Maria
Cammina dentro il riflesso cangiante delle vetrine, nella luce di vetro che scontorna le facce, le disintegra come una esplosione di gas, e diventa anche lei una faccia esplosa, disintegrata in milioni di distinte particelle aguzze, impossibili da ricongiungere.
È la Quinta Avenue. È New York. È la copia esatta di esatte e nitide giornate di primo autunno, giornate che si affollano intorno all’Estate Indiana cercando di scaldarsi, sotto gli alberi del parco che di colpo invade la strada e la spenge dentro marciapiedi senza luci, solo alberghi assediati da palizzate e impalcature e cartelli sindacali, alberghi morti che diventeranno condomini di lusso.
Cammina, è un guscio vuoto, è solo la corazza che la protegge dal mondo. Questa folla la ripara. Lei vi si addentra come nel folto di un bosco, prova la sensazione precisa di quando la condussero, per la prima volta, in una vera foresta europea, nell’Alta Austria. Lo smarrimento. L’incombere pauroso degli alberi enormi, torri nere schierate a tener fuori il sole. I piccoli scarponi Meindl lasciano sull’onda del muschio una traccia impalpabile, il visino è contratto nello sforzo di seguire il passo della signorina Davies. Sotto le sue scarpe pesanti la terra si rattrappisce, scappa. Lei vorrebbe essere terra, granellini che rotolano via. Invece è una bambina, avrà sei anni, indossa pantaloni di pelle e una giacchina con bottoni d’osso. Dal piccolo viso terreo i capelli sono tirati stretti, la coda le penzola sulla schiena curva nello sforzo di farsi terra, di rientrare lei non sa dove: dentro. Ha un fermacapelli di cuoio rosso con alcune piccole mucche d’oro che si rincorrono senza trovarsi. Ha il naso che gocciola, perché deve essere agosto, sì: agosto, e dunque fa freddo in questa mezza montagna, dove non sa perché l’hanno portata, né quanto ce la terranno. Lei non chiede mai nulla, ha imparato che la sua vita è una cosa che riguarda esclusivamente la signorina Davies. La signorina Davies si prende cura di lei. La fa mangiare, a dire la verità: la costringe a mangiare. Tutto. Tutte le cose repellenti e gelatinose che ingombrano il piatto che le viene messo davanti, schifosi cespugli di capelli verdastri che la signorina chiama “broccoli”, e pezzi di carne che cola via sangue, già tagliati nella misura della sua bocca. La signorina Davies la mette a letto, ogni sera, alla stessa ora, lei può calcolarla con precisione, perché è quando le monta dentro lo stomaco un’onda di panico, quando nella gola salgono ciuffi di cotone. La signorina Davies spenge la luce. Oh, la spenge, implacabilmente. La spenge anche se lei, Maria, ha chiesto molte volte se fosse possibile lasciarla accesa, non tanto, solo un po’, quel poco che serve a addormentare la paura, a cacciare dalla camera bianca e rosa tutti gli animali cattivi che si nascondono negli angoli e sotto il letto e dietro le tende e alcuni, lei li ha visti, lei sì, Maria, alcuni sono così grossi che ti mangiano in un boccone e hanno denti che brillano nel buio. A occhi serrati, con la testa sotto il cuscino, il viso schiacciato contro il lenzuolo, lei, sì lei, Maria, ogni notte può sentire il respiro immenso di questi animali orribili, è una caverna che la ingoierebbe, se lei non si tenesse abbarbicata al letto, le manine strette al materasso, perché non la portino via.
Davanti a lei, verso di lei, una donna con un abito blu senza maniche, mocassini di Gucci e un minuscolo Yorkshire legato a un guinzaglio d’argento, solleva la testa come se annusasse il profumo delle vetrine di Van Cleef, socchiude gli occhi (porta grandi occhiali con lenti che cambiano il colore delle cose e le rendono azzurre, chissà se il mondo azzurro potrebbe essere più accettabile, più confacente) ed ecco, è a mezzo metro da lei, viene dritta verso di lei
La vedrà azzurra?
Uno scarto.
Il corpo piegato di lato, il busto cambia baricentro. Ma le gambe non sono abbastanza svelte. La destra, inciampa nel guinzaglio. Deve essere il piede, la caviglia, è qualcosa che tira giù Maria come un birillo del bowling. E ora lei è a faccia in giù, respira le macchie di grasso, l’odore di piombo, la polvere da una distanza anomala, vede tutti i pori, le crepe, il taglio della lastra di cemento di fianco al suo occhio destro
È un attimo.
Le braccia sono schizzate in avanti, automaticamente, i gomiti si sono piegati per attutire il colpo, le mani hanno contenuto la caduta fino a un limite ragionevole, di danno circoscritto, controllabile. E adesso scattano come una molla, si tendono: la rimettono in piedi.
Si scusa.
La donna con l’abito blu ha smesso di annusare gioielli ed è tutta prostrata verso il suo cane, si è chinata a raccoglierlo e ora lo tasta una zampina dopo l’altra. Merda, dice.
Sono già andati via.
Maria continua la sua passeggiata. Si vergogna molto della propria inettitudine a gestire le protesi aliene che gli altri usano come braccia e gambe e dita e collo, mento. Il suo corpo agisce di propria iniziativa, si assume incombenze, oppure le rifiuta. Capita che le cadano di mano oggetti anche fragili, anche di valore. Lei li contempla, rotti. Non sono più quello che erano eppure hanno ottenuto una nuova stupefacente bellezza, possiedono il mistero di ciò che non è più eppure è ancora. Frammenti di porcellana variopinta che luccicano di nuove sfaccettature, proibite quando i minuscoli frammenti erano costretti a essere una tazza Wedgwood. Il burro impietrito nel cristallo della burriera finalmente libero di sciogliersi e solidificarsi in isole e promontori sul pavimento di linoleum della cucina. La signorina Davies non può più punirla, per questo.
Ha fatto tardi. Probabilmente Dina sarà già da Fortunato e avrà l’aria seccata, perché difendere il tavolo della terrazza, oggi che c’è il sole, non deve essere stato facile. Ci saranno state almeno dieci signore identiche a Dina, con lo stesso trucco appena fatto dalla truccatrice che è venuta a casa, con gli stessi tailleur appena restituiti dalla tintoria (un ragazzo bianco, in divisa blu, uno studente polacco o russo o lituano che si paga gli studi con questo lavoro a mezzo tempo e ancora si incanta del lusso che vede attraverso la porta di servizio, mentre deposita con circospezione gli abiti nelle mani del maggiordomo nero), che avranno preteso di soffiarle il posto. Forse, Fortunato l’avrà fatta aspettare in piedi, accanto al banco del bar, mentre lo spiffero della porta le frustava il collo, aggrappata alla sua flûte di champagne per non essere spazzata via.
