Mark

Holland Gallery, c’è scritto. 960 Madison Avenue. Motion Picture. Fino al 30 novembre.

Ha infilato meccanicamente la mano in tasca e ora tiene tra indice e pollice il biglietto di invito, un lucido cartoncino nero stampato in caratteri Arial Rounded Mt Bold.

Il signor Holland richiede il piacere della Sua presenza per l’inaugurazione della mostra venerdì 28 ottobre 2006 alle ore 18.

Business attire.

Sembra innocuo: un innocuo invito tra gli infiniti inviti che nella sua posizione riceve. Eppure l’ha scelto. L’ha estratto dal mucchio nel vassoio Imari di porcellana blu e oro sul tavolo delle riunioni e l’ha preservato dalla distruzione. Ha detto a Miss Parker che sarebbe andato, suscitando il suo garbato stupore. Non sa perché gli sia venuto questo estro, eppure all’improvviso è consapevole di dovergli obbedire.

– Buona notte Mr. Wilson – lo saluta la guardia giurata dell’ingresso. Per lui è già notte, anche se sono soltanto le sei del pomeriggio. Per lui, e per la piccola gente del mondo a cui appartiene, la notte arriva subito, è lo spazio compresso del viaggio verso casa, della cena, del sonno intontito di birra davanti al televisore, e poi strascicar di ciabatte verso il letto, poche ore buie e di nuovo sul treno verso il lavoro. Una vita a quadretti come un quaderno di scuola. Butta l’occhio a sinistra, al finto giardino alberato di Ficus Benjamina che è il posto più elegante di New York per il lunch, il ristorante dell’Asian Society, e si ferma, proprio si ferma, come una cinepresa che gira e di colpo dà lo stop, su quella parola: “elegante”. La parola dardeggia come un neon nella notte. È come se fosse un burrone e lo chiamasse dal profondo vuoto perché si sporga, perché vi guardi: ma lui non lo farà. No: non lo farà. Non ha intenzione di accettare nessun rischio e il baratro che la parola “elegante” contiene, il baratro dentro cui ha seppellito tutta la sua vita, resta dove è. Mark Wilson esce sull’eleganza di Park Avenue, aggiusta sé stesso dentro le spalle del cappotto, come un attore nel suo costume di scena e si avvia a passi secchi e diritti verso la Madison. Deve risalire, conta, cinque isolati, dalla 70esima alla 75esima. Preferisce farlo nella discrezione di Park piuttosto che nello sfavillare nauseante delle vetrine della Madison, non è di umore da vetrine.

Ed eccolo che svolta dalla 75esima su Madison, e sceglie di fare il percorso più lungo, attraversando al semaforo per garantirsi la sopravvivenza. La fila torpida delle auto, degli autobus, dei taxi sta all’erta contro la riga bianca, una bestia fosforescente attraversata da un unico spasimo di ansia. Fa appena in tempo a saltare sul marciapiede opposto che la belva scatta d’un balzo. L’ha scampata: per questa volta.

In ascensore, controlla il suo viso allo specchio: uno stretto viso di gufo bianco con sopracciglia da lupo. La sciarpa candida è a posto: può entrare. Può mostrarsi. Non è questo che ha sempre fatto? Ha indossato una forma, un ruolo, si è esercitato a svolgerlo in modo che fosse credibile e ha convinto quasi tutti: tutti, alla fine. Non è questo, il suo mondo? Sagome, attori, recitativi, parole affrettate sul vuoto che ingrassano a vista d’occhio, fino a bastarsi completamente.

Le porte si spalancano e Mark si immerge nel vibrato dei corpi, armato del suo cappotto.

