Maria

Non ha dormito molto, del resto non dorme mai molto. Il sonno la lambisce a tratti, a tratti si ritira come la marea e lascia bene in vista tutti i detriti trascinati dalla corrente, mucchietti informi di alghe di ripensamenti, sassi di rimproveri, e rami spezzati di speranze che non ha mai avuto. Certe volte lei pensa che potrebbe cavalcare il grosso tronco scavato dall’acqua che troneggia al centro della scena e provare a restare lì, a gambe strette, pronta per una partenza che non ci sarà. I libri accanto al letto. Il bicchiere dell’acqua. La tenda alla finestra increspata di sole.

Si è svegliata.

È Halloween, sì: stamattina deve essere Halloween. Qualche invasato sta provando la sfilata sotto le mie finestre. No, è il telefono. Il telefono che squilla nella stanza accanto, la stanza dove c’è il divano, il tavolo del pranzo e il letto per gli ospiti (non ce ne sono mai stati) nascosto dentro l’armadio. È un rumore insolito, invasivo, una intrusione non autorizzata nel silenzio secco della sua casa, bisogna assolutamente farlo cessare.

– Pronto.

– Qui è Katonah, è il garage Dreyfuss, sono Bobbie.

– ……

– Signora, la sua macchina è pronta.

– Non possiedo una macchina.

– Può darsi, signora, ma questo è il numero che ci ha lasciato lei e voleva che la avvisassi quando era pronta.

– La macchina è una Pontiac dell’89?

– Direi di sì, signora.

– Va bene: è mia. Quando è pronta?

– Signora: è pronta.

– Allora vengo oggi?

– Se le serve la macchina… ma vedo che è un numero di New York. Magari la macchina non le serve affatto e vuole lasciarcela per l’inverno.

– Verrò oggi.

Riattacca. Verrò oggi. Ha preso un impegno e lo rispetterà. E comunque la macchina va restituita a sua nonna, all’autista di sua nonna, l’ha chiesta in prestito sabato e avrebbe dovuto riportarla ieri. Non è partita con Tom perché doveva finire di scrivere una recensione e alla fine il fatto di avere due mezzi di trasporto diversi si è rivelato un bene, le ha consentito di scappare dal tremendo albergo delle Catskill Mountains senza l’obbligo di doversi giustificare. Si lava la faccia parecchie volte, con l’acqua troppo fredda o troppo calda, perché il lavandino non ha il miscelatore e gode ogni secondo della sua modesta tortura. Le capita spesso di pensare a cosa accadrebbe se si arrendesse definitivamente, se cessasse ognuna delle povere manovre che mette in scena a ogni passo e per esempio non si alzasse più dal suo letto, o si immobilizzasse sul marciapiede e non si muovesse nemmeno quando il semaforo intima “Cammina”. Qualcuno verrebbe a aiutarla, chiamerebbero una ambulanza o la polizia, lei dovrebbe spiegare e non saprebbe proprio cosa dire. Sono stanca è così inefficace. Tutti sono stanchi eppure continuano. È una specie di tapis roulant, nessuno riesce a scendere anche se basterebbe premere il pulsante rosso. Se fosse un’artista vorrebbe restituire questa immagine: il mondo di formiche nere che zampetta su un tapis roulant grande come l’intero mondo occidentale, l’unico che possa permettersi di acquistare una macchina per fare ginnastica.

Si è vestita come al solito ma poi non si è messa il cappotto, e questo è strano, non è da lei. Il sole di fuori non è una spiegazione, ce ne sarà un’altra, pensa mentre scende in ascensore contemplando i graffiti più recenti: un organo sessuale maschile con sotto un numero di telefono, una freccia che indica il soffitto metallico della cabina. Abbottona la giacca fino al collo, si butta di traverso la borsa di pelle, una sacca da postino piuttosto macchiata, piuttosto consumata e si mette la mano in tasca alla ricerca dell’iPod. Trovato. Accendi. Auricolari. Pronta. Velvet Underground.

