Mark
Cala una strana sera.
Non ho più unghie, pensa Mark. Non ho più tenacia. La tenacia gli è colata via dal corpo come sudore freddo, può sentirne gli ultimi residui scivolare via: grumi di metallo scintillante e duro. Resta la carne viva.
Il treno per New York sta arrivando. Pensa che potrebbe anche non salirci, dopotutto, non cambierebbe granché. Prima o poi dovrà smettere di andare nel suo ufficio, smettere di andare alle mostre, smettere di fare riunioni e visite e sopralluoghi, smettere di salutare la signora Parker godendo segretamente del modo elegante in cui gli riesce di farlo, del modo impossibile da prevedere con cui è riuscito a appropriarsi del suo ruolo nel mondo. E ora il suo posto gli è stato sfilato di mano. Una zingara, un gioco di sguardi, l’imbroglio come nel quadro di Jean de la Tour che ha visto esposto a Parigi, al Grand Palais, quanti anni fa? Dieci, otto, era la prima grande mostra dedicata a Jean de la Tour, la sua incoronazione postuma. Pensa a quanti Jean de la Tour con il loro indiscutibile genio siano sepolti sotto falso nome e false attribuzioni e studi inesistenti in infiniti depositi e scantinati e laboratori, pensa alla precarietà di ciò che chiamiamo “fama”. Quanti Michelangelo sono nascosti in gipsoteche dimenticate? E quanti Seneca si disintegrano in edizioni perdute di scaffali ignorati per secoli? Sto diventando pazzo. La pazzia è contagiosa, scintilla come una lama nera e io l’ho appena incontrata, non posso esserne rimasto immune.
Il treno per New York delle 17.13 è in arrivo sul primo binario.
E ora è salito, è seduto.
Quasi lo stesso posto che aveva all’andata, attaccato al finestrino. Se incrociassero un altro treno e l’altro treno avesse un uncino, potrebbe agguantare il vetro, spaccarlo e portare via con sé il vecchio che ormai è diventato, il vecchio che ha così freddo, nonostante si sia abbottonato il cappotto, nonostante abbia girato due volte intorno al collo la sciarpa di vikuña bianca.
Vivevo in albergo. Era mattina. Ero già io. Mi ero salvato dai cannibali probabilmente per il dono di mia madre, per la macchina da cucire che portavo attaccata al braccio. Potevano mordicchiarmi alle caviglie, potevano farlo e lo facevano: ma non accadeva nulla. Portavo nel braccio il rumore del pedale che andava su e giù, il peso della fatica della povera gente che nasce povera e muore povera e loro non potevano farmi niente, conservavo me stesso, sapevo che mi sarei conservato. Guardavo la loro distruzione dal sommo di una collina, avevo in tasca il binocolo di Pierre, quando, vestito di velluto e scarpini, si attarda a guardare dall’alto la battaglia di Borodino. Avevo il dovere di conservarmi e il dovere di riscattare la miseria da cui ero stato partorito. Loro vivevano in superficie. Stavano in piedi – precariamente – su una lastra di acciaio scintillante, puro argento, argento perfino nel gabinetto, e c’era quell’uomo che ci viveva e ci dormiva, sulla tazza del cesso. Stavano in piedi e ballavano e poi dondolavano e finivano sul divano e sul pavimento in mucchi scomposti e verminanti. Non io. Io guardavo, ero la lastra che loro impressionavano. Facevo il fotografo. Facevo ritratti. Camminavo diritto verso il mio scopo. Ero tutto proteso alla fama: alla mia. Non volevo diventare una figurina del suo teatro, così stavano le cose. Volevo il mio teatro, il mio posto di regista. Volevo farmi male come loro ma decidere quando smettere: io.