Mary Olson Pidgeon, Mary Olson Pidgeon ma dove ti eri nascosta? Dio mio sei uno splendore, sei uno spettacolo, una fata… È la clinica di Great Falls? Ma l’occhio dopo non cade, voglio dire: non ora, ma sai, come è successo a Rhoda Fortnum, le hanno tirato via troppa pelle e ora non chiude più l’occhio sinistro, o quello destro, insomma: un occhio. Pare che sia andata a Savannah a cercare di farsi attaccare sulla palpebra un pezzo di sedere… Paddy, sì quello è Paddy, irriconoscibile, vero? Ha perso non so quanto con il carbone, si è svuotato, ecco, e la moglie lo ha portato in tribunale perché non le garantisce più lo stile di vita a cui era abituata, la moglie, quella brunetta, la terza, quella che faceva la guardarobiera a Atlantic City… Erik è con il suo ragazzino, va anche bene ma è così giovane, quanto avrà, sedici, quindici? E se lo porta qui, scommetto che tra un minuto o meno saranno già nel cesso a slinguazzarsi… Almeno fosse nero, voglio dire: ci sarebbe un certo senso, una specie di scopo nobile, diciamo che lo manda al college, lo coltiva, lo tira su dalla merda e quello gli fa pompini politicamente corretti… Monika Traum, una tedesca, una tosta, ma proprio tosta. Il marito sta con una da anni ma lei se lo tiene e lo ricatta, ha fotocopiato tutte le vendite in nero di opere d’arte che lui ha fatto negli ultimi dieci anni. Osborne e Beauty Flaum, si sono sposati a Reno, Osborne è il marito e Beauty la moglie, carini, vero? Intercambiabili, un cazzo vale l’altro… ah ah… Luga. È una russa, sta con tre o quattro dei nostri amici, al rialzo. Pastermann. Ha comprato i due Rothko all’ultimo Christie’s a Londra e ora vuole Damien Hirst, dice che ne vuole comprare sedici, uno per stanza per la casa di Palm Beach. Trina… Trina… sei divina in sadomaso! Olpius, credo si chiami Olpius, quel tizio con i pantaloni bassi sul culo, quello con la maglia a buchi, scolpisce qualcosa, credo ferro, non so dove, da qualche parte a Meatpacking. La polvere va come un fiume, ne vuoi, ne ho, possiamo andare da me, dopo… Il marito è schiattato, un mese fa, sul letto di una puttana a Battery Park, legato come un salame, e con qualcosa dentro, capisci, e lei ha dovuto chiamare il 911 e non riuscivano a staccarlo dal cane… Quello lì commercia armi e si sta veramente mettendo da parte tanti bei soldini… Mattia bello italiano vieni a darmi un bacio. Dovrebbe arrivare Mellon, e anche quel tizio che si è appena comprato la Oliverjet, ha fottuto il socio e il socio è quel tizio con lo smoking, l’idiota con lo smoking, non dirmelo… Ho appena chiuso il contratto con la Revlon. Sai di Minna? Degli italiani è bene non fidarsi, sembrano così carini, e poi ti fregano. La sai la storia di Minna? Lì c’è suo padre, è quello che è uguale a un alano, quello alto, giù, accanto al bar, sta sempre accanto al bar, da quando è successo, è svedese o finlandese o danese e Minna l’ha mandata a studiare a Firenze, povera cara, e lei ha studiato poco e scopato molto, ovviamente e si è trovata un marito aristocratico, un vero conte italiano e il padre era contentissimo, ha fatto perfino restaurare l’intera villa a sue spese, per il matrimonio, ha riempito l’aereo aziendale di invitati e insomma: si sposano. A Firenze, nella cappella della villa, con il vescovo, sai come sono gli italiani e anche la benedizione del Papa. E lei non si diverte molto, fa quattro bambini e lui fa il conte italiano, cioè nulla. E un giorno lei apre la porta della camera da letto e se lo trova nudo, che si masturba, attaccato al telefono con l’amante… e lei che è una ingenua, poveretta, urla, grida, e poi si attacca al telefono anche lei e lo racconta a tutte le persone che conosce, e quelli ridono e ridono e lei non capisce, e siccome non capisce e intanto il marito se n’è andato, comincia a bere a bere e a bere e alla fine PUM! Il fucile da caccia del conte spara un colpo proprio in bocca a Minna, non era difficile da fare, c’è riuscita anche se non aveva mai tenuto un’arma in mano. Vedi che succede a sposare gli italiani… E Joy poveretta non ce l’ha fatta, morta, era troppo tardi per il vaccino dello Sloan Kettering e Paul Drax, ci contavano, ma ha detto che è rimasto bloccato all’aeroporto di Denver, chiuso dentro il suo aereo, è arrivata la tempesta e non gli hanno dato lo slot, in realtà è da qualche parte a ragazzini… Chi si scopa quelle due? Le ho viste al bar del Grey, so che vanno in coppia… Povero Dean, gli si legge in faccia che creperà tra poco, guarda come è magro, guarda la pelle, è proprio grigia grigio scuro… dove si va a cena?

Attraversa la calca con passi certi e diritti e il chiacchiericcio rimbalza contro il cachemire del suo cappotto. Gli altri si scostano per fargli posto, lui è Mark Wilson. Qualcuno, un artista, un giovane artista imbottito di speranze, sgomita per avvicinarglisi, scosta tre quattro braccia schiene corpi è vicino vicinissimo è a un mezzo passo da lui.

E poi si ferma: rinuncia.

