17.
Serve di stato
e spose di Cristo

Le credenze che hanno orientato la storia dell’Occidente e che ne hanno determinato l’identità hanno riguardato lo sviluppo della libertà della società civile e dell’individuo nella sua coscienza e nelle sue scelte, l’uguaglianza, la distinzione tra pubblico e privato e il secolarismo che si sono sviluppati a partire dal Cristianesimo antico e medievale. Ma il culto per l’antichità del Rinascimento e l’anticlericalismo del ’700 e dell’800 hanno ridotto la distanza tra il mondo moderno e il mondo antico ma hanno allargato quella tra mondo moderno e mondo medievale. Il secolarismo ha finito per essere identificato con la non-credenza, l’indifferenza, il materialismo, l’economicismo, l’utilitarismo, l’assenza di morale, il permissivismo e l’individualismo privo di reciprocità. Così il secolarismo liberale è stato inteso soltanto in termini antireligiosi, ma negli Stati Uniti esso era stato identificato, al contrario, con le intuizioni morali che il Cristianesimo aveva generato, grazie all’assenza di una chiesa monolitica e di un’aristocrazia a essa legata. In particolare, il mondo antico è stato inteso come secolare perché vi mancava una chiesa teocratica, dogmatica, monolitica, coercitiva e il suo corteggio di preti1.

Ma il culto degli antenati da parte del pater familias, la città-stato come un’associazione di gruppi di famiglie, il ritualismo, le ineguaglianze basilari di status, le credenze in un eroe fondatore e nei culti civici hanno fatto del mondo antico un insieme di cose pubbliche che al tempo stesso erano chiese, una all’interno dell’altra. Il primato dell’individuo, grazie al quale hanno spiccato coscienza e volontà, è emerso per la prima volta e a livello diffuso con il Cristianesimo, quando si è passati dall’ineguaglianza naturale dell’antichità, basata su ruoli sociali distinti e gerarchizzati, all’uguaglianza morale, basata sulle convinzioni e sulle intenzioni umane più che sul conformarsi a regole prestabilite. Per Buddha l’individuo era niente e l’intera creazione era una unica vita, per cui «il risvegliato» non può essere considerato un salvatore di individui e quindi un Gesù del VI secolo a.C.2

Ciò serve a spiegare quanto sia difficile capire la civiltà politeista romana se non si è conosciuto l’unico grande politeismo sopravvissuto, ancora vivo e vegeto e addirittura adatto alla democrazia e al progresso mercantile e tecnologico quale è l’Induismo. Nel gennaio del 2015 ho assistito alla cerimonia serale sul Gange a Benares (Varanasi). La scalinata centrale che scende al vasto fiume è l’unica a essere ancora intensamente frequentata. Come le altre, essa ha alle spalle la intricatissima città che lungo il Gange è bordata dalle residenze dei Maharaja. Dall’altra parte del fiume è un paesaggio del nulla che evoca l’oltretomba, suscitato dalle pire accese. Al fondo della scalinata centrale erano disposte cinque pedane piene di sacri arredi. Sulla pedana al centro figurava una piccola dea Ganga, personificazione del fiume, traslata dal tempietto che si trova a lato della scalinata (nella lingua del luogo il Gange è femminile). Sulla pedana centrale si ergeva il bramino principale, un giovanotto dai capelli lunghi e neri, affiancato da altri quattro fratelli di casta. È questo discendere sacerdotale di padre in figlio che ha consentito in India la trasmissione di una tradizione plurimillenaria fino a noi, anche quando non si conosceva la scrittura oppure quando non la si usava per registrare miti e riti. Ad esempio, il canone buddistico è stato redatto per la prima volta a Ceylon (Sri Lanka) verso l’80 a.C., quattro secoli dopo la morte di Buddha (d’altra parte i libri non erano inclusi nella lista dei beni che i fratelli seguaci potevano possedere). Bramanesimo, Buddismo e Induismo hanno conosciuto un sistema di letteratura mnemonica che assicurava la trasmissione dei testi orali grazie alla successione regolare e familiare di maestri e discepoli. D’altra parte e similmente, Roma è stata fondata 550 anni prima di Fabio Pittore, il primo storico romano.

