7.
APPARIZIONI E SPARIZIONI

Chiaramente non lo chiamo. Che idea di merda. Andare alla sua presentazione, dico. E lo sarebbe stata anche accompagnarlo a cena. E infatti meno male che ho avuto la saggezza di evitarlo. Adesso devo solo mantenermi sufficientemente lucida da ricordarmi che continuerebbe a essere un’idea di merda anche comporre quel numero. Il fatto che ragioni professionali mi stiano obbligando a passare più di metà del mio tempo con il cellulare fra le mani non aiuta.

Infatti sto cercando di contattare Bianca e lei non risponde. E sì che mi ha dato il suo numero privato. Che disponibilità. I miei rapporti con gli autori saranno anche sporadici, ma una cosa l’ho imparata: quando si tratta di me, preferiscono di gran lunga darmi i loro recapiti personali che mettermi in contatto con le segretarie. Non sia mai che la frase: «Ho bisogno di parlare con il suo capo per quel libro che sto scrivendo a suo nome» stuzzichi l’eccessivo interesse di qualcuno.

Dopo l’ennesimo squillo a vuoto, chiudo e cerco sul sito di Bianca il numero ufficiale della sua segreteria.

Riconosco l’inconfondibile voce metallica di Culo Di Tweed. «Salve… Eleonora, giusto? Sono Vani Sarca, ci siamo viste due domeniche fa. Ho bisogno di parlare con Bianca.»

«Magari posso esserle utile io», tenta Culo.

L’altra cosa che ho imparato nella mia faticosa carriera è che, se da un lato con le segretarie non mi tocca averci quasi mai a che fare, dall’altro, quando mi tocca, pare di dover superare uno schieramento di cerberi a sette teste legati davanti alla muraglia cinese.

«Credo proprio che mi occorra parlare con Bianca in persona.»

«Cominci a dire a me.»

Sbuffo, neanche tanto piano.

«Ne deduco che lei sia perfettamente informata del lavoro che sto facendo per Bianca.» E se non lo è, pazienza. A Bianca l’onere di spiegare a Culo Di Tweed come mai una sconosciuta l’abbia contattata chiedendole dritte su cosa scrivere nel suo prossimo libro. «Be’, ho una proposta di indice che mi sembra accettabile, ma dopo i primi due capitoli introduttivi ho bisogno di infilare qualche esercizio pratico di visualizzazione e respirazione. Prima di prendere quelli che già appaiono nei vecchi libri e manipolarli quanto basta, ho bisogno di capire con Bianca fin dove posso spingermi nel…»

«Ah, ha ragione allora, effettivamente io non posso aiutarla», mi interrompe la segretaria, senza che la voce tradisca il minimo stupore (Bianca deve averla davvero informata prima. Oppure un angelo l’ha lobotomizzata nel sonno. Se si può togliere una costola a Adamo mentre dorme, un grumo di neuroni non sarà molto diverso). «Tuttavia, dovrà aspettare. Bianca non c’è. Ha provato sul suo cellulare?»

«Un milione di volte.»

Culo Di Tweed fa una strana pausa. Per quelle che parlano come lei, cioè come dei cyborg sedutisi accidentalmente su una scopa, una pausa di troppo significa grande destabilizzazione emotiva.

«Come immaginavo», dice infatti. «È molto strano. Non risponde nemmeno a me. Ieri sera è uscita per il solito jogging e dopo un po’ mi è arrivato un SMS in cui mi diceva Starò fuori, non aspettarmi. Dopodiché ho avuto bisogno di chiamarla per delle istruzioni di vario genere, ma non c’è stato verso di contattarla.»

«Sì, strano», dico io. Lì per lì non riesco a individuare esattamente cosa ci sia di così strano, ma sento che c’è.

«Be’, lei continui a provare», taglia corto Eleonora. «Quanto a me, se Bianca si rifà viva le dirò di richiamarla.»

Annuisco e riattacco.

Siccome sono una di parola, rifaccio immediatamente il numero personale di Bianca, che ancora non risponde, accidenti a lei. Sto lavorando per te, brutta idiota. Credi che mi piaccia, consultare compulsivamente i tuoi libri di sbrodolate new age scervellandomi su cosa rimasticare e rivomitare? In quel momento il telefono squilla e io lo afferro e ci caccio dentro un «pronto!» che ha tutti i colori dell’esasperazione.

