Binky
Mio Padre. Mio scoglio. Mio padre sullo scoglio. Nei giorni di sereno respiro disperazione.
Quella volta che mio padre stava in piedi sullo scoglio del deserto sopra la piscina degli adulti nel ranch accanto ai pozzi dove la famiglia custodiva i soldi di petrolio con i camerieri in guanti bianchi. Quella volta che mio padre aveva un costume nero, di materiale poroso, gommoso, a toccarlo. Quella volta che aveva addosso un costume fatto a pantalone corto che gli usciva il muscolo della parte alta della coscia come un dito da un guanto senza dita e una lunga canottiera da operaio, a mio padre piaceva travestirsi da operaio, ma era un operaio Cole of California, comprato da Henry Bendel’s sulla Quinta Avenue piano interrato prego certo Signore al Suo Servizio Signore Buona giornata Signore, costava centocinquanta dollari nel 1953 la canottiera per essere un operaio uguale a tutti gli altri operai di Henry Bendel’s. Quella volta nell’estate del 1953 che sembrava uguale a tutte le altre estati e a tutti gli altri inverni, la piscina di Palm Beach per l’estate e il camino del Vermont per l’inverno; quella volta che c’era mio fratello Bor con la macchina fotografica e mio padre aveva allargato le braccia e stava per spiccare il volo librarsi su tutti noi, piccolo popolo festante, minuscolo popolo, spilli di teste confuse, nere, sempre più fitte, sempre più lontane, vola vola vola vola.
Vola via Papà.
Bello era bello era mio padre. Era il Generale Inverno Era Tyrone Power Era un casanova d’argento. Una moneta di padre. Una nave di dollari di padre. Una larga faccia lunga bionda. Più bionda dei capelli, perché i capelli davano sul rame delle miniere di rame con le sfumature necessarie a ogni rispettabile famiglia wasp, quelle famiglie che diventano ancora più rispettabili quando si trasferiscono da Baltimora a Park Avenue perché sono state innaffiate di petrolio.
Sul camino del ranch nel Vermont c’era un quadro dipinto a olio. Una montagna lunga sullo sfondo e in primo piano un cowboy a cavallo davanti a tre vacche quattro vacche cinque perché una era quasi fuori dal quadro e cercava chissà che cosa: erba, ecco: erba. Anche lei cercava l’erba. Brava vacca. Fatti un tiro, vacca. Sei una vacca, Binky. Ma questo non me lo ha mai detto nessuno, nemmeno le voci me l’hanno detto. Io sono un fungo. Guarda come mi disintegro. Sono il fungo di Bikini. Correte ragazzi che il sole è nero è giallo è rosso la polvere è nera è gialla è rossa correte forte che finalmente si muore.
Davanti al camino del ranch del Vermont c’erano due divani. Uno marrone/rosso scuro fatto come una mezza tazza di tè. Una tazza di tè. Voglio bere una tazza di tè. Ancora un sorso. Un sorso. Puah. Questo tè sa di materiale poroso, gommoso, a toccarlo. L’altro divano era a fiori. Un saggio divano a fiori rossi e marroni. I cuscini di questo divano erano molto cattivi e c’erano tutte quelle domestiche che li sbattevano tump tump tump e li facevano gonfi gonfi come la pancia dei cervi che mio padre ammazzava (mio padre ammazzava cervi e bambini) e quando ti sedevi il divano diceva che non poteva proprio sopportare che tu ti fossi seduto lì a infastidire e ti faceva scivolare giù: così cadevi per terra ma il tappeto era morbido, pelo morbido di agnello o di lupo, non fa differenza. Agnelli di lupo.
Quella volta che mio fratello Bor fotografò mio padre sullo scoglio nel deserto accanto alla piscina degli adulti e mio padre allargò le braccia e sembrava un disegno.
Quella volta che mio fratello Bor fotografò la famiglia, tutta la famiglia, seduta intorno al camino del Vermont che era stato acceso tutto il giorno e aveva consumato tutte le foreste intorno per quel poco di calore indispensabile ai caloriferi che andavano a tutto kerosene e bollivano senza scaldare il cervello.
Si vedono: da destra: mio padre con la giacca nera da sera e la camicia bianca e il papillon nero che tiene il braccio sinistro intorno a mia sorella Vi che ha un vestitino a roselline di bosco di vikuña e i capelli molto chiari e la frangia e il braccio di mio padre sembra che abbracci lei invece sostiene il libro rigido di cartone rigido che sta leggendo a lei o per lei o per noi, questo non c’è nella fotografia. Le fotografie hanno questo, di bello: lasciano il campo libero. Tu credi di vedere quello che è stato messo nella fotografia, lavorato nella camera oscura, stampato su carta Kodak, infilato in una busta con l’asola per la striscia oscura dei negativi che nessuno utilizzerà mai più. E invece no, bello. Tu vedi quello che ti pare. Vedi tuo padre che abbraccia tua sorella e invece tuo padre regge un libro. Il vantaggio della fotografia è che, lo sai, è un imbroglio. Nella vita quotidiana invece ti fregano come gli pare. Per dire: tu esci di casa e vedi sul marciapiede di fronte la tua amica Holly e attraversi per andare a salutarla ma passa il numero 67 e tu finisci spiaccicata come un topo sotto la ruota anteriore destra mentre i passeggeri vengono sbattuti come uova uno dentro l’altro nella scodella per la maionese che è l’autobus. E tu non potevi sapere che sarebbe finita così. Altrimenti non avresti attraversato. O forse avresti attraversato ma allora perché l’autobus ti stava facendo un piacere a metterti sotto, che è una cosa diversa. Il vantaggio della fotografia è che ci puoi mettere dentro quello che ti pare e che ci puoi vedere cose diverse nel momento in cui la guardi, ogni volta che la guardi. È il servizio segreto della vita invisibile.
Nella fotografia scattata da mio fratello Bor in un qualunque giorno dell’inverno del 1954, probabilmente non Natale perché manca l’abete di cinque metri decorato con pallottole color oro e neve di seta del solito Sack’s dove mia madre fa tutti gli acquisti per il servizio di casa (o delle case, ne abbiamo quattro e forse ne abbiamo anche di più), io sono seduta ai piedi di mio padre e di mia sorella e si capisce che vorrei essere mia sorella. Infatti mi hanno pettinato con la divisa e un piccolo fiocco di seta montato su una mollettina di osso, ma io non sono carina come mia sorella e non sarò mai bionda per stare tra le braccia di mio padre. Che poi sia un braccio solo è inconsistente come obiezione. Vale lo stesso. Mio padre ha lo stesso braccio prensile e aperto, le stesse dita sfrangiate a ventaglio di quella volta che era sullo scoglio nel deserto in Texas e sarebbe possibilissimo che volasse via insieme a mia sorella Vi verso alcune praterie molto lontane e molto accoglienti. Mia sorella Vi gli chiederebbe di lasciar perdere il libro e io mi alzerei di corsa a raccoglierlo mentre loro due, allacciati con un braccio solo, volerebbero via attraverso la portafinestra.
Nella fotografia io sono seduta su un cuscino buttato come capita sul tappeto di pelo di agnello e dato che non so cosa fare delle mie braccia, ne tengo una tra le gambe. Ho nove anni e mi viene permesso tenere tra le gambe quello che voglio.
Mio padre dorme con me da quando avevo cinque anni.
