Mark e Maria

Eccolo lì: Mark Wilson, l’uomo davanti a cui si inginocchia New York, la New York colta intellettuale politicamente corretta e privatamente ignobile – ma insomma, è comunque il centro del mondo emerso – eccolo lì piegato come una virgola tra il sedile e il corridoio e incapace, per il momento, di tirarsi su senza esibirsi in qualcosa di platealmente ridicolo come una scivolata all’indietro, un santo – o un peccatore – prostrato ai piedi di una Pietà che piange… ma come ci è finito? Si aggrappa con la sinistra al bordo del sedile e intanto puntella con il gomito lo schienale di fronte, raccoglie tutto il corpo in una specie di slancio – giovanile! – e PAM salta su come un tappo di champagne, con una forza una naturalezza un ritorno al passato che gli portano sulle labbra un sorriso incongruo stupefacente decisamente di pessimo gusto, troppo festoso, troppo soddisfatto, allegro…

Dio mio, la ragazza piange e lui è lì che si compiace dei muscoli, dello slancio, del petto asciutto

È in piedi nel corridoio, si sta spolverando con entrambe le mani i fianchi e il davanti del cappotto, a un certo punto gli verrebbe persino voglia di levarselo… ma via! Un passo, due passi e subito a sedersi dove stava, accanto al finestrino, due sedili e uno stagno a separarlo dalla ragazza in lacrime.

– Le dispiace?

Si è seduto accanto a lei.

Ahhh. Tira un sospiro beato, il sospiro che fanno i cani un attimo prima di ronfare ai piedi del padrone. Ahhh. È qui che devo essere. È qui che voglio stare.

La ragazza si tiene stretta al petto la rivista che lui ha recuperato per lei – bravo, vero? atletico, ginnico, vent’anni, avevo vent’anni mentre lo facevo. La tiene – sì, è così – abbracciata. Ci sta chinata sopra, ha proprio la postura di una Pietà (la Pietà Rondanini di Michelangelo, la stessa accettazione di ciò che è accaduto, lo stesso dolore offerto, esposto, nudo ineluttabile – offerto a me?). Le lacrime non si vedono ma devono continuare a esserci: sarebbe opportuno porgerle un fazzoletto.

C’è. Il fazzoletto di bisso veneziano che Olga ha messo come fa ogni mattina nella tasca del cappotto (naturalmente prima ci ha spruzzato sopra qualche goccia di Monsieur de Givenchy). Può vederla, Olga, rigida, alta, senza nessuna contaminazione con il mondo impuro, in piedi davanti alla commode mentre sceglie il flacone giusto, lo soppesa (Olga non fa mai nulla senza prevedere le possibili conseguenze), verifica che l’inclinazione sia giusta e alla fine preme l’erogatore indietreggiando di colpo, ogni spruzzo la inquieta, ogni spruzzo – e qui Mark sorride di nuovo perché ovviamente gli è venuta in mente l’associazione banale tra lo spruzzo come dire “denotativo” del flacone con la pompetta e lo spruzzo “connotativo” a cui Olga sta evitando di pensare – si sta divertendo, questa è la verità: su questo treno, in questa carrozza, beato nel sedile di stoffa – onde di mare blu scuro blu cobalto azzurro: non sono girini, ora se ne accorge: è mare – si sta divertendo come non gli capitava da… quanto tempo? Da mai. Si sta divertendo accanto a una ragazza che piange.

– Prego.

Le allunga il fazzoletto, deve proprio metterglielo sotto il naso, perché lei è da qualche altra parte, è lì che cova la sua rivista e di sicuro non si è nemmeno accorta che lui le si è seduto accanto. Vediamo se dice qualcosa, che ne so grazie o non si doveva disturbare o ho il mio. No, non dice nulla, scuote solo la testa ma impercettibilmente, diciamo che potrebbe anche seguire il ritornello di una sua musica personale, una ninna nanna, direi, allora il fazzoletto me lo riprendo

– Grazie.

Si strofina il naso, un nasino proprio grazioso, che benedice una bella bocca larga, forse un po’ troppo larga, ma contiene una promessa, questa bocca, viene voglia di farla schiudere come una grassa rosa

– Di nulla.

Bene, a posto. Finito. Lui ha offerto il fazzoletto, lei l’ha preso, ha perfino ringraziato – una voce insopportabilmente nuova, verde, primaverile, sarà l’effetto dell’Estate Indiana, è fiorita anche la ragazza, ma che cavolo sto dicendo? – rimettiamo le cose come stavano, ciascuno torni al suo posto, il treno arrivi a destinazione e amen. Però è divertente.

– Bene.

Non era esattamente la parola giusta da dire, in realtà è una presa di tempo: un modo fatico, un respiro partorito in forma di labiale e subito soffiato via… La ragazza ha l’aria colta, di certo lo interpreterà nella versione corretta: non “bene” perché lei sta piangendo, “bene, ok, allora mi alzo, mi alzo e me ne vado”. Mi alzo?

– Cosa legge?

Ora, fare questa domanda in questo modo a una ragazza primaverile che sta piangendo da un discreto numero di minuti, non quantificabile se non dal momento in cui lui se n’è accorto, era impossibile non accorgersene a quella distanza da bacio – che ha detto? bacio? be’, è divertente, andiamo avanti – non è né educato né intelligente.

– Un articolo.

Lei ha girato la testa, sono di nuovo molto vicini, ha anche scostato la rivista dal petto, la raccoglie tra le mani a coppa e la sfoglia con il visino intento. Proprio carina questa ragazza.

– Guardi.