Bisognerebbe correre come fanno gli altri verso la pausa pranzo, verso un appuntamento uguale a quello che ci sarà domani e dopodomani, ogni giorno dell’agenda, ogni riga di ogni pagina segnata da appuntamenti come cicatrici.
Ma Maria non corre. Semplicemente, non è in grado di imporre al suo corpo alcunché e il suo corpo ha deciso di marciare al passo con cui è uscita dal giornale sul fetore della 43esima, milioni di miglia fa, venti minuti fa. Questo pensiero la colpisce: la parola “marciare”. Constata con improvvisa meraviglia che i suoi passi sono, oh sì, regolari e cadenzati, passi che misurano il marciapiede e ne restituiscono la misura. E qui le illumina la mente e il viso il suo amato Truffaut, la scena di quel film, quello con l’attore bruno che gli somigliava, un uomo, ecco, laterale, incerto, uno che attraversa la sua vita di film come se stesse sempre in un angolo, pronto a sgusciare fuori da tutto: dalla inquadratura, dal mondo. Si chiama… come si chiama? Lei è più salda sui libri. Lì nessun nome le sfugge. Ma il nome dell’attore arriverà, Maria sa che funziona così. La sua mente protegge l’archivio, pretende rispetto e attesa, pretende che lei costeggi i cassetti della memoria, li sfiori con le dita, ne senta insieme il mistero e la meraviglia. E poi, quando meno se l’aspetta, avviene il miracolo e il nome le si stampa nella mente a caratteri fluorescenti.
La frase di L’uomo che amava le donne. “Le gambe delle donne sono compassi che misurano il mondo.” Gambe francesi, scarpe con tacco francesi. Leggerezza francese. Joie de vivre.
Lei porta scarpe basse, a punta quadra. Porta un cappotto pesante, grigio scuro, abbottonato nonostante faccia caldo. Porta i capelli tirati sulla testa, rinchiusi in uno chignon, perfettamente puliti. Porta una gonna pesante, a pieghe. Una camicia bianca come quelle della signorina Davies.
Il nome dell’attore è Denner. Charles Denner.
Gli uffici sono schifosi quanto l’indirizzo. Tutto dentro è sporco o rotto o incrinato o guasto. Tra poco il giornale si trasferirà in una nuova sede, ci saranno scatoloni e facchini con bicipiti tatuati e gru e litigi, urla, montagne di scarti. Grossi nodi di polvere si libereranno nell’aria e voleranno dalle finestre aperte. Mobili di ferro degli anni Trenta giaceranno sventrati con i cassetti aperti, piegati su una gamba rotta, su uno sportello sfondato. Toby il custode lascerà vuota la gabbia di vetro all’ingresso e si dimenticherà di staccare la foto dei Giants e anche quella del nipotino. Nick la guardia giurata avrà un altro marciapiede su cui stare a gambe larghe a accarezzare la sua pistola. Jeremy il fattorino del sesto, il suo piano, non ci sarà perché l’hanno preso al casting della nuova edizione del Mago di Oz e addio a tutti. Lei avrà una nuova scrivania, prevedibilmente in formica bianca, nuovi pannelli foderati di panno a fingere uno spazio minimo di sopravvivenza. Preferiva il corridoio con le macchie di umido, la porta scardinata, il divano con i buchi coperto di libri, il piccolo tavolo dietro cui infilarsi, le spalle al muro, di lato la finestra mai pulita sul ventre di Times Square. Preferiva la sua zattera malsana, incompiuta e per questo intatta: lo stanzino di Maria. Nella nuova sede tutti saranno in mezzo a tutti e il giornale vibrerà di questa energia multipla, rifratta dai corpi, dai discorsi intrecciati, dalle voci. Sarà come un lancio di missile, sarà come in 2001: Odissea nello spazio, attività cerebrale multipla e diffusa e odori e sacchetti della friggitoria e squilli, campanelli, schermi, monitor, fischi, gente che ti batte pacche sulle spalle, segretarie che si truccano nello specchio del portacipria, qualcuno che convoca qualcun altro: riunione. La fretta pervaderà tutto, non lascerà neppure un centimetro alla quiete. Nella vecchia sede, la fretta era in qualche modo sempre sulla difensiva, doveva ingegnarsi a scovare le persone dietro gli angoli dei corridoi, oltre le porte chiuse, doveva scendere a patti con gli ascensori, pazientare con gli impiegati della sezione “Posta”, aspettare che ciascuno si sedesse dove capitava, nella stanza del grande capo, che si trovasse il punto di equilibrio per i caffè dentro ai bicchieri di cartone.
La nuova sede la inquieta. Sarà come nella foresta austriaca, ma non ci sarà nessuna signorina Davies a cui affidare l’angoscia.
Le viene in mente che forse ha dimenticato il registratore. Non riascolta mai le interviste che incide, ma le è indispensabile sapere di poterlo fare. La realtà è talmente evanescente che il pensiero di congelarne l’ombra è acquietante. Nel caso servissero, le parole, invece di disperdersi nel pulviscolo energetico, restano impietrite in un diagramma sonoro che un miracolo tecnico materializza a richiesta. Tutto il resto, ciò che ha reso quelle parole certe e incerte, le inflessioni, le pause, i gesti, gli sguardi, verrà escluso. Solo a lei sarà affidata l’incombenza di restituire carne alla traccia magnetica e questo le conferisce uno strano potere vibrante di eccitazione, una sensazione che assomiglia in qualche modo alla febbre della creazione primigenia, l’idea che quanto si costruisce (qui “ricostruisce”) diventa fatto, evidenza, realtà. Il punto di vista dell’osservatore crea l’oggetto.
Perfetto.
Lei è viva solo nelle interviste che fa. È viva acquattata nel suo nascondiglio.
– Non puoi arrivare sempre in ritardo – dice Dina, scuotendo la perfetta impalcatura dei suoi capelli color mogano scuro (un colore che non esiste in natura, solo da Alberto di Madison Avenue, NY, NY).
Dina Kane avrà cinquanta anni ma non li ha davvero. Ha l’età ignota che misura lo spazio inconfessabile tra i quaranta e i settanta, lo spazio che le cure del dr. Pasko e dei suoi omologhi dilatano in proporzione inversa alla pelle viva che mutilano. Ha l’età dei parties e delle charities, l’età di Park Avenue, dell’Upper East Side. L’età immobile delle telefonate mattutine che indagano l’agenda altrui nella guerra delle socialites, le povere schiave di New York possedute dalla loro ricchezza, dalla loro posizione sociale. Donne che praticano l’etica della società e si azzannano sorridendo a ogni pranzo benefico, a ogni ballo del Metropolitan, a ogni concerto di raccolta fondi. Ciascuna nemica dell’altra, perché l’altra è stata fotografata sul carnet mondano di Vogue o di Harper’s Bazaar, perché l’altra ha avuto il sindaco Bloomberg seduto alla sua destra all’ultima serata in casa sua (la cuoca, mentre il sindaco usciva, ha rischiato di perdere il posto perché gli si è parata davanti – come avrà fatto a uscire dalla cucina senza essere bloccata? – e ha chiesto di stringergli la mano).