Accanto a me, ma piuttosto distante c’è un altro cuscino e sul cuscino sta seduta mia sorella Cute insieme a mio fratello David. Loro due sono già in vestaglia, una vestaglia di lana blu bordata di marrone/rosso – in sintonia con il divano irraggiungibile dove siede mio Padre il Salvatore – per mia sorella Cute; e una vestaglia a quadri scozzesi marrone chiaro e scuro e giallo ocra foglie degli aceri che non sono ancora rosse perché non è ancora l’Estate Indiana, per mio fratello Dav. Mia sorella ha le treccine, perché è più piccola di me, io sono passata attraverso le treccine e sono sopravvissuta tanto tempo fa. Mia sorella Cute, per l’ingiustizia insita nei nomi, ha già prenotato il posto che non sarà mai mio dentro l’unico braccio che mio padre è disposto a concedere al luogo comune dell’affetto. Mio padre è estremamente superiore a cose inutili come i sentimenti. Mio padre cambia vestito sei volte al giorno nel Vermont, escludendo la tenuta per la caccia. Anche mia madre, se è per questo.
Mia madre siede sul divano dell’ordine, sola.
Siede ben diritta, con un solo braccio leggermente spostato a sfiorare il lato del bracciolo. La posizione della scomodità, dice la fotografia. Se la guardo bene, questa fotografia, nella stampa della mente (ho una mente, sì, Voce: ho una mente e me la tengo, anche se tu vuoi portarmela via), posso identificare i seguenti punti a favore di mia madre:
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porta un cappotto tibetano con larghe maniche molto ingombranti, di una seta molto chiara, così chiara che fa male guardarla con ramages e nuages e ogni cosa suscettibile di avere un nome francese ricamata in colori pastello rosa pesca azzurro cielo verde acqua trasparente.
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il cappotto tibetano è allacciato fino al collo con arpioni neri travestiti da alamari. Mia madre sta soffocando ma è in grado di mantenersi perfettamente eretta e impassibile.
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i capelli di mia madre hanno lo stesso colore dei miei.
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questo non ci accomuna perché mentre io sono nella melensa condizione di paria della famiglia, mia madre è la dominatrice.
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mia madre porta scarpe nere da casa in velluto con un elaborato disegno dorato sulla tomaia e io so che sono scarpe molto scomode e dure perché le indosso quando lei non c’è e provo a camminarci tanto per vedere che effetto fa essere madre.
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appoggiate al camino di mattoni rossi e rosa a vista ci sono due pale con un manico lungo piuttosto sporche di cenere entrambe ma mia madre non se ne preoccupa.
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le tende sono chiuse e anzi, a guardare bene, ahi ahi – questa tenda a sinistra del camino che è l’unica che mio fratello Bor ha deciso di inquadrare per conservare integri tutti i membri della famiglia, ahi ahi – sulla tenda c’è una macchia in alto che potrebbe essere un insetto morto, di quegli insetti che io e mio fratello Bor sventriamo con cura ogni mattina sulle pietre calde del Texas e fredde del Vermont e guardiamo se hanno il sangue ma pare che non ce l’abbiano, però sventrarli è abbastanza gradevole, escono filamenti di varie tonalità di marrone, dal chiaro al medio al cacca di cane e l’insetto sventrato continua a vibrare come una musica, non è male.
Perciò è Natale, il lontano Natale del 1954, milioni di anni fa e l’allegra famiglia Graz è intenta a occuparlo come vengono occupati tutti i Natali delle famiglie Graz di questa terra, non tante a essere onesti. Famiglia libri bambini in vestaglia tavolo degli Adirondack’s carico di altri libri in rilegature preziose mentine svizzere in ciotoline d’argento caricatura del nume tutelare John Singleton Hufter Graz Primo affiancata alla fotografia del suo quarto matrimonio con una spogliarellista turca che voleva farsi suora e si fece infermiera volontaria dei suoi ottanta e novanta anni e quasi cento; rivelando una predisposizione alla santità poiché, quando lui morì o tirò finalmente il calzino come disse la cuoca, invece che godersela, dopo tutte le merde ripulite con le sue sante mani dalle lenzuola di lino, decise di farsi suora davvero e lasciò alla famiglia il patrimonio I–N–T–A–T–T–O.
Però successe in Texas. Non nel Vermont.
Successe perché era estate e d’estate la gente va nei boschi, se ci sono e nei fienili, quando i boschi sono rimasti nel Vermont.
Andò così. Che io ero piuttosto triste e non sapevo cosa fare e c’era la solita festa di adulti e figli, che i figli si annoiano e gli adulti fanno finta di no. Una delle solite feste che cominciano a mezzogiorno e finiscono alle dieci e mezzo con le Range Rover che sgommano via nella polvere di luna secca e le voci dicono che bello che bello quanto ci siamo divertiti è sempre divino da voi. Voi eravamo “noi”. Però quella volta le voci erano abbastanza stridule e il tono abbastanza esagerato, incrinato di fasullaggine elegante. Io avevo tredici anni e portavo ancora i capelli corti ma mi erano venuti gli occhi grandi come fanali di macchina nel deserto di notte. Forse è successo per questo.
Io e Bor e Vi e David e Cute eravamo l’intrattenimento Graz cioè ciascuno di noi aveva la sua parte e la recitava con diligenza, in relazione al compito che la famiglia Graz impersonata e rappresentata in tutte le sue funzioni e potenzialità e autorevolezze da mio padre il Generale Inverno aveva stabilito al momento della nostra nascita. Io suonavo il pianoforte. Mio fratello Bor faceva fotografie e mio padre gli batteva spesso un colpo sulla spalla e gli diceva sei il nostro Robert Capa – qui interveniva il sense of humour di cui mio padre si era impossessato il giorno del matrimonio portando via fino all’ultima goccia tutta la parte che sarebbe spettata a mia madre – nel senso che mio fratello, il cui compito e diletto consisteva nel documentare ogni fase della vita familiare, veniva costretto a impersonare il più celebre dei fotografi di guerra, quello che si inventò la foto del miliziano ucciso sulla collina scattata nel momento in cui il suo corpo si arrovescia all’indietro, ma noi allora eravamo piccoli e non sapevamo che la foto era un falso. Poi c’era Vi che danzava. Le venivano forniti dalle tate alcuni foulard di velo di vari colori brillanti e lo spettacolo che Vi offriva agli ospiti consisteva in alcuni giri di piroetta e due o tre pliés e jetés mentre le corte braccine sventolavano i lunghi foulard come capelli di fate nel vento. Mio fratello David e mia sorella Cute erano il Re e la Regina. Non facevano nulla, loro, se ne stavano seduti impettiti su un divano stretto e stringevano compunti le mani degli ospiti, alcune signore ridevano e facevano un inchino davanti a loro due, il che era una ingiustizia, considerato che io dovevo suonare Per Elisa anche sei volte nel corso dell’intera festa e nessuno, proprio nessuno, si dava la pena di starmi a sentire. Inoltre, mi davano sempre dei brutti vestiti di broccato da circo e mai vestitini con fiori vari e stoffe leggere leggere come alle mie sorelle.
