Binky

Mi svegliavo alle due del pomeriggio, al caldo di quell’ora che sfinisce. Mi svegliavo e mi facevo subito. Andavo in cucina e aprivo il frigorifero e prendevo la fiala ghiacciata del liquido per sciogliere lo zucchero dell’Lsd e stavo bene. Stavo divinamente bene. Questo è il Paradiso delle Star. Non credete a quello che vi dicono, nelle interviste: questo è il Paradiso delle Star. È difficile da sopportare quando diventi una star. La gente si aspetta delle cose da te. La gente si aspetta sempre cose da te, ma se sei una star loro possono farlo, hanno dei diritti: hanno tutti i diritti su di te. Loro ti comprano e tu devi dargli soddisfazione. Se loro smettono di comprarti, tu scendi dal Paradiso delle Star e non è una caduta che si possa sopportare.

Oh quale caduta di lassù…

Robert Browning. Elizabeth Barrett Browning. Loro due l’hanno scritto. Uno dei due. Tutti e due. Loro erano in due.

– Ciao.

– Come stai sorellina?

– Hmmm.

– Non devi prendere quella roba.

– Hmm.

– Quando arrivi?

– Ho una seduta da Harper’s Bazaar.

– Arriva presto.

– Hmm.

– Facciamo una festa. Balliamo il twist.

– Mi piace il twist.

– Viene Nurejev.

– Hmm.

– Viene Truman Capote.

– Hmm.

– Viene anche Judy Garland.

– Oh. Io amo Judy. La amo. Pensi che lei mi ami?

– Lei ti ama.

– Pensi che tutti mi amino?

– Tutti ti amano.

– Pensi che mi amino come amano te?

– Loro ti amano tutti.

– Dimmi, cosa succede alla pelle se io la taglio con un temperino?

– Esce liquido fosforescente.

– Pensi che potrei tagliarmi con il temperino?

– Potresti.

– Quante volte mi potrei tagliare?

– Tutte le volte.

– Pensi che io balli bene il twist?

– Sorellina, è il twist che balla te.

– Hmm.

– Vuol dire che tu sei lui e lui ti balla.

– Hmmm.

– Non c’è nessuno che balla il twist come lo balli tu.

– Perché, io come lo ballo?

– Energia, sorellina, sei e–n–e–r–g–i–a.

– Perché sono energia?

– Perché balli per te, solo per te. Sei ballata e balli.

– E come nuoto?

– Non ti ho mai visto nuotare.

– Dovresti.

– Come nuoti?

Oh, Genio. Vorrei che nuotassi con me. Vorrei che venissi con me e sentissi l’acqua che ti accoglie, si apre si spacca e ti abbraccia. Io vado su e giù dentro l’acqua, fuori e dentro e dentro e fuori, l’acqua mi invade fino al fegato, fino al cuore. Divento burro e l’acqua mi scioglie. Divento acqua. La gente crede che io sia annegata perché io non riemergo, Genio. Io sto dentro l’acqua, al sicuro e poi l’acqua mi sospinge in alto, l’aria mi attraversa e di nuovo l’acqua si impossessa di me, mi avvinghia, mi tira di sotto. Si sta così bene così caldi sotto l’ombra del mare. Io vado giù e poi ancora giù e l’acqua mi dondola mi capovolge mi gira e sono una trottola d’acqua e sono in pace. E anche ieri ho nuotato e anche oggi, non so dove ero, ero dentro l’acido e potevo nuotare in questa stanza perché la stanza era così piena d’acqua che era azzurra e poi blu e poi nera. Era nera, questa stanza, sai Genio. E io ci nuotavo dentro e nuotavo su e giù su e giù dentro l’acqua e mentre nuotavo mentre nuotavo stavo bene proprio bene. E c’era David, con me. Fluttuava dentro il blu della piscina come un’alga preziosa. Dolcemente, in un tiepido apparente risucchio, le sue minuscole gambe di ragno, le braccia di ranocchio, la testa di mirtillo volavano leggere leggere nell’acqua neroblu, volavano fino alle piastrelle del mosaico romano sul fondo e anche io allora ho volato, anche io sono rimasta appoggiata sul fondo, accanto ai pesci della Reggia di Cnosso. Accanto a lui.