L’albergo. Non riesco a ricordarlo bene. Doveva essere un edificio vecchio, pomposo, qualcosa di ottocentesco e di guasto, timpani e cornici festonate alle finestre e condizionatori che ruminavano a vuoto. Doveva esserci sul pavimento una moquette marcia. Si entrava e subito ti ingoiava una specie di atrio illuminato malamente, che stabiliva la prima verità: nessuno dei clienti dell’albergo amava la luce, né desiderava che la luce lo svelasse. Poche poltrone lerce disposte a caso, sempre vuote. Sul fondo, d’angolo, un banco di legno scuro serviva al portiere per registrare i pochi che intendevano farlo. Stagnava, nell’albergo, una sensazione morbosa di segreti inconfessati che si stavano mettendo in scena nelle stanze superiori, e un fiato di sigarette di cattivo tabacco e di camicie indossate sporche. C’era una scala, nessun ascensore. La mia stanza era, credo, al terzo piano ed era molto grande, una stanza che custodiva il lusso che l’aveva abitata come una vecchia senza denti il fazzoletto con i soldi dentro lo sfacelo del petto. C’era un camino, con la sua bella cornice di marmo espugnata da una patina giallastra e un letto con il baldacchino. La coperta era di ciniglia, la coperta degli alberghi infimi, con ridicole frange, rosso vino. La vasca era orlata di un nero che non sarebbe venuto via nemmeno se fosse stato pulito con la candeggina, il nero dei corpi che vi avevano cercato un appiglio, il nero di infinite disperazioni che l’acqua sudicia non era riuscita a portarsi via nello scolo. Il lavandino aveva macchie verdastre e rubinetti di vermeil perfettamente funzionanti. Nell’armadio le mie camicie giacevano in compagnia degli scarafaggi e le finestre a battente si aprivano solo di qualche centimetro, lasciando entrare un’aria intorpidita. Però il cielo si mangiava la stanza, e nei giorni limpidi di vento la città la penetrava come un pene turgido. Questa era la mia stanza e mi piaceva tornarci, non solo perché era mia e perché potevo permettermi di pagarla. Mi piaceva come una storia da raccontare. Io dormivo in quella stanza, vi rientravo, ne uscivo e guardavo me stesso mentre lo facevo. Quando avevo trentacinque anni, abitavo in un albergo verso la 95esima e la Seconda, un albergo da froci, e ci stavo benissimo, gli scalini cigolavano e la gente fornicava dietro le porte a qualunque ora e io ero contento di starci, costruivo la mia biografia, capite?
Vedevo la linea diritta della mia vita e mi fermavo alla stazione del Successo, del Potere, della Fama. Credevo ancora che sarebbe arrivato tutto dalla mia Canon. La guardavo mentre mi vestivo, la occhieggiavo dal bagno, da dietro l’anta dell’armadio. La Canon stava sul bordo del tavolo di marmo scheggiato, si lasciava ammirare come una bella donna sola sul divano di una festa. Agglutinava sogni.
Lio arrivò alle dieci. So che erano le dieci perché avevo un appuntamento per un ritratto – una socialite ansiosa di fama trasgressiva – in una delle grandi case di morti della Quinta, vicino alla Frick Collection esattamente alle undici e il fatto che Lio avesse deciso di venire a farsi scopare all’improvviso mi provocò più disagio che desiderio.
Stava lì, sulla porta, con la giacca nera della notte e la camicia bianca male allacciata, allacciata in fretta, ma perché? e aveva la faccia trasparente e mobile e fessure al posto degli occhi e il ciuffo si apriva sulla sua fronte acuta come un sipario al momento degli applausi. Era torbido e promettente e portava con sé l’odore di un altro letto, da cui doveva essere sceso in fretta, ecco perché i bottoni sbagliati, pensando a me. Pensando a me: non mi dispiaceva il tradimento se poi portava con sé la conferma di quanto io fossi indispensabile. Lo tirai dentro con un braccio, lo rubai al corridoio e al desiderio altrui e eccolo tra le mie braccia, la schiena contro il muro, il fiato spesso di vitello grasso soffiato nel mio collo e speranzoso e timido, perché era timido, allora, Lio, non possedeva che le sue incertezze. Annusavo il suo odore notturno, e mi dava alla testa come vino.
Perché sono andato da lei?
– Che hai fatto, eh che hai fatto, Lio, dimmelo cosa hai fatto, dimmelo tutto, voglio che me lo racconti tutto…
– Siamo andati…ah… an–da… ah an–da–ti al…. Portami a letto, ora, subito…
– Dove siete andati?
– Bizarre, credo, no… Dome, siamo andati a… Ah… Sì così così ancora sì dammelo… ah… Bizarre! Café Bizarre! C’era… ehm… un sacco di gente, c’era anche…
– Non aver paura, non ti mangio… ti fotto in ogni caso…
– Sterling.
– L’avete fatto, vero?