Mia madre era una vera signora e non aveva charme. Mia madre aveva smesso di ridere a venticinque anni perché sosteneva che dopo i venticinque anni ridere non è dignitoso. Mia madre stava seduta come se stesse in piedi e in generale era questo il suo atteggiamento nei confronti di ogni lusinga che la vita le mettesse davanti. Noi eravamo tutti i gradini della piramide e in cima stava seduto mio padre. Seduto molto comodo. Stava comodo anche in costume da bagno. Stava benissimo con la t-shirt bianca, quella che metteva al tennis. Il nostro campo di tennis erano tre campi da tennis, in Texas. Il campo dei bambini era piccolo e non va bene contarlo. Farebbe tre campi e tre quarti di campo. C’erano reti molto alte perché le palline volavano via come schizzi, i genitori picchiavano e picchiavano con le loro corde di budello, szac szac, un rumore disegnato nell’aria e la pallina svoops saettava oltre la rete bianca esattamente al centro di corde di budello gemelle (la mia racchetta era una Wilson da bambini con il manico lucidissimo e l’impugnatura foderata di un nastro speciale di cuoio marrone che diventava nero per il sudore – la fatica corrompe). Splash e splash e slash e slash facevano le palle da tennis di qua e di là dalla rete. Mio padre giocava come se non gli costasse che un impegno minimo, come se la sua racchetta (una racchetta comprata a Roma, una Olimpia) giocasse in proprio una sua personale vittoriosa partita alla quale lui assisteva da dentro il campo, impegnato esclusivamente nel suo celeberrimo sorriso viola, un sorriso da tenuta dei Kennedy a Cape Cod decisamente incommensurabile rispetto ai sorrisi di dentista in vacanza a Miami su cui potevano contare gli avversari. La partita di tennis veniva interrotta al cambio di campo per il tempo di un Martini on the rocks – mio padre no, lui Bourbon liscio. Le mogli si scioglievano al sole del deserto nei loro bikini intorno alla piscina degli adulti – mia madre no, aveva un prendisole che le arrivava al ginocchio. Noi figli avevamo finito il nostro numero e ci permettevano di scannarci dentro la piscina dei bambini, ma io schizzavo un po’ in giro, quel tanto che era necessario a confondere le idee alle tate e poi mi sfilavo e andavo nel gazebo – anzi il posto più sicuro era la stanza dello spogliatoio nel capanno vicino alla piscina; e da lì guardavo mio padre, con la sua faccia bionda e i vestiti da tennis biondi da accecare. Avevamo un cuoco belga e un pasticciere austriaco e si mangiava intorno alla piscina con le posate d’argento e le porcellane di Herend con il disegno di farfalle rosa e violetto che piaceva all’imperatrice, noi bambini seduti all’affannato disastrato caotico tavolo dei bambini e i genitori ai tavoli dell’ordine, dove tuttavia accadevano cose incresciose, come scoprii mio malgrado. Andò così:
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mia madre stava seduta al suo posto, al centro del tavolo lungo accostato alla vetrata del padiglione giallo e non mangiava nulla, perché non ha mai mangiato nulla, era allergica ai crostacei e al lievito e alle noci e alla farina e ai latticini, ai salumi, al vino, all’aceto, alle banane, alle olive, ai mandarini. Se mangiava per sbaglio in un piatto dove qualcuno di questi spaventosi alimenti aveva sostato anche per pochi istanti, mia madre barcollava, strabuzzava gli occhi e cominciava a respirare come se le avessero ficcato in gola un pugno (mi viene in mente quella fotografia di Mapplethorpe, quella del pugno ficcato in un altro orifizio, era proprio così l’effetto finale, la sensazione che un pugno fosse stato ficcato dove proprio non c’era spazio sufficiente). Mi sono domandata a volte se a mia madre fossero stati aperti tutti gli orifizi, ovviamente escluso quello da cui eravamo passati noi che era stato aperto, ma gli altri? La bocca, per esempio, mia madre poteva usarla? Era in comunicazione con la laringe, aveva a che discutere con le corde vocali? Mia madre taceva con una invidiabile naturalezza. Non era assodato che cacasse.
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mio fratello Bor mi stava tirando calci e mi dava morsi alle braccia.
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io mi alzai di scatto dal tavolo dei bambini e andai dietro il tavolo dei grandi con l’intenzione che i loro corpi mi avrebbero protetto.
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mio padre non era seduto a tavola. Il suo posto di fronte a mia madre con lo sfondo dei cespugli di acondrium cenetensis era visibilmente abbandonato, il suo tovagliolo immacolato pendeva inerte sul piatto e arrossiva lentamente della salsa di lamponi freschi sul gelato di vanille au pistache. Dal giardino saliva odore di petrolio. Posso sentirlo benissimo: petrolio dolciastro lattiginoso petrolio blu come sangue petrolio unto. Una enorme macchia di petrolio che si allaga sul party. Uno stupendo lago neroblu con sfumature viola e fucsia dovute alla inclinazione di settantotto gradi del sole del Texas e i cespugli sanno di sputo oggi.
Mio padre e il fienile. Mio padre va verso il fienile. Oh per mano tiene un’altra mano. C’è una schiena nuda, con un bordo di seta paonazzo. La schiena ha parecchi nei che in francese si chiamano beauté. Direi che è una schiena giovane, non giovane come me ma abbastanza vicino, una schiena che non arriva a due decenni. Anche le gambe, da dietro, dimostrano la stessa età, sono polpacci teneri come cosce di pollo. Jack and Jill went up to the hill. Jack fell down and broke his crown. For the Girl what happened then? Ninna nanna ninna oh. Jack con Gill in collina andò. Ninna nanna ninna oh. Giù per terra lui andò. La corona si spaccò. E la bimba a chi la do? È per mio padre, grazie. La figlia Feldmann, quella appena tornata dal primo anno a Harvard, quella che ha la coda di cavallo e gli shorts e anche un paio di vere cosce da donna su un ginocchio con cicatrici d’infanzia non perfettamente rimarginate. Quella che dondola il sedere mentre cammina e lo dondola esclusivamente per mio padre e per la sua nuova camicetta bianca e rossa che va sfilata con una certa urgenza, perché mia madre sta guardando e non ha tempo da perdere e anche gli altri ventidue ospiti seduti al tavolo stanno guardando. È lo spettacolo cruciale del centomillesimo tradimento che mio padre infligge a mia madre. Ssggiiiiiiiiiii canta la porta del fienile mentre ondeggia nel caldo, fa veramente caldo in questa estate a Fort Davis. L’estate dei miei cento anni.
Ok papà fallo in fretta. Si infilano dentro il fienile e mia madre solleva con calma la forchetta, sorride svelta infilza una fragola o un lampone – qualcosa di molto rosso a cui è certamente allergica e la tavola, l’intero tavolo di ventitré naufraghi riprende a respirare mentre mia madre con una infinita eleganza sorridendo all’aria che le si rarefà intorno mentre il grossissimo pugno nero le riempie la gola dice tornano subito.
Da qualche parte piove.
Tensione. Tensione fenomenale. L’odore carnale del sesso tirato fuori dalla cerniera. Appiccicoso lucido luminoso odore strisciato di stelle. Un piccolo ano offerto e goduto.
Io vedo tutto.
La figlia Feldmann ha la faccia sul fieno e infatti quando esce fuori nemmeno cinque minuti è durato – ha il nasino idiota graffiato da un rigo trasversale piuttosto grazioso. Mio padre è il dio degli dei, anche il cazzo ce l’ha biondo, mio padre.
Non successe nulla, come sempre. Andavano via gli ospiti, noi andavamo nelle nostre stanze con la scorta delle nostre tate e mia madre riprendeva posizione sul divano della prigione e mio padre le dava un bacio sulla guancia, chinandosi come su un fiore da tagliare.