Gli spalanca davanti una doppia pagina in bianco e nero. Una madre, giovane, stesa su un letto disordinato – sembra di sentire l’odore che stagna in quella camera, l’odore indecente della notte, di sudore, di sogni – le cosce nude, una gamba ripiegata sotto l’altra – i piedi sono stati tagliati dalla inquadratura – mutande a fiori africani – bene, la decenza è a posto – un reggiseno bianco, modesto, senza pericolo, la testa avvolta in un turbante di asciugamano e un neonato, un morbido profumato faccino di neonato, corpicino di neonato, una palla di testa con quella peluria, quella peluria soffice – mai guardato un neonato, prima di stasera, comunque sono: soffici, sì: soffici, devono essere caldi, devono sprigionare una specie di tepore di stufa, questo sono i neonati: stufe per il freddo che ci aspetta.

– È una foto di chi?

– Desidera saperlo?

– No, era tanto per dire qualcosa.

Che gli è preso? Ha di nuovo vent’anni, purtroppo, meno male.

La ragazza gli scocca un sorriso, come un sole sotto la pioggia. Carina.

– Uhm.

– Non me lo dica, non la voglio forzare.

Mai avuto desiderio di sapere nulla di nessuno, che non fosse qualcuno dei suoi artisti. Il neonato, la stufa di neonato, sta tra le braccia della madre, lei lo tiene – saldamente – con le mani sotto le ascelle – anche i neonati hanno ascelle, non è ragionevole, ma le hanno, le madri ci tuffano il naso? probabile, un padre non potrebbe, è troppo femminile come gesto, magari io lo farei, una volta sola, per sentire l’odore, vediamo: talco, sicuro; mughetto, brioche. Magari l’avrei fatto.

– È un articolo di psicologia.

– Quale genere?

Mi interessa veramente saperlo.

– Cognitiva – dice lei, e piega leggermente il collo per valutare quanto la domanda contenga di interesse reale.

Abbastanza.

– Sa, i neonati – si sta sforzando di pronunciare la parola senza svaporare di nuovo in lacrime – i neonati riconoscono la musica.

– Aha.

– Qui dice che i neonati tra i sette e gli undici mesi discriminano tra semitoni adiacenti e ricordano melodie semplici “anche quando sono suonate da strumenti differenti e su scale tonali differenti” e dice anche – sta cercando la riga che vuole leggere e strizza gli occhi, begli occhi, verdemarroneoro, iride di foglia, chioma d’albero, prato e sul prato un grosso albero mamma – dice: “passando al mondo degli adulti, sappiamo che battere il tempo con un piede o con la mano sul fianco o schioccando le dita viene del tutto spontaneo e Jessica Phillips-Silver e Laurel J. Trainor, psicologhe dell’infanzia all’Università Mc Master (a Hamilton, Ontario, Canada) si sono chieste se questa predisposizione a scandire il tempo mediante movimenti del corpo sia già presente in tenerissima età, per esempio nel bimbo di appena sette mesi e è proprio così: quando si dondola per un breve periodo la culla secondo un ritmo musicale, il bimbo già a sette mesi manifesta una preferenza proprio per quel ritmo e lo identifica anche quando ode sequenze ambigue, cioè compatibili sia con quel ritmo che con un altro”.

Si gira di nuovo verso di lui, soddisfatta come se lo studio l’avesse condotto lei.

– Bello, vero?

– Affascinante.

Mi sto divertendo.

– Sì – annuisce: per cortesia.

– Lei sta pensando un’altra cosa.

– Oh no, no: no – dice Maria aggrappata alla sua rivista. La chiude di scatto e se la rimette al petto.

– Può dirmelo – suadente, serpentesco, Mark come in quelle cantine dove andava a cercare ragazzi e non si accontentava di prenderli, voleva conquistarli, afferrarli con lacci di parole… suadente, serpentesco ma anche, sì, anche: coinvolto. Impossibile. Non mi importa di nessuno. Sono autosufficiente. Ho una infinita riserva di ego. Eppure: mi interessa questa ragazza. Mi interessa veramente sapere perché piangeva. Posso dirlo io. Non è gentile e non è educato

– Piangeva per questo, vero?

La ragazza ammutolisce.

Ok mi alzo e torno al mio posto: rimetto le cose al loro posto, ma che succede su questo treno?

– Non vada via.

All’improvviso Maria desidera fortemente che il vecchio resti accanto a lei. È così accanto, troppo accanto, quella vicinanza colma di disagio dei sedili dei mezzi pubblici, quando bisogna valutare ogni minimo spostamento del gomito, del braccio, della spalla: se mi muovo, lo tocco e non voglio toccare uno che non conosco, nemmeno uno che conosco, non voglio toccare nessuno, non sono in grado, non posso

– Resti.

– Perché piangeva?

Va bene, era nel conto: se gli chiedi di restare, lui se ne approfitta, se gli permetti di avvicinarsi, lui si accosta, gli dai un dito e prende il braccio, non è così che si dice? Va bene.

– Io piango sempre quando vedo un neonato.

Serra le belle labbra, anzi: le inghiotte, inghiotte nel palato la punta del labbro superiore e la incolla alla rima di quello inferiore. Altro che rosa: è un taglio.

– Ha perso un figlio?