Mi staccai Lio di dosso, volevo guardarlo in viso, volevo assaporare ogni secondo della sua confessione, volevo tradire io me stesso insieme a lui.
– Sì.
– Dimmelo, che avete fatto.
Vedo il viso di Lio, il canino di metallo che brilla come un dente di squalo nel rosa indecente del palato, vedo il suo sorriso serpentesco, il modo in cui abbandona la testa contro il muro e mi contempla, furbo, astuto, potente, garantito dal tradimento, sicuro della vittoria, è un altro e non ha più vent’anni, è il mio giudice e il mio godimento.
– Te lo mostro, è meglio.
Di furia, via la mia giacca, la sua, la mia camicia, la sua, ma quanti bottoni, quante asole, quanta stoffa tra i nostri corpi arrotolati, distesi, rovesciati, via i pantaloni, i suoi, no, le scarpe, amore mio, prima le scarpe, i lacci delle mie scarpe, i mocassini che sono le tue scarpe, lascia, lascia le calze, mi piace lo sfacelo, il senso di degradazione, mi piace la pelle nuda e debole, la pena dei calzini lasciati addosso come una trincea sfondata, via i pantaloni sfilali i miei i tuoi
E ora siamo in mutande e ci possiamo baciare. E ora lo piego, lo svello dall’afrore del letto, lo piego, lo assesto, via le mutande le mie le sue.
Un grido.
Dopo giacemmo abbracciati, intontiti di torvo sbigottimento. Ricordo le pieghe del baldacchino, la stoffa come i raggi del sole in un disegno di bambino, come una aureola di santi.
Perché sono andato da lei?
Di colpo: battere contro la porta. Eravamo nudi, con i calzini, ma nudi e la porta era nell’altra stanza, la stanza del camino di marmo, del divano sfondato, del tavolo con il disegno degli scacchi. Arraffai qualcosa la camicia di Lio la sua camicia le mutande, allaccia la camicia, assesta le mutande, la porta, aprila.
– Che vuoi?
Sta ferma, sulla soglia, ora che ha ottenuto che la porta venisse aperta. Ha abbandonato le braccia lungo il corpo. Sembra fatta d’acqua.
– Non puoi entrare.
Oh sì, ti prego, disse. Era una povera creatura sottomarina, era qualcosa di gelatinoso e molle e privo di sostegno qualsiasi, un celenterato, una medusa senza tentacoli già richiusa su sé stessa, pronta a diventare ombra bluastra nel vuoto della rena dove è morta. Era la persona più disperata che avessi mai visto. Dovetti farla entrare. La raccolsi nel cavo della mano e la sistemai contro il muro, perché stesse diritta. Lei cominciò a strusciarcisi contro, circuiva il muro, lo lusingava, abbandonava la testa all’indietro e lasciava che il bianco del suo collo mi ondeggiasse appena sotto il mento, da destra a sinistra da sinistra a destra a sinistra
e ora chiedeva baci al vampiro, questo faceva, la troietta. Dicevano che ormai non usciva più di casa, che aveva coperto le finestre, tutte le finestre, con i sacchi della spazzatura, che teneva la corrente staccata, e annaspava nel buio dal letto al gabinetto per vomitarci, dicevano che nel frigorifero c’era solo l’Lsd e che gli spacciatori se la passavano l’uno l’altro, un salvadanaio sonante. Dicevano che era fatta, sempre fatta e che piangeva, sempre, continuamente, una sorgente di lacrime, Aretusa di lacrime brevi e fitte come pioggia. La stessa pioggia fine che ora le bagna il viso. Ti prego, ti prego, dice con la sua voce di bambina ferita e c’è Lio che mi aspetta nel letto, Lio con il suo cazzo pieno di sole
– Vieni.