Scandito da una musica e dal canto di un bramino trasmessi da altoparlanti, il rito veniva svolto identico dagli officianti, vestiti di porpora e oro, ma solo il bramino al centro aveva davanti la dea, che ricopriva di petali di fiori ed essenze. Il tutto consisteva nel ripetere diverse offerte di acqua, di aria e di fuoco, grazie a conchiglie, ventagli di pavone e incensieri/braceri, con movimenti del corpo, delle braccia e delle mani assai sofisticati, simili a quelli degli attori e dei danzatori previsti in altre cerimonie religiose. Non è importante che i riti vengano compresi dal popolo, che il linguaggio delle mani venga inteso da tutti e che il sanscrito venga capito dai fedeli. Conta l’esattezza del rito, fatto per essere inteso principalmente dagli dèi: la Ganga in primo luogo e poi anche l’immane pantheon richiamato, rivolgendo le offerte al fiume e agli altri tre orientamenti. La cerimonia si ripete ogni sera al calar del sole, salvo nei giorni nefasti, come quelli segnati da eclissi. È una manifestazione ripetitiva e corale, è una esibizione maestosa di devozione fatta dalla comunità tutta e agita dai sacerdoti ereditari, volta a ingraziarsi gli dèi, come le fastose processioni ingraziavano un tempo gli imperatori dell’India Moghul e poi la potenza coloniale della Gran Bretagna. D’interiorità religiosa nulla vi era in quella cerimonia, tutta esteriore. Infatti il mondo interiore non ha bisogno di immagini, gesti, apparati e riti, essenziali invece in un mondo in cui tutti gli aspetti dell’esistenza sono in primo luogo comuni e legati agli dèi.

Capiamo allora il fascino e anche il senso di estraneità che le vestali esercitano oggi su di noi. La loro sottrazione alla famiglia e a se stesse e il loro esibito privilegio sono per noi difficilmente apprezzabili, a meno di non indianizzarci un poco. Esse rivelano una città che è politicamente libera ma abitata da persone non libere al modo nostro, perché è molto diverso se sei cittadino o no, se sei uomo o donna, se sei pater familias o no, oppure se sei bambino, liberto o schiavo. Infatti una libertà individuale entro una sfera privata, protetta dalle interferenze della politica e garantita da specifici diritti, non è mai esistita nel mondo antico e ciò apre un abisso tra la modernità e il resto dell’umanità.

All’origine prima della modernità nostra stanno i Padri della Chiesa latina, che tra la fine del II e gli inizi del V secolo – tra Tertulliano e Agostino – hanno guardato con somma incomprensione ma anche con folgorante immediatezza il varco che andava creandosi nel cuore stesso dell’impero romano. Scandalizzavano quei Padri le verginità involontarie delle vestali, obbligate senza scampo per la durata di almeno una generazione, che ai loro occhi configurava una servitù, seppur dorata. Già questa dedizione totale di donne, sorvegliate da re e pontefici e obbligate da un antichissimo costume, sta a indicare ch’esse facevano parte del grande apparato sacrale e politico di uno stato nel quale i membri erano parti di un organismo per cui non avevano valore in sé, mentre per noi una persona è molto di più del suo mero essere un cittadino.

In un simile apparato, il segreto di un’anima individuale o non esiste, per una identificazione completa con lo stato, o è irrilevante, oppure è meritevole di morte. Non conosceremo mai l’interiorità di queste sacerdotesse, che per decenni e decenni vivevano in un atrium – grande prima poco meno di un terzo (mq 3182) e poi circa la metà (mq 4469) della parte pubblica del palazzo imperiale3 –, oscillando fra nullificazione personale per lo stato e una infelicità inconfessabile, fra l’appartenere a Romani e Quiriti e il sentirsi sole contro la città.