Questa domanda è veramente irriverente e molto molto azzardata. Questa ragazza non è un’artista, non gli deve nessuna confidenza e soprattutto sembra non essere in grado di reggere nessuna risposta. Inoltre è spaventosamente innocente e approfittare della sua innocenza è squallido ignobile vergognoso, non è una cosa da fare e meno che mai su un treno, anche se tengono bassa la voce magari qualcun altro sente, ammesso che ci sia qualcun altro, la sensazione è che il treno contenga questa sola carrozza e che questa carrozza contenga una sola fila di poltrone, separate da un frammento di corridoio: la loro fila, le due poltrone su cui sono seduti adesso, uno accanto all’altra, una sezione di spazio/tempo, un cartoccio di spazio/tempo direbbe Einstein: la distanza più breve tra due punti non è la retta, è la curva. Il foglio è stato accartocciato e i punti combaciano: ora.

– Ho perso una madre.

E ora piange, essuda lacrime, gocce di lacrime: il visino è un panno strizzato. Tra un po’ verrà steso al sole: si asciugherà.

– Non è obbligata a dire nulla.

Qui Mark è veramente astuto e sa di esserlo. Conosce molto bene l’arte della manipolazione, è stato necessario assorbirla come competenza innata, è stata lo strumento della sua emancipazione e non la rinnega, la sua dote manipolatoria, la pratica, questo sì, gli viene naturale come respirare. Adesso però gli dispiace averla utilizzata perché sente che qui – ora – le cose stanno cambiando, anzi sono già cambiate. Mark Wilson è altrove. Qui – ora – un nuovo Mark inaspettato e allegro, sta divertendo, andando da un’altra parte, sta guardandosi intorno e intorno, a sinistra, alla sua sinistra, c’è solo questa ragazza e lui non desidera manipolarla. Pensa: nella nostra vita diventiamo tante persone differenti, è per questo che le biografie ci sembrano così intollerabili.

– Mia madre è morta di parto.

Si sta confidando: impossibile. Sta essudando parole che non aveva mai nemmeno pensato.

Mia

madre

è morta

di

parto.

Come gliel’hanno detto? Si volta verso il finestrino, stringe il pugno contro la tempia, ma con l’altra mano tiene stretta la rivista. Non la lascia cadere. Cerca nella notte il ricordo e la notte glielo trasfonde attraverso la fontanella che, sulla sommità del capo, in lei è ancora dischiusa. Mia madre è morta di parto. Deve essere stata la signorina Davies, deve essere accaduto in campagna, forse in quella stanza con le piastrelle bianche e nere, la stanza in cui non le è più riuscito entrare senza scoppiare in pianto.

Early dawning, Sunday morning

It’s just the wasted years so close behind

Il passato è così vicino, è qui, dietro questa notte. Coraggio: afferralo ripescalo rigeneralo ritrovalo

Eccolo

La nursery, era la nursery. Lei era così piccola. Non arrivava con la testa al fasciatoio, ma camminava, sì. Mettiamo: aveva due anni. C’era il metro di legno blu attaccato al muro e un pupazzo scorrevole (gambe divaricate, cappellucio in testa, blusotto a pois) che andava su e giù su un binario dipinto in bianco accanto ai centimetri, la signorina Davies la stava misurando – operazione a scadenza mensile, di rincorsa dietro agli adulti. Sanzionamento di uno sforzo in atto.

“Dove è la mia mamma?”

All’improvviso, le era venuta in mente l’assenza. Su tutti i libri che guardava e che le mostravano – su tutti, proprio su tutti – c’erano mamma Coniglia e i bambini coniglini, mamma Orsa e i bambini orsini, nessuno aveva una nonna, tranne lei.

“Mettiti ben dritta, Maria. Spalle al muro. Più vicina, più vicina: così.”

“La mia mamma dove è andata?”

“La testa, Maria, devi abbassare la testa, altrimenti la misura viene sbagliata.”

“Quando arriva, la mia mamma?”

“Ora basta: finiscila.”

“Voglio la mia mama.”

Dice proprio così: la mia mama. È uno sputo di bambina, una cosa che arriva appena alle ginocchia, mutandine bianche sul pancino e la canottiera soffice e batte i piedini sul pavimento di marmo e intanto dice voglio la mia mama voglio la mia mama. Pare che balli. Pare quella musica.

La signorina Davies la prende per un braccio, un minuscolo braccio nudo e la tira verso il metro attaccato al muro Basta basta finiscila Maria punta i piedi, oh se è forte, e comunque eccola buttata per terra e scalcia e strilla ascolta i suoi strilli Mama Mama Mama

Basta Basta Basta

Mamaaaaaaaaaaaaaaaaa

“Finiscila!”

Lo schiaffo arriva senza preavviso: non è mai stata schiaffeggiata. È una spinta che brucia, la pelle si gonfia istantaneamente, gli strilli si moltiplicano,

Mamaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa

La signorina Davies non sa più che fare, la sua infinita perizia di nanny è impotente di fronte a questa scena e allora semplicemente svanisce. La lascia persa in questa nursery gelata e abbandonandola le toglie ogni pensiero cosciente ogni freno ogni

“Tua madre è morta.”

Morta? Che vuol dire?

Si è tirata su, sta seduta sul pavimento e ha sollevato il visino rosso, stropicciato di rabbia e di lacrime, guarda la sua tata, si riassesta dentro le spalle, come una adulta, l’adulta che diventerà tra pochi secondi

“Che vuol dire morta?”

La signorina Davies è ancora troppo occupata a registrare l’errore madornale che ha commesso per fermarsi, non può fermarsi: si può fermare uno sparo?

“Tu sei nata e lei è morta.”

Allora, e qui, dentro la notte del finestrino, Maria così piccola e così intelligente deve fare uno sforzo intensissimo, frugare spaccare sventrare questa parola: morta. La parola le volteggia intorno coriandoli di consapevolezza. Morta. La faccia della signorina Davies è un lenzuolo lavato. Dove è la mia mama? Quando smette di essere morta?