Solo che non è Bianca.

«Da quando in qua si risponde con questo tono? Siamo abituati a sentirti arrabbiata, ma perlomeno non così subito!» trilla una vocetta dentro al mio orecchio. È mia sorella. Maledetta me che non ho guardato il nome sul display.

«Non pensavo fossi tu», sospiro. «Ciao, Lara.»

«Come sarebbe a dire, non pensavi che fossi io? Non ti è apparso il mio nome sullo schermo? Non mi dirai che hai cancellato i numeri dei tuoi familiari dalla tua rubrica! Sarebbe proprio da te!»

Perfetto. Mia sorella in fase petulante era proprio quello che mi mancava, oggi. Quasi quasi riattacco con una scusa e poi richiamo Culo Di Tweed solo per il gusto di risentire la sua voce.

C’è un solo modo per far smettere mia sorella di recriminare, ossia chiederle dei gemelli. «Come stanno i bambini?» mi affretto a dire, e poi cerco velocemente qualcosa da fare mentre Lara, credendo che mi freghi sul serio di quei due sacchetti di grasso lagnosi ed egoriferiti, attacca a rispondermi con dovizia di particolari su dentini in arrivo e frequenza dei rigurgiti.

Lara è più giovane di me di un paio d’anni. Le persone che, per qualche ragione, vengono a sapere che ho una sorella minore, di solito rimangono spiazzate. Probabilmente non riescono a capacitarsi del fatto che, dopo aver avuto una figlia come me, i miei abbiano deciso di correre nuovamente il rischio anziché puntare alla vasectomia. Tuttavia, pare che con Lara i miei si siano abbondantemente rifatti. Tanto per cominciare sembra un angelo: capelli di un biondo pallido, occhi color cielo. In effetti, potrei farle fare un servizio fotografico in camicia da notte e con un abat-jour acceso dietro la testa e convincere Bianca a includere le immagini nel libro. Magari guadagnerei qualche pagina. Inoltre è sposata con un quadro intermedio di una grossa azienda di prodotti in ceramica, e, per completare l’idilliaco scenario, l’anno scorso ha espulso dal suo ventre un paio di insopportabili gemelli. Tutto questo fa di lei né più né meno che Miss Perfezione.

Il bilanciamento ottimale di quella pecora nera di sua sorella.

«Non ti fai mai sentire», sta dicendo intanto (a tradimento, mentre io, soprappensiero, credevo stesse ancora dissertando di bavaglini e lallazione). «Ti ricordi di avere una famiglia, vero? Sarebbe bello anche vedersi, qualche volta, ma se già fai così fatica a tirare su il telefono…»

«Lara, cosa vuoi?»

«Ecco, lo vedi? Sei così ostile che non riesci nemmeno a concepire che ti si possa telefonare solo per il piacere di mantenere i contatti! Sei prevenuta come…»

«Lara. Io non sono prevenuta, io tengo delle statistiche. E le statistiche mi dicono che ogni volta che mi chiami la telefonata si svolge in due fasi: la prima, in cui cerchi di farmi sentire in colpa per la mia assenza, e la seconda, in cui mi chiedi un favore. Visto che non ho alcuna intenzione di sentirmi in colpa per alcunché, possiamo farla breve e passare subito alla seconda, che ho da fare?»

Attimo di silenzio dall’altra parte.

Poi: «Ma niente, è che Michele fra un mesetto va a Francoforte al meeting delle risorse umane e…».

«Deve tenere una relazione e non è capace di scrivere nemmeno il suo nome senza fare errori di ortografia, vero?»

Sento ondate di ostilità uscire dal telefono e travolgermi come un tornado. Vibrazioni di frustrazione mista a coda di paglia, ma anche – credo – a una sottile forma di ammirazione perché non sono caduta, nemmeno questa volta, nel ridicolo teatrino che mia sorella prova immancabilmente a imbastire. Einstein diceva: «Pazzia è fare sempre la stessa cosa sperando in risultati diversi». Io penso a mia sorella e al posto di «pazzia» sono tentata di usare termini ancora meno lusinghieri.

Sospiro. «Lara, ti ricordi com’è finita l’ultima volta che mi hai convinta a correggere un discorso a Michele?»