L’apparato del vestalato era l’opposto di una ascesi. Infatti le vestali erano ricche e servitissime. Uno spettacolo in se stesse, avevano posti riservati negli spettacoli, anche quelli in cui si versava sangue e si sopprimevano vite umane, dove era civilmente immaginabile godere delle sofferenze altrui, perché previste nel codice degli status antichi, costitutivamente inegualitario. Pareva ai Padri della Chiesa che a tanta magnificenza corrispondesse una povertà interiore.

Come preoccuparsi di ricci, bende, veli e abiti elegantemente portati quando la volontà e la libertà individuale erano state piegate per la metà migliore della vita? Come era tollerabile una tale menzogna? Questo dovevano pensare coloro nella cui anima già albergava la possibilità di una salvezza individuale. Ma tutti i riti previsti per quelle donne – vergini pari, riguardo alla libertà, alle sacre prostitute – erano mera esteriorità oppure incarnata sublimazione dell’essenza di Roma e della sua dea del fuoco: sterili e pure le vergini sacerdotesse, come lo era il fuoco stesso. Insomma quelle signore, circondate di servitù e di lusso, erano comunitariamente e mondanamente soddisfatte, oppure penavano di non essere se stesse, di non poter seguire il ciclo sessuale, riproduttivo e affettivo suscitato dalla natura? Convinte senza convinzione4, oppure obbligate contro volontà? Riuscivano prestigio, privilegio, ricchezza, fasto e riti ad accontentarle, per la funzione somma a loro riservata: assicurare alla comunità la pace con gli dèi? Meno forse soffrivano, conoscendo la sorte delle altre giovani non captae: sottoposte a matrimoni combinati e a una inferiorità giuridica, risparmiata solamente alle vestali. Da una parte ricchezze, mollezze, eleganze, onorificenze, pompe, privilegi, mondanità e ricercatezze e dall’altra loro stesse, oggetti di una azione obbligata, tutta esteriore. Ecco una vita oltre ogni convinzione, irrigidita nell’implacabile cerimonialità di uno stato imperituro. L’opulenza poteva compensare l’assenza di vocazione, la piattezza morale individuale? Caro pagavano quel che ricevevano con la mancanza di ogni libertà personale. E poi le sole sei vergini (o sette, secondo Ambrogio) sfiguravano rispetto alle innumerevoli vocazioni delle vergini cristiane, che offrivano volontariamente la loro verginità, per sempre e non fino ai 35-40 anni quando il meglio della vita era passato.

Queste considerazioni vengono a noi spontanee, influenzati come siamo dai Padri cristiani5. Il problema sta in ciò: in che misura culti egizi e asiatici e in particolare quello cristiano, l’angoscia del tempo e la speranza di salvazione avevano sviluppato forme di destino soggettivo capaci di travalicare la sicurezza di aggregati familiari, rionali e statali, per cui la conformità alla tradizione e l’identificazione in essa più non soddisfacevano e incalzava l’insorgere della coscienza personale?

Giuste o sbagliate, vere o false che siano queste considerazioni – come entrare nel cuore di una vestale che ha abitato l’atrium Vestae per 64 anni?6 –, l’essenza di queste sacerdotesse dice tutto di quello che noi più non siamo e che avremmo orrore di tornare a essere. Non vediamo più nel serpente nutrito dalle vergini il Diavolo, ma certamente un meccanismo impersonale che ha retto Roma per secoli e secoli e che è precipitato, alla fine imprevista – non era forse sempiterno il fuoco di Vesta? –, nell’insensatezza, nel nulla.

1 Carandini 2013.

2 Coomaraswamy 1916; Carandini 2013.

3 Parte pubblica della Domus Augustiana, compreso il cosiddetto Paedagogium, mq 11.304.

4 Tacito, Annales 12,24.

5 Leveleux 1995.

6 Corpus Inscriptionum Latinarum 2, 2128.