Avrei dovuto farla sedere sul divano. Si sarebbe raggomitolata, sarebbe stata una breve, impenetrabile palla di donna bambina e non sarebbe successo nulla. Non successe nulla o forse successe. Io ho questa vite nel petto, adesso, la vite gira, gira su sé stessa, segue il filo della sua spirale e mi inchioda a quella mattina, a quell’albergo, a quell’istante gettato via che Lio non più Lio giovane, invece il vecchio lascivo Lio Trapp che mi ha fermato alla mostra, ha recuperato per mettermelo davanti con il sorriso furbo di trenta anni fa. C’è stata questa sovrapposizione, questo graffio nel tempo e Lio è risorto per me insieme a quella mattina sparita dalla mia coscienza
Si appoggiava tutta, mi teneva la testa sulla spalla, come una innamorata. Passammo davanti al divano sfondato, davanti al tavolo con la scacchiera vuota, davanti al camino macchiato di giallo. Era come se nuotassimo sotto il filo dell’acqua cercando terra. E c’era la porta spalancata della camera e Lio nudo sul letto. Lo spavento della sua bellezza ci fermò tutti e due e rimanemmo sulla soglia, allacciati, a guardarlo. Aveva questo, Lio, il giovane Lio di quegli anni, un fremito di disgrazia dentro il corpo magro, sulla pelle la luce istantanea di una cometa che brucia. Era nudo e trionfava sulla coperta di ciniglia accartocciata, e ora so che era puro Caravaggio, ansito di morte attraversato di incanto.
Perché sono andato da lei?
Fui io che la spinsi. Fui io che collocai il suo corpo d’acqua gelatinosa sul letto. Era vestita. Aveva qualcosa di corto, una breve sottana che lasciava all’aria le gambe nude e sottili, senza consistenza di carne. Aveva degli stivali, bianchi, sì, bianchi di lucida vernice bianca, stivali alti sopra il ginocchio, che io le sfilai. Fui io. Lio, indifferente, guardava. Lei fu nuda dalla cintola in giù. Ricordo le sue mutandine da bambina, di cotone a fiorellini minuti, mutandine da incesto, che io sfilai. Fui io. Lio, indifferente, guardava.
Stava seduta sul bordo del materasso, era una bambina in attesa di essere interrogata, al suo banco di scuola. Era nuda. E la scuola era questa stanza, questo letto di lenzuola sudate, questo sapore di sperma.
Lio si tirò su, mezzo seduto e strafottente, sicuro di non essere messo in discussione. Io mi sfilavo la camicia, le mutande, lentamente. Ero bello, carne soda e compatta, culo di dio greco, il mio sesso era pronto. Lei levava le lacrime dal viso con una piccola mano di unghie rosicchiate. Alzò gli occhi, trovò i miei. Mi trafisse di languore. Creatura d’acqua, portata dalla corrente di quei giorni di eterna giovinezza, eterno potere, vittoria eterna sul tempo degli altri, l’immoto tempo del nostro splendore. Relitto. L’avevamo lasciata indietro, dentro la pena che le si attorcigliava addosso e la tirava giù, in fondo, nel greve oscuro degli abissi dove suonano suoni primari, richiamo di balena a fauci spalancate
Hhhhhoooooooooooooooooooooonnnnnnnnnnnnnk
Sento di nuovo quel richiamo, ora, qui, su questo treno che infilza la notte.
Hhhhhhhhooooooooooooooooooooooonnnnnnnnnnnk
È il suono dell’abisso, non vi risuona: lo crea. Contiene le perdute profondità, l’infinito affondare, nasce da cretti di continenti sommersi, da oscurità cave, è la musica originaria, la vibrazione di un bronzo annegato
Hhhhhhhooooooooooooooooooooonnnnnnnnnnnk
Ebbi un impulso incontrollato, caotico, mi sospinse una forza non governabile, la forza primigenia di quel suono mi invase e mi rapì a me stesso. Non fui più io, io senza cuore senza compassione io scoria dura di alligatore, divoratore di insetti d’uomo giovane, io fornicatore, perforatore, violentatore, io maschio trionfante di maschi. Fui qualcosa che non conoscevo, e che mi possedette. Fui un giovane uomo nudo in piedi davanti a una bambina ferita. Mi chinai su di lei, sulla povera schiena che mostrava ogni nodo di vertebra, sulla sua nuca esposta – una peluria di pulcino, trasparente come vetro – sulla piccola testa che ora era piegata in avanti, esausta, offerta all’ultima offesa. E sentii le mie dita raspare la grana sabbiosa della sua maglia di lurex, cercare