Sunday Morning, praise the dawning

It’s just a restless feeling by my side

Domenica mattina, lode all’alba

Mi sta venendo una strana sensazione di agitazione

Come si chiama lo strumento che fa quel suono da carillon? Il triangolo… lo xilofono? Aveva uno xilofono, da bambina. Aveva tutto. Aveva una stanza intera per i giochi, aveva elefanti e orsi di peluche più alti di lei e aveva tre poltroncine rivestite di velluto blu e un divano identico a quello della nonna, ma più piccolo e aveva un servizio da tè per bambole in porcellana tedesca e un forno per cuocere i pasticcini, veri pasticcini e poufs e cuscini e quadretti di orsi alle pareti e cassepanche piene di giocattoli e c’era anche un pianoforte, per lei e per la maestra che veniva ogni pomeriggio a insegnarle il solfeggio e c’erano processioni di bambini in visita, tutti ugualmente intimiditi e troppo annichiliti perfino per l’invidia, bambini con pantaloni all’inglese e golfini con i bottoni d’oro e ciuffi di capelli sugli occhi, bambine con vestitini ricamati a punto smock e quel faccino smarrito che hanno i bambini quando si materializzano i loro sogni. Tutti, maschi e femmine, desiderosi solo di andarsene il prima possibile. All’inizio, lei aveva provato a sorridere, a offrire, aveva provato a condividere, ma loro, gli altri bambini, la guardavano da una infinita distanza, restavano fermi nella posizione esatta in cui la madre li aveva lasciati, introducendoli in quella stanza meravigliosa, o al massimo si dondolavano un po’, o spostavano il peso da un piede all’altro da un piede all’altro. E una volta ce ne fu uno che allungò la mano verso Pinky, il suo tigrotto rosa, solo perché era rosa e lei, lei non avrebbe voluto farlo, ma era stato più forte di lei, gli aveva dato uno schiaffetto leggero sulla mano e si era ripresa il suo tigrotto, si era nascosta dietro al suo tigrotto e il bambino non era più tornato.

È così difficile permettere agli altri di intromettersi, lasciargli lo spazio per infiltrarsi nella tua vita, e, se ci si pensa bene, non c’è nessuna ragione di farlo, è solo una complicazione, una fonte di inutile angoscia. Ciascuno sta meglio da solo nella sua stanza dei giochi.

Sono così vecchia, pensa. Così vecchia. Ho solo rimpianti e inettitudine (è colpa del taxi, il millesimo, che le è appena passato davanti senza prendere in considerazione né la sua esistenza né il suo braccio alzato). Va bene: farà la traversata, del resto Manhattan è perfino pulita in questa aria nuova di primo mattino, il marciapiede della 55esima è sgombro, i bidoni della spazzatura svuotati durante la notte non traboccano e ci sono fattorini e inservienti e magazzinieri, tutti con una rassicurante aria da campagna, da paese, lavano, scaricano, consegnano, caricano e intanto chiacchierano, stabiliscono la priorità dell’anima sul lavoro.

Early dawning, Sunday morning

Alba appena nata, domenica mattina

Deve decidere tra il giro lungo, dalla Sesta attraversando il Rockefeller Center, poi St. Patrick, la 50esima e giù per Park Avenue fino a Grand Central Station, oppure tutta la 55esima e poi Madison e poi la 43esima. Siccome camminare attiva le endorfine e siccome le sue endorfine non sono così pronte a mettersi in moto, farà il giro lungo. Intanto serve un caffè, un meraviglioso consolante caffè. Eccolo qua.

Adesso entrerà, ci sarà una rapina in corso (capitano, cose così), un ragazzo posseduto di eroina avrà una pistola in mano, starà minacciando la cassiera, lei entrerà e PUM! sarà finita.

Naturalmente, non c’è nessun rapinatore, né giovane né vecchio, nel bar uguale a tutti i bar della Avenue of Americas, un bar chirurgico, di formica macchiata e linoleum e pareti coperte di plastica lavabile, una sala operatoria lavata con lo spazzolone da un giamaicano arrabbiato già di prima mattina. Ma c’è comunque una sorpresa e Maria spalanca gli occhi e per un momento, un gratificante acquattato momento di pace che esce allo scoperto e subito scappa, le sembra di essere al cinema, le sembra di essere entrata dentro una inquadratura che non l’aveva prevista, all’inizio, e che invece ora la accoglie e le fa spazio. Ogni tanto le succede di vedersi come se fosse dentro a un film, ogni tanto, mentre fa una delle sue lunghe camminate, o mentre siede sola da Starbucks o anche mentre, da sola, si gingilla con il pc alla scrivania al giornale o guarda il muro grigio fuori dalla finestra, Maria si vede e non si dispiace: guardarla da fuori, la sua vita, è consolante, la libera dall’obbligo di viverla in prima persona.