Cosa c’entra lei, Maria, con queste donne avvoltoio che volano a Parigi solo per comprarsi un vestito? Perché adesso ricambia il bacio fasullo che le ha dato Dina Kane nonostante riesca a percepire tutto intero il ridicolo di quel bacio all’aria circostante la guancia spaventosamente liscia di lei?
Invece si siede.
Scivola dentro lo spazio angusto tra la sedia che le spetta (non hanno ottenuto il tavolo sulla terrazza, il numero è troppo esiguo, le sedie sul marciapiede sono allineate alla francese, gli avventori sono insieme palcoscenico e platea per i passanti) e la sedia che le volge le spalle. Al tavolo dietro quello che è stato loro assegnato, un uomo e due donne svolgono con diligenza il copione che ci si aspetta da loro in questo ristorante elegante, dove gigli freschi, i più cari che si possano trovare in questa stagione, fanno da centrotavola e dove camerieri molto giovani e molto belli stendono con la mano svelta dei prestigiatori l’enorme tovagliolo sulle gambe del cliente.
La signorina Davies le ha insegnato che ciò che è veramente importante, in una tavola apparecchiata, è la grandezza del tovagliolo. Da Fortunato il tovagliolo, esattamente ripiegato in tre su tre linee perfettamente diritte, copre le cosce e scivola oltre il bordo della sedia. È dunque un tovagliolo elegante, la garanzia che New York si trova nel luogo dove deve essere, è il centro del mondo e lo resterà.
Ha buttato solo uno sguardo all’uomo a cui volge le spalle. È stato autorizzato a violare il suo spazio personale per i pochi secondi che ha richiesto l’ispezione circolare dell’intera sala alla ricerca del tavolo di Dina. È stato necessario, ma sgradevole. Lei stava lì, in piedi, davanti a tutti gli altri seduti, come l’asta di una bandiera ammainata. Non avrebbe voluto dare il suo cappotto alla guardarobiera, ma non è stato possibile. Il cappotto le è stato sfilato con garbo, il maître l’ha salutata stringendole la mano come se la conoscesse (la conosce? No, lei crede di no). Voleva scappare. Lasciare dietro di sé il suo cappotto come un relitto. Ma Dina l’ha chiamata. Adesso, mentre parla, riesce con difficoltà a seguirla. Ha davanti il menù scritto in italiano (sa già che prenderà spaghetti pomodoro fresco e rugola) e contempla con gratitudine la salda certezza delle offerte: qualunque cosa si chieda, arriverà. Dina parla eccitata, la avvolge in una nuvola densa di esclamazioni e sospiri e mezzi risolini e intanto gira la testa, per sorvegliare il ristorante. Potrebbe arrivare qualcuno che lei conosce o desidera conoscere o deve assolutamente ignorare. Il ristorante non è un posto piacevole dove mangiare, ma il teatro della quotidiana battaglia contro il mondo che Dina combatte persino prima di alzarsi dal letto. I primi cadaveri giacciono sul vassoio d’argento della colazione che le viene servita appena si sveglia. Altri cadaveri li calpesta mentre si veste. Ogni telefonata provoca morti e feriti e Dina sa che altre telefonate in altre camere da letto identiche alla sua, qualche isolato prima o dopo, possono uccidere anche lei ed è quasi certo che l’abbiano fatto, anche stamattina. Stamattina che ha deciso di portare fuori a colazione la povera Maria che non capisce nulla della vita e si seppellisce negli uffici del New York Times, ma è senza dubbio la nipote di Isabel. Per un momento, nella mente fluida di Dina, una carta assorbente di gesti e nomi e ascendenze con accanto una cifra in denaro, appare l’immagine di un pozzo, un buco dentro la sabbia bianca vegliato da un enorme pilone metallico e omini in tuta azzurra che formicolano agitando le mani tra spruzzi color nero vivo e cactus in lontananza e una certa aria febbrile da disastro imminente, perché i pozzi di petrolio esplodono, qualche volta.
– Allora ho preso il telefono e ho chiamato Elsa – dice Dina.
Elsa chi?
– Georgina non se l’aspettava, capisci? Ho detto a Elsa guarda che Georgina l’ho creata io, creata intendo e Elsa ha afferrato subito. Sono io che ho fatto la lista del primo charity di Georgina e non accetto che adesso lei mi tenga fuori dal comitato, capisci? Per cui ho dovuto ristabilire le posizioni e Elsa ovviamente ha capito immediatamente, non c’è stato bisogno neanche di dettagli. Salve, Michael, prenderei misticanza con burrata ma senza la burrata è veramente troppo calorica e poi centrifugato di carote e ginger. Ma come sono belli questi camerieri! e naturalmente Elsa ha cancellato, dico can-cel-la-to Georgina dalla lista del comitato e allora Georgina stamattina mi ha chiamato in lacrime, capisci? in lacrime. Se esce dal comitato dell’Aids la tengono fuori anche dal Comitato del Cancro al seno e ha appena ordinato sei abiti lunghi da Oleg ma non c’è stato niente da fare. È fuori. Lei è fuori.
Quale comitato?
Dina gioca con le foglie screziate dell’insalata italiana che luccica nel suo piatto. Non mangia quasi nulla, questa è un’altra delle regole non scritte del mondo che Dina abita. Il cibo è un attrezzo di scena, vive solo nel piatto. La forchetta o il coltello quando serve, lo agitano, lo rompono, lo ricompongono, creano un delicato effetto di già mangiato quando in realtà il cibo è intonso. Dina si nutre di pillole di grassi omega 3 e omega 5 antinvecchiamento, di integratori di magnesio silicio e argento e beve tisane depuranti alla liquirizia e alla rosa canina. Nessun cioccolatino ha il permesso di installarsi sui suoi fianchi, nessuno spaghetto si può abbarbicare al suo girovita.
– Oh oh. È appena arrivata quell’oca di Caroline con Rick, capisci? Guardala lì con il suo Donna Karan che è dell’anno scorso, tra l’altro. Se hai appena divorziato dal migliore dei pescecani di Manhattan non puoi dico non puoi farti vedere in giro con il gioielliere dove lui ti comprava i regali, capisci? Devi tirar fuori l’amico gay e andare in giro con lui per un po’.
L’insalata nel piatto di Dina si agita per uscirne.
– Questo posto è carino, molto carino, non dico di no, ma Fortunato dovrebbe consultarsi meglio con la sua p.r., escludere certe prenotazioni, voglio dire un posto è un posto per la gente che ci trovi e questo Fortunato lo sa. Gloria Fox mi diceva l’altro giorno che va di nuovo il 21, bisogna andarci con qualche uomo d’affari, qualche giornalista, c’è il nuovo direttore di Business week che pare sia interessante oppure Jamie Cesaroni, sta per divorziare dall’attricetta che aveva sposato l’anno scorso, magari gli faccio uno squillo. Potrei farmi accompagnare al Met alla inaugurazione della mostra sugli etruschi, capisci?