le sue brevi spalle scomposte, lo spigolo degli omeri, sentii sui polpastrelli il ricordo di un tepore che scivolava via, giù per il busto che cercava riparo tra le ginocchia, giù lungo le gambe strette, fino ai piedini di legno: toccai la disperazione. Potevo fare di lei quello che volevo. Ebbi questo pensiero. Potevo schiacciare il suo capino con il portacenere della scrivania, e poi saggiare tra l’indice e il pollice la consistenza pastosa della materia cerebrale che ne sarebbe uscita, come una nuvola libera di cielo. Potevo massacrarla di pugni, calpestarla, farne un informe mucchio rossastro e sanguinoso, eseguire la condanna: perché era questo, era per questo che era venuta, era venuta a chiedere a me quello che lei non sapeva fare, liberarsi per sempre della pena di vivere, del rodere lento di ogni amore mancato, del buco che la spaccava
Potevo esaudirla
Non lo feci. Le mie mani la tennero saldamente alle spalle, la trassero su, verso il tetto trasparente dell’acqua, attraversò, tirata in salvo dalle mie mani, tutte le sue ferite e annaspava, si agitava, la percorse un brivido che la frugava tutta. Ma risalì, risalimmo. Il letto fu la riva e io fui sopra di lei, tutto, tutto il mio corpo di maschio fornicatore sopra di lei, rovesciata all’indietro, figurina di carne spaurita nell’onda dei lenzuoli scomposti, bambina breve, respiro attraversato di cauto stupore. Le sue manine mi tennero, mi abbrancarono alla vita e fu lei che salvò me, per il tempo immobile che ci coprì. Ricordo l’odore di quella stanza e la sua pelle secca, che si disfaceva sotto di me e non aveva odore né consistenza, la sua pelle che mi offriva il sanguinoso reticolo delle vene, il rombo lontano del cuore
Hhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhooooooooooooooooooooooooonnnnnnk
Frugavo con il sesso tra le sue gambe serrate, e si schiusero e trovai la rossa ferita a cui porre rimedio, la coprii, la riempii, lei era d’acqua sotto di me. Creatura. Non più donna odioso corpo di donna. Creatura ricamata di languore, efebo senza sesso, benché nel suo sesso ora io stessi nuotando, abbarbicato a lei, confuso di lei con lei
Lio
Ci balzò addosso, fu addosso all’unico corpo che eravamo, lei e io, la bambina e il maschio violentatore di maschi, si attorcigliò con le sue gambe alle mie gambe, mi ingoiò, fu la mantide, e mi alitava sul collo, mi prese tra i denti l’orecchio, lo tirava per staccarmi via, e cominciò a mordermi la schiena, le spalle, mangiava bocconi di me e intanto il suo duro cazzo schiantava l’ileo, la fossa dell’osso sacro, finché nella furia non staccò le mani con cui ci imprigionava, braccia tese, gabbia di braccia, e mi spalancò i glutei, e scese in un turbinare cedevole e struggente con il fiato lungo la riga diritta del bastone della mia schiena, leccando ogni anello, ogni piega, e io fui acqua, anche io, non più salvatore, ma annegato, creatura persa e afferrata, non più forte ma debole, non più io e la bambina, ma io e Lio e la bambina, io e il cazzo di Lio, io che la lingua di Lio preparava con abilità antica alla penetrazione, io invaso, attraversato, conquistato
Trafitto
E la bambina nuda e debole ancora sotto di me, ancora posseduta da me, non da me, da Lio che mi possedeva
Sensazione sublime di eterno cominciamento circolo chiuso di corpi io su di lei Lio su di me tre insetti tre lucertole lubriche tre farfalle attaccate strinate bucate sul tavolo operatorio del letto
Venne
Si staccò subito, rotolò di lato e mi portò via con sé
Lasciammo, insieme, che la bambina annegasse.
Foglie e pace e silenzio.
Cammino con questo dottore perbene, lui davanti e io dietro, stiamo attraversando un giardino intriso di umanità ammutolita, è Hopper, ci sono gli stessi grigi allagati di latte, le finestre vuote orlate di bianco, alberi d’oro vecchio trattengono le foglie. Dunque è questo, il posto. Sarà questo il luogo della rivelazione. Dunque sono venuto per questi grigi, per questo silenzio, per le spalle da ballerino rock, belle spalle, belle, di questo dottore.
Come sta, Dottore?
Allora posso parlarle? Lei mi permette di incontrarla da solo?