Al bancone siedono cinque Mickey Mouse, ciascuno con la sua maglietta/camicina/felpa, ciascuno con il poderoso sorriso di plastica spalancato, ciascuno con davanti il suo milkshake e la tovaglietta vuota in attesa delle uova del mattino. Sono bellissimi. Saranno cinque fratellini, ci sarà un padre separato che ieri è venuto a casa a portare il regalo per Halloween e adesso eccoli tutti insieme, sulla via della scuola, a godersi l’effetto che fanno sugli altri avventori. Maria osserva e sorride, le sembra una cosa beneaugurante, la sfilza di Mickey Mouse, l’odore casalingo di fritto, le allegre gambette con le snickers sporche che dondolano dallo sgabello impazienti di rimettersi a correre. Mettiamo che, adesso, lei, Maria, si avvicinasse e ordinasse il suo caffè e poi, ZAC!, strappasse a uno dei bambini, il primo che le capita a tiro (le vittime sono sempre un esercizio del caso), la sua maschera e se la mettesse sul viso… la donna che serve al bancone e le due cameriere del bar (sono due, sono alle sue spalle ma lei ha registrato già la loro presenza) interverrebbero subito, di certo, le toglierebbero la maschera e la restituirebbero al legittimo piccolo proprietario, il cui broncio tremulo rientrerebbe appena un secondo prima del pianto dirotto. La guarderebbero tutti, anche gli altri avventori, come una demente, un esemplare della fauna così comune in questo habitat of Americas, le darebbero il caffè, il sogno americano che non si nega a nessuno e sarebbe finita lì. Ma se, mettiamo, appena uscita lei si girasse di colpo e, mentre passa accanto ai tavoli dei banchi che già si stanno allestendo per la festa di stasera, e sulle tovagliette di povera stoffa sono già sistemati braccialetti di plastica fosforescente e occhiali a forma di Empire State Building e baffi da Hitler e zucche di plastica con dentro una pila, ZAC! allungasse la mano e tirasse un lembo, uno solo, provocando uno straordinario derapamento della merce, BUM BUM BUM, sul marciapiede? O se entrasse in questo negozio di casalinghi, tra queste pile instabili di vasi brocche bicchieri piatti, orrendi specchi e grembiuli asciughini e taglieri e vassoi di posate e cominciasse a ballarci in mezzo, agitando la sua borsona come un mulinello e BUM BUM BUM, vetro e porcellana e maiolica dappertutto, schegge e frammenti che scricchiolano sotto i piedi, la gente ammutolita e lei che ride? Non è detto che qualcuno chiamerebbe il 911, ma comunque ci sarebbero i danni da risarcire e l’avvocato da pagare e le spiegazioni davanti al giudice: era una bella mattina di ottobre, signor giudice e io ascoltavo Sunday Morning nel mio iPod e ero così felice che ho spaccato tutto, capisce?

It’s just the wasted years so close behind

Il tempo perduto è qui, accanto a me, mi sta sul collo

Eppure, sta succedendo qualcosa.

Non saprebbe decifrare esattamente cosa, perché il continuo dialogo con sé stessa la sfinisce, ma insomma c’è qualcosa. Una specie di forza segreta è venuta a abitarla così, all’improvviso, di prima mattina, mentre va a prendere il treno per recuperare la macchina che l’ha tradita (o forse ha semplicemente ritirato la approvazione al suo solito comportamento con gli uomini). Si sta bene, con questa eccitazione che balugina dentro ogni passo. Vediamo qui cosa si potrebbe distruggere… ZAC ZAC ZAC una dopo l’altra saltano tutte le cassette di frutta di questo negozietto di pachistano emigrato ZAC ZAC ZAC giù questa pila di giornali ZAC ZAC ZAC la borsa mulinella e distrugge il carrettino degli hot dogs ZAC ZAC ZAC mulinello mulinello e giù tutte le teste una dopo l’altra

se avesse un fucile a canne mozze, sparerebbe?

