27.
EPILOGO
E così adesso eccomi qui. In ascensore con Morgana, di ritorno dalle Edizioni L’Erica, con in tasca un contratto. Esso prevede:
1, che io possa continuare a lavorare a tempo pieno per le suddette Edizioni, nel mio ruolo di prima e con un significativo aumento;
2, che le Edizioni L’Erica pubblicheranno, non appena l’avrò scritto e consegnato, un mio romanzo autografo, che porterà la mia firma e tratterà di qualsivoglia argomento io desideri;
3, che le summenzionate Edizioni L’Erica stanzieranno per la promozione, distribuzione e vendita dei diritti stranieri del romanzo di Silvana Sarca esattamente la stessa cifra, non un euro in più e non un euro in meno, impiegata a consuntivo nella promozione, distribuzione e campagna di vendita dei diritti stranieri di Più dritta di una corda di chitarra di Riccardo Randi.
Il tutto a patto che io tenga la bocca chiusa su tutto ciò che so di Bianca, sul suo rapimento e soprattutto sulle dinamiche della sua liberazione – specialmente sulla parte in cui per salvarsi la pelle si è dovuta rivelare per l’impostora che è.
Dimenticavo: prima di firmare il contratto, ho fatto acquistare a Enrico il mio nuovo volume delle Cronache angeliche. A trentacinquemila euro.
Avrei potuto ottenere anche di più, ma non mi interessava. E avrei potuto chiedere di rientrare alle Edizioni L’Erica con un ruolo diverso, di normale redattrice, ma il fatto è che io non sono una normale redattrice. Io sono una ghostwriter, che, come direbbe il commissario Berganza, entra nella testa altrui, e fa funzionare le cose come da solo quel cervello non saprebbe fare. Ci ho riflettuto e ho capito che è l’unico lavoro che non mi annoia, e siccome fin troppe cose mi annoiano in questo mondo, tanto vale che non ci si metta anche questa, giusto?
Non mi dispiace nemmeno l’idea di tornare a lavorare per Enrico, pur di poter fare questo mestiere, che è l’unico mio, l’unico che veramente mi appartiene e mi rispecchia. Enrico è uno squalo opportunista di merda, certo, ma ci sono cose che mi inducono quasi a essere indulgente. L’insolita premura con cui, in quell’sms da cui è scaturito tutto, cercava di convincere Riccardo a non essere troppo crudele con me. Il sottile rammarico nel licenziarmi. Nulla che gli valga un’assoluzione, beninteso – manco le avrei colte, queste sfumature, se non fossi la rodata macchina da empatia che sono diventata – ma un vecchio nemico è quasi come un vecchio amico, come Pat Garrett per Billy the Kid. E poi, non posso sottovalutare il piacere che mi dà, sin dalla notte dei tempi, il fatto di sapere sempre come farlo incazzare.
Però ho posto delle condizioni. Niente più libri che prendano in giro le persone (o me). Vanno bene autori che siano scienziati, ricercatori o economisti, o giornalisti, insomma gente che abbia contenuti, idee, numeri e dati veri, e che abbia solo bisogno di qualcuno che a differenza di loro sappia come metterli giù. Un Mantegna lo posso sopportare, una Bianca no. È stato difficile formulare la distinzione in termini legali per il contratto, ma mi è bastato fingere di essere la ghostwriter di un bravo notaio.
Avrei anche potuto chiedere che venisse reso noto che Più dritta di una corda di chitarra era farina del mio sacco – o perlomeno anche del mio sacco. Ma, tutto sommato, come già ho detto, io ho fornito l’impianto, ma il sapore della polvere, il colore del cielo e il borbottio delle macchine sulla strada ce li ha messi Riccardo, e questo glielo devo riconoscere. Non ho voluto rischiare di togliergli anche quello che era suo. Di lui mi sono già vendicata a sufficienza, ora non m’interessa più. Tempo di dimenticarlo, ormai. Mi ci vorrà un po’, ma ci sto lavorando. Va bene così.
Anche a Enrico, tutto sommato, va bene così. Ho osservato da vicino la sua espressione mentre firmavo. Non oserà mai ammetterlo ad alta voce, ma in fondo è felice di riavere la sua ghostwriter.
È stato un po’ meno felice quando gli ho ventilato l’ipotesi che, per il mio libro, traessi – uh – ispirazione dai recenti avvenimenti.
«Ma hai appena firmato un contratto in cui accetti che non ne parlerai mai!»
«Non dice nulla sull’usare nomi diversi e trasformarli in una, seppur allusiva, storia di fiction», faccio notare. «E il primo comandamento dello scrittore non è forse “Scrivi di quello che conosci”?»
