25.
DEA EX MACHINA
La Manta sbarra gli occhi, raggelandosi al suono della voce di qualcuno che non ha ancora visto. O almeno, credo che sbarri gli occhi e si raggeli eccetera eccetera, perché nel frattempo ho smesso di sbirciare da dietro le gambe di Berganza e Macchio e mi sto rimettendo in piedi, quindi mi perdo la scena.
In compenso, in un attimo mi faccio gentilmente largo fra il commissario e l’agente ed entro nella cucina. Ora sì che ho di nuovo davanti La Manta, stavolta con gli occhi fissi su di me.
So cosa vede. Il mio impermeabile nero, il mio rossetto viola, i miei stivali borchiati. Il ciuffo corvino che mi copre quasi del tutto l’occhio sinistro.
So anche cosa vede Bianca. La faccia già nota della sua ghostwriter. Un lampo le attraversa lo sguardo, ma io non lo ricambio.
«Chi è lei?» chiede La Manta, diffidente.
Un tizio diffidente con un coltello in mano in genere non è una buona cosa.
«Bianca», dico. «Quella vera.»
La Manta tace. Berganza tace. Macchio tace. Una farfalla sbatte le ali in Messico e tutti la odono.
«Come sarebbe a dire?» chiede La Manta, la fronte aggrottata.
«Cioè, non che mi chiami Bianca, s’intende. Il mio nome è Silvana, Vani per gli amici», spiego. «Ma sono quella che scrive i libri che poi Bianca firma, e sui quali mette la faccia. Signor La Manta, nessuno lo sa, perché la casa editrice ha proibito tassativamente che la cosa trapelasse, ma la Bianca che lei conosce, che tutti conoscono, non è che una figurante, un personaggio di facciata. Quella che sta sul serio dietro ai suoi libri, ebbene, sono io.»
Fico. Se la tensione e il senso di responsabilità non mi stessero corrodendo dall’interno, potrei quasi godermi l’originalità della circostanza: una volta tanto, essere l’alter ego di qualcuno sta per tornarmi utile.
La Manta mi fissa per un momento, poi fissa Bianca, che a sua volta lo guarda dal basso in alto, con gli occhi colmi di terrore. Poi La Manta guarda di nuovo me.
«Vuol dire che questa stronza è…?»
«Un’impostora. Proprio così. La donna a cui sta disperatamente, da giorni, tentando di far evocare gli angeli, non può evocare gli angeli. Semplicemente perché – be’ – non ha mai potuto. Non ne è mai stata capace. Bianca non mentiva, quando le diceva che era tutta una finta. Questa tizia non è che un personaggio-civetta, una specie di attrice, che la casa editrice ha prezzolato perché interpretasse un ruolo.»
La Manta è agghiacciato. Durante il mio discorso, gli occhi gli si sono progressivamente spalancati. C’è dello scandalo, dentro quegli occhi liquidi – e come stupirsene? È lo stesso scandalo che apparirebbe negli occhi di qualunque lettore di Bianca se solo sapesse che la sua eroina non è altro che un falso. Ma c’è, in una certa strana maniera, anche del sollievo.
«Ma… Ma perché? Perché imbrogliarci tutti così?» La Manta si volta di scatto a guardare nuovamente Bianca, e Macchio, che interpreta la mossa come una minaccia, fa un lieve movimento che a Berganza non sfugge.
«Giù la pistola, Macchio.»
«Ma…»
«Giù la pistola.» Berganza è serio ma calmo. «Adesso ci pensa lei.»
Non so se si fida o se è un bluff per farmi sentire in grado di finire il lavoro.
Poco importa. Dentro di me ho già deciso che, quando avrò concluso la mia parte, di me si fiderà eccome.
«Ottima domanda, signor La Manta. Be’, onestamente… lei si sarebbe mai avvicinato ai libri di Bianca, se Bianca avesse avuto il mio aspetto?»
Gli sorrido.
Al solito: non che i sorrisi contornati di rossetto viola siano particolarmente calorosi. Stavolta però è un dettaglio che torna comodo.