Una foglia ormai cadavere, rigata e spiegazzata dal percorso infinito compiuto dentro il piatto di Dina, schizza oltre il bordo in un sussulto di vitalità.
Maria è in piedi accanto al tavolo minuscolo che ancora traballa.
– Che fai, Maria? Devi andartene? Capisco, la vita professionale, gli impegni… sei brava a lavorare così tanto. Non che io non abbia il mio bel daffare, capisci? Anzi, devo correre via anche io, mi aspettano per il pranzo dei bambini di Rio, no credo sia per i malati di lebbra, mio dio non l’ho segnato in agenda, troppe cose, troppe cose da fare, forse è il cocktail delle vittime dell’Afghanistan… Dai un bacio a tua nonna, Maria.
Mentre aspetta che le restituiscano il suo cappotto, per un tempo interminabile in piedi accanto al bancone, Maria si aggrappa a quello che vede. Ha focalizzato il tavolo dietro a quello dove era seduta con Dina, lo ha ritagliato isolandolo dal contesto. Le sembra meno pericoloso che lanciarsi allo sbaraglio in giro per la sala. Il ristorante ha un’aria italiana, ma lei non saprebbe dire in che cosa esattamente consista. Forse è la boiserie scura che copre le pareti, il rosso del vino nei bicchieri. Alla sinistra dell’uomo è seduta una ragazza grassa, con un golfino nero aperto sul reggiseno. A destra, un’altra ragazza bruna, che ha l’aria di essere una attrice. Ha quella sicurezza nei gesti che hanno le attrici nel momento del successo, la consapevolezza di agire per lo sguardo altrui, un controllo di sé diluito di naturalezza e sofisticazione. Inclina la testa verso l’uomo (perché le donne lo fanno? perché agiscono in funzione dell’uomo che hanno accanto?) e ride. Il suo riso è una sequenza perfetta, buono al primo ciak. Le labbra tinte di rosso cardinale si schiudono quel tanto che è necessario a scoprire l’arcata superiore dei denti, a far risaltare il loro splendore. Un impercettibile sospiro soffia via dalla fronte la frangetta, gli occhi brillano inesorabili. Anche alla distanza in cui si trova (perché il cappotto non arriva?) Maria riesce a percepire la luminosità della ragazza, il potere che emana da lei.
Ora le hanno restituito il cappotto.
È libera, nel caos discreto di Madison Avenue. Prenderà un taxi, per attraversare il parco verso West Side. Ma intanto cammina. È salito un vento leggero. L’aria sa insieme di piombo e di mare. Vorrebbe essere a Battery Park, seduta su una panchina, le piace stare immobile davanti al mare. Il mare di New York orlato dal New Jersey, la sensazione di poter volare via insieme ai gabbiani che stridono intorno alle navi e, lontana eppure presente, a perenne difesa, la statua della Libertà con i turisti che si affacciano come virus dalla corona, agitando le macchine fotografiche. Ci vogliono 354 scalini per salire fin lassù. Il guscio di rame è appeso a un pilone in ferro. Frédéric Auguste Bartholdi gli dedicò 21 anni della sua vita.
Il parco la calma, la benedice. Il sole è appena stato inventato. Scontorna le foglie degli alberi in un merletto paziente, titilla il rosso col giallo, trafigge con un velo d’oro ogni cosa. L’aria adesso è cristallo trasparente. Sa di terra. Maria aspira ossigeno con determinazione, può percepire una dopo l’altra le cellule del suo sangue (lei lo immagina molto chiaro, quasi rosa, già piuttosto stanco di girare continuamente su e giù nel suo corpo vuoto) che si lavano e si rinnovano. Dina Kane scivola via, insieme al suo tailleur, giù, in basso, dove si agitano prima di finire sommersi tutti i clienti di Fortunato. Anche l’uomo bruno con la camicia bianca slacciata? Sì, anche lui.
Ha preso l’ingresso pedonale dopo la 65esima e ora costeggia il verde abbacinante del prato. Potrebbe lasciare il vialetto di cemento e camminare sull’erba, potrebbe ascoltare lo scricchiolio delle foglie accartocciate sotto i suoi passi, sedersi come quell’uomo laggiù, accettabile perché indistinto, una macchia scura contro il tronco di una quercia sola, leggermente curva su un lato, incurante della simmetria necessaria per vivere. Di colpo, la dolcezza le agguanta lo stomaco, le riempie gli occhi delle lacrime che conosce bene, inutili lacrime senza motivo reale, lacrime per un albero solo su un prato, per un bambino down che saluta in una pubblicità progresso, lacrime per le foglie accartocciate che nessuno mette al riparo. No, non scenderà dal sentiero di cemento. Incrocia persone che non hanno niente da fare, studentesse con le guance rosa che ridono e parlano di ragazzi, turisti intimiditi. Un vigile a cavallo. Il chiosco degli hot dogs. Il cartello dei gabinetti. Un po’ più a destra c’è la Bethesda Terrace, ma lei sceglie di continuare sul modesto sentiero grigio che ondeggia e tremula su e giù per le brevi colline del parco, non è pronta per nessun belvedere. Pietra. Dura pietra corrosa e aguzza, ferite di pietra nel verde dell’erba. Eppure qualcuno è venuto a sedersi. Una donna che legge, un vecchio che rinasce nel sole seduto a gambe incrociate come un ragazzo. Il miracolo del parco. La linea del suo sguardo non riesce a evitare lo spettacolo incantato dei larici, verso Great Lawn. La vita pulsa e rimbomba, erutta linfa e colori rubino, vinaccia, pesca, rame, alberi in fiamme contro lo smalto caramellato delle torri del San Remo, cirri in forma di ippopotami puntano gli appartamenti di lusso del West Side, le terrazze art déco odorose di mirto, i pinnacoli, le cupole verdastre che proteggono il sonno dei ricchi. Non ha desideri. I passi la portano dove deve andare. Ha letto che l’assemblea di condominio del San Remo ha bocciato la candidatura di Madonna.
Forse, prima che siano le tre, riesce a bere un caffè da Starbucks.
Le piace sedere da Starbucks. L’odore del caffè e della solitudine è inebriante. Nessuno va da Starbucks con un altro. L’altro è un libro o un giornale o un computer. O l’iPod… Sedersi nei banchi. Insieme agli altri, distante dagli altri. Ciascuno davanti alla parete di vetro che lo separa dal mondo che trascorre sul marciapiede. Preghiera al pc. Lode alla connessione. Meditazione e Kyrie eleison per le bombe di oggi. Elevazione del caffè colombiano. Alleluia per il calore che il bicchiere di carta resinata regala al palmo secco di tutte le mani.
È la Messa di Starbucks.