Però poi successe e devo dire che non c’era nessuna ragione. Accadde perché l’ordine ogni tanto si stufa e si annoia e stabilisce che servono diversivi, per esempio una figlia che va in manicomio (Binky).
Il mio primo ospedale era veramente veramente un bel posto. Volevo portarci tutti i miei rospi, veri rospi gialloverdi scintillanti che allevavo in cantina insieme al giardiniere Seamus, un bel nero largo quanto una autostrada e fornito di gambe prodigiosamente forti, che mia madre aveva assunto senza nemmeno essere sfiorata dagli eventuali utilizzi paralleli e laterali del suo corpaccione (anche il sesso era all’altezza, alto e grosso e violetto, di un bel viola cupo venato di nero, me lo lasciava tenere in mano e anche leccare quando ero brava a istruire i nostri rospi). Mio fratello David era annegato tempestivamente durante una festa, del genere di quella che ho appena descritto. C’era la solita stanca turpitudine del pomeriggio africano del Texas, e gli adulti gemevano al sole. Noi bambini eravamo dentro la piscina dei bambini e schiantavamo di urli le tate e c’era questo sole giallo uovo minaccioso e totale, un intero sole che copriva tutto il ranch, un sole piastra di fornello e si poteva ascoltare l’odore della carne bruciacchiata che bruciacchiava: uno schifo. Le tate distolsero il naso dallo schifo, noi cacciammo la testa e i piedi nell’acqua, qualcuno, credo Larry Young IV vomitò tutti i suoi sette anni sul costumino a volant di Pamela Laird e l’acqua verdazzurro gelo della piscina si imbiancò di pezzi mangiucchiati di cibo indefinibile puzzolente acido: acido da sballo. E mio fratello caracollava verso la piscina dei grandi, lui detestava il caos dei bambini: era un bambino dell’ordine costituito, zitto e buono e puntuale, una assenza di bambino. La piscina è blu. Quella dei grandi è blu. I grandi sono vuoti e ansimano sparsi dappertutto; il sole si mette a girare perché sa che tra qualche momento la scena godrà di vibrazioni impreviste e assai interessanti. Mio fratello David – che ha diciamo cinque anni – oltrepassa il cancello verniciato di bianco, legno di faggio australiano con tre mani di lacca bianco avorio ripassata ogni aprile, che separa la piscina dei grandi dal vialetto di tutti.
Il cancello è aperto.
Fa molto caldo.
Fa così caldo che l’aria pesa come metallo fuso.
Anche l’acqua della piscina dei grandi è calda, ma mio fratello David non credo che se ne sia accorto. È scivolato. Ci ha visto dall’alto, ci ha visto come siamo ora e ha deciso di scivolare. Dolcemente, mio fratello David fluttua nel profondo neroblu della piscina come un’alga preziosa. Dolcemente, mio fratello David ondeggia con il suo corpo di pesciolino su e giù giù e su nel gran caldo nel gran sole. Dolcemente, come una foglia stanca, sbatte contro i bordi la piccola testa di legno. Crac crac. Saranno le rane. Dolcemente, in un tiepido apparente risucchio, le sue minuscole gambe di ragno, le braccia di ranocchio, la testa di mirtillo volano in basso, volano leggere leggere nell’acqua neroblu, volano fino alle piastrelle del mosaico romano del fondo. E mio fratello David finalmente giace con la testa appoggiata a un pesce identico a quello della reggia di Cnosso.
Come dici, Voce? È tutto vero, per quanto la verità abbia la strepitosa facoltà di tingersi del colore che ciascuno desidera. Ci fu l’ambulanza, un elicottero di ambulanza e mia madre non disse che poche parole. Uno dei miei rospi scappò dalla cantina e annegò per solidarietà nella piscina dei bambini. Gli ospiti se ne andarono e arrivarono i giornalisti. Fu il solito bordello americano privilegiato. David ebbe una fotografia sul New York Times e sul Boston Herald e sul Los Angeles Times e questo è il motivo per cui io ho smesso di leggere i giornali. Invece la storia del manicomio è semplice, molto meno coreografica. Parte dal rosa.
Il rosa è il colore della carne senza difesa. Noi siamo qui adesso e tra un minuto non ci siamo più – questo era in sintesi il contenuto della predica di Padre Glory al funerale di mio fratello David, quando mio padre lesse un saluto biondo dal pulpito tra i fremiti delle signore sottostanti il suo splendido abito da lutto con cravatta da lutto e sorriso da Kennedy a cui il dolore fa un baffo. Mia madre stava zitta e io indossavo un abitino di velluto nero con un colletto di pizzo e scarpe… di vernice rossa. Marca: Start Rite quelle con il cinturino alla caviglia da Bambina Buona che la Morte le fa un baffo anche a lei.
Mettemmo mio fratello nella terra del nostro cimitero di Baltimora, un cimitero italiano con cipressi italiani e colonne circondati da ordinate siepi di bosso e una cappella rotonda con una cupola italiana e camminammo in processione sui cadaveri di molti Graz trasformati in concime per le stele e le lapidi che per l’occasione mia madre aveva fatto lavare con la varichina. Lei era molto attenta. Il cimitero pianse un po’. Non tanto.
Poi tornammo a casa a Park Avenue e questo vuol dire che tra mio fratello David e il mio manicomio passa ancora un anno, forse una estate, o forse un inverno. Potrebbe succedere in Texas, per quanto credo di ricordare. Se uno va in manicomio è per dimenticare. Io ne sono uscita e perciò mi ricordo. Succede nel Vermont. Facciamo che era dicembre. Dicembre 1961: avevo sedici anni – una età enorme.
Ho questa immagine molto chiara: rosa. Carne rosa. Un grosso pene rosa e una piccola fica rosa. Molta pelle intorno, direi color panna o crema chiarissimo.
Tutti e due sono biondi.
La carne è scomposta, gelatinosa. Fa ciac ciac a ogni sfregamento.
Facciamo che è pomeriggio, quel tipo di pomeriggio sfatto che accampa diritti sul sonno degli adulti e annoia disgustosamente i bambini. Nella mia età enorme e indecente, io soddisfo entrambe le categorie. I vecchi mi dimostrano una attenzione che trovo assai gratificante e mi rende simile alla figlia Feldmann mentre scivola verso il fienile dove la aspetta il cazzo di mio padre. I vecchi giudicano attizzante la mia aria da orfana, dicono che mi salveranno con la loro lingua. A me il loro odore fa schifo. Mi tocca baciarli per salutarli e volto la testa. Mio padre dorme con me da quando avevo cinque anni.
Le pareti del ranch nel Vermont sono imperturbabili. Una scala di legno si avvolge come una serpe nell’ingresso e sale per tre piani in ampi anelli voluttuosi. Abitualmente, la scala cigola e suona di passi che non si sa dove portino. Ma a quest’ora, in questo pomeriggio buio, appena rischiarata dall’alone giallo del lampadario di pergamena con le corna di cervo, la scala è vuota come un teatro vuoto. Io sento una specie di frizione all’altezza dell’inguine, una tensione che percorre come cavetti elettrici il mio corpo e si stabilizza nei capezzoli. Salgo ma non so dove andare. O forse lo so troppo bene. Mia madre dorme in camera sua, i mie fratelli guardano la televisione, Bor deve essere dentro la sua camera oscura.