C’è un momento in cui l’intero stanzone bianco e luminoso, la gabbia dentro cui si accalcano i corpi neri degli inconsapevoli topi, si immobilizza intorno a Mark. È il momento perfetto in cui Mark assapora fisicamente, mangia e deglutisce quello che ha saputo diventare. Ha saputo uscire da Harlem. Ha saputo imparare a studiare. Ha saputo riconoscere i meccanismi infinitesimi che regolano il potere e se ne è impadronito, ha scavato una stretta galleria, lentamente, faticosamente, ha fronteggiato imprevisti e cadute e ostilità, avendo sempre chiaro in mente il punto d’arrivo. Si è scrollato di dosso ogni possibile intralcio, ha vanificato qualunque possibile deviazione sentimentale, qualunque fonte di indebolimento. Doveva dimostrare che era bravo. Doveva dimostrare quanto era bravo. È bravo. Ce l’ha fatta. Sta dritto dentro la sua vittoria, la sua vittoria è il muto mormorio che lo accompagna, l’aureola della candida sciarpa di vikuña, la dura corteccia dello sguardo. In questo esatto momento, il destino lo contempla e si intenerisce. L’unico bambino bianco di Harlem è diventato una pietra d’angolo.

Eccolo: è entrato.

Entra e precipita. Oh, non è una caduta improvvisa, no, è piuttosto un lento vorticare di tempo grumoso, lacerato, strati sottili di tempo si sfaldano uno dopo l’altro, in una sequenza che ha lo stesso passo – lentissimo, agglutinante – con cui i suoi occhi decifrano il buio, separano l’ombra dal biancheggiare stordente delle grandi facce sul muro.

Jimmy. Lu. Henna. Bob. Susan Sontag totalmente alla mercé. Warren Beatty incommensurabilmente vulnerabile. Bruce Neumann capovolto. Rauschenberg. Tutti spaventosamente giovani e incontaminati e eterni.

Entra dentro di loro, è un pesce nel loro acquario di silenzio. È dentro gli occhi di Henna, dentro la mano di Lu che si tocca il sopracciglio, dentro il cerchietto nero che raccoglie i capelli di Christa. È Paul.

Tutto quello che è rimasto. Eterne facce che dureranno finché non marcirà la pellicola che le contiene. Ognuno solo contro il suo buio, finirà così. Eppure ora, qui, adesso, dentro questa stanza che ha un solo respiro, ciascuno è vivo, muto, immobile, è vivo, lavato del superfluo, ridotto alla sua nuda essenza, e per questo straordinariamente potente.

È il primissimo piano, pensa. Altera la percezione. Il piano americano non produrrebbe lo stesso effetto. No, è il modo in cui è girato, a sedici millimetri invece che a ventiquattro. È la lentezza a cui lo sguardo è costretto, è la fascinazione del tempo che ruota su sé stesso e tuttavia non si muove. È l’impudicizia delle vittime, la corrente alternata dell’onnipotenza che saltabecca da me a loro, da loro a me. Henna che schiaccia in un lampo di denti il sangue di una fragola. Gli occhi come un puma nel buio di Trini mentre risucchia la testa dello spazzolino da denti, ciascuna delle nuvole schiumose che le riempiono la bocca e si gonfiano e si avvolgono e si riavvolgono lungo la curva perfetta del mento: il paradosso del sesso. La vecchia storia dei carnefici, delle vittime, della sindrome di Stoccolma. Il passato lo agguanta.

Rivede la parrucca albina, gli occhi semichiusi come ferite impossibili da rimarginare, la maglietta a righe, le mani sui fianchi davanti allo spettacolo che erano loro. Sì, anche lui: non faceva il fotografo, allora, nei secoli trascorsi? Non era lì per respirare celebrità e succhiarla e spargersela addosso come polvere d’oro?

Arrivò un po’ dopo l’inizio: molto dopo l’inizio. Subito dopo quello che loro chiamavano “l’incidente”, glielo hanno raccontato tutte le volte che ha voluto, ogni volta con dettagli differenti, come in Rashomon. L’ascensore che si apre, Garry completamente nudo che schizza fuori con un coltello in mano, lui con la mano sul collo, neanche una goccia di sangue, lui non ha il sangue, Garry che balla felice una specie di valzer e a ogni giro lecca il coltello e ride, e loro, tutti loro, sotto i tavoli e dietro i divani finché Garry non accoltella una sedia e la sedia non gli restituisce il coltello e Garry allora si mette a piangere e c’è un momento immobile in cui bisogna prendere atto di quello che è accaduto.

Si volta, perché le facce sono insopportabili, adesso. Ha accantonato la Porta dell’Inferno in un nascondiglio della coscienza in modo che si coprisse subito di polvere e oggetti a caso e incombenze più urgenti. Il modo in cui sappiamo, sì: sappiamo mettere in scena l’ignoranza ai nostri fini. Sua madre, quando seppe di avere il cancro, si gettò, proprio si gettò su una scatola di cioccolatini appena comprata al bar dell’ospedale. La ricorda indecente e commovente, la bocca piena di cioccolata, il povero viso travagliato di rughe trasfigurato nel piacere coatto, aggrappata alla inutile dolcezza che finalmente si era concessa, per spregio, per disperazione. Rabbiosamente, la povera donna che era sua madre – la condannata – chiedeva di buttare uno sguardo nel giardino delle delizie.