Lei è sicura che è questa Messa la fonte dei miliardi di dollari che appartengono al marchio. Il caffè è un pretesto, esattamente come la minuscola ostia di cialda finissima che la Messa cattolica trasforma nel corpo di Cristo. L’ostia che lei teneva in bocca sotto la lingua, come una caramella, mentre a occhi bassi tornava al suo posto, nell’ombra possente dell’immensità di St. Patrick. Può ascoltare il fruscio strascicato dei piccoli passi, i battiti del suo cuore atterrito. Non si è mai sentita al sicuro, in chiesa. Provava a aggrapparsi alla superficie liscia del banco, sollevandosi sulle punte dei piedi, perché l’ombra non la schiacciasse, ma la signorina Davies, con un gesto impercettibile dell’indice, scacciava le manine dal loro appiglio, la ricomponeva nella statua muta di bambina a braccia conserte, impassibile, assente.
Sì, la Messa di Starbucks. Il caffè di Starbucks è il viatico per continuare a attraversare New York e la giornata, per consentire alle gambe di camminare fino alla sera senza quiete, fino al letto che nessuno ha rifatto, all’odore dei wan-ton riscaldati nel microonde. Ci sarà il televisore acceso, una coperta logora sul divano sporco. Ci sarà l’attesa senza aspettative, pura attesa che il tempo trascorra. Farà freddo, nel letto. Lei non si toglierà il golf, indosserà calzini da notte, pantaloni vecchi di una vecchia tuta con cui non ha mai corso in nessun parco.
Però adesso è qui, nel tepore di questo luogo incantato, ha nel naso onde di aromi differenti come schiume di tutti gli oceani e legge. Legge il New York Times. Un articolo di Sam Roberts, interessante. Nel 2005 negli Stati Uniti le coppie sposate sono diventate la minoranza. È la prima volta nella storia che accade. Il censimento è stato fatto in uno studio denominato American community survey dall’Ufficio Statistiche. Su 111,1 milioni di famiglie americane, solo il 49,7 per cento sono formate da coppie sposate. Cinque anni fa, erano ancora la maggioranza, 52 per cento. La direttrice della Commissione Pubblica per le Famiglie Contemporanee, Stephanie Coontz ha detto che “questo fenomeno comporta cambiamenti nel peso sociale del matrimonio sulla economia, sulla forza lavoro, sulla vendita e l’affitto di case, sulla pubblicità”. Nell’Utah County, la percentuale di coppie sposate è ancora alta, 69 per cento. A Manhattan è del 26 per cento, la più bassa dell’intero paese.
Dunque lei, Maria, appartiene al 74 per cento. Tre persone su quattro sono come lei.
Cerca di identificare l’unica differente. Una grassa ragazza in tuta è quella che appare la più probabile. Mangia un pretzel, cammina senza affanno, sposta con calma il suo grosso corpo strabordante da una vetrina all’altra. Mentre guarda, piega leggermente il capo a sinistra e poi a destra, e ogni tanto (almeno davanti alla vetrina del negozio di Victoria’s secrets, sul lato opposto di Columbus Avenue) la schiena infagottata in una felpa nera e arancione vibra di piacere evidente. La vede esitare davanti alla porta di cristallo. È sicura che entrerà. C’è un momento di confusione, un gruppo di donne eccitate quasi la travolge, nella foga di spingersi fuori, in tempo per la fine della pausa pranzo, ciascuna con il suo sacchetto a righine bianche e rosa stretto sul petto come un talismano. La ragazza nera e arancione si sposta per farle passare. Adesso Maria può vederne il profilo, il piccolo naso alla francese, le pieghe di grasso del collo, i ricci capelli biondi strinati che non arrivano alla spalla. Ha quasi finito il pretzel. Maria non riesce a smettere di guardare. Immagina briciole di lucido marrone e schegge di sale sull’arancione della felpa. Immagina un uomo magro, sui trenta anni, che ogni notte si addormenta su quei seni enormi come su una zattera, può sentire l’ansimare simmetrico dei loro respiri, vede le striature della luce di strada che incidono il letto attraversando il vetro della finestra chiusa, senza tende. Poi rimette a fuoco la ragazza.
È sparita.
Maria si alza. Scende dallo sgabello attenta a non inciampare. Ripiega con cura il giornale e lo rimette nella sacca che usa come borsa. Prima di uscire, versa con lucida concentrazione il contenuto del suo vassoio di plastica grigia nella bocca del contenitore dei rifiuti di plastica rossa, facendo attenzione a eseguire il compito nel modo preciso che ci si aspetta da lei.
Fuori il sole è meno caldo, più stanco. All’incrocio della 68esima si ferma a decifrare il lembo di parco sul fondo. Riconosce il muro basso sul marciapiede, la nebbia di verde consunto che lo orla. Due bambini neri giocano per terra, costringono i passanti a evitarli. Un portoricano con la coppola e la giacca di jeans è immobile in un punto laterale. Le ombre dei rami sono dita nere sui petti, sulle spalle della gente.
La giornata le è sfuggita di mano. Sono le tre passate e, a quello che dicono, Sam Green non è il genere di persona che ti accoglie con il sorriso sulle labbra se non rispetti il tempo che ti ha concesso. Due isolati fino alla 70esima all’imbocco di Amsterdam. Deve correre e non sa, sinceramente non sa, se il suo corpo ne sarà capace.
Perché le viene in mente un verso? Sì, perché? Non c’è bisogno di poeti, in questo momento. Bisogna zigzagare tra i taxi in fila, evitare il risucchio caldo delle griglie della metro, arginare la marea umana che la ingoia, la spinge, la urta. E invece, quel verso la ossessiona, le ha invaso la mente. Se riuscisse a ricordare il nome del poeta.
Attenta, idiota.
Il clacson, una moto che svicola, un tassista italiano che erutta insulti. Fa in tempo a risalire sul marciapiede prima che la spazzino via. È così che arrivano le lacrime, uno scricchiolio dell’intero corpo, un ronfo del naso. E poi le gocce si gonfiano e annullano il marciapiede e la gente alla fermata dell’autobus M104 e la destinazione dove è diretta.
La mia libertà sono le tue ali. Il posto del mio cuore è nel tuo petto.
– È in ritardo di un’ora.
– Mi scusi.
Non è ancora certo che lo scrittore aprirà completamente la porta di questo appartamento nell’interrato da cui il sole è sparito da un pezzo. Maria ha sceso le scale viscide di una pioggia di molti giorni fa, o forse è una pioggia che ha scelto di resistere a ogni tepore, una pioggia eterna e inflessibile. Si è concentrata per farlo senza danni: un altro compito da portare a termine nel modo esatto che ci si aspetta da lei. Ha suonato il campanello di ottone, perfettamente lucidato. Senza che lo voglia, il suo corpo ha spostato il peso dal piede sinistro a quello destro e poi di nuovo a quello sinistro, l’ha trasformata nel pendolo oscillante dell’orologio che non ha saputo rispettare. Lei l’ha lasciato fare.