Enrico fissa con orrore il contratto e gli si legge in faccia che si sta chiedendo come abbia fatto a non pensarci. Ma io sono un’ottima ghostwriter e, come ho detto, per scrivere le clausole mi sono messa nei panni di un ottimo notaio.
Le mie, di clausole, col cavolo che hanno «più buchi di un bordello».
Se Berganza fosse qui di fianco a me, adesso, dovrebbe trattenere le risa. L’idea di chiedergli di accompagnarmi alla firma del contratto mi è anche passata per la testa, ma non ho avuto il coraggio di proporgliela. Anche se ho il sospetto che avrebbe accettato. Perché, tutto sommato, comincio a sospettare che gli angeli custodi potrebbero esistere sul serio. Magari in forma ben dissimulata, ad esempio sotto un impermeabile beige.
«Non temere, Enrico», lo tranquillizzo. «È solo una precauzione, un deterrente nel caso un domani tu o Riccardo o chiunque altro vi svegliate con la sensazione di essere stati fregati, e moriate dalla voglia di escogitare qualche modo per farmela pagare. Combinatemene una delle vostre, e ti ritroverai vincolato contrattualmente a pubblicare un’affascinante avventura in cui un editore basso e semicalvo di nome Manrico Bruschi delle Edizioni Il Papavero fa scrivere il bestseller del suo pupillo Edoardo Errandi a una ghostwriter di nome Siriana Parca.» Mi compiaccio per un istante della scioltezza con cui mi sono usciti i finti nomi. Cavolo, sono brava. Quell’aumento Enrico avrebbe dovuto darmelo secoli fa. Sorrido e proseguo. «Ma tu continua a trattarmi come hai sempre fatto – be’, magari un po’ meglio –, lasciami continuare a vivere tranquilla e a fare il mio lavoro – magari senza assegnarmi più degli incarichi vergognosi –, e io ti assicuro che non avrai niente da temere.»
Ora sono qui in ascensore con il contratto nella borsa, e anche una nuova bottiglia di Bruichladdich che mi sono comprata per festeggiare. Sono così assorta nei miei pensieri, nel ricapitolare questa vicenda dal finale così inaspettatamente lieto, che non mi accorgo che Morgana mi sta fissando in silenzio, come se morisse dalla voglia di fare due chiacchiere ma non sapesse bene come rompere il ghiaccio.
«Stai molto bene, bionda, sai?» dice all’improvviso.
Ah, già, perché nel frattempo ho anche deciso di tornare al mio colore naturale. Continuo a mettermi gli stivali borchiati e l’impermeabile nero, ma ho deciso di ridare una possibilità, dopo anni, al mio vero colore di capelli. All’inizio mi è sembrato che sopra tutto quel nero la mia testa fiammeggiasse come un cerino acceso, ma adesso mi ci sto abituando. E il contrasto con i rossetti porpora non mi dispiace.
A dire il vero, quando sono andata dalla parrucchiera è successa una cosa strana. Non mi piace ripensarci, ma non riesco a non farlo.
Era un sacco di tempo che non mettevo piede da un parrucchiere. Mi sono sempre tagliata i capelli da sola a casa, davanti allo specchio. È facile quando ci prendi la mano, e quando hai la stessa pettinatura dall’Età del Bronzo. Solo che stavolta si trattava di lavare via decenni di tintura nera, e ho preferito che a sciogliersi le impronte digitali con l’acido fosse qualche professionista pagato apposta. Così ho scelto il primo parrucchiere dall’aria sufficientemente igienica nei dintorni di casa mia: un posto che a un’occhiata distratta si potrebbe equamente scambiare per una pescheria, o per la sede di un’agenzia di matrimoni internazionali per corrispondenza.
L’ho già detto che non abito in una zona proprio chic.
Insomma entro, mi faccio avvolgere in un telo sporco da una tizia con unghie che sembrano spatole da gelato, la tizia osserva il mio nero petrolio, ci ripensa e sostituisce il telo con un altro ancora più sporco, poi attacca con l’opera di scavo che riporterà alla luce le volontà del mio DNA. Attendo rassegnata per un paio di secoli che l’impiastro che ho sul cranio faccia effetto mentre intorno a me si avvicendano chiacchiericci multietnici. Infine vengo lavata e sistemata, mi avvicino alla cassa per pagare, e mentre, con la mano immersa nella borsa alla ricerca del portafoglio, fatico a staccare gli occhi dalla sconosciuta che balena dagli specchi, sento qualcosa sbattere forte.