E ora.

Ora tutti questi condannati allineati contro il muro

e

io

come

loro.

Come Lu che soffoca nel suo vomito, come Alex che si butta giù dal ventesimo piano con in mano il rosario e una lattina di coca cola, come Derek che si spara davanti allo specchio del bagno, in mutande.

Sono come loro: non durerò.

Eccolo in piedi, scolpito nel suo perfetto cappotto di cachemire eppure esposto – come una canna nel vento – al destino di tutti.

È stato bello: anche lui. Anche lui ha posseduto l’incanto del corpo, lo ha coltivato con le pillole di vitamine e gli esercizi alle parallele, ha rispettato l’obbligo della bellezza fisica che era la loro legge, ha goduto del privilegio di essere oggetto di sguardo. Un giovane uomo arrogante, questo è stato: difeso dall’acciaio lucido di un corpo glabro, elegante, un corpo su cui ogni freccia si spezzava. Giacche doppiopetto sulla pelle nuda. Al collo, annodato come un cappio, un foulard di seta nera. I capelli sopra le orecchie, all’indietro sulla fronte. Niente a che fare con Harlem, con nessuna macchina da cucire attaccata a braccio di madre. Si eccita al pensiero di quello che è stato, dell’oggetto sessuale che è stato. Vorrebbe farci l’amore, ora, averlo nel suo letto, quel giovane uomo inafferrabile, sussurrare sul broncio delle labbra, percorrere con la lingua il terreno liscio della carotide, dello sterno, l’ombelico infantile, il triangolo riccioluto della festa intorno al suo bastone, goderne tutte le gocce, lo schizzo sul viso, il dito che lo raccoglie e lo ingoia. Rabbrividisce dentro la turpitudine a cui si è abbandonato e permette finalmente allo strazio di penetrarlo tutto. Lo strazio di morire. Andarsene dal mondo che resta. Si potrà vederlo dall’alto e, di più, importerà di vederlo? Sarà superabile il dolore della separazione? Voglio che il mondo muoia con me. Adesso lo capisce, Ubu re. Ma, in fondo, non è quello che propriamente accade, nel momento assoluto della morte, non si spezza – oltre al mio filo – il filo del mondo che esiste perché lo guardo? Siamo monadi sul tetto delle stelle, sfrigolare di lampadina che salta. Trishhhhhhhhhhhhhh BANGGGG!

Bisogna sostituirla.

Ora può girarsi di nuovo, affrontare la prova delle facce sul muro, del loro trascorrere lento.

Abbiamo smesso di usare la parola viso, pensa Mark. Che parola antiquata, “viso”. Buona per una vecchia poesia, inutile, storta, tanto quanto “faccia” è rapida, efficace. Noi siamo facce: oggetti di fabbrica. Make-up. Facce fabbricate con cura perché nascondano il viso. Il viso è la nostra vergogna, la filigrana del lavoro tenace che compie il cadavere che ci abita dall’inizio, che ci rincorre nei giorni: e ci agguanterà.

La mia faccia a Good Morning, America. Il camerino spropositatamente caldo, la brava ragazza che trucca, e ha la certezza della piccola gente: “Ora la rimettiamo a posto”. Il potere assoluto che attiene agli utensili allineati sul tavolo, davanti allo specchio circondato di lampadine: le matite per le labbra, per le sopracciglia, per la rima dell’occhio, le polveri, le creme, gli ombretti, i lucidi, i rossetti, i fondotinta, le schiume, la fabbrica della faccia mostrata ingranaggio per ingranaggio, e la sensazione inconsulta di voler restare per sempre seduto lì, su quella poltrona, garantito da ogni corruzione, da ogni abuso del tempo…

Mamma.

Dicono che sia l’ultima parola che si pronuncia: quando si muore.

– Mark. Mark Wilson cazzo.

– ……

– Sono Lio. Lio Trapp. Non mi riconosci cazzone?

Ha ancora il dente marcio, un incisivo. Ha ancora la camicia molle sul collo, la cravatta slentata. Ha ancora i capelli da elfo, ma luridi e bianchi. Ha ancora le dita nere, il bordo delle unghie nere, mani da scimmione, l’unghia del dito indice lubrica fasulla rosa e lasciata lunga: artiglio per la donna che lo abita.

– Te la tiri eh, cazzone…

– Salve, Lio.