Manca mio padre.
È verso quest’angoscia che salgo.
So tutto come si sanno le cose appena nati, le so con il corpo e non decido di fermarmi in tempo. Mi guardo salire le scale e andare verso la stanza di mio padre. Perché lo faccio? Cosa voglio da mio padre?
Mi gettavo ai piedi del boia.
Questa ragazza è malata.
Questa ragazza è sola inchiodata alla sua croce.
Sicché vado verso la porta, che è chiusa.
Ogni ragazza conta su Barbablù. Ho sedici anni e il respiro di un mantice, di una fornace. Sono una fornace.
Apro la porta.
Un gesto secco, efficace. Il gesto che impone alla porta di obbedire e a mio padre di girare la testa.
Tutta quella pelle sul letto. Di traverso sulla pelliccia di lince. La pozza rosa dell’infanzia.
Chiudo di scatto la porta e corro proprio corro giù giù scalino scalino scalino salto scalino scalino scalino salto.
Presa.
La sua mano mi agguanta, mi schiaccia contro il bianco terreo della parete. È nudo. Proprio nudo. Il suo sesso mi penzola davanti alla faccia, sa di dolce e appiccicoso e gommoso.
Urlo e urlo e urlo, un gran bell’urlo che il pozzo della scala amplifica a dovere, un urlo splendido e ferito, l’urlo di tutte le figlie.
Mio padre ne viene risucchiato, il mio urlo lo tira verso il basso, lo accascia, mi scivola accanto tutto nudo e tiepido e mi abbraccia. Sa di un odore buono, latte e mandorle e il bicchiere che ondeggia sui passi della tata che lo porta verso il mio comodino. La mamma non verrà a darmi la buonanotte, è il bacio della tata che mi sfiora la guancia, un mezzo bacio doveristico e impaziente di finire il turno. Mio padre potrebbe baciarmi. Potrei anche toccargli il sesso, senza la stoffa di mezzo non l’ho mai fatto. Finché sul palcoscenico arrivano tutte le comparse, le tate, prima, poi mio fratello Bor, mia madre. Mia madre imperturbabile e muta, mio fratello con la macchina fotografica in mano.
Tlic.
Tlic.
Cheese.
Cheers.
Buon Natale.
Ecco la vera Famiglia Americana.
“È te che amo” mi dice mio padre nella piega gelata tra l’orecchio e il collo. Ha una voce così bassa che la posso toccare.
Si alza, è il dio degli dei.
“Io torno a dormire”, dice.
Ora è in piedi, io sono ai suoi piedi, lui nudo e io vestita e appoggio la guancia contro la sua gamba, come mio fratello David che è morto. La signora che stava con mio padre, proprietaria della fica coinvolta, scende anche lei, si è rivestita con i pantaloni di loden e i doposci di lupo e il golfino norvegese azzurro e verde.
– Ciao, cara – dice mia madre mentre la accompagna in ingresso. Vedo che si baciano sull’aria accanto alle guance, come al solito.
Mi mettono a letto.
– Non avresti dovuto svegliarmi, ieri – dice mio padre la mattina dopo mentre fa scattare il tostapane (livello 3) e mette sul piatto i crostini per l’uovo alla coque.
C’è un gran bel sole che lava tutto e il ranch respira la pace della neve intorno.
– Non dovevi svegliare tuo padre, Binky – dice mia madre mentre guarda con meticolosa attenzione quante bruciature ci sono sul suo toast integrale.
– Alla tua età ci si immaginano le cose – sospira mio padre con il suo tono del fascino. – Si vive come dentro un sogno continuo, specialmente voi ragazze, vero cara? – e qui si gira con un sorriso sollecito e perfino trepido e timido e incerto e bisognoso di sostegno verso la pianta muta che è mia madre. – Era molto buio e ero nudo a letto, mi dispiace averti provocato uno choc – e adesso il tono sollecito e trepido è dedicato a me e dunque si intride di un tentativo di protezione, a bassissima intensità ma insomma presente. Potrebbe dire “su, vieni qui” o anche “fatti abbracciare”. Invece dice soltanto “Dimentichiamo tutto”.
Lo dice senza punto interrogativo. Lo dice da Generale Inverno, lui che è Casanova.
Io ho una età enorme e faccio quello che devo.
Droooong.
La tovaglia viene spazzata via, l’argenteria frana in un mucchio scomposto sul pavimento intonso, le candele appiccano il fuoco a qualcosa che brucia, forse la carta del giornale che mio padre stava leggendo. Il tavolo è mezzo nudo, trequarti nudo, nudo del tutto. I miei genitori restano impassibili, immobili ai loro posti. La mia rabbia è la mia rabbia, mi sta davanti, la posso toccare, è una rabbia una rabbia una rabbia –
Crash crish stomp
Pesto i piedi sulla tovaglia, sulla burriera, sul bacon, sul pompelmo sbucciato, sui cristalli, i bicchieri, le porcellane è un fenomenale momento di distruzione maestosa il mondo scoppia detona deflagra.
È la stanza da pranzo del ranch del Vermont, fuori 24.8 gradi Fahrenheit abeti immobili larici immobili silenzio. Dentro ci sono io ho sedici anni e sto distruggendo tutto il mondo conosciuto.
Mettimi a letto. Facciamo che piove.
Questo è il secondo motivo. Quella volta che io facevo come tutte le volte ma poi non è stato come tutte le volte perché è tornato il dottore e mi hanno anche asciugato e poi messo a letto con il dottore.
È andata così:
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mio fratello Bor arriva con la macchina fotografica.
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io sono a letto e mi alzo e mi sfilo le mutande e mio fratello Bor fa parecchie fotografie e si mette per terra perché così le fotografie vedono meglio. Mio fratello Bor dice che le sorelle e i fratelli – noi siamo sorelle e fratelli – si possono toccare e anche strofinarsi nudi ma io so solo come si fa a levarsi le mutande, le mutande sono di cotone bianco e con una gala di cotone uguale sul sedere e scivolano male perché il cotone aderisce alla pelle che è sudata: viene come un rotolo, ma piccolo. Alla fine: ecco le mutande sul pavimento e la macchina fotografica al posto delle mutande. Una mutanda fotografica.
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clic clic tac tac.
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metti la musica, Fratello, metti la musica. Ma mio fratello Bor che non si stacca dalla macchina fotografica non mette nessuna musica e allora io mi stufo e sai cosa faccio Bor, sai cosa faccio? Vedi come piove, Bor? Io mi rivesto, Bor. Riprendo possesso della cosa che tu hai infilato nella tua macchina fotografica, io sono me e mi rivesto.
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ora sono sulle scale, quelle scale che girano come una spirale di Lsd. Le scale della casa di Newport perché vedo che dalla finestra nascono alberi verdi e grossi, speroni di alberi e non ci sono montagne ma i cavalli sì, posso vedere le stalle e anche Johnny il garzone che sta appoggiato a un palo sotto la pioggia perché sa già che lo impiccheranno prima o poi. È carino Johnny il garzone e inoltre ha la mia età.
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ora sono fuori sul prato sotto questa pioggia meravigliosa dura secca ferrosa fili di ferro di pioggia.
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ora sono davanti alle stalle e c’è Johnny appeso al palo sotto la pioggia. Dammi il mio cavallo, Johnny chi cazzo se ne frega che piove Brudum Borun Truntrun Bang.