– Mi scusi, non riesco a impedire che succeda.

Ha di nuovo goccioline di pianto sul viso, quando si gira verso di lui. Una inspiegabile tenerezza lo prende.

– Le serve ancora il fazzoletto?

– Sì, grazie.

L’oggetto fazzoletto – un altro, quello di seta nel taschino del completo blu-passa di mano in mano.

– Ma è di seta.

– Eh.

– Si sciuperà.

– Venga qui.

Mark, il mostro Mark, l’uomo che non deve chiedere mai, l’uomo davanti a cui si inginocchia New York – la New York colta intelligente intellettuale quella che conta davvero – si riprende il fazzoletto di seta e asciuga le lacrime sul visino spaurito.

Sto asciugando lacrime. Io.

– Le faccio male?

– No.

– Ora va meglio?

– Sì.

Stanno in silenzio, per un po’, guardano il moto ondoso che si frange sullo schienale che hanno davanti.

– Sembrano onde.

– Serpi.

– Girini.

– Delfini a pelo d’acqua.

– Lei pensa che l’Amtrak ci voglia annegare?

Sorridono: contemporaneamente.

– Bene: ora tocca a lei.

– Cosa è: Ok il prezzo è giusto?

– Ha capito benissimo.

Vezzosa: è vezzosa. Sta flirtando. Un secondo fa piangeva sua madre morta e ora sta flirtando con questo sconosciuto.

– Lei è abbastanza irresistibile.

Sta flirtando. Ha vent’anni. È nuovo, è primaverile. È impazzito. E ci gode, a essere impazzito. Si sta divertendo.

– Avanti. Forza.

– Se mi guarda così vado avanti per forza.

– Va bene: la guardo così.

– Cosa gli fa lei, agli uomini?

– Che?

– Vogliamo buttarci nella metafisica?

– Buttiamoci.

Mi sto divertendo. Sto molto bene. Un secondo fa piangevo e ora sto bene.

– Diciamo che quello che noi pratichiamo, nella nostra astuta società del Primo Mondo, è un omicidio di massa. Non perseguibile, perché non è imposto: ciascuno si ammazza in proprio ma questo pulviscolo di individui diventa la totalità e l’omicidio passa sotto silenzio. Abbiamo elaborato una struttura di comportamento standard e ci impegniamo con determinazione a rispettarla. Noi perseguiamo la felicità ma nessuno di noi ci crede veramente. Sì, la felicità sta scritta dentro la costituzione: “il diritto alla felicità”. Fasullo: come tutte le versioni ufficiali. Non si dà in nessun caso il fatto che qualcuno, uno qualsiasi, si fermi mentre sta correndo – la corsa è il nostro stato occidentale nativo – e permetta alla sua testa di spalancarsi dentro a questo pensiero: in questo istante io sono felice. Lei conosce qualcuno, uno qualsiasi, a cui sia accaduto? Ho cenato l’altra sera accanto a un fisico, un individuo con la testa storta, un occhio più in alto e uno più in basso e un alito che impediva fisicamente di avvicinarglisi. Purtroppo ero seduto accanto a lui e l’alito non c’era verso di eluderlo. Bene questo tizio – la sto annoiando…

Per nulla. Non ho mai parlato con qualcuno così: volentieri? Come mangiare una cosa buona e volerne ancora un pezzettino, ancora un po’, ancora e ancora

– Mi sto divertendo.

– Ah be’, non so se proprio si possa trattare di divertimento in senso canonico ma: sa cosa le dico? Mi sto divertendo anche io.

– Bene!

– È proprio carina quando ride. Torniamo allo scienziato dal fiato cattivo. Studia gli uccelli. Gli storni. Gli hanno da poco finanziato un programma di ricerca sui meccanismi che guidano lo stormo. Hanno già scattato 240.000 fotografie, per lo più tridimensionali. Questi storni sono uccellacci che non si muovono mai in meno di trecento, cinquecento, cinquemila, roba che fa diventare notte il giorno. Scelgono due o tre punti di ritrovo e li invadono. Mentre stanno sui rami – scusi la volgarità – cagano in testa alla gente. La loro merda – il guano – stende uno strado scivolosissimo sull’asfalto e la gente cade, le macchine si tamponano, i motorini si ribaltano. Sicché studiare questi storni e il loro modo di spostarsi è l’unico modo per evitare un sacco di guai successivi.

– Perché si toglie il cappotto?

– Perché lei non se l’è messo?

– Ma lei sembra – incollato – al suo cappotto. Sembra che, se se lo toglie, sotto non ci sia nulla.

– Me lo tolgo proprio per questo: complimenti. È una psicologa?

– Giornalista.

– Uhm.

– Va bene: scrittrice.

– Si vergognava a dirlo?

– È che non scrivo nulla, scrivo dentro la testa… e gli storni?

– Allora, quello che lo scienziato dal fiato cattivo è in grado di dire dopo un anno di ricerche è che non esistono capi. Non hanno capistormo. Se devono girare, girano come soldati in marcia: battaglione fianco sinist: sinist! E girano: tutti insieme. Mentre stavo lì seduto, l’altra sera, davanti al mio piatto occidentale con due scampi nudi e sei fagioli con l’occhio e cercavo di evitare gli sfiati del fisico con i denti marci, sentivo che questa cosa degli storni era importante, che aveva a che fare con me, ma non riuscivo a capire come. Quando mi capita, non insisto. Lascio che le parole si depositino da qualche parte e aspetto senza ansia che, nel caso in cui decidano di dirmi qualcosa, si manifestino nel momento in cui pare a loro. E infatti! Eccoli qui: gli storni. Lei, io e gli storni.