«Lo vede?» Annuisco. «Gli editori lo sapevano bene: nessuno avrebbe mai prestato ascolto e aperto il cuore al messaggio di Bianca, se Bianca fosse stata come me. Ma questa donna ci ha messo la sua faccia dolce, rassicurante e credibile, e così facendo ha permesso che la voce del Divino si diffondesse, portando conforto dove doveva.» Alzo un dito, con fare ammonitore. Un gesto che ho imparato da Bianca medesima. «Mi lasci precisare che la signora non ha alcuna colpa in questo sotterfugio», aggiungo. «Lei non ha fatto altro che svolgere il compito che le era stato affidato. Le è tornato utile interpretare questo ruolo? Certo. Ci ha guadagnato soldi e fama? È indubbio. Ma ha anche fatto una grande opera di bene, perché è grazie a lei che il messaggio degli angeli è diventato accessibile. A dirla tutta, signor La Manta, lei e tutti coloro che hanno amato le Cronache angeliche non dovreste darle dell’imbrogliona: dovreste ringraziarla di cuore.»
La mano di La Manta è ancora sul coltello e il coltello è ancora sul collo di Bianca, ma mi pare che ci sia meno pressione, adesso.
«Quindi…» inizia a mettere a fuoco la Manta. «Quindi in realtà è lei che… che…»
«…Che parla con gli angeli? Sì, sono io.» Sorrido di nuovo. «Era con me che se la sarebbe dovuta prendere, per entrare in contatto con loro. Mi dispiace, non poteva saperlo. E Bianca non poteva dirglielo, perché altrimenti gli editori sarebbero stati costretti a licenziarla e gli angeli non avrebbero più avuto nessun veicolo tramite il quale farsi ascoltare dagli umani.»
Ora La Manta guarda Bianca in modo diverso. Con rammarico, quasi.
Il coltello però resta dov’è.
«E come faccio a sapere che anche lei non è un’impostora?» mi ringhia improvvisamente contro.
Lei, stavolta, è chiaro che sono io.
«Perché gli angeli mi hanno parlato di lei, Gerolamo», rispondo.
La Manta esita. Se avessi gli occhi dietro la nuca, sono certa che leggerei nell’espressione di Macchio un chiarissimo “Ma che cazzo crede di fare?”. Nell’espressione di Berganza credo che non leggerei nulla, ma potrei giocarmi una mano che sia esattamente quello che sta pensando anche lui.
«Che cazzo», si lascia scappare Macchio, piano ma udibilissimo. Appunto. Bella sintesi.
«Le hanno parlato di me? Sentiamo», ringhia La Manta.
«Okay.»
Mi concentro.
E cerco di far riaffiorare alla mente lo stile che uso quando scrivo il libro di Bianca. Lo stile arzigogolato e fiorito con cui faccio parlare i suoi angeli. I suoi cazzo di angeli inesistenti che io non ho mai visto né mai vedrò, ma non importa, perché so esattamente come parlano.
«Lei era un uomo razionale. Un uomo lucido, fiducioso nel potere della scienza e della mente. Sapeva dove cercare le risposte: per la precisione, nello splendore ordinato dei numeri. La perfezione della matematica, gli incastri nitidi delle leggi della fisica, a lei sapevano parlare. Lei capiva il loro linguaggio poetico e adamantino, e quello che le dicevano era semplice e inconfutabile: le parlavano dell’esistenza di Dio.»
Faccio una pausa, giusto per verificare come sto andando. La Manta continua a fissarmi con la fronte corrugata, ma ha la bocca lievemente socchiusa e l’aria concentrata.
«Per anni non le è servito altro. La purezza dei numeri, della matematica che governa il cosmo, che ordina il caos. Da professore, ha fatto del suo meglio per trasmettere questa sua fede, proprio come un missionario cerca di diffondere il Verbo in cui crede. Ha insegnato con dedizione, grato all’universo meraviglioso di cui andava spiegando la precisione. Ce l’ha messa tutta. Ha servito devotamente il suo personale dio – un dio fatto di ordine, di accuratezza, di logica. E poi…»
«E poi cosa?» mi sfida La Manta.