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cloppete cloppete cloppete.
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sono in sella. Sotto la pioggia la capra canta, canta la capra sopra la panca.
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dadan!
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come corre la pioggia corre forte corre fortissimo corre come uno scatafascio di pioggia corre dentro la faccia corre su questo pelo pomellato castagno ciliegia marrone Cavallo di cacca. Mamma mamma esce il sangue mamma mamma ho paura esce il sangue dal buco della cacca mamma mamma. Dove sei, mamma? Venne la tata e anche dopo parecchio tempo, io mi ero già ripulita con l’asciugamano e avevo anche tirato lo sciacquone e poi però avevo guardato di nuovo dentro le mutande e era tutto di nuovo rosso castagno ciliegia marrone e io ero veramente sicura di morire dissanguata, sentivo proprio la vita che scendeva lungo le gambe e andava via. Venne la tata e cominciò a ridere e rideva e mi asciugava e rideva e metteva una pezza di cotone ripiegata dentro le mutande e rideva e io pensavo che ora morivo con la tata che rideva. E ora sono in cucina e tutti ridono e bevono vino e dicono che il vino è per me perché sono una donna e io mi tengo le mani sulla pancia e penso ai ruscelli marrone ciliegia castagno che sgorgano da lì e morirò dissanguata non è una cosa che poi mi faccia dispiacere, alla fine.
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tu-tun!
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fili di ferro elettrici cielo di lampadine fulminate schizzi di lampadine lampadine sopra gli alberi sotto le stelle perché ora è notte e io sono molto lontana da casa lontanissima lontana lontana.
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NON MI RIPRENDERANNO
Poi tornai a casa perché era notte e faceva freddo e Dorotea Peabody era stanca e aveva smesso di galoppare e tirava su i passi come pietre da un secchio e anche io ero stanca però il ferro della pioggia mi teneva diritta e stavo veramente bene. Vedevo la notte dentro la terra, la terra si impregnava di notte e non c’era più prato nemmeno la strada c’era nemmeno gli alberi c’era solo la notte e era bellissimo. Perché non c’era più nulla, capito? N–u–l–l–a.
Però tornai a casa e smontai da Dorotea Peabody e la lasciai lì nel freddo bagnato nemmeno la rimisi nella stalla e Johnny quel fannullone buono a nulla si era impiccato da qualche altra parte e Dorotea Peabody restò lì davanti alla stalla a sbattere il muso contro il cancello del suo gabbiotto perché lei voleva entrare, lei voleva tornare a casa ma nessuno le apriva, povera Dorotea Pea–bo–dy.
Salii le scale come una spirale di Lsd e nel mio letto c’era il dottore, quel dottore con la pancia e la faccia da cane grasso e c’erano anche siringhe e una siringa media e ecco che il dottore mi tira su la manica della camicia di jeans e zric zuric frisch la siringa è nel braccio e swomp la siringa è fuori dal braccio e viene la tata per asciugarmi e si vede che se era per lei, lei avrebbe preferito restare a guardare la famiglia di Bonanza alla televisione ma c’è questa povera pazza e loro se ne disinteressano e poi mi pagano e quindi tocca a me metterla nel bagno caldo e asciugarla e se ha preso la polmonite non sono fatti che mi riguardano. Cosa c’è per cena?
Ecco come è andata la faccenda del manicomio.
Non si chiamava manicomio ma Golden Rock, come un bar. E non c’erano sbarre di nessun tipo. C’erano letti antichi e carta da parati perché i muri dei manicomi hanno freddo. Io stavo sempre in calzamaglia e nessuno mi diceva nulla, bastava che mangiassi. Poi anche se vomitavo andava bene, ma dovevo farlo quando nessuno mi vedeva. Mi guardavo molto allo specchio e dicevo Mumble mumble sperando che mi venisse in mente qualcosa da pensare. Mio fratello Bor è venuto una volta con la sua macchina fotografica e clic clic ha fatto le fotografie alla carta da parati e poi ha detto “Levati la calzamaglia”. Così ci siamo fatti molte fotografie io senza la calzamaglia e lui senza i pantaloni e senza gli slip. Poi mio fratello Bor è andato via perché è venuta la sorvegliante e ha detto che era ora che lui andasse via anche se questa camera costa 1000 dollari al mese non è un bordello, ha detto la sorvegliante.
Non c’era molto da fare, al manicomio. Io facevo la pazza, dato che ero lì. Mangiavo e vomitavo e mi guardavo allo specchio. Era bellissimo stare al manicomio. Potevo anche disegnare e anche fare passeggiate ma non c’era Dorotea Pea–bo–dy, questo non è possibile, aveva detto la sorvegliante. Dormire e mangiare e mangiare e dormire e vomitare. Bello.
Poi però mi hanno tolto da Golden Rock e ecco che sono a Vance Hospital. Che è fatto così:
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ci sono tredici piani.
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si comincia a stare al primo piano, legati.
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se stai buona buona, dopo un po’ ti slegano.
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allora vai al secondo piano, dove ti tengono chiusa a chiave in una camera senza finestre. Non è male. Il vassoio passa sotto la porta e per lavarti hai una vasca di acqua fredda, così non ti lavi.
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viene un dottore e parla. Basta stare zitta e dire con la testa che sei contenta e ti fanno salire al terzo piano.
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questo è tutto perché dal terzo piano non mi sono mossa.
Si stava bene al terzo piano. Intanto, ti potevi lavare anche con acqua tiepida e poi anche mettere la testa sott’acqua nella vasca, era bello sentire l’acqua che gorgoglia nelle caverne del corpo e annusa e sfonda e apre e arriva dappertutto e lava lava lava benissimo. Non si vede più nulla. Ogni tanto venivano due infermiere con le braccia piene di lividi e ti portavano via in un’altra stanza. C’era una finestra e si vedeva fuori ma io non guardavo mai per vedere cosa si vedeva. Tanto ti mettevano sulla testa un pezzo di stoffa nero. E poi attaccavano tante pinzette in varie parti del corpo e arrivavano tante piccole scosse Svish svissssh svishhhh che non facevano nulla. Stavi lì nuda nel freddo e questo faceva molto bene al carattere. Infatti dopo un po’ veniva il dottore e diceva va meglio, vero? Oh, sì. Molto meglio. Ancora un’ora di terapia, diceva il dottore.
A un certo punto sono diventata perfettamente pazza e mi hanno fatto uscire. È molto bello uscire da Vance Hospital dopo essere diventati pazzi. Hai la pelle bucata e dai buchi esce una vernice colorata bellissima che si spande su tutto, anche sulla Bentley di mio padre senza mio padre, anche sull’autista che dice “Bentornata signorina Binky” e tu ti giri e cerchi di vedere dove è questa Binky, chi sarà questa Binky? Oh là là sono io, io sono me. Riprendo me e salgo in macchina e arrivo in casa mia, Park Avenue e il portiere dice anche lui – Bentornata signorina Binky – e io non mi volto più a vedere chi è questa Binky perché sono guarita e Binky sono io. Al settimo piano e all’ottavo piano dove abitiamo noi Graz, abitiamo solo noi Graz, c’è molto spazio.
