Katherine

Nath Owens pensa sempre a fare le cose per bene.

Sono appena le sette e ha già spalato un mucchio di neve dal vialetto. Mi fa un cenno di saluto quando parcheggio la mia auto. Lo scoppiettio della marmitta che, chissà per quale miracolo, resta attaccata alla mia monovolume usata, acquistata per poche centinaia di dollari giusto due anni prima, emette un rumore assordante tanto che, Lucas, adagiato nel suo seggiolino auto, si lamenta con un gridolino.

«Perdonami, tesoro. Lo so che dovrei cambiarlo questo rottame».

Lucas annuisce con espressione grave. Tre anni e nove mesi e ha imparato già tanto, più di quanto sarebbe necessario per un bambino della sua età.

È mio figlio: una condizione che lo costringe ad avere a che fare con una realtà piuttosto difficile.

Scendo dall’auto. Aiuto Lucas a smontare dal seggiolino. Mi piego di fronte a lui. Gli allaccio per bene il cappotto e gli premo il cappellino di lana sulla testa. Lui mi sorride e si slancia a darmi un bacio.

Lo fa spesso. Sembra quasi che sappia quanto ne ho bisogno.

Gli sorrido e lo abbraccio, godendo della sensazione di assoluta felicità che un gesto così breve riesce a darmi. A volte penso che senza di lui non ce l’avrei fatta a sopportare la mia vita. Ma lui c’è e io la sopporto.

Nath mi raggiunge, avvolto nella sua giacca pesante. Le mani coperte dai guanti. Mi sorride con fare gioviale. Ha i capelli più in disordine del solito e il consueto sguardo da conquistatore, ma è da un pezzo che lo riserva solo a sua moglie Victoria.

«Buongiorno, Nath». Non arrossisco più davanti a lui, da parecchio ormai. Sapevo che la mia era una cotta a senso unico fin dall’inizio. È giusto così: Nath è fatto per Victoria Stevenson, per nessun’altra.

«Buongiorno, Katherine. Victoria ti aspetta dentro con il caffè e con un bel pezzo di torta di mele per te, campione», dice Nath con un leggero pizzico su una guancia di Lucas.

«Ce l’hai le gommose alla fragola?», chiede mio figlio con aria speranzosa.

«Certo. Quante ne vuoi», risponde Nath.

«E quelle all’arancia?», chiede ancora Lucas afferrando la mano di Nath che, intanto, ci accompagna all’interno della casa, dove un dolce tepore e un delizioso profumo di caffè aleggiano nell’aria.

«Anche», conferma Nath.

«E quelle al limone?», insiste mio figlio.

Prima che Nath risponda, gli faccio cenno di darci un taglio. Capirà molto presto che non è saggio far mangiare troppi dolci a un bambino.

Attraversato il salotto, raggiungiamo la cucina, dove Victoria è seduta davanti al PC. Sta scrivendo un nuovo romanzo. In una mano ha un bicchiere colmo di latte. Nath scuote il capo.

«Non fare quella faccia», gli dice Victoria. «Il latte di mucca fa bene al bambino», aggiunge con una carezza sul pancione. «E poi… ho sposato te, non la tua fede vegana».

Lui mugugna qualcosa. «E io ho sposato una strega».

Victoria sorride mentre Nath mischia al suo caffè del latte di mandorle. «Ogni tanto ho bisogno di cibo vero», commenta lei.

«Quello che mangio io è cibo vero», replica lui, ostinato.

«Punti di vista», risponde Victoria con l’ennesimo sorriso. Quando l’uomo si dilegua e Lucas è

distratto dai giochi dei figli della sorella di Nath, Victoria mi chiede: «Come sta tua madre?». Sorride mentre lo fa, sorridono tutti quando me lo chiedono, come se farlo nascondesse in qualche modo la verità.

«Come al solito. A volte sembra stare meglio, altre volte…».

«Capisco», mi interrompe Victoria. «Vuoi ancora del caffè?».

Allunga la mano verso la caffettiera, ma la blocco con un cenno di diniego. «Grazie, ma ora devo scappare, sono in ritardo e oggi tocca a me aprire il locale. Non solo, mi tocca anche il doppio turno, anzi, grazie di tenermi Lucas per tutta la giornata».

«Non ringraziarmi, mi fa molto piacere. Devo impratichirmi. Fra poco mi toccherà fare la mamma a tempo pieno».

Quando mi accompagna alla porta, la ringrazio di nuovo. Non posso farne a meno. So che se non ci fossero loro ad aiutarmi con Lucas, sarei persa. «Sei davvero un angelo, Victoria».

«È solo un travestimento il suo. Il sorriso e gli occhi dolci ingannano», commenta Nath raggiungendoci.

Posa un braccio sulle spalle di sua moglie e le bacia una tempia. «In realtà questa donna è una megera».

«Lo hai già detto», lo rimprovera Victoria dandogli un colpetto sull’addome.

Sorrido, mi sporgo oltre la porta e chiamo mio figlio. «Ehi polpetta, viene a salutare la mamma».

Lucas, occupato ad alzare una torre con delle costruzioni di legno, interrompe il suo lavoro per raggiungermi. «Non sono una polpetta. Sono Captain America!». Fa una curiosa mossa di arti marziali, poi mi abbraccia. Mi bacia sulle labbra stringendosi a me, mettendoci tutta la forza che ha.

«Verrò a prenderti stasera. Comportati bene con lo zio Nath e la zia Victoria, okay?». Lucas annuisce con energia. È così buffo il mio piccolo meraviglioso uomo.