Sposto lo sguardo. La tizia in coda dietro di me è una signora peruviana. Ha un viso più duro della media delle sue connazionali, o forse è solo perché al momento la sua faccia è contorta in una smorfia che definire arcigna è come dire che l’iceberg e il Titanic hanno avuto un civile scambio di opinioni. Sembra che qualcosa le faccia profondamente schifo. A giudicare dal fatto che ha sporto un braccio oltre il mio fianco destro e ha appena schiaffato il proprio portafoglio sul bancone della cassa, probabilmente quel qualcosa sono io.
«Si muova», sibila infatti.
Non mi sembra di avere indugiato poi così tanto, così mi giro a guardare la tizia in pieno volto. «C’è qualche problema?»
«Si muova e basta», brontola.
No. Non brontola. È più un ringhio. Non c’è alcun dubbio: questa estranea, per qualche ragione a me oscura, mi odia.
«…Rosa?» mi ritrovo a mormorare, prima ancora di rendermene conto.
Chissà perché l’ho pensato. Quante signore peruviane di mezz’età ci saranno, a Torino? Non sono nemmeno certa che Rosa abiti dalle mie parti, perché Riccardo non me ne ha mai parlato. Eppure. Eppure ho detto «Rosa?» e la donna si è irrigidita, dopodiché si è fatta ancora più cupa.
«Lei è Rosa, vero? Io sono Vani… Silvana Sarca. Ma qualcosa mi dice che lo sa.» Come fa Rosa a conoscermi, se non ci siamo mai viste? Ma soprattutto: come ci si presenta a una tizia che già ci conosce e in più ci odia? La cosa buffa è che mi viene inspiegabilmente da essere gentile. Come se ci avessero presentate a un party. Le sto persino tendendo la mano da stringere.
Rosa fa un passo indietro come se la mia destra fosse radioattiva. «Ma certo che lo so. Tutta nera. Nera nera nera come il diavolo. Occhi neri. Bocca nera. Mechón negro, quando è entrata, anche se adesso è rubia. Torino nord. Lo so chi è.» Non posso che ammettere che l’identikit è preciso. Riconoscere Vani Sarca in un settore specifico di una città di novecentomila abitanti: facile, basta cercare una tizia sui ventiquattro che si veste come il corvo di Poe. E a quanto pare altrettanto simpatica, perlomeno a Rosa. La quale infatti conclude con un: «Negra como su alma», che se non fosse così offensivo avrebbe anche una sua lusinghiera aura epica.
Ciò non toglie che adesso però abbia passato il segno. Esigo delle spiegazioni. «Si può sapere che diavolo…? Ehi, aspetti un momento!» Mi tocca correrle dietro, perché dopo l’ultima deliziosa etichetta che mi ha rifilato si è girata e ha imboccato la porta. La trattengo per un braccio e lei si divincola come se la mia mano trasmettesse la peste nera.
«Si può sapere cosa le ho fatto?» esclamo. «Se devo essere assimilata a Satana, voglio almeno sapere come mi sono guadagnata il titolo.»
«Ssspiritosa», sibila la donna. Se gli sguardi potessero uccidere, io sarei alla terza reincarnazione nel giro di due minuti. «Lui sta male. Umore giù. Appetito giù. Non ride più, non scherza più. Dice brutte parole. Al telefono, sempre veloce. Anche con donne. Mai stato veloce. Mai. Con donne, poi, proprio mai.»
Oh.
Non mi occorre chiedere chi sia il tapino di cui Rosa sta descrivendo il degrado esistenziale.
«E sarebbe colpa mia? È questo che sta dicendo?» In effetti, con tutta probabilità, è davvero colpa mia, ma non per i motivi che sostiene Rosa. «Guardi che non è come pensa. Se Riccardo sta da schifo, non è mica perché gli manca la sua ex, come succede alle persone normali. È stato lui a…»
«Non interessa!» sbotta la donnina. In effetti mi sto chiedendo anch’io perché diavolo io stia provando tutto questo bisogno di giustificarmi. Intanto la minuscola signora si impettisce. Assurdo quanto una peruviana di un metro e quaranta possa sembrare imponente quando si impettisce per insultarti meglio. «Io so solo: tu prima c’eri e adesso più. Lui prima felice e adesso male. Lui triste. Lui…» Cerca le parole, non le trova, così mima un sospiro profondo. Non teatrale, non il genere di sospiro che farebbe Liz Taylor impersonando Cleopatra che muore aggrappata a una colonna. No: è un sospiro grave, lento, stranamente realistico, che per un attimo trasforma Rosa in Laurence Olivier, nonché in un tizio molto molto affranto. Poi risolleva il viso e mi trafigge con gli occhi per l’ennesima volta. «Colpa tua. Per forza colpa tua. Diablo.»