– Bentornata, Binky – dice mio padre che è sulla porta. Non è vero: non è sulla porta. Non c’è proprio, mio padre. C’è molto spazio qui a Park Avenue e mio padre potrebbe esserci, da qualche parte, in qualche buco della parete o nei buchi del toast che mia madre ha imburrato stamattina. Ma mio padre non c’è. Nemmeno mia madre c’è, se è per questo. C’è solo mio fratello Bor e la sua macchina fotografica. Clic Clic Clic. Io sono me. Sono Binky. Eccomi nella mia camera da letto di Park Avenue con mio fratello Bor. Ci togliamo le mutande, tanto per rimettere le cose al punto in cui stavano. Poi andiamo a mangiare e mangiamo uno accanto all’altro, imboccandoci a vicenda e intanto ci tocchiamo con i piedi i piedi.
La sera verso le sei ritorna a casa mio padre, dice che mia madre ha avuto un attacco di allergia e è in clinica (lei è in clinica, ah ah ah) e che io sono perfettamente guarita. Ci mettiamo a mangiare, io e mio fratello Bor e in mezzo c’è mio padre che è ancora molto bello, anche se sono passati credo cinque anni e è ancora molto biondo e si è portato dietro tutti interi il fienile del Texas e la coperta di lince del Vermont, ma dato che io sono stata curata molto bene al Vance Hospital non ho più nessuna paura e anche volendo non potrei:
montare a cavallo e urlare nei boschi sotto l’uragano.
strappare la tovaglia dal tavolo frantumando tutto quello che di pregiato c’è sopra.
Così decido di guarire e guarisco.
E eccomi adulta, libera e sana.
La situazione è la seguente:
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abito in una casa solo mia perché è molto più pratico.
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la mia casa è sulla 80esima strada tra la Terza e la Lexington.
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è abbastanza piccola e consta di una cucina piccola, un salotto piccolo, un salotto grande, una camera da letto piccola, una camera da letto grande, un bagno piccolo un bagno grande un bagno per gli ospiti che non ci sono.
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ho una macchina molto grande, una Limousine che guido io. Forse è una Cadillac, comunque è molto grande lo stesso. Inoltre è verniciata color oro. Questo per gratitudine verso il manicomio.
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ho una vita molto interessante.
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nella mia vita molto interessante io sono me e sono una artista. Dipingo. Disegno. Incido. Registro pensieri dentro il mio magnetofono e poi li ascolto e li ascolto e li ascolto. Dipingo soprattutto rospi.
I rospi hanno una loro inconfutabile bellezza. La bellezza del rospo è la sua velocità, la sua furbizia e il fatto che riesce comunque a nascondersi nel prato, anche quando tu ti chini e resti lì piegata per ore a perlustrare l’erba e gli angoli e dappertutto e di buchi non se ne vedono. Ma il rospo li vede e sa come usarli. Ogni rospo è una scuola di vita e per questo dipingere rospi è importante: è come andare a scuola. Il rospo che preferisco dipingere ha un faccino molto intelligente e guarda con occhi da cane e naso da dottore. Certe volte con le sue manine da neonato, rosa con dita minuscole e rosa con unghie minuscole e rosa – avete mai visto un neonato dentro la sua culla dietro il suo vetro della nursery accanto a altri neonati tutti molto vecchi? – io ho visto mio fratello David e anche mia sorella Cute e ripensandoci mio fratello David cercava già di affogare sotto le coperte ma arrivò una infermiera puericultrice del Bronx e tirò via le coperte appena in tempo appena in tempo – il rospo afferra un pezzetto di qualcosa che non è detto che sia un lombrico, perché le idee che noi abbiamo sui rospi sono molto primitive e potrebbe anche essere salmone affumicato preso da un vassoio di tartine per l’afternoon tea al Carlyle. Lo afferra e non lo mangia. Lo tiene. E basta. Ci sono queste manine minuscole e questo bocconcino e lui, il rospo, non lo mangia. Lo tiene e basta. Ci si accoccola tutto, intorno a quel bocconcino. Lo abbraccia. Lo sorveglia. Lo protegge. Guai a azzardarsi a togliere al rospo il suo bocconcino. Il rospo ruggisce e zac! Ti stacca il dito e se lo mangia. Tu stai lì con il dito mancante e il sangue cola cola cola e alla fine muori dissanguato mentre in cucina le tate brindano.
Questo è uno dei miei racconti.
E così ricominciai a vivere. C’era stato quel buco dentro cui mi ero nascosta e dovendolo conteggiare calcolerei circa sette anni, partendo dal Texas e dall’ano della figlia Feldmann, ma forse si potrebbe partire anche da prima. Comunque eccomi sana e salva, nei miei vent’anni sulla 80esima tra la Terza e la Lexington.
Ero molto carina. Mi era venuta una silfide di corpo, ero lunga e elastica e davo l’impressione di potere essere piegata e di essere capace di tornare subito diritta. La mia pelle era morbida e molto liscia, senza imperfezioni e le mie gambe salivano dentro le cosce come tornii, il bacino racchiudeva la fica chiusa come il cofanetto di gioielli di mia madre, l’ombelico si era perduto dentro un delicato foro dove lo champagne poteva scintillare tranquillamente. Non avevo peli sotto le braccia né in alcuna parte del corpo, solo una velatura bionda ereditata da mio padre sull’avambraccio e forse sulle guance, la peluria dei neonati che si vede solo mentre li allatti. La mia faccia era ovale e incontaminata, una purissima faccia di porcellana da tè e portavo spesso orecchini molto lunghi, con acquamarine perché erano del colore dei miei occhi e in generale avevo l’aria di essere una bambina cresciuta molto bene, come un fiore estivo a primavera. Camminavo dentro la vita come nella stanza dei giochi di Park Avenue. E voi vi ricordate cosa succedeva lì, di notte. C’era comunque mio fratello Bor e c’era la sua macchina fotografica, ma, poiché ero guarita, adesso il mio fratello Bor si chiamava
Grande Fotografo, per esempio Richard Avedon o Tommy Sacks e le mie fotografie uscivano su Vogue e su Harper’s Bazaar e su Mademoiselle e in tutte indossavo le mutande.
Siccome ero guarita, riuscivo ad attraversare la strada da sola e questo semplificava tutto. Potevo andare a cena al 21 da sola e non avevo paura di nulla. Potevo passare davanti alla casa dei miei genitori e rimanere impassibile. Quel Vance Hospital è stato eccezionale. La mia giornata era seria e tranquilla e anche fortunata e divertente. Poteva cominciare con un sacchetto di croissant della French Pastries che mi portava nel letto un candidato fidanzato, per esempio Ronnie dell’editoria o Phil della Carne in Scatola o Moriarty della Salsa o Jack il portalettere che lasciava in ingresso la borsa nera e ogni tanto qualche busta cadeva sul tappeto e ci restava – poi io la buttavo nel water senza aprirla, anche se mi sarebbe piaciuto farlo – e poteva finire con una scatola di cioccolatini divisa con i miei gatti bianchi nel letto senza fidanzato. Poteva continuare sugli scalini del Metropolitan, dove andavamo in gruppo a ridere di chi ci entrava o nel negozio di Corbella Downtown dove compravo reggiseni di paillettes e calzini a righe orizzontali viola e arancio e magliette da carcerato. Poi c’era la sessione fotografica. Durava abbastanza tempo, perché prima c’era il trucco e poi c’erano gli scatti. Mi dipingevano, mi vestivano, mi sistemavano. Era meraviglioso avere tutta quella gente affettuosa intorno, tutti così preoccupati che stessi bene, che mi sentissi bene, che fossi felice con il mio caffè nero e i miei bicchieroni di Perrier. Era come essere al Golden Rock ma senza essere malati. Posso ricordare esattamente una di quelle sedute.
