14.
Privilegi regi e giuridici
delle vestali

La bambina tra i sei e i dieci anni – in origine patrizia ma in seguito anche plebea –, che veniva capta per essere vestale – come erano capti anche i flamini maggiori –, veniva sottratta alla potestas del padre (senza i vincoli dell’emancipatio e della capitis deminutio), alla manus del marito e alla tutela di figli e parenti, vigilata unicamente e direttamente dal sacerdote supremo dello stato. Era una cittadina che, senza la necessità di un tutore, disponeva di beni con piena capacità patrimoniale (terreni, edifici, schiavi, liberti), poteva fare testamento (senza il quale i beni andavano allo stato) e poteva testimoniare senza dover giurare1. Dopo trent’anni di castità, disponeva nuovamente di sé, rimanendo vestale oppure lasciando il sacerdozio e magari anche sposandosi. Uniche fra le donne di Roma, che erano alieni iuris, le vestali erano invece sui iuris, cioè avevano la stessa capacità giuridica dei cittadini adulti. Da questo punto di vista erano le sole donne libere di Roma, le prime a essere emancipate2.

La dignità delle vestali era altissima. Godevano di un rango regale, come ad Atene la sacerdotessa di Atena. Erano pure come puro doveva essere anche il re, il primo sacerdote della città-stato, fino alla creazione, nella seconda età regia, del re del sacrifici (Tarquinio Prisco era stato accusato di aver fatto scomparire l’augure Atto Navio, per cui era ritenuto impuro). Le sacerdotesse vivevano nel lucus Vestae, accanto al re e poi al re dei sacrifici e infine collegate alla casa del pontefice massimo, i quali traevano dignità e protezione dal fuoco comune di Vesta. Svolgendo i riti prescritti, le vestali permettevano a re e a consoli di celebrare la vittoria e allora il fallo divino, da esse conservato, veniva concesso e appeso al carro del trionfatore. Alle sacerdotesse era consentito usare nella città il carro (plaustrum, pilentum), privilegio accordato anche a sacerdoti e a statue degli dèi; i loro cavalli erano esentati dal reclutamento del fisco; venivano trasportate in lettighe (se qualcuno passava sotto di esse, era condannato a morte); avevano posti privilegiati negli spettacoli; erano precedute da un littore con fasci; consoli e pretori davano loro la precedenza abbassando i fasci come davanti a un magistrato superiore o all’assemblea del popolo; avevano la facoltà di testimoniare e fare testamento. Insomma, le vestali erano le essenze del popolo Romano e dei Quiriti.

Le matrone romane non erano cuoche, non battevano il farro, non manipolavano carni, non bevevano vino puro e non sacrificavano, e infatti la celebrazione dei culti familiari era riservata al pater familias. Le vestali anziane, al contrario, erano addette a una cucina seppure sacra: facevano la mola salsa – Vesta era la patrona della panificazione e del pane – e preparavano la muries con sale duro pestato, sigillato in vaso e cotto al forno, a cui aggiungevano acqua di fonte. Avevano il potere sia di purificare con acqua e suffimen, sia di sacrificare come nei riti della Bona Dea3. Sacrificavano anche la regina sacrorum e la flaminica dialis, ma in quanto consorti di grandi sacerdoti.

Le vestali favorivano la concordia fra i cittadini e la loro intercessione era autorevole; si ricordano interventi come quelli per Appio Claudio nel 143 a.C., per Cesare nell’82 a.C., per Messalina nel 48 d.C. e per Vitellio nel 69 d.C. Conservavano in archivio contratti e testamenti, come quelli di Cesare e di Augusto. Ospitavano anche donne in pericolo, come Terenzia nel 58 a.C. e come la madre e la moglie di Ottaviano4. Il condannato a morte che incontrava per caso una vestale veniva graziato. Infine era considerato un privilegio di queste sacerdotesse essere seppellite entro le mura. Insomma le vestali avevano i privilegi corrispondenti al rango altissimo e ai diritti pari a quelli dei cittadini e in ciò sta l’aspetto virile delle sacerdotesse, oltre a quelli collegati alla fecondità e alla protezione di mura e porte.

Dalla natura del sacerdozio delle vestali, dai riti a esse riservati e dai diritti di cui disponevano si ricava, indirettamente, l’immagine di Vesta, dea per eccellenza polifunzionale. Vesta assommava le funzioni di Giove, Marte e Quirino, raccolte nella triade e unificate nella divinità femminile del fuoco comune. Si intravede così la onnipotenza di Vesta: dalla capacità sovrana e purificatrice/sacrificale a quella difensiva, fecondatrice, tesaurizzatrice e nutritrice. Questa polivalenza, che racchiude caratteri verginali, materni e virili, si ritrova in Giunone Sospita Madre Regina di Lanuvio, e in Atena di Atene, che tra le dèe polivalenti sono state le più virili e guerriere, signore guardiane di luoghi, forse sul genere della misteriosa Vica Pota venerata ai piedi del monte Velia, proprio davanti al lucus Vestae. La verginità delle vestali era funzionale alla purezza e alla stabilità del focolare comune, perché il servizio sacerdotale impediva la mobilità femminile dal padre allo sposo, che il matrimonio invece implicava. La verginità comportava altresì un’inibizione qualificante della propria fecondità volta a promuovere la fecondità delle matrone, del bestiame e dei campi. Vesta proteggeva innanzi tutto il re, che abitava non più dentro le mura palatine ma subito al di fuori di esse, nel suo lucus. Tutelava anche il Palatino, con riguardo particolare alla porta Romanula – la più vicina alla sua aedes – ma con effetto sull’abitato intero, specialmente in rapporto alla porta Collina, dove si trovava il campus Sceleratus in cui le vestali ritenute impure venivano seppellite vive. Soltanto il potere bellico attivo sembra essere stato ritirato a Vesta da Vulcano, dio del fuoco che forgia le armi e che distrugge. Eppure la dea restava legata, seppure indirettamente, alla celebrazione della vittoria.

Divinità polifunzionali sono note anche in altre civiltà, come ad esempio l’iraniana Anahita, umida, forte e immacolata, connessa all’iniziazione regale e venerata da sacerdotesse votate alla castità, scelte e consacrate dal sovrano-sacerdote, le quali si spostavano su un carro che aveva un diritto di precedenza assoluta.

1 Leveleux 1995, pp. 112 sgg.

2 Guizzi 1968.

3 De Cazanove 1987.

4 Scardigli 1995, 2007.