Alzo le spalle. «E poi c’è stato l’incidente, e questo non è più bastato.»
Il silenzio corale di Macchio, La Manta e Berganza è assordante. Gli occhi di La Manta mi stanno aggrappati al volto come mosche a una tela di ragno. Gli sguardi di Macchio e Berganza mi fanno prudere la nuca. Ora sono certa di averla, l’attenzione di La Manta. Non posso sprecarla.
«Hanno tutti pensato che si trattasse di un semplice esaurimento nervoso. Succede, quando accade una disgrazia del genere. Rimanere di colpo senza entrambi i genitori farebbe già male da sé, ma in quel modo, be’, diventa praticamente insopportabile. Quella maledetta fuga di gas. E non importa se l’indagine ha chiarito che lei non ha avuto alcuna colpa: ci sono tarli che la sentenza di un giudice non sa scovare né uccidere. Tutti hanno pensato: “Be’, non è stata colpa sua, è ufficiale, si è trattato di un semplice incidente, dunque adesso non avrà che da abituarsi alla solitudine e andare avanti”. E così, appunto, hanno creduto che si trattasse di un semplice esaurimento nervoso, plausibile e passeggero.» Faccio un sorriso amaro. «Quello che non tutti sanno, però, è come distinguere un esaurimento nervoso da una vera crisi esistenziale. Una di quelle fasi buie e accidentate in cui non è solo la stanchezza, non è solo la demotivazione, non è solo la mancanza di forza a farci desiderare di non essere mai nati. È l’assenza di risposte. Dico bene, Gerolamo? Andare a scuola le è diventato sempre più difficile. Non per la depressione, non per la difficoltà materiale ad alzarsi ogni mattina. Anche, certo. Ma soprattutto perché non aveva più risposte da portare con sé. Cosa poteva volere ancora insegnare, un uomo pieno di dubbi, che improvvisamente osservava ciò in cui aveva sempre creduto, l’ordine perfetto dei numeri dell’universo, e non vi trovava le uniche sicurezze di cui avrebbe avuto veramente bisogno?»
Un guizzo delle pupille di Bianca mi svela che, sebbene la mano di La Manta non si sia apparentemente mossa, il coltello non poggia più sulla sua pelle. Magari per un mezzo millimetro, ma non preme più.
«Smettere di fare il professore non ha fatto che peggiorare la crisi, regalandole ancora più tempo libero, cioè vacuo e buio, da dover occupare. Ma almeno a quel punto è stato libero di dedicarsi anima e corpo alla sua ricerca. E naturalmente ha cercato anche là dove cercano in tanti, pensando, giustamente, che vi fosse un motivo per tutto quell’interesse collettivo. Ha cercato nella religione.
«E ha pensato che potesse funzionare.
«Bianca gliel’ha fatto pensare. Con i suoi libri, le sue Cronache angeliche, Bianca le ha fatto pensare che da qualche parte le risposte ci fossero, e nemmeno lontane. Trovare il conforto in un Dio antico e distante sarebbe stato difficile, o in una Vergine disposta a manifestarsi una volta ogni secolo in qualche statuetta piangente. No, lei non era il tipo: queste non erano cose per lei, che aveva urgenza di sapere, con chiarezza e subito. Ma gli angeli di Bianca erano lì, generosi di parole d’amore per tutti quelli come lei, per tutti gli esseri umani spaventati dalla propria fallibilità. Così lei ha divorato le Cronache angeliche, e si è ritrovato a sperare che quegli angeli così comunicativi e calorosi, oltre a mostrarle la via dell’espiazione, un giorno potessero degnarsi di manifestarsi anche a lei, e di rassicurarla su quello che era toccato ai suoi cari.»