– Ohi come la fai lunga. Salve Lio, cazzo Lio. Come se nel gabinetto d’argento non avessimo mai fatto nulla… brutto maiale schifoso… Ah Ah dammi il cinque.

Gli dà la mano e Lio se ne appropria la rigira a suo piacimento e schiocca il palmo lercio contro il suo.

– Vecchio maiale, so che hai fatto carriera… mi era venuto in mente di venirti a trovare, nella terra del tuo denaro, il tuo impero asiatico, tanto per metterti a disagio e tirar fuori i vecchi tempi… e ora ti trovo qui, in pellegrinaggio… sei meno forte di quello che mostri, Mark Wilson… nessuno la fa al vecchio Lio!

– Già.

– Fatti guardare che cazzo. Che botta di cappotto, costerà come un appartamento a Fifth Avenue. E che stile, Mark Wilson, Signore dell’Arte di New York. Anche se ti preferivo nudo sul divano bianco con il fazzoletto nero al collo… ti ricordi che belle ammucchiate?

– Potresti evitare di disturbare gli altri?

– Ma chi cazzo sei diventato, Mark Wilson? La gente viene qui per questo, vuole il nostro casino, vuole essere noi, scopare come noi, vuole masticare la carne di ogni fottuto secondo, vuole distruggere tutto senza farsi male, come facevamo noi…

– Noi ci siamo fatti male, Lio.

– Cazzo cazzo allora sei venuto qui per masturbarti, per tirar in ballo queste fottute cazzate. Guardaci guardaci… eravamo belli e siamo ancora belli, siamo UGUALI, Mark Wilson, tu no ma noi sì, siamo sani, marci ma sani, e c’è una fottuta folla che viene in pellegrinaggio da noi e sta ferma a bocca aperta a guardarci e ci invidia, ci vuole portare a letto, vuole entrare dentro il mucchio, vuole vivere, strafogarsi di droghe di sesso di evidenza, vuole esserci, nel mondo, essere bella e sentire e toccare e leccare e ingoiare. Sono tante formiche nere e noi siamo lo sputo caldo di carne che loro corrono a divorare…

– Spengi la sigaretta.

– Che cazzo.

– La sorvegliante se ne accorgerà.

– E allora? Ti fai spaventare da una sorvegliante?

– Hai la camicia fuori dai pantaloni.

– E la patta aperta. Vuoi toccare?

– Il tempo è passato, Lio. Non si può fare finta di no.

– Ti ricordi la mostra a Parigi? Quella dei Che Guevara alti tre metri in mezzo agli stucchi e i francesi con la loro spocchia ammutoliti e inginocchiati e lui ne aveva fatti duemila, due–mi–la, di che mantenere dieci laboratori, un genio… Aveva appena rilevato la rivista, era un fallimento totale e poi arriva lui e tutto diventa oro, una fabbrica d’oro…

– Come te la passi? a denaro, voglio dire.

– Boh, solite cose. Non è importante.

Ora camminano, sono due formiche accanto alle altre e attraversano una sala di baci, baci orribilmente efficaci da cui ogni dolcezza è stata lavata via, odore di baci capovolti e insani, lingue sfrenate in cavità ignobili, uomini con uomini e donne con donne, l’orecchio gigantesco di Lenny, sì, è Lenny, era Lenny che baciava così, la sua lingua che trivella una bocca spalancata la perfora questo morso infoiato senza riparo è Lenny, sono io. La veridicità e la verità sono due cose differenti, pensa Mark, qui c’è natura, pura animale natura umana pervasa da intenzione cannibale. Qui c’è il lavoro dei baci, la determinazione con cui vengono perpetrati – inflitti, si direbbe – si espande sul visitatore, lo assale, lo infilza al cavallo dei pantaloni. Se Mark non si fermasse, se non attivasse per un caso fortuito e benedetto l’interdizione del circuito che alimenta l’interruttore, sarebbe già addosso a Lio, a quella sua bocca fetida e la violerebbe con la sua lingua di malato, la possederebbe. Puro Irenaus Eibl-Eibelsfeldt: attaccarsi a un libro, al sapere per ripararsi dall’istinto. Amore e odio. Il rifiuto a desinare o a bere insieme può costituire una offesa mortale…

– Beviamo qualcosa?

– Cazzo Mark, ci sto.

Ora sono da qualche parte sulla 74esima e la Madison, o forse è la 72esima. Sono in un club che ha appena aperto, in cui si entra scendendo una rampa di scale, sotto una tenda rossa, sono plancton nella penombra annacquata di pozze giallognole tra divani fintoinglesi e corrimano di ottone lucido. Davanti a loro, sul cristallo che protegge il mogano, c’è una bottiglia di vodka.

– Smirnoff. Tu guarda. Questi stronzi ce l’hanno con noi.

– Già.

