Binky

Mi dispiace tanto, dottore. Mi dispiace veramente. Non so come sia potuto succedere, ormai sto meglio, veramente meglio. Riesco a ricordare senza soffrire. Senza soffrire troppo. No, forse è così che funziona: io vedo quello che mi è accaduto come se non riguardasse me, è così che funziona: la distanza, il fatto che io possa leggere la mia storia come se non fosse la mia, mi permette di accettarla. È così, vero? Non avrei dovuto gridare, ho spaventato la ragazza, l’ho fatta fuggire… È stato un grido così spaventoso, dottore? È la pancia che l’ha fatto, da sé, ma capisco che io sarei dovuto intervenire, seppellire il grido là, in fondo. Mi sono spaventata anche io, ripensandoci. E, ecco, io non lo so e non lo vorrei dire ma… possiamo non parlare di come è successo, non dire più nulla… possiamo, dottore?

È una giornata così bella. Vi ho visto, sa? Vi ho visto scendere giù dalla strada, lei e la ragazza è per questo che sono rientrata, in qualche punto segreto della coscienza, io vi stavo aspettando. Ho percepito questo: che la ragazza era lì per me. Una ragazza bella come questa giornata ma ricurva sulla sua bellezza, occupata a nascondersi, a sfuggire… Lei crede che stia facendo troppe supposizioni, vero? Vede, io passo il tempo solo con me stessa e le parole mi germinano addosso, io sono la loro terra e loro mi inseminano e sbocciano e crescono, certe volte io sono un bosco di parole, ci cammino dentro, scosto le foglie, i rami, calpesto quei cespugli bassi che c’erano nei giardini della vita che non mi appartiene più, i giardini delle case del dolore… Si sta così bene, qui. Così bene. È molto tempo che sto qui, vero? Ma non ricordo nulla. So solo quello che ho ricordato grazie a lei, sì: lei è la mia guida, dottore. Il tempo si è allargato e è venuto a prendermi e mi ha tuffato all’indietro e questa stanza, la mia stanza qui, questa stanza tranquilla, senza nessuna preoccupazione, è rimasta ferma ad aspettarmi. E vuota. Per questo non mi ricordo nulla. Mi avete fatto qualcosa? Qualcosa di meccanico, di chimico, intendo. Avete messo dei cavi elettrici sul mio cervello? No, alla fine non voglio saperlo, non voglio sapere quanti elettroshock mi avete fatto, la pazzia è una cosa calda, e la scarica è gelata. Non sono così sicura di ricordarmene. Il suo studio mi piace sa, dottore, mi piace tutto, questa luce di cotone, questa poltroncina, e lei seduto di fronte a me, c’è lei e lei mi aiuta, mi sta aiutando, è qui per me. È così bello, dottore, sentire che lei è qui per me. Io non ho avuto nessuno per me, prima che ci fosse lei. È tanto tempo che ci conosciamo, vero? Eppure non mi riesce di misurarlo, il tempo di adesso, quello che l’orologio sta contando è una superficie, io ci rotolo sopra come una pallina di burro… Mi scioglierei di nuovo, se lei non ci fosse. Ma lei ci sarà per sempre, vero, dottore? Lei non mi lascerà mai…

Mai mai.

Sono vecchia? Mi piacerebbe tanto guardarmi in uno specchio, lei crede che potrebbe alla fine regalarmi uno specchio? Potrebbe, dottore? Mi scusi, non volevo dire una cosa che non c’entra, è che mi è venuto in mente, proprio ora, ho visto la mia faccia dentro un lago di specchio ed è per questo che l’ho detto, lei mi chiede sempre di ascoltare le immagini che vengono a presentarsi e io mi sto domandando come sono adesso… Come sono, dottore? Sono brutta? Per me era importante essere bella, era un dato di fatto, partenza e anche meta, potevo fare qualunque cosa e sapevo che la bellezza sarebbe stata immobile a aspettarmi… Era il mio guscio, la bellezza… invece non mi ha aspettato, vero, dottore? Se n’è andata anche lei, come tutti gli altri… È per questo che ho passato tutto quel tempo a letto, soltanto io e le pillole, io e la coca…

Va bene, lei vuole che le racconti un sogno. Sì, sì, l’ho scritto. Mi sono accorta che sogno più di tutto di mattina, cosa vorrà dire? Sogno sapendo di sognare, riesce a capire? Mi sveglio presto e guardo l’orologio, grazie di avermelo fatto dare, ora che frequento le ore e mi ci arrampico è come se avessi un bastone durante una camminata in montagna… sapesse, dottore, che montagne, che montagne ho attraversato… e poi c’era lei, su questa poltroncina, come un lago in fondo allo strapiombo, e io mi sono buttata giù e lei era lì a aspettarmi e mi ha salvato. Lei non mi lascerà mai, vero dottore? Mettiamo che ci sia una piscina qui alla clinica. Non ci cadrà dentro, vero? Potrebbe non caderci, dottore? Non diventare blu e gonfio come il mio fratellino? Senta, non è che c’è un imbroglio e sulla retta della vita hanno segnato le deviazioni, ma in piccolo, troppo in piccolo… Ha presente una pista da slittino, devi mettere fuori il braccio destro proprio prima della curva, perché, se non lo fai, la forza centrifuga ti sbatte fuori, schizzi fuori come una malattia e vai in mille pezzi, esplodi di schegge… e se non la vedi, la curva? Se non lo sai? Mi scusi. Mi capita ancora di farmi portar via dai pensieri, ma adesso sono in grado di accorgermene e di rientrare nel binario e allora rieccomi, sono di nuovo qui,

