fratello. Kyle, invece, non se la filava di striscio. O meglio, fingeva di non filarsela, ma in realtà sospettava che gli piacesse. La chiamava Katherine Pelleossa Hutchinson a causa della sua magrezza.

Si sedette accanto a lei senza aspettare di essere invitato. Sentì odore di iris. Sapeva che era il suo profumo preferito. Lo sapeva perché una volta glielo aveva detto proprio lei, al supermercato, al reparto cosmetici, mentre comprava ben tre deodoranti con la stessa fragranza.

«Ciao», le disse sbirciando il titolo del suo libro. «Cosa leggi?».

Katherine sollevò di nuovo lo sguardo. Gli sorrise un po’ imbarazzata. «Un romanzo d’amore», gli rispose chiudendo il libro e appoggiandolo sul tavolo in modo che lui non vedesse la copertina, ma Austin l’aveva già vista. Ritraeva una coppia. Lui era a torso nudo, aveva i capelli lunghi mossi dal vento, teneva la donna stretta per la vita. Lei aveva i capelli biondi, esageratamente lunghi e ondulati, indossava un vestito rosso, largo, di quelli che potevano indossare solo qualche secolo fa. Le spalline erano abbassate. Il volto della donna era inclinato all’indietro, rivolto verso quello dell’uomo e lo guardava con aria assorta.

«Scommetto che pensi a Kyle quando leggi quei romanzi». Si pentì subito delle sue parole. Non voleva essere offensivo né tantomeno provocarle ulteriore imbarazzo. Sottolineava solo un dato di fatto.

Lungi dall’essere offesa, Katherine rispose: «Tuo fratello ne deve fare di strada prima di arrivare a somigliare a uno di questi uomini».

Austin non poté fare a meno di sorridere pensando a quanto avesse ragione la ragazza.

«A proposito… dov’è?», chiese Katherine guardandosi intorno. Forse sperava di vederlo, oppure esattamente il contrario. Austin non avrebbe saputo dirlo. Sapeva solo che Katherine le faceva una grande tenerezza.

«Il prode Artù sta soffocando in un sacchetto di patatine», le disse appoggiando i gomiti sul tavolino con tutta l’intenzione di restare a farle compagnia.

Katherine scosse la testa. Mangiò ancora un po’ di torta e spostò il piatto verso di lui, facendogli cenno di assaggiarla. Lui prese in prestito la sua forchetta e ne assaggiò un boccone. «Buona», disse.

Katherine annuì. Chiacchierarono per tutto il pomeriggio, soprattutto di suo fratello Kyle e di quanto era stupido a lasciarsi scappare una ragazza come Katherine. Austin scommise che prima o poi lo avrebbe capito, ne era sicuro.

Katherine lo era un po’ meno, ma sognare non costava nulla.

Tornarono a casa insieme. Il sole era tramontato da un pezzo e le prime stelle si affacciavano a illuminare la calda notte di Pretty Creek. Trovarono Kyle seduto sul bordo del marciapiede mentre smanettava con un videogame. Il ragazzo li guardò come se volesse rimproverarli, poi sorrise a entrambi, o meglio, ghignò. «Katherine Pelleossa Hutchinson», esordì con l’aria di chi la sapeva lunga. «Ti va male con me e ci provi con mio fratello?».

Katherine se l’aspettava una battuta simile, ma come al solito non ci fece caso. Finse indifferenza, anche se non poté impedirsi di arrossire. Si chiese perché le piaceva tanto quell’idiota. Non seppe darsi una risposta. Come se potesse dare un nome alle assurde sensazioni che Kyle le provocava ogni volta che

questo posava gli occhi su di lei. Le piaceva e basta. Come respirava e basta, dormiva e basta, come il cuore batteva e basta. Era un muscolo indipendente dalla sua volontà.