– Lo sai che faccio? Vado alla mostra tutti i giorni, tutti i giorni, ci vado e sto lì e aspetto. Capita sempre qualcuno di allora. È come stare accanto a una carta moschicida.

– ……

– Cazzo, se non vuoi parlare, dillo. Sei sempre stato uno che se la tirava, anche quando facevi il fotografo fallito.

– Già.

– Non tanto fallito, avevi il tuo ruolo e io avevo il mio, diciamo. Il mio ruolo era meglio, sarai d’accordo. Io ero il suo angelo custode… Ti ricordi come li incastravamo, i polli? Che goduria, cazzo. Attirati come topi con il formaggio. Diciamo che ero bravo, molto bravo. Arrangiavo le cose come se fossero naturali e quelli abboccavano come trote. Non ci sono che i ricchi che sono così idioti. Cascarci con tutto il culo… Gli metti in tavola un regista svitato, possibilmente drogato fradicio e senza nessuna intenzione di nasconderlo, una di quelle matte che pensavano che noi fossimo il centro del mondo e arrivavano vestite da cocktail con gioielli da vomito e capelli appena fatti, due di quelle lesbiche inglesi che a lui piacevano tanto quando era nella fase anglofila, con quei nomi fasulli, Chloe, Daphne, una celebrità poco schizzinosa bisognosa di incassi extra più un cantante fallito più un visconte inglese alcolizzato e il riccastro! Vai con la Smirnoff vai con la Grappa italiana e in tavola caviale finto e la vittima a bersi la soddisfazione di esserci e i trentamila verdoni del ritratto gli uscivano dalle tasche prima del caffè… Be’, lui era abbastanza ostile, è vero, e qui entravo io in scena, parlavo a nome suo, gli pettinavo la parrucca, gli facevo da agente, non c’era da aspettarsi di più, in fondo lui era l’artista, era l’idea, era quello che aveva capito tutto prima degli altri… Trovami un altro che sia stato capace, trent’anni fa, dico: TRENT’ANNI FA, di pronosticare a ciascuno i suoi quindici minuti di celebrità e anche i suoi novanta anni di merda totale. Ah Ah… Lui era il Dio della Fama, lui decideva chi assumere in cielo: bene Bianca e Lee e Keith e fuori David e Greg e Donnie sceglietevi il sesso che preferite Kitty, Missy, Gloria, siete i travestiti più f–a–v–o–l–o–s–i della storia… Dopo hanno cercato tutti di fare come noi, ma noi eravamo lì e era diverso, incomparabilmente differente… Cavalcavamo le nuvole e i cazzi, era uno sballo continuo…

– Già.

– Mi è dispiaciuto di Lou. E anche di Derek. La gente che muore mi provoca la nausea.

– Devo andare.

– Ah.

– Tu no?

– Non ho un cazzo da fare, a dire il vero. Per quanto… Dovrei vedere Troy.

– Troy chi?

– Landmann, un fotografo. Considera che è ancora peggio di me, come ritardo mentale. Sta ancora da qualche parte vicino a Union Square e tiene i capelli sotto una sciarpa e gira in mutande per casa e ha verniciato d’argento le pareti della stanza dove fa i ritratti…

– Posso venire con te?

– Ehi ehi calma amico che ti sta succedendo? Prima avevi la puzza al naso e nemmeno mi volevi salutare e poi mi hai portato qui a bere vodka e adesso mi vuoi venire dietro… Sei vestito troppo bene per Troy Landmann, ti piazzerebbero un coltello alla gola prima che tu sia capace di arrivare alla porta del suo scantinato…

– Mi serve un ritratto.

– Un ritratto? Con tutti gli artisti che pendono dal tuo bilancio…

– Andiamo.

E ora sono usciti e imperiosamente Mark Wilson, resuscitato nel fresco della notte che lava l’Upper East Side, ha convocato un taxi con un gesto appena accennato della mano, è accorsa una opulenta berlina nuova, una Chrysler ineccepibile, l’autista è americano, impossibile: è a–m–e–r–i–c–a–n–o non arabo non sikh non turco non cinese giapponese filippino guatemalteco messicano. E ora costeggiano la bruma del parco, i palazzi eleganti della Quinta Avenue, le vetrine di Harry Winston, di Tiffany, la Trump Tower, i leoni della Public Lybrary, Murray Hill, il povero Empire desertificato dall’11 settembre, un cazzo vuoto contro Manhattan, il Madison Square Garden, e sboccano in un turbine voluttuoso di velocità notturna nel vento della 23esima diritti sotto il Flatiron Building. La Broadway. Union Square. Il puzzo familiare, i familiari pornoshop, il cartello di Strand Books 8 miglia di libri, i negozi di dischi identici a trenta anni fa, con i tavoli lerci ingombri di dvd e i muri incrostati di machi in vendita.