I passanti del Rockefeller Center proprio non la vedono, sono in ritardo tutti, tutti corrono insensatamente per dimenticarsi di quello che li tormenta e qui, in questo giardino, in questa piazza, tra i bronzi che rilucono nel sole contadino che ancora protegge Manhattan (non sono suonate le nove), lei fa una cosa stranissima: si ferma, si stende per terra, appoggia proprio la schiena per terra, la nuca per terra e guarda il cielo e le nuvole e le punte dei grattacieli e si sente esplodere sì: esplodere qualcosa dentro la pancia, uno straniamento meraviglioso, una forza tatuata… Ma che vuol dire forza tatuata? bisogna rimettersi subito in piedi, spazzolare con la mano la giacca, aggiustare l’onda dei capelli stretti nel solito serrato chignon, scuotere via dalla borsa l’orlo di polvere scura che l’asfalto le ha depositato in grembo… Ma che c’era in quel caffè?

Watch out, the world’s behind you

Fai attenzione, hai il mondo contro le spalle

Perché non riesce a sopportare l’intimità? Non è qualcosa che ha a che vedere con le inclinazioni sessuali, è abbastanza sicura. Per quanto una volta, su un taxi, in un lungo viaggio da qualche parte, forse in India o in Kenia, un viaggio per strade polverose e intasate di gente a piedi e in triciclo e in bicicletta e su moto sgangherate, un viaggio pieno di sobbalzi e buche e cunette che sballottavano le due passeggere di qua e di là, di qua e di là, una volta è successo che la sua guida, una donna di cui in questo momento non ricorda nulla, solo forse i capelli molto corti e bianchicci, ha premuto intenzionalmente la coscia contro la sua coscia e lei ha realizzato all’improvviso quello che stava accadendo e ha dovuto decidere all’istante se mantenere la stessa posizione o no, e non ha deciso. Ha chiuso il tempo da qualche parte fuori della macchina e ha permesso alla calda oppressiva coscia della donna anziana di stare accostata alla sua, come una testa di innamorato a un’altra testa di innamorato e mentre tutto era immobile, congelato, nell’istante preciso della seduzione lesbica Maria ha ascoltato il suo corpo, la fine pulviscolare fibrillazione di qualcosa che le saliva dalla v delle gambe attraverso il segreto orifizio della vagina fino alla pancia e poi allo stomaco e poi alla testa, come effervescenti bollicine di champagne… Ha staccato la coscia. L’ha fatto. Ha eseguito il compito che ci si aspettava da lei e proprio mentre cercava di esserne soddisfatta, l’anziana donna… l’ha rifatto! C’è stata, di nuovo, la pressione complice e sensuale, c’è stata l’onda di bollicine che le è salita nel corpo suo malgrado e lei si è lasciata penetrare da una gamma turbinosa di pensieri sconci, ha pensato al corpo di un’altra, ai seni come di una mamma, a cui tornare a bere, alle cosce bianche, di cosa sapranno? alla bocca, uguale e diversa, e alla sgradevole risultanza di due bocche di donna che si perlustrano, indecenti e… va bene: deve dirlo. Lo deve dire ora mentre scende giù per la Madison che, avviandosi verso Murray Hill ha già perso un po’ della sua impeccabilità e per esempio allinea vetrine senza marca, intasate di telefonini e computer con i prezzi ribassati scritti sul vetro e commessi spettinati e stazzonati che aspettano al banco fumando e Valentino e Givenchy e Ralph Lauren sono distanti migliaia di chilometri, nell’universo asettico dell’Upper East Side, da cui lei è scappata… Sono scappata anche da lì, scappo sempre e dove finisco? Mi spazzano via come un grumo di sporco nello scolo del marciapiede, una mattina dopo l’altra, durante le grandi pulizie di New York…

Non può dirlo.

Non ci riesce.

Quanto manca alla Grand Central? Perché questo sta sentendo, Maria: che la sua sessione di autocoscienza può durare e durerà finché non arriverà al treno, in questo strano spazio separato che si è trovata a abitare a causa di qualcosa, stamattina: una mattina diversa da tutte le altre, questo le è ormai chiarissimo.