E, in una frustata di capelli appena piastrati, si gira e trotta via come una furia.
Subito dopo il parrucchiere, sono passata in commissariato.
No, non per denunciare Rosa (e per cosa, poi? Associazione al delinquere morale? Favoreggiamento di bastardo? Spaccio di senso di colpa?). Mi ha convocata Berganza, che appena mi presento mi dice: «Abbiamo il gancio, Sarca». Poi mi fa firmare una serie di carte che testimoniano che io, Sarca Silvana Cassandra, senza virgola, sono ufficialmente entrata nei registri del commissariato in qualità di consulente in materia di Comunicazione e Relazioni pubbliche. Pare che il ruolo esista davvero e che il mio curriculum e l’opera di sponsorizzazione di Berganza me l’abbiano assicurato al volo. Che fortuna. No, sul serio: se non fossi ancora scossa per gli eventi del mattino sarei al settimo cielo. In fondo lavorare per Berganza è in cima ai miei desideri, al momento. E in effetti anche il commissario, mentre ritira le carte, sul volto ha l’ombra di quello che potrebbe somigliare a un sorriso.
«Ride perché sa che lavorare per la Polizia di Stato è gramo e schifoso, che sarà una cosa sporadica con la quale non guadagnerò un accidente, e che se ne sono felice è solo per pura ingenuità?» chiedo.
«Rido perché finalmente ho qualcuno nella squadra che non sia un imbecille, o che non abbia dodici anni», dice Berganza. «Sa quale sarà la prima cosa in cui la impiegherò? Insegnare ai miei uomini a condurre un interrogatorio. Oh, sì.» Si frega le mani e per un attimo ha un’espressione che credevo potesse assumere solo davanti a un bourbon riserva speciale.
«Io non ho la più pallida idea di come si conduca un interrogatorio», faccio notare.
«Sarca, ma lei è un camaleonte. Le basterà guardare una puntata del Tenente Colombo.»
È parecchio gratificante scoprire che Berganza confida così ciecamente nelle mie capacità, e potrei commentare un sacco di cose, ma fra tutte scelgo di dire: «In effetti sembra che ultimamente la gente ami proprio aprirsi con me», ed ecco che in meno di un secondo gli sto raccontando dell’assurdo incontro della mattinata. E anche il retroscena, ovviamente, perché senza il contesto non capirebbe appieno. Insomma, un momento lui si sta complimentando con me per avere beccato il posto, e il momento dopo io lo sto informando nel dettaglio dell’affaire Riccardo, dal principio alla fine. Così. Da un istante all’altro. Nei dettagli. Senza il minimo pudore. Come se una parte di me non vedesse l’ora di vuotare il sacco. Col commissario.
Cazzo. Io lo sapevo dal giorno in cui l’ho conosciuto che prima o poi sarebbe successo.
Fatto sta che parlo e non credo a quello che sta uscendo dalla mia bocca. Alla fine mi ritrovo a fissare Berganza con più vergogna di quanto vorrei, e Berganza si ritrova a fissare me con più intensità di quanto vorrei.
È bizzarro, quando terminano questi momenti di sfogo. Nell’aria resta una strana sensazione, come di… ah, sì: di desiderio di sotterrarsi con una vanga.
«No, senta, commissario, lasci perdere, non so perché gliel’ho rac…»
«Mi faccia capire, Sarca.»
«No. Facciamo che non c’è bisogno che lei capisca proprio niente, okay?, e che ci dimentichiamo che io le abbia detto…»
«È possibile che Riccardo Randi stia da schifo non tanto per la situazione pubblica in cui lei l’ha gettato, quando perché, o perlomeno anche perché, gli manca la sua ex ragazza?»
«No. E, come le dicevo, lasci perdere, dimentichi tutto, davvero non so cosa mi sia pre…»
«Perché no? Cos’è che la rende così sicura che Rosa abbia male interpretato ciò che ha visto? Alla fine lei e Randi stavate bene, insieme, giusto? È davvero così impossibile che le cose che ha tentato di dire quel giorno nello studio di Fuschi, sul fatto che l’amava davvero e che quella e-mail era stata un errore, avessero un fondo di verità?»
Scuoto il capo. Bisogna che ponga fine a questa incresciosa situazione che io stessa ho causato, o la mia dignità mi abbandonerà per sempre e poi mi manderà cartoline dall’estero con su scritto Ti odio. «Oh, commissario, per l’amor del cielo. Dimostrerò ventiquattro anni e accompagnerò amichette adolescenti a feste di bambocci, ma non sono nata ieri. La mia autostima è grande abbastanza da sapersela cavare da sola anche senza questi zuccherini. Quindi, lasci perdere, tanto non c’è alcun bisogno.»