– Mica male.

– Che brava bambina attenta! Andiamo avanti. Noi opulenti, occidentali e guasti siamo come gli storni. Cerchiamo il caldo e stiamo in basso, stiamo attaccati al suolo e alle nostre piccole smanie piccole frustrazioni piccole rivincite, caghiamo continuamente sul mondo dove viviamo e lo rendiamo troppo scivoloso per abitarci e quando ci muoviamo, avanti: marsch! Fianco sinist: sinist! Ci muoviamo tutti insieme, come un sol uomo.

– E la felicità?

Stiamo proprio bene insieme.

– Attenzione attenzione Vrooom sono uno storno impazzito, volo volo volo

Questa ragazza mi fa avere vent’anni, ma vent’anni come non li ho avuti mai, senza peso, senza obbiettivi

Maria ride, ride davvero. Non vede un vecchio ridicolo, con le dita, l’indice e il medio, aperte a v a mimare un uccello, un vecchio che solleva il braccio e lo rituffa giù, VROOM VROOOM. Vede un bambino tutto compreso e compiaciuto di come gli riesce fare questo gioco, farlo per lei, e allora ride di tenerezza, di gratitudine. Prova l’impulso di girarsi e di dargli un bacio con lo schiocco, sulla guancia, di mettersi la sua testa sul cuore.

– Oggi mi è successa una cosa strana – dice tra sé, ma a voce abbastanza alta perché il suo vicino la senta.

– Cosa?

L’uccello atterra sul bracciolo.

– È stato come se, ecco, non me lo so spiegare: come se io dovessi – per forzaandare in un posto.

– Quale posto?

– Una clinica.

– La clinica Bings?

Lei scatta quasi in piedi, le costa fatica ricomporsi.

– Come lo sa?

Mark è calmissimo.

– C’ero anche io, alla clinica.

Sì, adesso se lo ricorda: il vecchio ricurvo con la testa di tartaruga.

– Allora era lei.

– Non le sembravo io?

– Era… Diverso.

– Meglio o peggio?

– Era con il dottor, come si chiama: Perrone?

– Bella camicia.

– Allora è stato lei che stamattina ha preso il mio taxi.

– Lei ne possiede parecchi?

– Il taxi con l’indiano alla guida.

– Il capo cherokee?

– Sì

– Un personaggio interessante, non crede?

– Che persona voleva vedere?

E qui accade qualcosa. Perché Maria sa la risposta. La conosce, l’ha saputa fino dall’inizio di questa strana conversazione. Ha avuto subito, nitido, il sentimento di un cerchio che si chiude. Fino dal primo momento: il momento in cui ha incrociato lo sguardo con quello del vecchio chino accanto a lei, nel corridoio. È stato come raccogliere una conchiglia, la casa di un paguro, di una ammonite e mettersela all’orecchio, e ascoltare. È stato naturale, acquatico, marino, un dolce mulinare nel mondo sommerso. Fluttuare a palpiti nel turchese fondo, nel verdeblu, tastare, riconoscere, qui un sasso, la consistenza carnicina di un’alga, di un braccio, di una spalla, l’argento liquido di pesci ballerini di fila, e nell’ombra, dietro uno scoglio baciato di licheni, due occhi in attesa.

– Me lo dica lei.

– Una donna. Una donna… anziana?

Si è sporta verso di lui, tutto il suo corpo è un punto interrogativo.

– Binky – annuisce Mark e precipita dentro quel nome raggrumandosi contro il sedile.

Dunque è andata così. Questo vecchio – inspiegabilmente intimo – la prima persona con cui le riesce parlare: le parole zampillano, c’è un ponte di parole tra loro due, a essere romantici si potrebbe dire: un arcobaleno, goccioline di lacrime e di parole che li uniscono e scaldano… “unire”: che parola spaventosa, spaventosa e dolce… questo vecchio bambino che la commuove è andato a trovare la donna che lei ha incontrato fingendo di essere un’altra: il cerchio esisteva davvero, uno strano cerchio che le interessa, oh se le interessa. Deve assolutamente sapere

– Perché c’è andato?

La conversazione alla fine non è poi così magica come potrebbe sembrare, alla fine è la solita conversazione tra sconosciuti, su un treno che corre, su un aereo che attraversa un oceano, una conversazione nel nido della notte, uno sfioramento reso possibile dalla precarietà: avanti, risponda

– Volevo sapere se abbiamo un figlio.

Il vecchio sta parlando all’aria che lo circonda, allo schienale marino che ha di fronte, sta fronteggiando lo schienale: è uno studente solo davanti a un carro armato. Il carro armato avanza.

– Sono omosessuale – dice il vecchio e Maria viene investita da un fiotto di tenerezza assolutamente incongruo, la stessa tenerezza che ha appena provato per il bambino che faceva vroom vroom con l’indice e il medio aperti a v. Vorrebbe fargli appoggiare la testa sulla sua spalla e consolarlo: è omosessuale e vuole un figlio. Certo, non è stato sempre omosessuale, le persone non sono per sempre quello che sono, ha amato anche le donne, ha amato quel fagotto di donna e forse ha un figlio, un figlio che non sapeva di avere e che adesso sarà un adulto, che ignora suo padre

– E ce l’avete?

È stata troppo brutale.

– No.