Lo studio era verso Houston, in un edificio di prima della Guerra, di mattoni marroni piuttosto sporchi di aria di New York. Fuori c’erano le scale di sicurezza, come dappertutto ma in quel palazzo le scale dondolavano e soffiavano e muggivano. Erano le scale di Io ti salverò trasferite in città. Ogni tanto si affacciava Gregory Peck, saliva qualche scalino, scendeva, si disperava perché non sapeva navigare correttamente nella sua psiche e aspettava che Ingrid Bergman facesse il suo lavoro e saltasse fuori quel cadavere in montagna. Per salire nello studio c’erano altre scale, le scale di legno marcio da cui scivola James Stewart mentre cerca di fermare Kim Novak ne La donna che visse due volte. Ogni volta che mi assegnavano quello studio mi sentivo felice perché avrei incontrato tutti quegli attori così bravi. Mi sarebbe piaciuto fare l’attrice ma non è che ci lavoravo, sull’attrice. Le fotografie e la mia carriera di modella dipendevano dal caso e il caso non richiede alcun intervento. Io ero guarita ma non così guarita da poter agire sulle cose. Lasciavo che le cose arrivassero e facessero quello che dovevano fare e poi se ne andassero silenziosamente o rumorosamente, a scelta. Potevo anche essere un fantoccio che cade giù da un campanile con addosso una parrucca bionda.
Per questo mi piaceva quello studio.
Ricordo una seduta, credo che fosse inverno. Avevo abbastanza freddo, mentre mi spogliavano, meno freddo sul set, per via delle luci. Mi avevano messo un abito di jersey di seta, color argento. Di Halston. Era come una lama di coltello. Il vestito mi agguantava, mi ripiegava. Avevo orecchini lunghi, esageratamente lunghi, orecchini fatti a scaglie di pesce, di plastica color argento. La mia testa danzava appesa agli orecchini. Mi avevano truccato gli occhi di blu, le ciglia erano blu, le sopracciglia erano blu, il fotografo faceva questo tipo di cose, allora erano veramente strane. Io stavo accoccolata sul telo dello sfondo, che era blu. C’era il coltello che ero io e c’era l’acqua dove mi avevano buttato. Per un po’, feci quello che dovevo fare. Girati, Binky. Guardami, Binky. Da sotto in su. Binky sei una lama di luce. Binky sei il freddo, hai freddo, come fa freddo, Binky, vero Binky? Gli orecchini dondolavano la testa, di qua e di là e vedevo tutte le persone blu attraverso le mie ciglia blu e lo sapevo che ero guarita ma essere guariti non è una garanzia. Penso che dipese dal telone dello sfondo, dall’esagerazione del blu. Era quel blu. Loro non potevano saperlo, né la stylist, né l’assistente della stylist, né la redattrice, né l’assistente del fotografo, né il fotografo di cui non dirò il nome. Ma era quel blu e io dovetti farlo. Dovetti. Fu un problema, perché la gente sapeva la mia storia e qualunque cosa io scegliessi di fare veniva in qualche modo sempre comparata a quello che l’aveva preceduta, diciamo che non avevo nessun beneficio né di inventario né di nulla. C’era la pazza in agguato, stava seduta sulla mia testa e poteva decidere di scendere da un momento all’altro. Almeno questo pensava la gente. Credo che sia anche questo uno dei motivi, ma non spetta a me stabilirlo. Io devo solo recitare la mia parte. Alla gente piaceva molto la storia della povera ragazza ricca pazza. Io ho cercato di deluderli e anche non ho cercato di deluderli. Si torna sempre allo stesso punto: io lasciavo che le cose andassero dove volevano. Quella volta della sessione fotografica dal fotografo di cui non dirò il nome, fu il telone, fu il vestito. Fu il coltello. Fu il blu.
Il fotografo scattava e scattava e c’era il riflettore che ogni volta mi bruciava all’improvviso, per una frazione di tempo minimo e indistruttibile, con un rumore di metallo che si schianta. Come il grilletto di una pistola. BANG BANG BANG un costone di fucilate. Così mi sono alzata. Dovevo stare raggomitolata nel blu, un coltello agitato, un piccolo pesce dentro la rete, clic clic clic. E invece mi sono alzata. Sì, mi sono alzata. E ecco che sguscio sotto il vestito, lo svuoto, lascio che il vestito scivoli come la pelle del prepuzio e liberi la mia testa-glande e ora sono dentro le mie mutande, solo io e le mie mutande, piuttosto alte, di cotone bianco, le stesse mutande che ho sempre portato. E ho i seni nudi, sono due sfere affusolate girate verso l’alto, le vedo proprio bene, un po’ evaporate di blu ma rotonde, felici, con il capezzolo a spillo, a mandarino, a lapis che è stato molto appuntato, come sono felici le mie tette, adesso, proprio adesso, in questo studio fotografico. E così eccomi felice, completamente felice tutta, come se la felicità si propagasse dalle tette al resto, acqua di felicità che cola giù, lungo le gambe nude, e la pancia nuda e le mutande bianche. E ecco che alzo la mano, credo che sia quella destra oh yahoo oh yahoo e zampetto – ora sono una papera felice – a piedi nudi intorno al fotografo e agli assistenti e alle lampade al quarzo e ai riflettori e calpesto i cavi elettrici oh yahoo oh yahoo oh yahoo. E la mia mano, credo che sia quella sinistra trova il sentiero che passa tra i seni, e lo indica con il dito puntato e si tuffa dentro l’ombelico, poi esce e gira qui e là incerta per finta, perché sa benissimo dove vuole andare, la mia mano sinistra e infatti eccola a casa, sopra le mutande, dentro, lì sotto, l’indice che solleva leggero leggero deciso puntuale il bordo della fettuccia, quella tra le cosce, quella nascosta quella segreta e zanghete! la punta dell’indice lavora la punta del clitoride come ho imparato a fare da tempo e come avevo dimenticato di saper fare e allora danzo, danzo così con la mano sul piacere e con l’altra mano in alto e gli orecchini mi scuotono la testa e grido di felicità impazzita e non c’è più nessuna piscina nessun David che galleggia nel blu.
Il fotografo continuò a scattare e credo che le foto siano poi state pubblicate in qualche libro sulla sua carriera. Disse che ero stata magnifica e mi salvò la vita salvandosi in proprio. Fu l’unica sessione fotografica in cui io ebbi quella che si sarebbe potuta chiamare una ricaduta, se non si fosse stati a conoscenza della vera causa. E fu interpretata come una esagerazione di straordinaria professionalità, una trance artistica che fece crescere la mia tariffa oraria e giornaliera e rese molto felice la mia agente Olivia Morrisey a cui io cominciai a essere ancora più richiesta, perché nella moda le voci volano via come i padri.
La sera uscivamo a cena e poi andavamo a bere da Chapman’s da Una o da Galworthy e poi andavamo a ballare, abitualmente al Number One o al Daily. Bevevo Daiquiri ma non mi drogavo mai. Io ero perfettamente in grado di sentirmi drogata senza aver preso nemmeno una pasticca, potevo far scendere dalla sua sedia la pazza che mi stava sulla testa in ogni momento.
Ma io sentivo che non era ancora il momento.
Non ancora.