Ora la lama è visibilmente staccata dal collo di Bianca. E negli occhi di La Manta c’è uno sfavillio umido. Fino a un attimo fa mi sono sforzata di fissarlo dritto in volto seguendo i progressi del coltello solo con la coda dell’occhio. Adesso invece la sua espressione accorata è davvero al centro del mio interesse.
«E va bene», mormora a quel punto. Esita. Sceglie le parole. Lo lascio fare, attendendo in silenzio. Poi: «Se crede di farmi fesso con questa roba». I suoi occhi chiedono conforto, ma la sua voce è dura e aggressiva. Non sembra nemmeno che venga dalla stessa persona. «Sono un professore di matematica e la mia famiglia è morta in quel… in quell’incidente. Ecco. Tutte cose che chiunque di voi sbirri può benissimo avere scoperto con quelle vostre diavolerie di database e di ricerche incrociate.» Percepisco Berganza aprire la bocca e valutare l’opportunità di confermare che, in effetti, lui e Macchio non sapevano assolutamente niente di tutto ciò fino a un momento fa. Ma La Manta ha ragione: non ho detto nulla che non potessimo già avere scoperto da qualche fonte ufficiale (che poi Betti sia una mezzasega a fare ricerche, è un altro paio di maniche). Lo sa anche La Manta che non servono gli angeli per snocciolargli questa parte della sua vita, magari ricamandoci un po’. Come ho detto, questo tizio non è stupido. E io posso anche avere lasciato a bocca aperta Macchio e Berganza con quella storia (lo sento come una vibrazione alle mie spalle), ma con La Manta ancora non basta.
«Già, e infatti io non sono qui per raccontarle cose che già sappiamo tutti benissimo, Gerolamo», proseguo. «Io sono qui per riportarle ciò che gli angeli hanno da dire su questo, e si tratta di tre cose.»
La Manta tace. Attende.
«La prima è che gli angeli lo capiscono perfettamente, perché sia stato disposto ad arrivare a questo pur di vederli, pur di colmare la distanza fra lei e loro. Pur di spazzare via i dubbi insistenti sul fatto che Bianca potesse essersi inventata tutto. Capiscono anche perché si sia inventato tre identità fasulle con le quali ha riempito la rete di sospetti e domande su Bianca: capiscono la sua ansia di sfogarsi, la pressione dei tormenti che la rodevano da dentro, e capiscono il desiderio di trovare degli altri lettori che la rassicurassero, o che, quantomeno, non la facessero sentire solo nella sua frustrazione. La capiscono eccome, Gerolamo. E sanno benissimo che, se le sue domande sparse nell’etere avessero trovato anche solo un barlume di risposta esauriente, lei non avrebbe mai dovuto spingersi a fare quello che ha fatto.»
Questo, in effetti, lo credo davvero. Riempire la rete di provocazioni e interrogativi su Bianca: Berganza ha ragione quando riferisce l’opinione della criminologia corrente e dice che, se La Manta ha frammentato la sua vis polemica in tre nickname, è probabilmente perché sin dall’inizio aveva intuito che non attirare l’attenzione avrebbe finito per fargli comodo. Ma ho anche la netta sensazione che non attirare l’attenzione sia lo stato naturale di quest’uomo dimesso e spezzato, e che, se uno dei suoi tre alter ego fosse riuscito a ottenere qualche rassicurazione definitiva sulla buona fede di Bianca, gli sarebbe bastato così.
Perché, in fondo, non ha mai chiesto nient’altro.
La Manta continua a fissarmi in silenzio. Ignorando il sussulto di Macchio alle mie spalle, mi avvicino.
«La seconda cosa e più importante, Gerolamo, è che gli angeli ci tengono a farle sapere che non è stato lei.
«Con l’onniscienza che quel giudice non aveva, né ha lei, ma che loro possiedono, gli angeli vogliono che lei si liberi finalmente di quest’ultimo dubbio. Gerolamo, non è stato lei. Non è stata colpa sua. Non è stato lei a dimenticarsi il gas aperto mentre i suoi dormivano. I suoi genitori stanno bene, sono in pace e non le rimproverano nulla; e lei, come ha detto il giudice, è perfettamente innocente.»