Vrooooom. Dong.

Quarta Avenue con la 12esima.

È qui.

Un universo separato, tre continenti e due oceani tra qui e il 960 di Madison Avenue. L’universo di Lio; e Mark, inopinatamente, adesso vuole entrarci.

– Hai nostalgia?

– Ho paura.

L’ha detto. Non sa come sia potuto succedere, Mark e conta sulla indifferenza ottusa di Lio, sulla concentrazione con cui sta cercando nella penombra svelenita dall’unico lampione funzionante – gli altri sono stati tutti vittima di sassaiole precisissime – il cancello giusto.

Ha paura. Eccola, la paura. Si è divelta dallo scaffale, si è scrollata di dosso la messe di oggetti: “psichici” direbbe il dottor Schade, appoggiando la schiena alla sua poltroncina da analista di lusso, lei deve pensare ai suoi sogni come oggetti psichici deve vedere sé stesso in ognuno dei personaggi psichici dei suoi sogni, lei è sua madre e suo padre e i suoi amanti e la testa decapitata sul comò della camera di sua madre che ha appena incontrato nel sogno di oggi è lei, proprio lei, una parte di sé che lei deve incontrare, questo è il lavoro che svolgiamo in questa stanza – Quanta gente devo incontrare dentro di me prima di trovare un po’ di pace, dottor Schade? e ora la paura troneggia dentro di lui e lo pervade, gli ha acchiappato le gambe, le braccia, lo stomaco

– Eccoci!

Mark non lo sa, ma tutto quello che sta accadendo segue il disegno di Ananke. Tutto quello che sta accadendo è necessario e ha uno scopo. Anche questi scalini scivolosi, anche questa porta di ferro che si deve raggiungere scostando i sacchi della immondizia condominiale.

Troy Landmann, il fotografo, è un Cristo Morto di Mantegna, nudo dalla cintola in su. Pronto per la Resurrezione di Piero, pensa Mark e in qualche modo si sente confortato dal repertorio del suo sapere. Si è aggrappato alla competenza, come un altro si sarebbe fatto gangster, con la stessa determinazione salvifica, con la stessa certezza che fosse l’unica via.

Il Cristo Morto li lascia entrare.

È una stanza violentemente illuminata, una sberla dopo l’ombra di fuori. Il Cristo Morto ha appoggiato su un tavolo la lattina di birra e torna a riprendersela, come se loro non ci fossero.

– Questo è un cliente, Troy. Vedi di farci bella figura.

– Buonasera. Mi chiamo Wilson.

Il Cristo Morto continua a voltare loro le spalle.

– Chiudo la porta, Maestro?

SBAM

– Che cazzo fai?

– Ho chiuso la porta.

– Ah.

– Questo è Mark Wilson.

– Chi se ne frega.

– Vorrei un ritratto da lei.

Il Cristo Morto si gira e finalmente lo esplora. Vede un vecchio infilato dentro le spalle curve, un paralitico senza la sua sedia.

– Che cazzo.

– Mi dicono che lei fa questo, come lavoro. Ritratti.

– Come lavoro io mi ubriaco. E mi faccio. Ci vuole tempo per tutte e due le cose.

– Senti Troy, ti ho portato uno che fa sul serio.

Il Cristo Morto appoggia per terra la lattina di birra e si dirige verso l’uscio spalancato del gabinetto. Lo vedono di spalle, mentre si cala i pantaloni. Porta, Mark lo registra in maniera meccanica, quel tipo di mutande che si comprano a pacchi di dodici per strada, imitazione di Calvin Klein. La sciarpa che gli copre la testa potrebbe essere un vecchio golf di ciniglia, la manica di un vecchio golf di ciniglia. Mark riesce a vedere sé stesso come se la scena gli venisse proiettata davanti: si vede nello scantinato illuminato a giorno, vede la tazza del gabinetto, vede le sue scarpe ancora perfettamente pulite, i suoi mocassini italiani, sul pavimento di linoleum a chiazze, e prova una pena indicibile, raccoglie dolore come gocce di pioggia in un bicchiere.

– Per favore – dice. Dice: per favore. È un altro Mark Wilson.

Il Cristo Morto adesso sta venendo verso di lui e potrebbe fargli tutto: baciarlo o ammazzarlo, indifferentemente. Forse essere ammazzato non sarebbe una opzione da scartare: eliminerebbe lo strazio della recita, la performance dell’attesa, darebbe un senso anche teatrale a tutta la sua storia. Il curator dell’Asian Society accoltellato e squartato in uno scantinato di Union Square dopo l’opening della mostra alla Holland gallery. Sintatticamente perfetto.

– Ok, vecchio. Vieni con me.