qui

si

sta

bene

e le stavo dicendo del modo in cui sogno: volontariamente. La mattina mi sveglio presto, guardo l’orologio e lascio che gli occhi si richiudano e sogno. È come guidare. Giri la chiave dell’accensione e il motore romba si accende schizza. Avevo una macchina, una macchina così bella, una macchina credo decapottabile, avevo il vento libero addosso e andavo su e giù per Manhattan come cocaina… Chi ero, dottore? Perché non ce l’ho fatta? Oh, lei dice che ciascuno ha un margine di capacità decisionale e che è un margine, non l’intero; lei dice che, oltre un certo limite, oltre un certo punto, noi non possiamo intervenire su quello che siamo e quello che siamo genera ciò che ci accade… ma dovevo, io, proprio io, vivere tutto quel dolore? Perché è stato assegnato a me? Avrei potuto essere Marie Curie. Era un libro che ho letto da bambina, un grosso libro in una vecchia edizione slabbrata. Raccontava di lei e del laboratorio e del freddo che c’era fuori e della sua tenacia, tutte quelle ore, tutto quel tempo a cercare qualcosa che non si faceva stanare… e poi, una notte, qualcosa la chiama, lei non sa esattamente dire cosa, ma si alza dal letto, si veste, faceva freddo, c’era la neve, le carrozze slittavano con le ruote sul porfido della via… allora: lei va a piedi. Ha scarpini leggeri e l’umido le sale su per le gambe, le pozze di neve sciolta in cui affonda il piede la schizzano e lei ancora non lo sa, ma sono punti esclamativi sulla sua scoperta… eccola: apre la porta del laboratorio, c’è buio, un buio fondo, gelato e sul tavolo, il tavolo bianco delle macchine e delle esperienze, qualcosa… qualcosa che emana luce, dottore, emana luce densa, vischiosa, molecole di luce giallastra. No, mi scusi, non è questo il sogno. Il sogno è questo. Posso rileggere gli appunti che ho preso? Guardi che buffa calligrafia. Sì, lo so, voi la chiamate: “automatica”. Ma io posso dirle da dove arriva. Viene dalla pancia, sì, perché è nella pancia che si depositano i sogni. È lì che fanno male. Quando scrivo, mi pare di cadere all’indietro e allora mentre cado arraffo pezzi di quello che ho vissuto nel sogno e li aggiusto sul foglio. Sto attenta che combacino. Certe volte sogno una scena ma scrivo quella dopo e una parte di me sa che devo andare a recuperare qualcosa, che qualcosa manca e all’improvviso la scena che avevo perduto nasce nella pancia, di nuovo. Forse è per questo che lei mi fa scrivere i sogni? No, lei dice che io devo starci, con i sogni. Lei dice che devo abitarli, frequentarli, permettere loro di possedermi. Allora io ho imparato a guardarli senza domandare chi li abbia mandati. Li guardo, li riconosco e apro la porta per farli entrare. Lascio che i sogni si siedano a tavola con me, camminino con me. Lei dice che non devo chiedere ai sogni di svelarmi nulla, e questo è difficile, perché è così confortante pensare che sia già tutto chiaro, tutto splendente e che si tratti solo di strappare il velo e sapere perché ci è capitato quello che ci è capitato… di sapere cosa ci capiterà. Io vivo con i miei sogni, forse è per questo che sono guarita? Lo so che sono guarita, dottore. Non importa il grido di stamattina, anche i sani gridano, vero? Io percorro i sogni come un dito segue il disegno di un arazzo, sento i salti dei punti, sento il reticolo della trama, tocco le corna del cervo ucciso alla caccia e il broccato spesso dell’abito della regina Isotta… potrei venire come testimone a uno dei suoi convegni… Mi porterebbe con sé? Lasciatevi travolgere dai sogni, lasciate che siano musica che vi possiede… Sì, ora le racconto questo sogno. L’ultimo, o quello prima? Allora: quello prima. No: l’ultimo.

C’è un albero, un albero magnifico, molto vecchio, un albero con una chioma larga, maestosa e grosse radici come dita aggrappate alla terra, come nervi scoperti. La pelle delle radici è morbida, al tatto. In qualche punto, la corteccia si è aperta, si è staccata, è caduta, come pelle vecchia e ora ci sono radici quasi bianche, lisce, radici denudate per essere accarezzate. Nel legno, talvolta, si aprono fori come di orbite nere, leggermente incavate, non sono occhi, no, non so cosa siano. L’albero è fronzuto, ricco. È un albero solo. Sta al centro di un campo, di tanti campi, c’è questo spazio dilatato senza nessun limite, una larga piana infinita e al centro l’albero. Curioso: l’albero è anche al centro di una radura, è un albero che compare come una apparizione, isolato dalla foresta, quando si esce dal folto nell’aria libera. È un albero segreto ed esposto, ma è lo stesso albero, di questo sono sicura. Lo stesso immenso ombrello che ripara. E cosa c’è sotto, cosa c’è sistemato tra le dita nude delle radici? Sangue. E delitto. Sì, un delitto. Ci sono cinque, no, sei corpicini. Bianchi e nudi e arrotolati in coperte macchiate di sangue, copertine di culla. Sono neonati uccisi. È terribile da guardare ma esiste: è il mio sogno. E io so perché i neonati sono stati uccisi: hanno commesso un peccato, un peccato non perdonabile, il peccato per cui sono stati condannati a morire. C’è questo luogo calmo e bellissimo, questo verde smagliante, questo cielo terso, potente, ricamato dalle foglie dell’albero, dai suoi rami e sotto, tra le mani dell’albero, c’è questo peccato, ci sono i neonati giustiziati: questo è stato fatto: giustizia. Ma la loro colpa, io non la conosco, mi sforzo di incontrarla, di saperla, ma non la so.

Cosa vuol dire questo sogno, dottore?