Sono andata alla seduta di Harper’s Bazaar e mi sono fatta fotografare. È come avere davanti Bor, ma senza bisogno di togliersi le mutande. Il fotografo mi ha sistemato davanti allo sfondo senza toccarmi, perché tutti sanno che io ho questa fobia, questa fisima: non desidero essere toccata. Altri fotografi mi hanno toccato e io ho urlato e urlato e urlato e la seduta è stata interrotta. Questo fotografo – che è molto famoso – sa come trattare con il Paradiso delle Star e perciò mi ha dato istruzioni: precise, nitide; da lontano.

Ero nuda, una dolce schiena nuda e sul seno una giacca. Una giacca vuota, stretta al seno. Un tentativo di ripararsi ma senza riparo. Stavo di fianco, offrivo il fianco al cannibale. Lui non mi ha morso. La fotografia mi ha semplicemente fucilato Clic clic clic. Amo questo flash che scatta come un grilletto. Amo proprio il rumore. Amo essere fucilata e alla fine credo che ci riuscirò.

Ma non ancora.

Per ora eccomi contro lo sfondo color pesca, incredibilmente bianca. La stylist mi ha fatto pettinare come Medusa. Ho i capelli alti come una montagna, una vera montagna. Sono i miei capelli e sono altri capelli di donne morte incollati sulla rete di un toupet. Ho pensato ai rospi, i miei rospi disegnati, i miei rospi così bravi a nascondersi dentro i buchi del prato che non ci sono. I miei capelli sono diventati una torre, io una donna-torre. La donna-torre che sono io ha mostrato il viso di tre quarti al fotografo. Un viso smozzicato, mangiucchiato. Mezzo viso. Una testa spaccata. Alla luce del flash, la mia metà di faccia deve essere risultata potente, perché il fotografo famoso mugolava di piacere e anche il suo assistente mugolava e l’uomo delle luci mugolava. C’era questo rumore come acqua come Ommmmmmmmmmmmm intorno a me e io ascoltavo le fucilate Clic Clic Clic. E c’era l’energia, dappertutto e–n–e–r–g–i–a. Energia viva e fucilata Clic Clic Clic

Credo che la fotografia sia venuta molto bene perché l’hanno messa sulla copertina.

Io ho tenuto quella copertina, solo quella, perché sono troppe le copertine dove mi hanno disteso e ho passato la punta dell’indice lungo il contorno della mia schiena bianca, lungo la piega del braccio bianco, su su fino all’ombra dello sterno su su lungo il collo appena inclinato lamato di squarci di luce su su fino alla bocca labbro inferiore ciliegia di labbro labbro superiore labbro di Bambi labbro di bambina – “sei la mia bambina, Binky” – su su fino agli occhi. Fino all’unico occhio. Mi basta questo occhio unico, è già abbastanza insopportabile possederne uno. Ha una forma a mandorla nera. La stylist ha chiesto alla truccatrice di dipingerlo di kajal dentro la palpebra dentro la rima della palpebra dentro la linea rosa del ciglio. L’occhio ha avuto paura di essere inghiottito e si è riempito di sangue. La stylist si è stupita che avessi il sangue di quel colore. “Quante pillole hai preso, Binky?” mi ha chiesto. Il fotografo famoso l’ha fatta cacciare e io ho potuto continuare a truccarmi per essere Binky.

Sono uscita dallo studio e fuori c’erano i miei sei ragazzi neri che mi aspettavano e stavano seduti un po’ dentro e un po’ fuori dalla Cadillac, perché non sapevano chi avrei scelto. Ne ho presi tre, i tre che erano già seduti dentro e siamo partiti, schizzati via su e su su e giù per le strade di Manhattan come cocaina, verso l’energia pura del laboratorio. Perché io ne avevo bisogno ero debolissima, il famoso fotografo mi aveva mangiata tutta – tutta intera anche i miei occhi iniettati di sangue: tutti e due; aveva mangiato anche quello che non si vedeva.