Quanto è durato l’amore con Tom, chiamiamolo amore anche se, dovendone dare una definizione, lei non saprebbe che rivolgersi ai romanzi, e non a esperienze attività pensieri suoi personali. Pensa al principe Andrej appoggiato alla colonna nel salone da ballo che guarda Natascia sedicenne ballare, guarda la sua indicibile nuovità, l’intatto trasporto con cui si apre al mondo e dice a sé stesso, al suo dolore di vedovo, alla sua stanchezza delle cose: se al prossimo giro di valzer si volta e mi guarda, la sposerò. E Natascia si volta. Vogliamo decidere di chiamarlo “amore”? o non si tratta piuttosto di appropriazione indebita, furto di anima e di gioia, un nero mantello che copre una rosa? E infatti va a finire male, a Andrej la mossa non riesce, ma solo perché è un romanzo, perché i romanzi buttano sassi e restano a guardare. L’“amore” è cannibale in sé, non solo nella cronaca nera: ci sono individui più deboli che non riescono a mettere in funzione la censura della civiltà e allora uccidono e talvolta persino mangiano (sì, ci sono stati casi, si ricorda di averlo letto) e altri individui, della specie con cui lei entra in contatto, che esercitano l’atto senza spargimento fisico di sangue, solo la carne psichica è lacerata e ingoiata… via, la gente non si ama per dare ma per impossessarsi. Anche Tom, travestito di bontà, è il nemico, anche a lui batte da qualche parte la smania di mordere, mangiare, distruggere… e comunque è troppo spaventosa l’idea di perdere il controllo, di tuffarsi in questa cosa da condividere.

Scusi.

Ha urtato qualcuno.

Chi?

There’s always someone around you who will call it’s nothing at all

Hai sempre qualcuno intorno che sta lì a dirti che non è nulla

Un uomo, un italiano, deve essere italiano, con i capelli lucidi e un sorriso festoso…

– Di qua di qua, si metta di qua.

– ……

– Stanno uscendo, stanno uscendo!

La porta sopra i pochi scalini è spalancata e un gruppetto di gente si sta separando in due ali per lasciare in mezzo una specie di corridoio e in fondo al corridoio immobili in una specie di saggezza retroattiva lo sposo e la sposa, inermi.

Belli belli di mamma Tonia il riso dove è il riso Alfredo, Freddie della nonna vie’ qua vieni qua come here

Deve essere bello essere italiani.

– Di qua, di qua, mettiti a destra, che sei alta.

– Alta è proprio alta, sei Maria vero?

– ……

– Facciamo la fotografia!

Si ritrova nel gruppo, laterale ma inglobata come un grumo, non più di sporco, ma di farina, rimasto sul bordo della ciotola dove si sta sbattendo una crema dolce e soffice e gialla, un grumo che diventa crema, a capofitto nel geroglifico continuamente ricreato dal mestolo… e ora è una testa, una giacca, nel lato sinistro della fotografia e l’uomo con il sorriso festoso sta dietro il cavalletto e pare così perfettamente felice. Ci sono le bisnonne in prima fila, e un nipotino vestito da uomo intimorito dal suo doppiopetto argentato. Accanto agli sposi i gendarmi delle madri, i padri distanti, con le braccia abbandonate di soddisfazione, il fratello dello sposo ha una cravatta gialla e la camicia azzurra e sorveglia la sposa alle spalle, la fidanzata è graziosa, ha un abitino di pizzo in questa estate benedetta e forse, dall’altra parte, la bionda con il ciuffo laccato è sua sorella, la sorella già sposata, il marito ha gli occhiali e porta l’unica camicia bianca del gruppo, è stato un buon matrimonio, lui è dentista a Brooklyn…

Grazie, dice Maria.

Il riso scricchiola sotto le sue scarpe mentre si allontana.

Ecco come può succedere. Cammini per il tuo destino e ti acchiappano dentro un altro chiamandoti per nome. Sarà un buon matrimonio, gli sposi giovani e la famiglia dietro, compatta alla vecchia maniera, nulla a che vedere con i matrimoni fastosi che conosce, i ricevimenti monumentali, gli annunci sul New York Times e poi le botte e gli avvocati dopo sei mesi: il matrimonio nelle classi privilegiate sta diventando una occasione sociale, qualcosa per cui comprarsi un vestito, qualcosa con cui lei non vuole avere a che vedere.

Sunday Morning and I’m falling

Domenica mattina e sto cadendo giù

Non le è mai accaduto prima e non le accadrà di nuovo, perché dopo, al ritorno, tutto sarà cambiato ma lo spazio/tempo che in questa inspiegabile passeggiata Maria ha trascorso con sé stessa, l’aliena che d’abitudine preferisce non frequentare, che desidera intensamente lasciare ben riposta in uno scaffale molto alto della coscienza, adesso le sta di fronte come una torta: potrebbe mangiarne ancora una fetta o due, custodire per alcuni altri momenti il potere inebriante e spaventevole – un viaggio verso la notte – di percorrere sé stessa, attraversarsi, esplorare lo spropositato, abbacinante pieno che la abita: come tutti, si capisce, altrimenti Freud e Jung e tutti loro che ci starebbero a fare? Per non dire di Sofocle. Quale dei mortali non ha mai giaciuto con sua madre?