Dunque è vecchio. Ha solo sessantotto anni. Solo sessantotto volte dodici. Una cifra così minuscola, una cifra che non assomiglia neppure a un geroglifico. Non è simmetrica come ottanta, né altezzosa come novanta, è una cifra incompleta, come tagliar la testa a un bambino. Ma va dietro al Cristo Morto, perché è per questo che è venuto.

Comincia la sessione fotografica. Il Cristo Morto si dimostra un vero professionista, lo studio – la stanza che fa da studio – ha tutte le luci a posto, ha i faretti e il treppiede e l’esposimetro, le cellule fotoelettriche, diaframmi, obbiettivi, caricatori. Fondale. Il fotografo ha una barba rossiccia e spaventosa, una barba da Mefistofele e per un momento, mentre i clic dell’esposimetro scandiscono le pose, Mark Wilson ha l’impressione che lo lambiscano le fiamme di un inferno che accieca.

Si trova – si è messo – in una situazione del tutto nuova, la prima situazione, da parecchi anni, in cui non è lui ad avere il controllo. Lo scantinato illuminato a giorno è una gigantesca sala a raggi x, ciò che adesso la macchina fotografica cattura non è più Mark del cappotto di cachemire, non è più l’uomo che ha saputo diventare ma il girino primigenio, il povero corpo rattrappito che morirà acciambellato su sé stesso, ristretto, risucchiato, come un cane pulcioso che muore dentro la sua palla di pelo… Si raddrizza, si aggiusta. Non vuole essere questo. Vuole altro, da questo ritratto. Vuole l’eternità del giorno, dell’unico irripetibile giorno, che traluce nelle rose di Tina Modotti, quello struggimento incontaminato, la superbia della bellezza. Vuole un’altra foto, ora lo capisce. Una foto degli anni Settanta. È per quest’altra foto che è venuto, che si è caricato del peso di Lio, della sua volgarità. Questo non è uno studio fotografico: è un obitorio. Ogni cassetto contiene un cadavere. Ci sono tutti loro, là dentro, là sotto. Loro che scelsero di essere immortali e di bruciare come fiammiferi. Adesso sa perché è venuto fin qui. Vuole il giovane uomo arrogante che ha desiderato fisicamente nella penombra della Galleria, il giovane uomo che è stato. Vuole il suo corpo intatto, stupefacente, il collo senza rughe, la fossetta sul mento, le braccia, la giacca doppiopetto aperta sul petto nudo. Vuole inconsapevolezza e fiducia. La stupida commovente fede nel futuro che spinge la gente davanti all’obbiettivo: la presunzione di durare. Dovrebbero vietare le foto dei morti, impedire che ai morti sopravvivano le loro fotografie. Sputi di eterno, ecco cosa sono. Carta alla colloidina, ai sali di ferro, al platino, alla gomma bicromata impressionata per un tempo limitato dall’orgoglio precipitoso di sopraffare la morte. Tutti abbiamo occhi di agnello, nelle fotografie, abbiamo occhi da Antigone, ma non lo sappiamo: tutti. Tutti proiettati sullo schermo della caverna, ombre inconsistenti eppure pervicacemente sicure di esistere per sempre.

– Ti senti male, vecchio?

Ritrova lo sguardo di allora, laterale, altezzoso.

– Sono pronto – dice.

ZAC!

Succede quando stanno uscendo.

– Ho visto Chuck, oggi pomeriggio. Chuck Leroy.

– Ah.

– Il maschione, ti ricordi? Lui lo amava molto, a modo suo. Ora ha un negozio di forbici, o di cappelli, qualcosa. Quella mostra è come un funerale: si incontrano tutti. È come andare al nostro funerale, un funerale in grande stile, comunque, ti pare?

– Posso riavere il mio cappotto?

– Ciao Troy, falli avere a me, i ritratti, è più semplice.

– L’assegno.

– Non hai contanti, vecchio?

– No.

– Va bene, prendo l’assegno.

– Chiudete la porta, fratelli.

– Mi ha detto di Binky.

– Binky?

Il nome penetra dentro il petto come un coltello.

– Sta in una clinica, di quelle da mille dollari al giorno. Gliel’ha detto Paul. Erano andati a farsi una birra e Chuck non aveva neanche un fottuto dollaro e ha detto – ci vorrebbe miss miliardo pago io – e Paul gli ha detto che era in clinica.

Sul marciapiede buio la pioggia ha steso un velo argentato. Lio si è messo una mano in tasca, si è acceso una sigaretta e lo guarda con i denti di metallo sguainati. Il giovane uomo arrogante è uscito dalla fotografia e ora prende a braccetto il vecchio e il vecchio lo lascia fare. Lascia che lo porti con sé.

– Sai dov’è la clinica, Lio?