Gli uomini si innamoravano di me come funghi. Camminavo nel bosco delle mie giornate e ogni mattina, ogni notte c’erano funghi nuovi spuntati dappertutto. Erano uomini-fungo. Erano miliardari drogati e uomini d’affari sposati e inservienti di panetterie e ragazzi degli ascensori del Carlyle e eredi di porcellane di pozzi di petrolio di grandi magazzini di formaggini e di biscotti. Potevo annusare il loro odore in ogni festa, in ogni locale, in ogni bar. Erano funghi e crescevano quanto potevano ma restavano sempre a portata del mio piede. Io uscivo con loro sempre con loro perché erano il mio riparo.

Siamo arrivati.

Siamo saliti dalle scale di sicurezza, per cambiare. Salendo, su ogni piattaforma, cinque piattaforme per sei piani, io ho toccato lo striscione del laboratorio, uno striscione meraviglioso. Sta appeso come un arazzo medievale, è di tela bianca da film e con lo spray qualcuno dei devoti ha scritto

LIVE

The

Velvet

Under-

Ground

LIVE

DANCING

F I L M S

PARTY

EVERY

NIGHT

E un altro striscione penzola accanto a testa in giù ma è più confuso perché l’hanno scritto sotto acido e si legge poco ma per esempio

OPEN

STAGE

Every night

Meet

The wealthy people

Up

Stay up

Gli striscioni sono vele che si gonfiano sullo stagno immobile di New York, biancheggiano e attraverseranno la notte e sbarcheranno tutta questa fila di bella gente che aspetta di entrare per dimenticarsi chi è.

– Ciao.

– Ciao me.

– Ti devo parlare.

– Come è andata la seduta?

– Ti devo parlare.

– Devo lavorare, Binky.

– Ti devo parlare.

– Quante pillole hai preso?

– Solo quelle per dimagrire, come tutti.

– Sto facendo i provini, Binky.

– Loro mi odiano.

– Ah.

– Mi odiano, dicono che è per te: perché hai scelto me.

– L’odio rende preziosi.

– Io non voglio essere odiata.

– Binky, chi ti odia ti attribuisce valore, capisci? Ti odia perché tu sei qualcosa, perché possiedi qualcosa che lui non ha.

– Mi fanno piangere. Tanto.

– Ah.

– Piango e allora bevo e prendo le pillole, perché le ragazze mi odiano e si mettono parlare tra di loro e mi guardano e io lo so che parlano di me.

– L’odio rende nobili.

– Io non voglio essere odiata.

– Sto facendo i provini, Binky. Vuoi fare un provino?

– Loro mi odiano.

– Hector, chiama qualcuna delle ragazze, falle venire qui.

– Non ci sono ragazze, capo.

– Hector, fai venire qui le ragazze.

– Non ci sono ragazze.

– Dove sono finite le nostre ragazze, Hector?

– Sbam! Andate, capo.

Dove sono andate le ragazze, Hector?

– Loro mi odiano.

Dove?

– Dicono che tu vuoi solo Binky, capo.

– Ah.

– Loro mi odiano.

– Adesso guarda in camera. Guarda diritto dentro la camera. Hai tre minuti. Tre lunghi infiniti minuti. Fai quello che vuoi. Ma non muovere gli occhi. Non puoi muovere gli occhi. Convincimi a prenderti. Il laboratorio ha bisogno di ragazze nuove, vero Binky?

– Quando hai finito con lei, posso farlo io, il provino?

– Certo Binky. Un altro provino.

– Uno nuovo.

– Un nuovo provino per Binky.

– Sì, Binky, ma ora spostati. No, non tu. Lei. Tea. Ti chiami Tea, vero?

– Voglio fare il mio provino.

– Siediti più in là, Binky. Vai sul divano. Qualcuno si siederà con te sul divano. Hector? Portala sul divano e resta lì.

– Ho paura del divano.

– Hector!

– Ho paura di quello che la gente fa sul divano.

– Hector!

– Va bene.

– Tea, tocca a te. Hai i tuoi tre minuti. Puoi giocarli. Giocali. Ma non muovere gli occhi.

– Tu sei cattivo.

– Hector!

– Tu mangi le persone.

– Hector!