Potrebbero stare zitti, adesso. Il vecchio potrebbe alzarsi, tornare a sedersi al suo posto, la falla di intimità che si è coagulata intorno a loro due si richiuderebbe subito, via tutto, ciascuno dentro la sua vita, ogni mollusco dentro la sua conchiglia

– Ne è sicuro?

Si sente una sibilla.

– No. Sì. Lei non ha detto nulla. Nelle sue condizioni era il massimo che ci si potesse aspettare.

– Sì, l’ho vista. Ma con me ha urlato.

– Non si capisce mai veramente la sofferenza dei matti, vero? Certe volte Mark chiude le spalle, alita un breve soffio di scherno – pare che stiano meglio di noi, abitano il mondo che si sono creati… ha presente quando cantano? Cantano senza musica e muovono la testa, ondeggiano…

– Sì.

C’è tra loro una molle dolcezza, un acquatico intontimento. Lei lo vorrebbe TOCCARE.

– La annoio.

– No. No.

E scuote la testa, per convincerlo e intanto stringe le mani, entrambe, ai braccioli, perché non le sfuggano, perché non vadano dove desiderano spasmodicamente andare

– Lei è molto giovane.

– Non così giovane, ho trentadue anni.

– Giovane

– Grazie.

Accoglie questo dono, il dono del tempo, il dono del futuro e si sente inspiegabilmente sollevata, sente proprio il soffio d’aria nuova che la investe attraverso la porta improvvisamente spalancata della stanza dove si era rinchiusa, vede le infinite possibilità, un turbinoso vorticare di futuro, dove era, questa aria limpida, fresca, dove era prima, dove è stata, finora? Il vecchio gliel’ha regalata ma pare sfinito, si è di nuovo appoggiato al sedile, stanco, stanchissimo.

– Sa, c’è un momento, nella vita, in cui il tempo diventa il tempo che ti resta…

Sta parlando a sé, per sé, Maria prova vergogna per questa intimità violata.

– Mi scusi.

– E di che?

Come è stanco, come è pesante ogni parola. Sente un formicolio in fondo agli occhi, in gola un nocciolo di pesca da deglutire, la testa cade in avanti, servono le mani le mani – entrambe – reggerla, le dita sotto gli occhi, stirare le guance, lavarsi via questa infinita debolezza, sconosciuta e… accattivante. Viene una strana pace.

– Io non ho tempo, capisce? Lei è così giovane, è così invincibile. E io sono così consumato, mi si guarda attraverso e non si vede nulla. Ha ragione: se mi tolgo il cappotto, io svanisco. Il prezzo che si paga alla vita cresce con gli anni, ci crede? E il mio conto è così lungo, e così vano. È una sfilza di decisioni non prese, di gesti non fatti, di viaggi mai cominciati, ero su una corsia e ho seguito quella, non ho ceduto a nessuna deviazione, credevo contasse l’arrivo, e invece ci sono arrivato e non contava, era un bicchiere di whisky, l’ho bevuto e fine, non c’è più whisky non c’è più nulla, non lascio nessuna scia…

– Io non so nulla, di mia madre.

Sta confrontando il dolore di lui con il suo. Vediamo chi vince, vecchio.

– E tuttavia lei contiene sua madre, no? Le assomiglia. C’è una parte di lei che è sua madre, e una parte di sua madre la attraverserà e arriverà a sua figlia, e sua figlia avrà una figlia e ci sarà questo filo ininterrotto, questa moltiplicazione di girini, in cui alla fine nessuno morirà.

– Le cose non stanno come crede lei. Si tratta di sostituzioni. Di usurpazioni. Mia madre mi ha ceduto il suo posto. Non resta niente. Non c’è nessun filo.

SBAM. L’onda l’ha sbattuta contro il sedile, la porta è di nuovo chiusa, nessuno può aiutare nessuno

– Lei potrebbe essere mia figlia.

Che dici, vecchio? Mio padre non esiste, è uno schizzo ignoto, me l’hanno detto tardi, con circospezione, mia madre era una ragazza moderna e quando io sono nata le ragazze moderne andavano a letto perché il mondo cambiasse, facevano l’amore per non fare la guerra, mia madre ha fatto me, mi ha proprio fatto, centimetro dopo centimetro, mi ha costruito e quando ero pronta mi ha lasciato il suo posto nello scaffale della vita. Non abbiamo bisogno di padri. Eppure: non riesce a rispondere. Almeno: non riesce a rispondere subito, a raccogliere la provocazione e a sventarla. C’è questo ordigno, una piccola granata, e è stato gettato tra i due sedili, e sta per esplodere e farà di entrambi un festone slabbrato e sanguinolento, completamente privo di senso

– Lei potrebbe essere mio padre

Tira su con il naso, mentre lo dice. Ha fermato il timer un secondo prima dell’esplosione. Ha fatto qualcosa che non avrebbe mai immaginato di poter fare, probabilmente dipende dal treno, dal movimento del treno, dal rumore di metallo, dall’ondeggiare, dallo stordimento che in fondo la accompagna da stamattina. Questa strana giornata.

– È fidanzata? – chiede il vecchio, come se la domanda fosse banale, l’ovvio proseguimento della conversazione, la continuazione di una normale conversazione tra padre e figlia.

Inaspettatamente, le sembra naturale rispondere.

– Eh, non è proprio che io sia fidanzata. No: non sono fidanzata. Non lo sopporto.

– Di essere fidanzata?

– Huhu. Sì.

– E perché?

– Scusi ma, perché mai le dovrei rispondere?

Il vecchio sorride, scuote il capo: è un complice.

– Perché io sono suo padre, no?

Sì, non c’è pericolo, e poi è tanto tempo che voglio saperlo… proviamo, va bene?