Una volta in auto, mi volto a guardarli. Sono ancora sulla porta, in attesa che io me ne vada. Mi ritrovo a essere gelosa del quadretto che formano e mi chiedo se un giorno, forse molto lontano, anch’io potrò vivere qualcosa del genere. Probabilmente sono solo sogni. L’esperienza mi ha insegnato che una madre single non è l’ideale di donna per un uomo.

Guido piano. Stanotte ha nevicato molto e la temperatura molto bassa ha ghiacciato le strade.

Ripercorro la strada che porta a casa mentre mi dirigo al locale di Tracy O’Donnel. Le tende della camera di mia madre sono ancora chiuse. È evidente che è ancora a letto, forse sveglia, di sicuro persa in chissà quali pensieri e tormenti.

Sono tentata di fermarmi, ma all’ultimo minuto ci ripenso. Il vecchio Tom ha appena aperto il negozio di fiori. Lo saluto con un cenno della testa. I colori delle sue vetrine, sempre adatte alle varie ricorrenze o alla stagione, mi rincuorano e mi risollevano il morale ogni mattina, quando mi affaccio alla finestra della mia camera da letto, e lui, che alla sua età sembra ancora così forte e instancabile, mi sostiene con l’idea che la vita, comunque, va avanti.

Tom Hawkins si calca il cappello di lana sulla testa e mi sorride. Controlla l’ora, infine carica sul furgone una cassetta piena di stelle di Natale. Mi lascio dietro questa rassicurante immagine e raggiungo il locale. Contrariamente a quanto pensavo, trovo il St Patrick’s già aperto. È ancora deserto a quest’ora del mattino, ma fra poco si popolerà di operai, mercanti e di quasi tutti gli abitanti di Pretty Creek. Tracy, la proprietaria, mi aspetta sul retro, nelle cucine. È piuttosto avanti con l’età, e ha l’aria sempre più stanca. Prepara l’impasto per i pancake, in modo che sia pronto per chi li ordinerà.

«Buongiorno, Tracy».

«Buongiorno a te, cara. Sei in anticipo».

«Dovevo aprire il locale stamattina, ricordi?», le rammento.

Tracy annuisce. «Lo so, ma Jeff stamattina era di umore nero per via del maltempo. È convinto che questo ci costerà il viaggio a New York. Sai, non vede l’ora di vedere nostro figlio e i nostri nipoti».

«Ha ragione. Sarei preoccupata anch’io».

«Per questo ho deciso di lasciarlo a lamentarsi da solo», mi spiega Tracy mentre, con un cucchiaio di legno, mischia velocemente l’impasto.

Nascondo un sorriso mentre mi infilo il grembiule per aiutarla. Accendo la radio perché la musica ci faccia un po’ di compagnia. Vecchi classici natalizi ravvivano l’atmosfera e rendono meno faticoso il lavoro.

Due ore dopo il locale è pieno. La musica si trasforma in un sottofondo poco udibile, sostituito dal vociare chiassoso degli astanti. Diventa ancora più vivace in serata, quando a frequentare il pub sono solo uomini. Gli operai del mattino tornano più stanchi, magari arrabbiati, con le loro lamentele. I contadini portano i loro discorsi sulle colture, sul tempo inclemente e su quante probabilità ci sono di avere un buon raccolto per l’estate. Gli studenti minorenni provano a chiedermi della birra, ma fino a che ci sarò io dietro il bancone di questo pub gli andrà sempre male.

Sono stanca, ma sono appena le sette: prima delle nove non potrò andarmene. Mi metto l’animo in pace e faccio quello che devo. Lavoro, senza remore, senza lamentarmi più. Non è che farlo sia mai servito a molto.

Mezz’ora dopo, Jordan Peterson, lo scapolo d’oro di Pretty Creek e probabilmente dell’intero Vermont, si avvicina al bancone. Tento di ignorarlo, fingendo di sistemare con estremo interesse delle ciambelle su un’alzatina. Ma lui non ignora me.

«Buongiorno Katherine. Mi porti del caffè? Nero e forte, per favore».

«Certo», annuisco e gli servo il caffè.

«Come stai?», mi chiede mentre mi osserva. Pare quasi che voglia sondarmi l’anima. Barbara, una delle commesse del supermercato, gli passa accanto e gli lancia uno sguardo sognante. È l’effetto Jordan Peterson. Bello, ricco e vuole me. Ma io non voglio lui. Sono un’idiota, vero? Non lo so, penso ancora che l’amore venga prima di tutto il resto. E io non sono innamorata di Jordan, nonostante il suo innegabile fascino. A dirla tutta, non è che sia perfetto, tutt’altro. A volte raggiunge picchi di arroganza notevoli. La sua condizione glielo permette.

«Sto bene, Jordan, grazie. Tua madre?»

«Bene anche lei». Jordan mi sorride e fa per aprire di nuovo bocca. So che vorrebbe chiedermi di uscire, di nuovo. Per evitare l’ennesimo rifiuto, accampo una scusa e mi dileguo in cucina. Ci resto fino a che non va via. È un uomo che lavora molto per tenere alto lo standard dell’impero che ha ereditato dal nonno. Non può permettersi troppe distrazioni.

Una volta al sicuro, torno dietro al bancone e proseguo nel mio lavoro, pensando, come ogni giorno, che non vedo l’ora che questa giornata finisca per tornarmene a casa, da mio figlio.

3