– Va bene, sono seduta: ma dopo ti devo parlare.

– Sì, Binky.

– Non dire sì, Binky.

– Hector!

Mi sono messa a sedere sul divano e ho aspettato che finisse. Gli altri erano in giro, Danny dormiva con la testa sulla tazza del water, Bibi controllava una sceneggiatura e due dei ragazzi si baciavano. Proprio davanti a me. Erano lo spettacolo per me. Io stavo seduta composta, con le gambe unite, le mani in grembo, e loro erano lì, alla distanza del mio braccio, ma più alti, due monumenti o un solo monumento allo schifo di baciarsi. Erano due bravi ragazzi, il genere che la sera alle sei si infila in un bar gay e aspetta. Due ragazzi con la camicia a quadretti bianchi e rossi e i capelli pettinati. E si baciavano con la lingua. Provo l’impulso di alzarmi e andare via: subito, adesso. Ma non ho la forza, non ho niente che possa diventare intenzione efficace. Ho solo questa polvere di corpo, questo mucchio di vestiti che Hector ha messo seduto sul divano: e sono io.

La lingua.

Vedo la lingua.

La lingua fa male. Penetra. Invade. La lingua trivella l’orifizio molle del ragazzo a bocca spalancata. La lingua lo violenta. Lo violenta, la lingua. È di materiale poroso, gommoso a toccarlo, io lo so.

– Ho finito, Binky.

– La prenderai?

– Non ho ancora deciso.

– Tocca a me fare il provino.

– No, Binky.

– Io voglio fare il provino.

– Perché vuoi farlo, Binky?

– Loro dicono che non sono un’attrice.

– Oh sì: definitivamente sì. Sei una superstar, Binky.

– Non dire Binky.

– Tu hai successo.

– Uhm.

– Il successo è esprimere sé stessi. Partecipazione/liberazione. Tu hai quel successo.

– No. Non ho mai una parte. Che cazzo di attrice sono?

– Sei la protagonista dei miei film.

– Sono lo sputo dei tuoi film.

– Ora vai a casa, Binky.

Sono tornata a casa e ho fatto tutto quello che dovevo fare, ho sciolto l’Lsd, ho preso le anfetamine, la benzedrina, le pillole per dimagrire e sono uscita di nuovo con la Cadillac perché è questo che vogliono vedere. La povera ragazza ricca superstar con la sua Cadillac verniciata d’oro che guida e sbatte contro i taxi e contro i cartelli stradali e sbatte e non si fa niente, neanche un graffio, perché si è già fatta tutto. Non c’è nulla che mi possa accadere che io non abbia già visto. Ho visto:

 
  1. la Bellezza. La gente riflessa nelle vetrine, ombre dentro le ombre. La bellezza di Genio quando è bello, quando il suo viso di angelo assirobabilonese Gibil diventa demone custode Seru Nasidu, diventa viso trasparente sulla carne del petto. Genio quando parla al telefono e ama il telefono, lo stringe come un amante, gli sussurra sulla bocca, lo respira e io sono il telefono perché lui è con me che parla.

  2. la Depravazione. Sorella della Bellezza, controparte, affondo di lama nella pura incontaminata essenza delle cose. Quello che la gente fa sul sofà del laboratorio. Quello che la gente fa nei gabinetti delle discoteche e non è quello per cui si costruiscono gabinetti. Quello che io non riesco a dire perché lo faccio, ho un talento per farlo.

  3. il Desiderio. L’uomo che mi ha guardato mentre stava appoggiato al bancone di un bar. E era biondo come mio padre, con gli occhi di ferro gelido come mio padre e le mani con le unghie rosicchiate come le mie. L’uomo con la sigaretta come un capezzolo titillato tra l’indice e il medio. L’uomo con gli occhi che escono dal bicchiere di whisky per perforare me, il mio desiderio che non esisteva e inventarlo, lì, sul momento, e spandermelo addosso come burro su un orifizio che si ritrae per lo spavento. L’uomo con la giacca gessata blu a righe grigie e i pantaloni gessati blu a righe grigie e sotto la maglietta lucida leopardata e sotto la maglietta la camicia nera. L’uomo selvatico che nasconde i denti mannari dentro lo scintillante color oro scuro del suo whisky ed è in agguato. È un predatore che aspetta. L’uomo che non mi perdonerà e non mi salverà.