Dunque, c’è il letto.

Un letto calmo, poderoso, con le colonne vittoriane, quattro, rastremate, finiscono con una pigna (fecondità?). Ci sono le coperte e i copriletto e tutto l’apparato di stoffe imbottite e foderate, a fiori, di raso di cotone, un numero esagerato di cuscini di varia forma e varia consistenza, l’idea fatta piume d’oca della licenza di lasciarsi andare, l’abbraccio non umano compreso nel prezzo della stanza. C’è una cameriera che improvvida suona il campanello e entra senza bussare, subito dopo, irrazionalmente, usando il suo passe-partout. E c’è Tom che schizza su dal letto e dice con la voce che riserva agli estranei (la voce dell’uomo autorevole e intatto) serve qualcosa? Si sente il rumore precipitoso della cameriera che fugge, e nell’anticamera, la loro è una suite, restano sospese deboli parole farfugliate, forse mi scusi non sapevo credevo, il goffo tentativo di far tornare indietro il nastro.

– No no no – dice Tom disperatamente.

Maria è raggomitolata nella sua parte di letto, ha le mani intorno al cuscino e si immaginava di essere in una culla fino a un secondo fa, nella penombra polverosa della stanza, nel riverbero della luce che entra dalla finestra schermata da tendoni di sipario. Immaginava una mano che la dondolasse e godeva il tepore del suo stesso corpo, il momento in cui il sonno si ritira cedendo al profilo delle cose e la domenica gli lascia per farlo un tempo infinito e dolce.

Adesso Tom è seduto nel letto, e tiene la mano sul petto e guarda fisso davanti a sé e lei sa che ha il divieto di muoversi, di fare anche un breve rapido spostamento di peso, o un sospiro, perché Tom sta aspettando il suo attacco e l’attacco richiede attenzione e concentrazione. L’attacco si perpetra nel silenzio, sono gli occhi gialli di un puma che saltano sul cuore di Tom e ne accelerano i battiti. Lei non può girare la testa, decifra i rumori: prima un ansito, poi lo scrocchio delle lenzuola di lino mentre lui serra i pugni, poi il colpo della mano aperta contro il materasso, un curioso gesto apotropaico che segnala la fine della crisi.

– Dovresti curarti – dice Maria.

– ……

– Non puoi andare avanti così. Non è possibile. La vita è rumore e confusione, è la cameriera che entra nella stanza, il clacson che suona, una macchina che frena… non può venirti la tachicardia per questo.

– Non si può fare nulla – dice Tom e ha il viso duro e insieme vulnerabile.

Basterebbe girarsi, appoggiarsi sui gomiti, avvicinare il respiro al suo, e abbracciarlo. In questo momento, Tom è un bambino mangiato di paura che si sforza di non mostrarla e lei potrebbe, dovrebbe consolarlo e ripararlo tra le sue braccia, contro il suo corpo forte di fattrice. Se lo abbracciasse – solo un breve spostamento della schiena e poi sollevare l’avambraccio, appoggiarlo sulla spalla sinistra di lui, avvicinare la guancia all’ombra dei capelli intirizziti di sonno – sarebbero una Pietà Rondanini, lei alta e forte e lui accostato al suo corpo, trattenuto dal braccio, una unica virgola struggente rassegnata e impenetrabile. Segue l’immagine che le si è appena formata nella mente, cerca la figura del libro d’arte del college, un bianco e nero – foto Anderson – privo di mezze misure, e può sentire sotto i polpastrelli, come se toccasse, la consistenza porosa e lacerata della pietra scolpita, la nascita dei corpi e il vegliardo che li genera, il rumore dello scalpello e la pietra che gli cede, scaglie e polvere intorno e il braccio stanco che colpisce la morte e vi distende l’indicibile corazza dell’amore… Sei giorni prima che la morte vinca.

– Hai mai visto la Cappella Sistina?

Tom la guarda perplesso, stordito.

– Che c’entra?