Nell’ombra tra il battente verniciato di rosso e l’angolo scrostato del muro, lo scrittore è una voce, la lama del naso sopra i baffi chiari.
– Lo so che ho sbagliato.
La confessione stabilisce di colpo una intimità imprevista, spoglia Maria del suo personaggio – la giornalista del New York Times venuta per l’intervista al famoso scrittore sul nuovo romanzo che sta per uscire da Penguin – e la restituisce bambina, davanti a un altro sguardo, ugualmente segreto e inflessibile, in un altro androne, ugualmente buio, dove i cinque fili di vere perle della collana di sua nonna dardeggiano minacciosamente.
– Entri.
Dentro è penombra. Non vede nulla, subito.
– Attenta al gradino.
Ma è già scivolata.
Sente la presa della mano dello scrittore sull’avambraccio. Un urto di angoscia.
La mano torna al suo posto.
– Ma lei lavora così sempre?
Gli occhi si sono abituati all’oscurità e adesso distinguono un tavolo nudo, di legno scorticato, due candele accese, un foglio, altri fogli, una stilografica aperta, forse. Il resto della stanza resta rinchiuso d’ombra, eppure ogni cosa che è contenuta in quella stanza è percettibile come non accade mai alla luce, è restituita alla sua essenza mobile e ferma di particelle infinitesime attaccate l’una all’altra da una energia potente e irresistibile, l’energia maestosa delle cose.
– Si sieda.
Ubbidisce.
Ora li separa il tavolo. La luce delle candele svela il viso dello scrittore, ma lo taglia a metà, una metà in vista, l’altra afferrata dal buio. I baffi, sì, sono chiari, tagliati alla Hitler (ecco un pensiero completamente sbagliato, lui è una icona dei democratici: ricordarselo). Il viso lungo è inciso dal segno delle occhiaie, dietro l’orecchio riccioli da bambino o da beatnik, paiono puliti. Ha attivato la modalità che usa nella professione, si potrebbe chiamarla “analisi comparata semiotica”. Consiste nello scomporre l’interlocutore in segmenti di immagine complessa, adottando consapevolmente lo sguardo che lei chiama “angolare”, l’occhio che penetra attraverso la superficie visibile alla ricerca dei segreti che vi si annidano. Lo sguardo a cui lei non si sottoporrebbe in nessun caso, per nessun motivo. E che invece le riesce così bene infliggere agli altri.
– Mi domandi.
La sbalestra, questo scrittore. Ha saputo rovesciare i ruoli, ha messo sé stesso dalla parte della cattedra e lei è l’interrogata. Perché all’improvviso non le viene in mente nulla da chiedere?
– Non si potrebbe accendere la luce?
Dio, che richiesta idiota.
– Non c’è.
–Vuol dire che lei non è attaccato alla corrente elettrica di New York?
– Non sono attaccato. Lei lo è?
Le avevano detto che Sam Green è una persona complicata. Potrebbe essere, chi potrebbe essere? Il tabaccaio di Smoke. L’uomo che ogni mattina alla stessa ora per tutte le mattine di un intero anno punta la sua macchina fotografica nello stesso punto dello stesso incrocio di una strada di Brooklyn.
– Mi scusi.
– La scuso. Ma non ho molto tempo. O forse ce l’ho. Lei cosa pensa?
– Spero che duri poco.
– Ma lei ha almeno diecimila parole da scrivere, non è vero? Non può durare poco, lo sa?
Maria finalmente capisce che lo scrittore le è sfuggito di mano esattamente come l’ora precisa del loro appuntamento. È uscito di sbieco dal suo ruolo inoffensivo di intervistato e adesso la fronteggia come un uomo. Non è più il gioco standard. È diventato vita.
– Credo di dovermene andare.
– Vada pure.
Però non si alza. Resta lì, ferma, è di nuovo la bambina impietrita che è stata, davanti a sua nonna, in quel pomeriggio di primavera, nella casa di East Hampton. La mano corre alla gonna, la liscia in un riflesso condizionato.
Lo scrittore si alza, a passi sicuri penetra nel buio e ne esce con in mano un bicchiere pieno d’acqua.
– Beva.
Lei beve e si vergogna di bere, si vergogna di tutto.
– Di solito non mi succede.
– Qui non succede nulla di solito.
Però l’acqua l’ha rinfrancata, l’ha restituita allo spazio di adesso, qui e ora, in questo scantinato, con queste candele, questo tavolo rigato, screpolato, il mio lavoro, la mia intervista. Sam Green.
– Sam Green è il suo vero nome?
– Mi renda subito il bicchiere che le ho dato.
– Come si chiama lei veramente?
L’ha preso. È riuscita ad afferrarlo. La mano svelta l’ha ghermito e ora lo scrittore è quasi l’insetto che dovrebbe essere, pronto per lo spillone con cui lo infilzerà.
Si fissano, lei ha due occhi, lui uno solo. È uno sguardo dal basso, che le solleva le palpebre, fa ruotare il globo oculare verso l’interno, la penetra come un sesso madido. Lei capisce che la loro guerra è solo all’inizio, che basta una qualunque distrazione per rovesciare di nuovo le parti. Non ha ancora conquistato nessuna collina. Ha solo messo la testa fuori dal fetore della trincea. Poi lui si arrende. Lei percepisce la resa come una risacca che si ritira, può sentirlo mentre si affloscia contro lo schienale della sedia di legno, mentre permette che i pori della pelle si aprano, si dilatino, lascino entrare un vento che pulisce.
– Nathaniel. Nathaniel Osborne.
– Nathaniel. Natal. Natality. Un nome che non lascia scampo.
– Come c’è riuscita?
Adesso lei si compiace, si dà il permesso di compiacersi. Modalità lusinga.
– Lei mi aveva sottostimato, credo.
– E lei?
Il vecchio gioco della domanda con cui rispondere a una domanda. Eppure la squilibra, le fa perdere la concentrazione. Ecco, questo le piace del suo lavoro: la guerra contro sé stessa a cui la costringe. Le interviste non sono mai facili, mai. Sono duelli, incontri di scherma. Ci sono regole e trilli di solidarietà del piastrone elettrificato quando il colpo è assestato bene. Occorre bucare la corazza altrui e per farlo è necessario approfittare di ogni minuscolo arretramento, di ogni piccolo cedimento. L’altro si custodisce il più delle volte senza saperlo e il suo stupore è il sale dell’intervista. Manolete impegnava il toro diritto davanti al corno destro. Forse era il suo terrore che affrontava. Forse se lei, Maria, avesse potuto intervistarlo, lo avrebbe rivelato a sé stesso. Forse quel toro nero non l’avrebbe spanciato, nell’arena tinta di sole, nel silenzio spesso dei fiati trattenuti, negli occhi atterriti dei picadores. Non ci sarebbero stati gli intestini bianchi sulla sabbia rossa, né il velluto e l’oro allagati di sangue.