  4. la Notte. Io conosco la notte. Conosco il vortice lento e fascinante dell’ombra, ciò che ti governa e che ti chiama. Io nuoto dentro la notte e scendo nel profondo, fino al mosaico romano dove dorme il cadavere del mio fratellino David. Certe volte David dorme sul pavimento nero delle discoteche dove vado a annegare, per il tempo che restano aperte, finché il cameriere non arriva con la sua faccia consunta e dice “La direzione vi prega di uscire” e sa già dell’odore appiccicoso e caldo del buco di Queens dove andrà a dormire. Certe volte dorme sul pavimento del laboratorio, e quando noi ci mescoliamo e ci arrotoliamo strisce umide serpentesche intorcinanti e vacue io devo pregarlo di spostarsi un pochino e lui sorride e si sposta. Certe volte il mio fratellino David dorme sotto il pedale dell’acceleratore della mia Cadillac quando mi butto su e giù per Manhattan e cerco di sfracellarmi e non mi sfracello. Questa è la mia notte, capisci?

Per ultimo regalo, prima di stancarsi di me, lui mi ha fatto un film. Io ho pensato che fosse l’inizio, e era la fine. È stato un film che non mi riesce raccontare, capisci? Mi viene da piangere, non posso r–a–c–c–o–n–t–a–r–l–o, raccontarlo non posso. È un film che sono me e io non sopporto di essere me. Io posso sopportare di essere chiunque ma non me. Io ho paura di essere me. Questo voglio dire, capisci? Vorrei che aveste pietà, questo vi chiedo. Abbiate pietà. Permettetemi di non essere me.

Lui ha lasciato che io fossi me e mi ha permesso di uccidermi, nel suo film. È stato meraviglioso potersi uccidere, essere autorizzati, essere sicuri che uccidermi era esattamente quanto mi era stato richiesto. Lui l’ha fatto. Lui: questo lupo che piange.

– Mettiti distesa sul letto.

– Così?

– No. Devi stare aggrappata al letto. Pensa che il letto stia scivolando e che tu stia scivolando e non vuoi farlo. Tu non vuoi cadere.

– Così?

– Aggrappati al tuo vestito nuovo. Stringi i pugni, tieniti stretta al tuo vestito nuovo.

– Così?

Gli altri, tutti intorno, non si muovono, non lavorano, non fanno niente. Raccolgono la mia disperazione come acqua di fonte.

– Adesso accendete le candele.

– Tutte?

– Mettete le candele intorno al letto.

– Anche sul comodino?

– Voglio una prigione di candele accese.

– Mi viene addosso la paura.

– Parlami della tua paura, dimmi di che colore è.

– ……

– Di che colore è.

– D’oro, sì è d’oro. Una bellissima paura d’oro.

– Vai avanti.

– Io nuoto dentro la paura.

– Sei il girino primigenio.

– Oh, sì. Grazie, grazie. Questo, sì è questo: sono un girino nella pancia di mia madre.

– Lei non ti vuole, Binky.

– ……

– Lei non ti vuole.

– Oh, ma tu mi amavi. Perché mi fai questo, perché mi stai facendo questo?

– Vai avanti. Questa è la via.

– Non voglio avere una madre.

– Accendete altre candele.

– C’è questo, che mi riguarda: io sono nata e sono viva e non c’è un ricordo che io possa ricordare senza disperazione.

– Hai ancora paura?

Gli altri, tutti intorno, non si muovono, non lavorano, non fanno niente. Ascoltano la mia paura e possono toccarla.

– Hai ancora paura?

– Ho anche pace. Sensazione liquida di destinazione raggiunta.

– Quanto sei fatta, Binky?

– Voglio morire per te.

– È gentile da parte tua.

– Non ho più paura.

– Accendete altre candele.

– Devo morire bruciata?

– Puoi morire come ti pare, sei una grande attrice, Binky.

– Allora posso scegliere?

– Sì.

– Voglio morire di brividi.

– Non è abbastanza.