Non la ecciterò, glielo prometto. Lei non vuole sapere di cosa parleremo? No, sono calmo. Sono calmo. Quale è il padiglione? Sono di vento come queste foglie. Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie. È un poeta italiano, parla di soldati alla guerra. Ma non siamo tutti soldati, alla fine, non abbiamo tutti la nostra guerra e il breve fremente picciolo che alla fine si stacca, Dottore? Perché non assiste al colloquio? E se io invece non rispettassi i patti, se la eccitassi, se accadesse qualcosa di ingovernabile, se lei cominciasse a urlare, Dottore? Perché si è convinto a farmela incontrare? È per il mio nome, per il cappotto di cachemire, per la mia sciarpa di vikuña? Sono venuto per sentirmi dire di no non è possibile parlare con i pazienti mi dispiace addio e lei, invece, Dottore, con la sua camicia rosa del cazzo e quel sorriso beota, lei, poveraccio, si è fatto fregare come tutti e ora io ho una paura terribile, sì è paura questa, maestosa paura antichissima che mi è saltata addosso e mi schianta, sì, vede, la vede la pietra di granito, la radura intorno, lo vede il coltello che brilla nel pugno del Sacerdote, e tutto l’oro che brilla, le sete, tutto il magnifico fasto con cui ammazzavano gli Inca, la vede la carne bianca sulla pietra nera? E io, Dottore, non so stabilire se è carne giovane di giovane donna nuda: o se è la mia.
Ci ho ripensato, Dottore.
Non mi importa più.
Non cambierebbe nulla, solo i miei pensieri.
E comunque non ci sarebbero prove.
È questa, la porta?
È qui che devo entrare? Mi lascia da solo, Dottore?
Permesso.
Sto entrando in una pancia di balena. C’è un tappeto: Bukhara. C’è un corridoio a elle, una porta sulla destra: aperta. E c’è il cerchio magico dell’abat-jour, su un tavolo di mogano, tondo; e la poltrona. Una poltrona da racconto, con lo schienale a uovo, tappezzata di kilim. La finestra è a destra, c’è una tenda lunga che sgocciola sul pavimento. Non c’è più niente da vedere.
Lei.
La figura color argento e carminio e ocra è così massiccia e gonfia – un fagotto indistinto – che potrebbe essere uomo o donna o orso, senza differenza. Ma è una donna. È una presenza di stracci che bisogna frugare. Bisogna trovare la bambina, rivelarla, occorre scansare la felpa, la povera maglia che c’è sotto, levare via con le dita questa carne stanca, difesa di grasso, questa carne così bianca così languida sotto le dita questa carne tremula, trovare l’acciaio freddo della verità, quel corpo, quelle spalle, quel seno dolente di bambina, quel letto
Avevi occhi da vittima, Binky. Avevi già addosso la pietra sopra cui saresti morta, esisteva già il coltello d’argento, ci camminavi dentro, ci ballavi dentro, ballavi come una furia con i tacchi dei tuoi stivali, era con loro che ballavi, con il rumore che facevano contro il pavimento d’argento, ballavi il rumore per non sentire più nulla che non fosse il rumore dei tuoi tacchi sul pavimento
Binky
Ti sei girata verso di me. Ah, anche io sono un fagotto ma composto, ordinato, un fagotto abbottonato, ma la carne è la stessa, questo mi dice il modo in cui mi guardi: abbiamo la stessa carne stanca, sconcia, tremolante
E ora esplode la musica.
Non me l’aspettavo. Deve esserci un registratore, un cd player da qualche parte in questa stanza soffice, deve esserci un impianto di diffusione, forse c’è anche un microfono, forse ci stanno ascoltando, ci ascolta il ballerino rock che ti sei presa come Dottore, Binky: i Velvet Underground
Shiny, shiny, shiny boots of leather
Whiplash girlchild in the dark
Comes in bells, your servant, don’t forsake him
Strike, dear mistress, and cure his heart
Come luccicano i tuoi stivali lucidi come balena nel buio la staffilata della tua frusta di bambina ecco il tuo schiavo non lo abbandonare colpiscilo e curagli il cuore, amata mia padrona
Curami, Binky. Cura il mio spavento di morire. Prendimi sul tuo petto grasso, cullami, riparami. Dimmi che non morirò. Fammi restare. Regalami il futuro, riannoda il filo. Fammi nascere, Binky. Dimmi che quel filo opaco che ti ho messo dentro, secoli fa, per uno sbaglio, per quella dolcezza torva di fare il bene che accarezza a caso anche le pietre come me, dimmi che quel filo si è fatto infinita pulsazione, lampeggiamento e gracchio e si è attaccato alla tua carne e attaccato a te è cresciuto e si è diviso e si è fatto girino e ha nuotato nel tempo fino a me, a me che figli non ne posso avere a me che figli non ne ho mai voluti a me che non volevo essere padre
Padre
Continuare nel tempo. Trovarsi dentro un altro viso altre mani altre braccia. Farsi proiettile nella storia cava del mondo. Io ci sarò. Esisterò fino alla fine dei giorni, infinitesima particella condivisa nel filo delle generazioni. Sarò figlio del figlio di mio figlio, sarò continuamente generato, rinascerò in ogni girino d’uomo che porterà il mio segno come io porto il segno di mio padre e del padre di mio padre e del padre del padre di mio padre
No.