– Non lo so, sinceramente. Ho cercato di andare in fondo, nel mio fondo, intendo, a cercare la spiegazione, ma arrivo sempre allo stesso punto. È il ridicolo, credo. Sono tutti ridicoli, gli uomini. Ognuno di loro ha qualche debolezza e io non voglio un uomo che sia debole, voglio un uomo forte e sicuro di sé, un uomo che mi prenda sotto le sue ali e mi trasmetta la sua forza.

– Non credo – dice il vecchio.

Ha un guizzo furbo negli occhi.

– Perché?

– Perché lei giudica ridicoli gli uomini, qualunque uomo, e questo vuol dire una cosa sola: che lei si giudica superiore.

– Ma no! Non è vero, non è vero nulla, io anzi mi voglio affidare, mi voglio consegnare, ma certo non a un uomo ridicolo.

– Tutti gli uomini sono ridicoli e anche tutte le donne. Sono ridicoli e sono immensi: sono uomini. Lei li distrugge tutti, lei sta distruggendo tutto quello che ha intorno. E si ritrova in un paesaggio di rovine.

Maria si sta mordicchiando l’unghia del pollice, le schegge di unghia le graffiano il labbro e allora lei ci passa sopra il polpastrello: come una cura.

Forse sta accadendo davvero quello che dice il vecchio, pensa. Forse Tom è l’ultimo della serie di giovani uomini benestanti e benevoli che le si sono affiancati, con una certa trepida ansia di assalitori, a cui lei ha permesso modesti passi lungo il sentiero della relazione di coppia (non userebbe mai la parola “amore” così abusata e priva di contenuto), uomini che l’hanno presa a braccetto (lei si è divincolata subito), che le hanno aperto la porta di ristoranti eccessivamente eleganti o esageratamente modesti, che l’hanno coperta con il loro corpo troppo grasso o troppo magro, troppo sterilizzato o troppo sudato, uomini che poi, quasi subito, a dire la verità, si sono rivelati macchiette, uno dopo l’altro, quello che ruminava dopo aver bevuto, quello che andava fiero dei suoi mocassini italiani, quello che teneva il preservativo in cassaforte, quello che ruttava seduto sul letto. Forse lei – e questo pensiero la illumina tutta – non vuole nessun uomo, vuole stare da sola, invecchiare da sola, morire da sola. Non vuole cedere il posto a nessun altro, per quanto le sue giornate non siano affatto entusiasmanti, no: ecco cosa vuole fare: proprio perché le sue giornate sono così tristi, lei vuole scontare la sua condanna senza infliggerla ad altri. Porterà a termine il compito, arriverà alla fine e non cederà a nessuno il peso che ora sta portando sulle spalle. Non desidera né consolare né essere consolata: andrà avanti come ha sempre fatto

– Non riesco a seguire nessun pensiero.

– Si faccia seguire da loro.

– Che vuol dire?

Il vecchio è così soddisfatto, tiene la saggezza tra le punte delle dita: se le sta strofinando, sta muovendo le dita come un giocatore che scopre la sua scala reale.

– Soldi? – azzarda lei.

Scoppiano a ridere insieme e c’è solo questo, questo zampillare di fiducia, di piacere, questo filo, questa intimità sconveniente, questa completa mancanza di senso e il modo in cui insieme attraversano, a salti, la malinconia e l’allegria e la disperazione e la speranza. È una cosa lucida e scivolosa ma la tengono, saldamente, la tengono, c’è.

Grand Central Station Ultima Fermata del Treno

– Siamo già arrivati?

Maria è veramente dispiaciuta.

– Pare di sì – dice Mark Wilson alzandosi in piedi, ed è dispiaciuto anche lui.

Si sposta per lasciarla uscire, si avviano verso la porta metallica che chiude il corridoio. Sono un vecchio e una ragazza che potrebbe essere sua figlia e ora, tra pochi friabili istanti, si lasceranno sul marciapiede, forse si stringeranno la mano, o forse no. Sarà tutto finito, la falla di intimità si salderà e sarà un fatto a cui non si può porre rimedio. Meglio così.

– Sembra la cabina del Capitano Nemo – sussurra la ragazza mentre passa attraverso la porta e per un momento pare che la porta la inghiotta.

– Devo ringraziarla per questa conversazione subacquea – sussurra il vecchio. Il peso dell’oceano attutisce i suoni.

Eccoli sul marciapiede.

– Allora addio.

Lei è una ragazza che dice “addio”, non “ciao”, né “arrivederci”. Addio.

È questa parola, la pasta di dolore secco che contiene, è per questa parola che tutto cambia. È per questa parola, “addio” – abolitela dal lessico, smettete di insegnarla a scuola, liberate i vostri figli dall’idea stessa di ciò che è inesorabile – che accade.