In paese tutti i loro amici comuni sapevano della sua cotta per uno dei nipoti di Tom Hawkins. Alcune amiche approvavano, altre dicevano che avrebbe dovuto innamorarsi di Austin, perché era più carino, più gentile, più grande. Lei rispondeva che non poteva mica scegliere di chi innamorarsi, ed era capitato che succedesse con Kyle. Forse perché una volta, un’unica indimenticabile volta, lui l’aveva aiutata a rialzarsi dalla strada quando era caduta dalla sua bici, l’aveva sorretta per la vita e l’aveva accompagnata fino a casa. Aveva anche aspettato che sua madre le medicasse il ginocchio e il gomito sbucciati e solo allora se n’era andato, rischiando di scivolare sulle scale ghiacciate del portico. Era dicembre e faceva freddo, ma lei, in quel momento, non avvertì altro che calore. Da allora Kyle Hawkins aveva cominciato a occupare tutti i suoi sogni e nonostante il più delle volte dimostrasse solo disinteresse o la prendesse in giro, lei continuava a ricordare il suo sguardo preoccupato chino su di lei, in ginocchio sulla strada, quella mano sulla vita, come se la stesse portando a un ballo, come se fosse un principe guerriero e lei la stupida principessa da salvare.

«Ho ragione, Pelleossa

«Sei il solito idiota», lo rimproverò il fratello maggiore. «Se sapessi di piacere a una come Katherine, non starei lì a perdere tempo con un videogame».

Kyle sembrò accusare il colpo perché mise da parte il gioco e si alzò in piedi. Fece spallucce per chiarire che non gli importava niente o, almeno, fingere che fosse così. La verità era che pendeva dalle labbra del fratello più grande e tutto quello che diceva Austin veniva registrato, elaborato e soppesato con grande attenzione.

«Me ne torno dentro». Kyle fece un cenno di saluto, poi disse: «Ciao Pelleossa, ti auguro la buonanotte. Sognami». Le strizzò l’occhio e le fece un sorriso in grado di sciogliere i ghiacci polari.

Ecco: l’incomprensibile sensazione alla bocca dello stomaco, quella voglia di prenderlo a schiaffi e allo stesso tempo di baciarlo fino a farlo quasi soffocare.

Kyle era come un treno ad alta velocità e lei se ne stava lì, sul tetto, a prendersi le frustate del vento sul volto. Ma assaporava anche l’inebriante brivido che riusciva a darle il pericolo di cadere giù.

«Ehi? Katherine, ci sei? Terra chiama Katherine, pronto Katherine?». La ragazza si riscosse dai suoi pensieri assurdi quando sentì una leggera gomitata nel fianco. Era Austin.

«Sei cotta da far schifo». Lui sorrise e lei si lasciò sfuggire una risatina mescolata a un sospiro e a un uffa finale.

Lasciò i fratelli Hawkins per quella sera; li avrebbe rivisti il giorno dopo. Ma quando tornò a casa e salì in camera sua, scostò subito le tende dalla finestra. Guardò verso quella di fronte, oltre la strada. La camera era illuminata e come avrebbe fatto una falena, il suo sguardo fu attirato in modo irrimediabile da quella luce. Attraverso le tende trasparenti intravide Kyle che si aggirava per la stanza. Apriva l’armadio. Si sfilava la maglietta e la gettava da qualche parte. Infine lo vide avvicinarsi alla finestra, aprire la tenda per far entrare più aria e scorgerla. La beccò che lo spiava.

Katherine si nascose all’istante. Sarebbe potuta morire per la vergogna, ma non successe niente di così grave. Si lasciò scivolare lungo la parete, raccolse le gambe fra le braccia, la testa tra le ginocchia e cominciò a ridere sommessamente.

Osò spiare di nuovo oltre il davanzale, ma lui non c’era più. Ne fu quasi delusa.

Chiuse le tende e si distese sul letto. Abbracciò il cuscino e si perse nei suoi sogni, fino a quando non fu ora di cena. Suo padre era tornato da poco dal lavoro e ora stava aiutando sua madre ad apparecchiare la tavola. I suoi genitori ridevano fra loro, si punzecchiavano, ogni tanto si scambiavano qualche bacio e lei tornò a fantasticare di lei e Kyle, in quella stessa cucina fra qualche anno, a far le stesse identiche cose.

Chissà cosa le avrebbe riservato il destino.

7