Mio padre non c’è. Non lo porto con me. Non so dove sia, non c’è mio padre in me. Io sono figlio di mia madre sola. Non porto geni di maschio. Non sono capace di inseminare. Il mio sperma allaga sterili cavità, mi protegge dal padre che non ho avuto. Io non ho figli, vero, Binky? Sono venuto a cercarti per scoprire quello che già sapevo: io sono sterile. Sono l’ultimo nodo della catena, non resterà nulla. Sono un buco in un tappeto di fotografie. Sono pulviscolo, sono sabbia. Sono polvere di selce vecchia di milioni d’anni. Sono un grano di nulla, soffiato sulla Porta dell’Inferno.
Sì: vado via.
Vuoi dire questo, vero? È per questo che hai inclinato la testa, la tua povera testa slabbrata, la testolina di cerbiatto che tutti noi abbiamo calpestato? Guarda, Binky: guarda me. Guarda il mio cappotto abbottonato stretto, guarda la sciarpa bianca: non c’è nulla, sotto, non c’è nulla, dentro. Se io, ora, mi togliessi il cappotto, mi levassi la sciarpa, tu non vedresti nulla. Sono io la medusa, Binky. Sono questo cavo di rena, sono l’orlo blu del cappotto che mi regge in piedi. Se ti avessi abbracciato, davvero, se ti avessi salvato, Binky: avrei salvato me. Ma non l’ho fatto. Non ci pensavo, non mi fermavo, credevo che il vortice durasse per sempre, che la terra non arrivasse mai. Poi la terra mi ha preso: nello studio di un medico elegante che aveva fastidio di me. Non sarò nulla, Binky. Non sarò Michelangelo né Seneca. Resterò, per qualche anno, sui documenti di acquisto che ho firmato, ci sarà, credo, una cerimonia per il primo anniversario della mia morte, verranno – potrebbero venire – gli artisti delle mostre che ho curato, diranno ciascuno poche svelte parole di lusinga postuma, poi il mio successore dirà possiamo passare al caffè del museo per il rinfresco e sarà finita. Sarò finito. Scusami se sono venuto a disturbare la pace di questa stanza. È l’ultima violenza. Eri bella, sai, Binky. Avevi la bellezza di Ifigenia, la lubrica bellezza della vittima sacrificale, la sconcia bellezza dell’innocenza offerta alla malvagità
Come rimbomba questa musica come rimbomba
Dove sono gli altoparlanti? dove sono! Da dove arriva questa musica? È quella musica, te la ricordi? La musica che suonava nella radio della tua testa, la musica che sentivi tu sola e ti bastava, per questo non hai voluto il mio sperma, per questo non l’hai benedetto, non ne hai fatto un girino di figlio che si chinasse sul mio letto
I am tired, I am weary
I could sleep for a thousand years
A thousand dreams that would awake me
Different colors made of tears
Sono così stanco. Così stanco. Sì, potrei dormire per mille anni e verrebbero a svegliarmi mille sogni ma io non mi sveglierei e accadrebbe questo: che dal mio viso di ferro uscirebbero lacrime colorate, un arcobaleno di lacrime, un ponte su cui camminare, tu ci saresti, Binky? Tu ci sarai? Lascia che resti con te, è così calda questa stanza, c’è così tanta pace.
Hai chiuso gli occhi. Dunque non ho figli.
Addio, Binky.
Da quanto tempo siamo partiti?