– Voglio morire di lividi.

– Vuoi qualcuno che ti picchi?

– Oh sì.

– Come vuoi morire?

– Come un cavallo che scoppia dentro un lampo.

Gli altri tutti intorno, non si muovono, non lavorano, non fanno niente. Bevono la mia eccitazione e la ingoiano.

– Chi vuoi che ti picchi?

– Tu.

– Io sono troppo debole.

– Può picchiarmi uno dei tuoi ragazzi. Sarà bello lo stesso.

– Hector!

– Ma stiamo già girando?

– Hector!

– Devo stare ferma, mentre lui mi picchia?

– Tu vuoi stare ferma?

– Oh sì.

Gli altri tutti intorno, non si muovono, non lavorano, non fanno niente. Vibrano del mio desiderio di finire.

– Vuoi davvero che io faccia questo per te?

– Oh sì.

– Cosa dirà tua madre?

– Mia madre… verrà in clinica a Natale e io non la riconoscerò.

– Sarai morta, Binky. Sarai polvere d’ossa in una bara di velluto azzurro.

– Oh sì.

Gli altri tutti intorno, non si muovono, non lavorano, non fanno niente. Guardano.

– Picchiala, Hector.

– Ancora.

– Ancora.

– Ancora

– Puoi respirare, Binky?

– ……

– Spengo la cinepresa.

Gli altri tutti intorno. Io sul letto. Il dolore mi brucia come carta, crepita, divora.

– È buono – lui dice.

Mi lasciano riposare ma poi accendono la musica. Velvet Underground. Girammo questo film nell’Upper West Side, in un solo pomeriggio, le tende dell’appartamento erano oscurate perché si potesse vedere l’effetto tremolante della luce di duecento candele tutte intorno al mio letto. Restai sul letto per tutta la notte che avanzava, restai finché le fiammelle cominciarono a bruciare il pavimento e il padrone di casa che aveva prestato l’appartamento non tirò su la testa dalla morfina e cominciò a buttarci sopra le tende gridando che era la cosa giusta, la cosa più giusta: “Bruciamo tutti all’inferno”, disse. Genio e Hector spensero il fuoco, mi aiutarono a rivestirmi. Mi chiesero se volevo che Bob o Red o Chiunque guidasse la mia Cadillac ma io dissi di no. Così scesi a piedi per le scale di sicurezza ondeggiando e svolazzando e lasciando che l’aria del mattino nuovo nuovo mi penetrasse attraverso i pori i lividi e le ferite, come un vestito a pois per una seduta dal fotografo di Vogue.

Poi fui per la strada, una cortese strada dell’Upper West Side di primo mattino, mentre qualche disgraziato di sedici anni spazza il pavimento di un coffee shop che sta per aprire, un turco siede su una seggiola sbilenca accanto al banco dei preservativi nel suo buco di negozio sempre aperto, e l’acqua scorre lungo lo scolo del marciapiede nello sforzo inutile di lavare via il male dal mondo.

Servirebbe una donna, una donna che porta a passeggio il suo cane anziano. La donna esce da un portoncino marrone, rabbrividisce nel primo freddo dell’alba, scende i pochi scalini del portico, oberato da un timpano a cui presiede spaventosa una testa di sfinge circondata di geroglifici. Allora alzo lo sguardo ed è profondamente faticoso muovere gli occhi, ritrovarli in fondo al cavo oscuro dell’orbita dove il supplizio li ha precipitati. E poi li trovo, i miei occhi, gli occhi che sono me e vogliono sparire. E dunque posso vedere tutto l’Alexandria Condominium: i viluppi di fiori di loto, le colonne doriche, i falchi sui trespoli: Horus con la testa d’uomo e il corpo d’uccello che regna sul suo cielo, Ra che illumina il buio, Sokar, il dio della Morte e – enorme gigantesco ineludibile – l’occhio piumato di Harriese, la vista a cui nulla sfugge. E mentre la testa cade all’indietro in un modo innaturale, cade giù dal collo slogato, posso vedere – alte potenti – le sagome impettite dei due faraoni seduti sul tetto.

E sono debole come un’ombra che si scioglie.