Il toro si chiamava Islero.
– Dove è andata?
Presa. Lo scrittore combatte con abilità.
– Manolete. Il torero.
– È morto a trentadue anni. La sua età, vero?
– Penso di averne di più.
– Trentadue.
– Va bene.
– Lei cosa crede che sia, l’età?
– Una retta? Un righello lungo cui si scorre fino alla fine?
– Vede, gli Antichi ne sapevano molto più di noi. Il sapere si è rarefatto, nella esatta misura in cui noi pensiamo che si sia espanso. Noi pensiamo che sia stato Einstein, questo bambino disadattato, dislessico, che a scuola fu espulso, a inventare il tempo. Pensiamo che ci abbia insegnato che il tempo non esiste, che è invisibile, un dio che ci creiamo di volta in volta e assume fattezze differenti, a seconda che si stia sulla poltrona del dentista o tra le braccia della sua infermiera. Ma gli Antichi lo sapevano già. Si ricorderà Cronos. Il Tempo. Il dio dei mostri, il dio con le fauci spalancate a divorare i suoi figli.
Dove è il tempo, adesso, in questa penombra, mentre quest’uomo parla e le candele lo restituiscono al tremolio della sua essenza?
– Perché vive al buio?
– Non al buio. Vivo nelle stagioni.
– No, lei vive in un seminterrato a luce di candela. Tra l’altro, poiché il suo mestiere è scrivere, questo le causa, penso, non poche difficoltà. Oppure no?
– Chiuda gli occhi.
Si è stabilita tra loro una corrente di qualcosa che lei non sa nominare ma da cui è posseduta tutta. È creta nelle sue mani. Le prime mani d’uomo a cui permette di abusare della sua debolezza. La stanza respira nel buio, possente.
– Ora li apra.
Esegue gli ordini e questo le provoca una sensazione di piacere che si insinua dentro di lei come un coltello gentile. È il piacere di non essere più responsabile dei suoi gesti. È diventata altro, un corpo teleguidato, qualcosa a cui la carne e il sangue non possono più chiedere nulla.
– Ora mi guardi.
L’intensità della relazione che si stabilisce tra loro la sbatte all’indietro dentro di sé, la getta intera nel precipizio da cui si difende perfino nei sogni. Sostenere un altro. Permettergli di penetrare. La parola stessa “penetrare” le provoca un urto di vomito.
Si è alzata di scatto, la sedia spostandosi ha riempito la stanza di vibrazioni d’ira.
– Credo che ora capisca perché vivo così – dice lo scrittore famoso e ha nella voce luminose scintille di soddisfazione.
Lei si rimette a sedere, bambina nel vestito di tulle.
– La vista è l’organo più potente di cui possiamo disporre, eppure lo utilizziamo in una percentuale minima. Ci limitiamo a guardare, in rari casi riusciamo a vedere, ma non ci spingiamo mai oltre. Non cambiamo mai la direzione dello sguardo. In un certo senso, noi vediamo continuamente quello che ci aspettiamo di vedere. Ci costruiamo una immagine e la vediamo. Vediamo esattamente quella immagine, perché la custodiamo dentro di noi. La nostra faccia allo specchio non è quella che vedono gli altri. Ha dimensioni diverse, proporzioni differenti. Circa la metà: misuriamo nello specchio circa la metà di come gli altri ci vedono. Il buio perciò è la misura. Il buio rovescia il punto di partenza. Capovolge lo sguardo. Non da dentro a fuori, ma da fuori a dentro.
Si è allungato contro lo schienale rigido della sedia, ha incrociato le gambe. Lei percepisce queste variazioni di postura nella penombra, sente la massa energetica come se la toccasse. Anche la soddisfazione di lui è fisica, consistente. Molecole frementi di soddisfazione si addensano e si rilasciano in vortici lenti di serpente.
– Ha a che fare con l’ispirazione?
– Esatto. Vedo che il buio comincia a fare il suo lavoro.
Come può credere, lei, sì lei, Maria, che potrebbe essere dall’altra parte di questo tavolo scorticato, lei la scrittrice famosa, lui il giornalista ammutolito che viene a cercare di afferrarla? Eppure, lei sa che una zona integra, miracolosamente integra, della sua mente coltiva per proprio conto e con uno zelo invidiabile, questa fantasia paranoica di essere scrittrice, la veglia come un neonato che dorme, la contempla. C’è questa immagine dietro ognuna delle pagine dei romanzi, delle poesie, dei saggi che lei legge di continuo, compulsivamente, aprendo e chiudendo testi differenti come un altro accende e spenge decine di sigarette, una dopo l’altra, ciascuna per scacciare un fantasma. Legge per poter scrivere, questo lo sa, ma non si azzarda a penetrare (ancora questa parola indecente, eppure questa volta non c’è nessun urto di vomito ad accompagnarla, solo una punta di disagio, e di vergogna) questo pensiero, lo lascia in superficie, lo accetta come uno specchio trasparente, la cui magia consiste nel contenere senza mostrare.
– Vada avanti.
Go on. Non so quanto mi costerà, non posso valutare adesso il danno che ne riceverò. O il bene. Ma in questo istante preciso so che lei deve andare avanti, mi deve rivelare quello che non voglio sapere. Venga a riprendermi nell’Ade.
– Cosa ha detto?
Si è di nuovo messo a sedere diritto, il palmo delle due mani spinge il tavolo scorticato verso di lei.
– Ho detto di continuare.
– No, lei ha detto altro.
Possibile? Può aver ascoltato l’immagine che si è appena formata nella sua mente, una distesa infinita e raccolta di secche colline grigie, la veste di una donna che scivola sulla sabbia, giù, giù, all’indietro, perduta al mondo per la seconda volta, l’Ade, gli Inferi, il Regno dei Morti a cui non c’è amore che ponga riparo?
– Pensavo a Euridice. Una volta ho visto una messa in scena dell’Orfeo di Monteverdi in un piccolo teatro, in Italia. Era un teatro così piccolo che i palchi toccavano la platea, un sospiro era un tuono. Il regista aveva allagato la platea, l’aveva trasformata in una gora di acqua ferma. I cantanti camminavano immersi nell’acqua fino alla caviglia e questo dava ai loro passi, alla loro voce un effetto totalmente straniante. Erano lì, davanti al pubblico, ma erano anche altrove, nello spazio fluido creato dall’acqua, erano riflessi mobili, frantumati, spezzati da ogni passo, erano schizzi e gorgogli, erano i lenti cerchi di cui la pozza fremeva. Erano la fatica di muovere un passo dopo l’altro contro il peso dell’acqua.