Taccio.
Tace anche lui.
Poi: «Sarca».
«Cosa?»
«Lei è come il protagonista di quell’horror per ragazzini che riusciva a leggere nel pensiero altrui, ma non capiva un accidente della persona che aveva di fianco, vero?»
«Oh, Gesù. Mi dica che non ha appena citato il vampiro telepate di Twilight. Tengo a precisare che anch’io lo conosco solo a causa di Morgana, che peraltro, va detto a sua discolpa, me ne ha parlato solo per criticarlo. Anche lei ha una nipotina adolescente?»
«Un nipote, maschio. E in effetti ha fatto schifo anche a lui. Ma non mi distragga.» Berganza mi punta contro l’indice. «Lei è così, vero? Riesce a entrare nella testa di tutti, ma non comprende un’acca delle cose che la riguardano da vicino.»
«Non lo so. No. Forse. Insomma, cos’è che non capirei, per esempio?»
Berganza apre le braccia. «Che lei è il tipo di persona di cui non si può non sentire la mancanza, una volta che la si è avuta nella propria vita.»
Lo dice noncurante come se mi avesse appena comunicato che ho perso un bottone del soprabito.
Oh.
Oh.
«A-anche delle tarme», arranco.
«Come, prego?»
«Si sente la mancanza anche delle tarme nell’armadio, quando finalmente si riesce a sbarazzarsene. O delle formiche nella credenza della cucina. O… o del locale con musica dal vivo che stava sotto casa tua e che poi chiude. Voglio dire che non è necessario amare qualcosa, per accorgersi che non c’è più.»
Berganza si lascia sfuggire una risatina. «Sì, sì, certo.» Riabbassa gli occhi sulle carte che stava esaminando prima che arrivassi io. «Come vuole. Se lo dice lei. Arrivederci, Sarca. Le farò avere un’e-mail con gli estremi per la prossima convocazione.»
Il commissario sembra ormai completamente riassorbito nella sua routine, se non fosse che il mezzo sorrisetto di chi la sa lunga gli sta ancora aleggiando sul volto.
«Be’… arrivederci, allora», dico infine, ancora perplessa, la mano sulla maniglia.
«Ah, Sarca.»
«Sì?»
«Il fatto che quello stronzo possa essere stato davvero innamorato di lei, e magari lo sia ancora, non lo rende meno stronzo. Lo capisce?»
«S-sì?»
«Più convinta: lo capisce, vero?»
«Credo di sì. Sì.»
«Stia alla larga dagli stronzi, Sarca. Non la meritano.»
«Oh. Okay. D’accordo.»
«Ha capito?»
«Ho capito, sì.»
«Bene. Arrivederci.»
«Arrivederci…»
«Ah, Sarca.»
«Cosa c’è ancora?»
«Mi ero scordato di dirle che sta molto bene, bionda. Quando esce, chiuda la porta, per favore.»
«Stai molto bene, bionda, sai?» mi sta dicendo adesso la vocetta di Morgana, nell’ascensore del nostro palazzo, e io ci impiego una frazione di secondo per liberarmi dal déjà vu.
«Grazie», rispondo. Sono ancora assorta nel ricordo della strana scena con il commissario, quindi il grazie mi esce più cupo e assente di quanto vorrei.
Morgana ridacchia. Da quando abbiamo legato è diventata sempre più disinvolta con me. «Sembri proprio il personaggio di un libro, quando fai così.»
«Così come?»
L’ascensore sta arrivando al mio piano. Quando sarò a casa, berrò una lunga sorsata di Bruichladdich e poi penserò a cosa fare del primo giorno del resto della mia vita.
È una bella giornata.
«Ma sì… quando sei taciturna, rispondi a monosillabi, e poi così tutta vestita di nero, sai, troppo una dura.» Morgana socchiude gli occhi e mi fissa, e di nuovo mi ricorda un po’ Berganza.
«E quale personaggio sembrerei?»
La ragazzina resta un attimo interdetta, poi scrolla le spalle. «Oh, no, non intendevo dire che sembri un personaggio in particolare. Mi sono espressa male. Volevo solo dire che staresti bene in un libro. Potresti benissimo essere la protagonista di un libro tutto tuo.»
Soppeso le sue parole per un istante, poi sento la mia bocca aprirsi in un sorriso e penso: “Finalmente”.