Mark stacca la fronte dal finestrino e rientra nel mondo, si riappropria delle gambe: dove sono? – accavallate, la destra sopra la sinistra – delle braccia – conserte – del mento – ben sollevato – della nuca – appoggiata allo schienale. Ha l’impressione di disegnare la sua silhouette con una matita appuntita e feroce, che non consente sbavature e ha l’impressione che a stringere la matita – gialla – siano mani minuscole e inflessibili, mani di bambino, un divino bambino che sa tutto, che conosce l’esatto posto di tutte le cose, di tutte le vite
È in questo preciso momento che la vede.
È seduta dall’altra parte del corridoio, sulla sua stessa fila.
Anche lei accanto al finestrino.
Ha girato la testa nello stesso esatto istante. C’è una molla – la molla che il destino ha fatto scattare – e questa molla li ha liberati entrambi nello stesso momento, entrambi si sono voltati, circospetti, atterriti, ciascuno ha sorvolato l’altro, come un uccello che si tuffa, un uccello dal lungo becco e dalla gola polputa, un martin pescatore – il martin pescatore, il nome della villa a East Hampton – che ha già staccato la sua preda dall’orlo nebuloso delle onde e la punta la tiene l’afferra. L’ha ingoiata
Ma adesso sono riemersi. Adesso tornano a guardarsi, di nuovo nello stesso momento, di nuovo circospetti. Eppure: sta accadendo qualcosa. La matita inesorabile del bambino che ci abita tutti e che sa tutto ha ritagliato quella zona di corridoio, quella fila di poltrone: non un’altra: quella. C’è la tappezzeria blu, un moto ondoso continuo – girini, miriadi, in agitazione nel blu – ci sono i poggiatesta immacolati – li sostituiranno a ogni viaggio? Quanto costerà? – i braccioli metallici coperti di finta pelle nera – saranno così quelli della sedia elettrica?
sì, mi pare, devo averlo visto in televisione, in un documentario sulla pena di morte, una di quelle sere di pioggia, quando Rufus esce per andare a cantare nel coro,
sì mi pare, devo averlo visto al museo criminale di Miami quando la nonna mi mandò in vacanza con la signorina Davies.
C’è il corridoio coperto di una nebulosa rosazzurrogiallo – lo stagno delle ninfee di Monet, la liquida gloria della bellezza che non muore sterilizzata e stampata su feltro antigraffio antimacchia non infiammabile – cigolio metallico di presse e rolli infradiciati di colore in qualche capannone del New Jersey perché la bellezza sia calpestabile, consumabile, dimenticata sotto milioni di passi.
Il treno è una serpe d’argento che guizza nell’abisso della notte.
TUTUN tutun tutun TUTUN tutun
La ragazza ha in grembo una rivista, la tiene stretta con le mani a pugno. Mark pensa: una madre che afferra una culla. Si rende conto che sta proiettando sé stesso addosso alla ragazza, sta passandole i pensieri prima ancora di averli decifrati lui, sta trasmettendole il suo spasmo di genitore mancato. Probabilmente, si tratta di una rivista di moda, la ragazza ha i pugni serrati solo perché la rivista ha un peso eccessivo – troppe pagine di pubblicità, troppa smania di soldi. Non c’è nessuna intenzione di cura, nessun imprevisto da cui proteggere nessun neonato. Ora la ragazza volterà la testa e sarà tutto finito. Il treno arriverà a New York, in un tempo ragionevole, come arrivano di solito i treni, come arrivano a destinazione tutti i gesti, i comportamenti, le friabili giornate delle nostre vite di foglia e loro due, il vecchio e la ragazza, torneranno a essere puntini separati di un unico immane pulviscolo, separati e distanti e ignoti l’uno all’altro
TONK
La rivista è caduta. È scivolata ai piedi del sedile vuoto verso il corridoio. La buona educazione che ha imparato con la furia di raggiungere il punto da cui i suoi rivali erano partiti lo fa scattare in una reazione automatica, pavloviana. Per un attimo non è più vecchio, non è più stanco, è il giovane studente universitario della Columbia che deve fornire la risposta esatta a tutte le domande che gli vengono fatte e la domanda è la rivista scivolata per terra, dentro lo stagno di Giverny del corridoio centrale. La raccoglie, la porge alla ragazza. È per questo, per questo gesto gentile, antico, un gesto riaffiorato dal tempo perduto come riaffiora l’acqua da una polla disseccata, che vede le lacrime.
Lei sta piangendo. Nulla di plateale, o di esibito: una pioggia fine a cui offre arresa il suo nudo viso di bambina spersa.