– Lei pensa che io legga il pensiero? – dice lo scrittore con lo stesso tono compiaciuto con cui prima le ha impartito ordini sicuro di essere ubbidito. – Lei sta avanzando insieme a me nel terreno dell’ispirazione. L’immagine dell’acqua, dei passi degli attori nell’acqua lei l’ha presa dalla mia mente. La mia mente esiste, tanto quanto la sua. Le pare un’opzione così insostenibile credere che le nostre menti possano comunicare senza che noi stabiliamo di usare il linguaggio? Lei pensa che il linguaggio sia inconfutabile? Crede che ogni parola voglia dire una sola cosa o più cose, comunque le cose che stanno scritte nelle voci di un vocabolario? Oppure crede di poter accettare l’idea che ogni parola è una finestra che si spalanca, che da ogni parola si può guardare fuori, o dentro, che le parole aprano le cose e non siano le cose, come ci è più facile credere?
Lei prova un senso di claustrofobia, di vortice. Sta dentro un gorgo, al buio. Potrebbe essere il fondo di un pozzo. Non era questo che si aspettava. Non questo scombussolamento, questa penetrazione. Non è una intervista. È altro. È come se lo scrittore fosse inciso nel destino segnato sulla sua mano sinistra. Forse non sta accadendo, forse è uno dei sogni che fa, quei sogni vividi da cui entra e esce a piacimento, come se a lei, sì a lei, Maria, appartenessero entrambe le dimensioni, il tangibile e l’intangibile, il visibile e l’invisibile e lei potesse attraversare la parete inviolabile senza danni apparenti.
Go on.
– Le racconterò come scrivo. La cultura americana ha questa fissazione degli scrittori intellettuali, penso che dipenda dalla scarsità numerica di manufatti umani antichi. Diciamo che i nostri scrittori sono le pietre della via Appia che non abbiamo. Li riempiamo di premi e li rivendiamo al resto del mondo. Siamo bravi nel marketing. Gli scrittori/prodotto, come me, hanno una certa ostilità per l’uso che di loro fa la cultura americana, ma poi lasciano fare, perché il denaro non ha odore e anche questo seminterrato ha un affitto. Ma l’ispirazione non ha nulla a che spartire con la cultura americana. Sta ancora sulle pendici dell’Olimpo. È da lì, che viene. È un dio che ci abita. Io non baratterei la scrittura con una notte di sesso furioso con lei. Neanche con un numero infinito di notti e un numero esponenziale di orgasmi. Benché lei sia una donna piacevole, a cui il sesso ha molto da dire.
Lei guarda intensamente il bordo del tavolo, cerca di distinguerne i contorni nella penombra.
– Io non sono in grado di decidere il momento, né l’ora. Ma sono perfettamente capace di riconoscere quando l’ispirazione mi visita. Prende possesso di me. Pensando a una immagine, direi che è un solco vivido che brucia dalla testa al mio cazzo. Non arriva ai piedi, e questo è strano. Assomiglia a certe ridicole fiammelle dei quadri innocenti che anche lei avrà visto nelle piccole chiese di campagna, in Italia, gli onesti dipinti di pittori devoti del Primo Novecento, che si sono raffigurati con il pennello in mano, in disparte dagli apostoli, ma presenti al miracolo della Pentecoste, poiché deputati a descriverlo. A tratti, la storia mi si apre davanti. Io la vedo. Abito ognuna delle vite che racconto, le patisco tutte. Il dio viene e va. Non mi lascia alcun margine. Sceglie anche la strada che devo percorrere. Mi mette davanti quello che non sapevo di stare cercando. Quel libro. Quella fotografia. Quella certa nozione. Quel viso.
Ora ha preso in mano qualcosa che luccica. Un accendino. Sì, è l’accendino. Lei distingue le nocche del medio e dell’indice. Il pollice sfrega la molla maestra, provoca la scintilla. La fiamma breve è orlata di blu.
– Georges Simenon. Sa come scriveva? Ha scritto centinaia di romanzi e ha avuto diecimila donne. Scopava sei donne diverse ogni giorno e scriveva un romanzo nuovo ogni settimana. Aveva un metodo e lo seguiva alla lettera. Prima prendeva l’elenco telefonico di Parigi. Scorreva le pagine. Ogni tanto, un nome lo colpiva. Lo segnava su un foglietto. Quando aveva raccolto un numero sufficiente di foglietti, li sistemava davanti a sé, sulla scrivania. Contemplava quei nomi in silenzio, finché la mano, che non era più la sua mano, ma la mano del daimon che lo possedeva, ne sceglieva uno. Questa è la madre. È infermiera alla Salpêtrière. Ha le caviglie grosse. Beve pastis ogni mattina. Questo è il figlio. Ha quarantesei anni ed è vergine. Questa è la ragazza delle pulizie, lavora al teatro delle Buttes Chaumont. Sarà lei a finire massacrata sul marciapiede, in una sera di pioggia, accanto alla fermata dell’autobus…
– Basta.
Perché non sopporta di addentrarsi insieme a lui nel fitto della notte? Lei sta vedendo la povera ragazza che ansima nell’ultimo fiato, vede i capelli neri della pioggia che il lampione rende argentata, vede il petto che si alza e si abbassa attraverso il cappottino di stoffa dozzinale aperto nella fatica di aggrapparsi alla vita, la vita che pareva insopportabile solo un minuto fa, un minuto prima della notte, del coltello che le ha bucato la pancia mentre il braccio dello sconosciuto la stringeva da dietro, senza ragione, senza un motivo che non sia la notte…
– Io la ringrazio molto, davvero. Nathaniel. Signor Green. Lei è stato straordinario.
È già in piedi e questa volta non si rimetterà seduta. Ha il diritto di proteggersi anche da quest’uomo magico malefico benedetto.
Lui lo sa già e infatti questa volta non le impone nulla, non le impartisce nessun ordine, lascia che lei ritrovi a tastoni il cappotto che aveva buttato sul divano, lascia che lei giri intorno al tavolo per stringergli la mano.
– Allora addio.
– Addio.
– Non ha le diecimila parole.
– Lei crede?
C’è uno scatto morbido, la porta del seminterrato la lascia uscire. Fuori sono le sei passate, la città si sta accoccolando nel buio. La strada è vuota. I cancelli neri aggettano sul marciapiede i loro piedi d’ombra. Non una macchina. Servirebbe una donna, una donna che porta a passeggio il suo cane anziano. La donna esce da un portoncino marrone, sotto un portico con un volta a botte, protetta da un timpano a cui si affaccia una spaventosa testa di sfinge circondata da geroglifici. Scende rapida i pochi scalini, rabbrividisce nel freddo della prima sera. Se Maria sollevasse lo sguardo, potrebbe vedere i viluppi di fiori di loto, le colonne doriche e, se si spostasse sul marciapiede di fronte, riconoscerebbe le sagome impettite dei due faraoni seduti sul tetto dell’Alexandria Condominium. Invece guarda il cane e la donna, mentre riempiono della loro essenza il vuoto della strada. Il cane si trascina dietro al guinzaglio, la donna gira il capo di qua e di là, circospetta, attenta. Finché non scorge Maria.
Nel seminterrato della 70esima West, lo scrittore famoso soffia sulle candele.