Ma lei è già in piedi, è scesa dal letto, il momento unico e non ripetibile in cui avrebbero potuto incontrarsi e salvarsi a vicenda, l’abbraccio, l’uovo primigenio è evaporato senza lasciare traccia e Maria ora è impaziente e seccata, sta già vestendosi, si sta infilando i pantaloni, le calze, le scarpe, il maglione, è una tartaruga che indossa il suo guscio, la piccola testa sparisce dentro al collo alto, riemerge

– Ciao.

CLIC.

La porta di legno pesante, insonorizzato si chiude dietro la sua fretta e la stanza resta immobile, come svuotata, come se osservasse l’energia che lei si è portata via, una stanza umana con respiro umano e occhi stupefatti che contemplano l’assenza. Occhi gialli. Un salto. È il puma. Di nuovo. Tom ritto dentro il letto si porta al petto le mani.

Sunday Morning and I’m falling

I’ve got a feeling I don’t want to know

Domenica mattina e sto cadendo giù

Provo qualcosa ma non voglio sapere cosa

Vanderbilt Avenue, a sinistra dentro la 42esima, traffico rumore umanità caos Payless Shoes.

La bocca della Grand Central. Tre bocche. Gli umani vi si gettano dentro. Lei non è sicura di volerlo fare. Dunque si ferma proprio sulla soglia della porta, la prima a sinistra e diventa un sasso immobile nella corrente. Intorno a lei si agglutinano e si scindono assemblati di corpi e borse e sporte e valigette e ombrelli, e Maria all’improvviso sa la verità: se varca quel confine, se si lascia trasportare dalla insensata foga che la circonda, accadrà qualcosa di imponderabile, imprevedibile, qualcosa che lei non potrà controllare

Una valigia

Una grossa valigia su ruote, così grossa che il suo pastore ci sparisce dietro, la sospinge invece di tirarla e non riesce a guardare davanti a sé sicché è la valigia e non l’ometto inebetito che la svelle dall’alveo della sua vita e la getta come un proiettile nella pancia poderosa dell’Atrio

È dentro.

Questo soffitto è troppo alto, questo salone è troppo grande, è peggio, assai peggio che trovarsi nel buio possente della Cattedrale di Reims, perché le formiche che vi si agitano non possono ottenere il conforto di Dio ma soltanto la magra consolazione dello zodiaco dipinto sul soffitto a volta, un enorme, maestoso sfavillare di costellazioni di lampadine che pretendono di imitare le stelle ma sanno di non poterlo fare e allora si sistemano su un cielo assurdo un cielo verde

Banco Informazioni.

L’impiegata è stata appena trasferita dall’ufficio postale svaligiato da Jessie James, arriva direttamente da Ombre Rosse e probabilmente indossa, nascosta dal bancone di mogano art déco, una gonna di crinolina.

Va meglio, ora.

Il suo treno parte tra diciassette minuti, al binario 41, la biglietteria è davanti agli ascensori. Eccola davanti all’impiegata della biglietteria, una esatta replica di quella delle informazioni, probabilmente la stessa donna dotata di potere traslativo. Finalmente ha in mano il biglietto, vediamo se si riesce a riacciuffarsi in questo vorticare di formiche, ci sarà un posto dove sedere?

La ricerca le provoca una nerboruta iniezione di fiducia: sta percorrendo l’atrio, sta persino scendendo le scale – non ha mai visto l’Oyster bar – e ancora non è svenuta. Bene, può farcela. La soglia dell’Oyster Bar è tuttavia insostenibile, è la bocca spalancata di una balena, l’uomo vestito di nero dietro al leggio ghigna un sorriso orrido e subito SBAM! il ventre cavernoso la risucchia intestini brulicanti di teste e il fragore di onda oceanica di centinaia di voci e le tovaglie a quadretti fintoparigino e le vasche di ghiaccio e argentone sommerse di aragoste e astici e conchiglie e granchi vivi

È immobile all’ingresso del ristorante.

Proprio davanti a lei, uno specchio enorme rimanda l’agonia di un granchio, un povero granchio nerogrigio che incespica nel ghiaccio splendente, stranito, stordito e finisce capovolto, il ventre che freme di angoscia, le braccia spalancate in croce

Sono io quel granchio

Il mondo è questo gelo scintillante questa paura queste onde di voci mai udite che frantumano la pace silenziosa del beato mondo sommerso

Di colpo la sofferenza delle vive creature che muoiono dentro le vasche le risulta insopportabile, ingiustificabile.