– Perché addio? – dice Mark e intanto la prende, sì, la prende per mano. Per mano. Non è un gesto intenzionale: è automatico, è un riflesso condizionato, è la risposta di Pavlov al segnale contenuto in quella parola che di colpo gli risulta intollerabile, nemica, densa di pericolo, una parola che può essere fronteggiata solo da due mani che si stringono: io sono qui con te. Per mano come un innamorato, per mano come un bambino, per mano come suo padre, ma non è suo padre e non è un bambino e non è un innamorato, la mano non ha senso, non c’è nessuna logica spiegazione per quel gesto: eppure il gesto c’è. Maria sente la pelle liscia dell’incavo del palmo, la presa è salda ma non eccessiva, è perfettamente tollerabile. Questo accade: che Maria accetta di essere toccata. Non si sottrae. Permette alla mano del vecchio di accoglierla, di trasferirle la confortante pressione delle nocche appena piegate, permette a un altro – a lui – di entrare in contatto con lei, di attraversare il guscio serrato della conchiglia, di accedere al tepore che è lei. C’è questo momento: una fenditura tra due lastre di cemento nel marciapiede, il bordo di acciaio del predellino, una carta stracciata di Mars incastrata nella fenditura. E la mano del vecchio. E la sua. È questo momento. La luce spacca tutto, apre di schianto la volta della stazione, agguanta le stelle, agguanta la palla gialla della luna piena – Oh, c’era la luna – li inghiotte li spalanca li afferra se li porta dietro su su per le scale su su nello stanzone degli arrivi su su nella strada la strada che brilla di infinite lampadine ghirlande di lampadine sugli alberi e loro due, per mano, per mano attraversano la strada, per mano camminano senza preoccuparsi di nessuna destinazione sono questo momento per la prima volta. Per la prima volta non vanno da nessuna parte: lasciano che il tempo li attraversi di struggimento, di una stranita dolcezza.

Non sono due: sono uno. Come mi batte forte il tuo cuore.

– Non hai nessuna colpa, sai – dice Mark alla piccola testa che gli si è appoggiata sul bavero della giacca. La piccola testa si è mossa da sé: non è stata Maria, non è stato deciso. È la testa. La testa si è piegata, ha permesso alla energia magnetica del corpo del vecchio di attirarla, il vecchio è stato una calamita, la testa, come un penny, gli è corsa addosso, gli si è appiccata alla giacca, è ricaduta sulla giacca, su quella giacca e non un’altra e il viaggio è stato così lungo: fino a qui, a questo momento inaspettato e imprevedibile, un momento che non doveva esserci e che invece è stato estratto dal liquido formicolare del tempo e si è coagulato qui, adesso, la mia anima, me, connessa alla tua, intercambiabile, indistinguibile. Confidente. Io mi abbandono a te. Lascio che tu mi prenda sulle tue spalle, ti prendo io sulle mie spalle. Non sei pesante, vecchio. Non sei pesante, bambina. Pesa tutto il tempo che abbiamo perso, pesano le ore e i giorni in cui ciascuno di noi ha camminato solo per il reticolo penoso degli obblighi, della carriera, dei silenzi, dei corpi abusati, dell’affetto scostato via con fastidio.

Ma ora non pesa più.

– Nessuna colpa. Non è colpa tua se tua madre è morta.

La piccola testa soffia aria calda sul bavero di stoffa gessata.

– Non devi scontare nessuna condanna.

Oh mamma. Mamma che non ho mai potuto chiamare, mamma che mi hai buttato nel mondo e te ne sei andata per lasciarmi il tuo posto, davvero non c’entravo, mamma, davvero non è per me, per causa di me, per troppo amore di me che tu sei morta?

E ora ci sono le braccia, c’è questo caldo spropositato e riparatore, c’è il fortino delle braccia dell’altro, il riparo delle sue braccia: tu ci sei per me, tu proprio tu, non un altro, tu con questo odore di colonia nella piega del collo, il tuo viso cedevole e tiepido nell’incavo della mia gola, il raspo della tua giacca sulla mia guancia, i tuoi capelli che sanno di bambina, la bianca riga che li apre qui, sotto le mie dita, e ogni capello è un filo di dolore che ti laverò via, e il tuo orecchio, questo piccolo orecchio che è una chiave musicale, una mandorla, un nido in cui passare l’indice Che è accaduto, che sta succedendo, che ci succede?

Allora si può non avere paura.

E ora scendono o salgono per una qualunque delle vene di New York, in questa sera spalancata e sono due alberi con una sola chioma.

– Oh – dice Maria di soprassalto – hai dimenticato il cappotto sul treno! Non hai freddo? – e appende la mano al fondo della sua giacca, come una bambina piccola.

– No, proprio no – dice Mark e ricambia la stretta.

C’è questa, sì questa: gioia, pura gioia, allora è fatta così, la gioia, è una culla, una cosa che dondola e intontisce e anche una spada che spacca, qualcosa che esce senza che ci sia in nessun modo la possibilità di fermarla, un fiotto di gratitudine, e di stupore, uno sradicamento: rotoli dentro le cose, appartieni a ogni cosa, a questo marciapiede, alla luce travolgente delle lampadine che incoronano gli alberi della Madison, allo specchio delle vetrine, al rosso vivido dei fanali posteriori delle poche automobili che tornano a casa e si lasciano dietro una scia turbinosa di cuore palpitante nel nero della sera.

Sunday Morning – le è salito in gola da sé. DLI DLI DLIN DLIN DIN DON DIDON DLIN DLIN. C’è una mano che dondola una culla, e io sono dentro la culla, io sono nel nido, è la mia mamma che mi dondola, è il suo amore che mi sale addosso, il suo amore dentro questa musica, questo stordimento, questa invincibile grazia, questa: benedizione

Sunday Morning, praise the dawning – canticchia Maria a mezza bocca, le piace il suono soffocato della cantilena sul risvolto della giacca e le piace che la musica della sua canzone preferita gorgogli e sussulti intorno a loro due, sia una cosa liquida e tiepida e ondeggiante, liquido amniotico, sì, culla di carne per la vita che rinasce

There’s always someone around you who will call it’s nothing at all…

C’è sempre qualcuno vicino che ti dice che non è successo nulla…

Alt.

Solleva il viso, vuole vederlo bene negli occhi.

– Ma tu la conosci, questa canzone?