A quel punto sul volto di La Manta avviene una sorta di trasfigurazione. Gli occhi si dilatano e tutti i muscoli facciali sembrano patire un piccolo terremoto. Boccheggia, ma senza emettere suono. È una reazione di una frazione di secondo, ma che ha coinvolto tutta la sua persona, e nessuno di noi si lascia ingannare dalla sua brevità. Qualcosa è appena successo in Gerolamo La Manta – un qualcosa che lui stesso stava aspettando e desiderando da tanto, tanto tempo.
«E ora la terza e ultima cosa, amico mio», dico. «Che è la più importante di tutte, anche se a lei, credo – e credono gli angeli, che comprendono anche questo – almeno per un po’ continuerà a sembrarlo di più la seconda. La terza cosa è che, Gerolamo, se anche lei fosse stato colpevole, ebbene, sarebbe stato autorizzato lo stesso a perdonarsi e ad andare avanti con la sua vita. Perché lei è un essere umano e gli esseri umani sbagliano, di quando in quando. È nella loro natura e devono, possono, imparare ad accettarlo e a tornare ad amare sé stessi come meritano, in quanto creature di Dio.»
A La Manta, ora, stanno visibilmente vibrando le labbra.
«Ed è per questo, Gerolamo, che gli angeli hanno scelto deliberatamente di non mostrarsi a lei. Perché sanno che se lei li vedesse, e si gettasse ai loro piedi chiedendo perdono e poi dicendo grazie, lei chiederebbe perdono e direbbe grazie a loro. Mentre è a sé stesso che deve il perdono e la gratitudine. Loro non vogliono la sua devozione, non vogliono che lei desideri così ardentemente di vederli. Le dirò di più: agli angeli non importa nemmeno che lei creda in loro. Per loro non fa alcuna differenza. Nella loro saggezza e bontà superiori, a loro interessa soltanto che lei creda in sé stesso.»
La Manta sta trattenendo il fiato.
«Se oggi si facessero vedere da lei, lei legherebbe per tutta la vita il suo conforto e la sua consolazione al ricordo di questo momento. Tutto il suo sollievo e la sua pace dipenderebbero da un loro cenno del capo, da una loro carezza sulla sua fronte. Ma loro vogliono che lei sappia che non è di questo che ha veramente bisogno. L’unica cosa che le serve, Gerolamo, è guardare sé stesso con occhi nuovi, e concedersi di perdonarsi e di volersi bene. Da solo. Trovando la forza dentro di sé, senza dipendere più da nessuno: né dai suoi genitori, né da Bianca, e nemmeno dagli angeli.»
Ci siamo quasi.
Allungo le mani e le appoggio sulle spalle di La Manta.
Per un lungo attimo ci guardiamo: io, solare e incoraggiante come la mia faccia non è mai stata, lui in un abisso di rovelli e di sconcerto.
«Dimenticavo», concludo, con l’ultimo sorriso che ho in budget. «I suoi la salutano. Sono con Batuffolo.»
La Manta apre la mano e il coltello cade per terra. Poi mi appoggia la fronte sulla spalla e inizia a piangere sommessamente.
Dopo qualche minuto siamo di nuovo alla volante. La Manta si lascia docilmente sospingere all’interno. È sfinito, stravolto. Io mi siedo alla sua destra e Berganza alla sua sinistra; Bianca occupa il sedile del passeggero e guarda fisso davanti a sé per tutto il viaggio. Macchio dev’essere scosso dall’avventura perché la sua guida è ancora più a scatti e strappi, tanto che sui tornanti Bianca deve chiedergli, con voce esile, di rallentare.
Anch’io sto in silenzio e fisso davanti a me, ma ho lasciato scivolare la mia mano in quella di Gerolamo, che me l’ha stretta.
Non so perché l’ho fatto, ma va bene. Preferirei che Berganza non se ne accorgesse, ma di sicuro ha già notato tutto.