Sale via in fretta, riconquista l’atrio e sceglie una panchina, di quelle che rigano le gambe nude con le assicelle nude. Accanto a lei una donna nera piuttosto bella contempla le sue scarpe nuove. Per un momento, un incredibile momento in cui il caos della Grand Central si immobilizza in ascolto, Maria desidera intensamente essere questa donna, se la immagina attraversare la giornata impigliata a preoccupazioni pratiche e salvifiche, come verificare lo stato delle proprie scarpe e comprarsene un paio nuove al Payless Shoes, rigovernare i piatti nella sua cucina con i mobili anni Cinquanta, dare uno scappellotto al figlio che è rimasto troppo a lungo a giocare a football tra gli idranti, per strada. Tutto quello che è Maria – che si è assegnata come compito di essere – potrebbe venire abbandonato su questa panchina e, per meccanismi magici assai probabili in questo luogo di ingorgo di vite, potrebbe trasferirsi – metempsicosi tra vivi – alla donna nera. La donna sperimenterebbe l’appannato sentire che Maria conosce bene, il ritrarsi dal mondo dentro le pieghe dei corridoi, delle lenzuola, camminare rasente al muro, abbassare spesso la testa, annuire invece di rispondere, aprire un armadio desolato dove i vestiti penzolano come pesci morti, e intanto Maria si lascerebbe alle spalle l’inconsulto dolore che la abita e che non sa spiegare, un nitido grigno di vetro contro vetro e schegge coperte di segatura inzuppata di sangue.

Il treno per Katonah parte tra sei minuti.

Scende verso i binari senza prendere l’ascensore, precipita a ogni passo dalla accanita opulenza dell’atrio nello squallore abituale dei corridoi della metropolitana, cemento crepato e graffiti sui muri e tutti quei passi sprecati e indicibili rappresi nel puzzo di chiuso di corpo di grasso

Il corridoio fa una curva brusca.

Metro North. Harlem Line: è arrivata. C’è riuscita. È qui. È salva.

Per ora.

Il controllore è di guardia e lei mostra il biglietto: può passare.

Eccola. Sta camminando lungo il marciapiede, accanto al treno, senza una idea precisa della carrozza su cui salire. Costeggia le infinite possibilità ed è in questo momento che il destino la prende con sé, la solleva e la depone su un sedile accanto al finestrino nella carrozza 8. Maria si è comprata un panino e una bottiglietta d’acqua e li sistema sul sedile accanto al suo sperando che non venga nessuno. Poi guarda fuori dal finestrino, l’altro treno sull’altro binario, una successione di schermi televisivi ciascuno con una sua storia che vi si svolge, incomprensibile e nitida. Appoggia la fronte al vetro della sua prigione e la sensazione di freddo e di pulito la stabilizza, ristabilisce i confini del mondo in cui le è stato assegnato il compito di abitare. Questo treno, questo finestrino, questa carrozza di fronte e tutte le sit-com che contiene.

Sola, sola, sola. Il fantoccio di un ventriloquo senza ventriloquo Ho il cervello stanco e il cuore che fa male. Dove è la pace, il centro? Hippolyte dice: benedetta la mente che ha qualcosa di cui occuparsi al di là delle proprie insoddisfazioni.

Ci sono queste parole dentro la sua borsa marrone, benché lei ancora non sappia che ci sono e che la stanno aspettando. Non è detto che durante questo viaggio apra il libro (i diari segreti di Susan Sontag, pubblicati dopo la sua morte, una accurata grafia, lievemente inclinata a sinistra, dalla parte del cuore, e quaderni a righe, da scuola, disperazione a sorsi) né che, nel suo modo grottesco di leggere, una pagina, due poi un salto al centro, poi alla fine, poi indietro di nuovo e avanti di nuovo ma mai seguendo il senso del discorso, non è detto che riesca a trovarle e a impossessarsene, benché siano parole che le servirebbe conoscere.

Invece allunga la mano, arraffa il sacchetto con il panino di plastica e lo mangia a piccoli bocconi famelici, attenta a non sporcare.

Non vede l’uomo che il destino ha messo a sedere dietro le sue spalle. È un distinto, elegante signore anziano, porta un cappotto di cachemire e una sciarpa di vikuña candida, ha il viso di gufo bianco e le sopracciglia di lupo.

Partono.