Pausa.

«Okay, te lo dico io. Michele, che è un permaloso di merda, mi ha richiamata per sindacare su ogni singola correzione che gli avevo apportato; ha tenuto lo stesso la presentazione come voleva lui ed è riuscito persino a giocarsi la promozione a cui era vicinissimo, facendosi ridere dietro da tutti grazie alle sue frasi pompose e anche a un paio di congiuntivi sbagliati. Per questa ragione, Lara, io non ho intenzione di correggere mai più nemmeno una riga scritta da Michele, e non è colpa mia se ti sei sposata uno che non si sa trovare le chiappe con le mani, con rispetto parlando.»

«Vani, ti prego! Ma perché devi essere così vendicativa? Michele ha capito e ha giurato che stavolta il discorso lo leggerà proprio come glielo scriverai tu! Per favore… abbiamo bisogno di quell’aumento, ora che siamo in quattro…»

Ah, no, il tasto del patetismo no. La carta dell’eroica mammina che sta solo battendosi per garantire un futuro alla sua famiglia. Dio, quanto mi fa saltare i nervi.

«Mamma e papà saranno così dispiaciuti quando sapranno che ci hai negato anche questo misero aiuto, che a te non costa che dieci minu…»

«Mandami quel cazzo di discorso e vedo cosa posso fare», la interrompo. «Ma non stupirti se dovesse fare così schifo da essere irrecuperabile: lo sapevi che ti eri messa con un idiota.»

Riattacco, senza nemmeno salutare.

Dio, quanto odio parlare con mia sorella.

Risquilla il telefono.

«Che altro vuoi adesso? Hai ottenuto quello che volevi, no? O devi chiedermi un altro favo…»

«Non so di cosa stai parlando: quello che volevo io era solo una telefonata, e non ne ho ricevuta nessuna, o sbaglio?» dice un’inaspettata voce maschile.

Non riesco a crederci. L’ho rifatto. Ho risposto senza guardare il display. E stavolta è anche peggio. Perché stavolta è Riccardo.

Direi che dopo questa dovrei avere imparato la lezione. Non mancherò mai più di guardare il dannato schermo del telefono in vita mia, poco ma sicuro.

«Sai, noi giovanotti siamo gente sensibile», continua la sua voce allegra, approfittando del mio silenzio smarrito. «Quando diamo il nostro numero a una ragazza, ci aspettiamo che la ragazza lo usi. O perlomeno lo desideriamo. Smettetela di trattarci come se non avessimo un cuore.»

«E noi ragazze non ci aspettiamo di essere chiamate, quando non diamo il nostro numero a nessuno», ribatto io. Poi mi accorgo di quanto sia scorbutica la mia frase e me ne pento in silenzio.

Ma Riccardo non sembra prendersela. «Me l’ha dato Enrico», spiega. «È bastato fargli credere che avessi bisogno di te per il nuovo articolo.»

Pausa.

«Ne deduco che non è così», azzardo.

Sento qualcosa dalle parti dello stomaco. Qualcosa di simile alla paura. Cazzo. Prima il nervoso per Bianca e per mia sorella, ora questo. Troppe emozioni in troppo poco tempo. Morirò d’infarto e posso solo sperare che Riccardo sia abbastanza sveglio da mandarmi un’ambulanza quando smetterà di sentirmi rispondere.

«La verità è che ti sto chiamando perché è ora di pranzo e io voglio essere sicuro che non farai andare a male la meravigliosa roba che ti ho spedito. Ce li hai ancora, diciamo, quei due pani al sesamo e noci e il barattolo con il paté di fegatini?»

«Sì, perché?» balbetto.

«Allora portateli dietro, assieme a qualche tovagliolo e un coltello. Al vino e ai bicchieri penso io. Ci vediamo fra una mezz’ora davanti alla Gran Madre.»

Pausa. Più lunga.

«Coraggio. Devi pur mangiare, giusto? E visto che gli inviti al ristorante non ti piacciono…»

Allora mi rendo conto che quella strana sensazione allo stomaco è paura, sì, ma non solo. È anche fame, perché sto lavorando ininterrottamente da cinque ore e l’ultima volta che ho mangiato aveva la data di ieri.

«Quaranta minuti, vengo a piedi», sospiro.