15.
A TUO AGIO CON TE STESSA
Una volta a casa chiamo Riccardo.
«Prima che mi dimentichi, se hai programmi di coppia per sabato spostali, perché io non potrò esserci.»
«Hai un amante? Non puoi frequentarlo nei giorni infrasettimanali?» scherza lui. «No, okay, che cos’hai da fare di bello?»
«Non ci crederai mai», sospiro.
Riccardo accoglie il mio resoconto tutto divertito, prendendomi amabilmente in giro. Ridi, ridi. Dovresti applaudirmi, altroché. Non lo trovi eroico, salvare un’innocente quindicenne dalla morte per soffocamento genitoriale? Sono una fottuta paladina della libertà, ecco cosa sono.
Viene da ridere anche a me.
La verità è che penso a come sarebbero state diverse le cose se qualcuno avesse fatto per me quello che io ho appena fatto per Morgana. Posso essere restia ad ammetterlo, ma è questo il dannato pensiero che mi ha pulsato in un angolo del cervello dall’istante in cui ho premuto il tasto dell’ascensore per il piano di sopra. Non che io avrei mai accettato l’aiuto di nessuno, chiaro. Men che meno di una bislacca tizia troppo vecchia per vestirsi come me, e troppo strana per farmi continuare a credere che crescere potesse essere la soluzione. E poi, parliamoci chiaro. Con la mia famiglia non sarebbe bastata una Vani di trentaquattro anni. Con la mia famiglia ne sarebbe servito un intero maledetto esercito, di Giovanne D’Arco in impermeabile nero.
Saluto Riccardo e vado a caricare la lavatrice.
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6 gennaio 1996.
Casa Sarca, trilocale senza infamia e senza lode al quinto piano di un palazzo modesto ma confortevole del quartiere Regio Parco. In salotto, un albero di Natale sfoggia festoni spelacchiati, comprati almeno un decennio prima, e una corona di lucette che presto verrà riposta per altri undici mesi. Sul tavolo e sul pavimento si notano brandelli di carta da regalo, calici con residui di prosecco, gusci di pistacchio: le tracce del passaggio di una piccola orda di parenti. Che poi sono ancora là, tutti seduti attorno al tavolo per l’ultimo grande pranzo di famiglia delle vacanze di Natale.
Nonno, nonna, madre, padre, e due ragazzine.
Una ha tredici anni e sembra la riproduzione in miniatura di Dama Galadriel. Ha i capelli serici e biondissimi, occhi celesti, lineamenti che farebbero impazzire di gioia un pittore del Cinquecento. Sorride. I nonni sorridono a lei, pieni d’amore. Ogni tanto giocherella distrattamente con gli orecchini di vetro soffiato di Murano che le sono stati appena fatti trovare nella calza.
Sono di varie sfumature di blu, per farle risaltare gli occhi.
«Mi passi il purè, Vani?» chiede la nonna.
L’altra ragazzina ha quindici anni. È bionda anche lei, anche se di un paio di toni più scura. I capelli però sembrano chiarissimi lo stesso, perché contrastano con il nero totale del maglione. Non ha orecchini. In compenso, sulla mensola più vicina, fra i resti della carta da regalo, è posato un nuovissimo dizionario di latino.
Solo quei rintronati dei nonni possono regalarle un dizionario di latino, senza pensare che deve per forza già averne uno dall’inizio della quarta ginnasio.
Non che gliene freghi qualcosa.
«Vani? Rispondi alla nonna, per cortesia», ribadisce sua madre. «Quando ti si chiede una cosa, fai il piacere di farla, grazie. E guarda che se anche partecipi un momento alla conversazione o ci degni di un sorriso non muore nessuno, eh.»
Vani si scuote e allunga il vassoio che si trova accanto al suo gomito. La nonna lo prende con un sorriso esagerato, come per mostrarle come si fa.
«Purè di patate in inglese si dice mashed potatoes», annuncia fiera Lara, la ragazzina più piccola. I familiari esplodono in un coretto di pigolii di apprezzamento. Lara sorride compiaciuta. «Domani ho la verifica di inglese», spiega sospirando. «Speriamo bene! L’ultima volta è andata, uh… così così. Ma domani andrà bene, perché lo so che adesso l’insegnante mi ama.»
«E chi non lo ama, il mio angioletto?» esclama la nonna strizzandole il faccino tra le mani.
«Prima delle vacanze abbiamo fatto una specie di recita, no?, e abbiamo letto ad alta voce in classe dei pezzi di Shakespeare», spiega Lara. Vani conosce l’insegnante d’inglese di Lara. È stata nella sua stessa scuola media fino all’anno prima. Quel vecchio scemo di Polotti, in effetti, ama fare queste cose. Bloccare il percorso didattico per piazzare dei protoadolescenti dalla voce fessa a balbettare poesie che non capiscono, tutto pur di non doversi preparare la lezione. «E io ho fatto Giulietta!» conclude Lara trionfante.
«Ma sei bravissima!» esclama la nonna. «Non è bravissima tua sorella, Vani?»
Che palle.
«Un gioiello», telegrafa Vani con un tono sufficientemente ambiguo perché la nonna non colga l’ironia.
Ovviamente, invece, Lara sì.
«A Vani non piace parlare di Romeo e Giulietta», spiffera con un tono fra il rammaricato e il malizioso, perché anche Lara è già una campionessa d’ambiguità. «È stata appena mollata dal ragazzo.»
Per la prima volta Vani abbandona il suo annoiato torpore e punta su Lara uno sguardo di fuoco. Lara ricambia e Vani deve riconoscerle della maestria, nella fermezza con cui mantiene la sua espressione compassionevole. Ma ovviamente non c’è tempo per concentrarsi sulla faccia da culo di sua sorella, perché il resto della tavola è già esploso in una polifonia di gemiti accorati.
«Ce lo potevi dire, tesoro!» geme la nonna, le mani intrecciate sopra il cuore. «Anziché startene tutta zitta e imbronciata e sembrare solo maleducata!»
«Sono cose che capitano, alla tua età, sai», chiosa la madre rimettendo a posto il vassoio del polpettone.
Vani sospira. «Ma dai. E io che pensavo che tutte le coppie di quindicenni di questo mondo convolassero felicemente a nozze.»
La madre di Vani esita, ma un istante solo; poi si siede accanto a lei e le accarezza la testa. «Cucciola», dice, perché anche la madre di Vani, come Lara, è una fuoriclasse che sa farti girare le palle alla massima velocità con il minor numero possibile di parole. «Cucciola, non devi pensarci troppo, sai? Lo so che la tua è un’età difficile. Se poi una non è proprio… be’, proprio… come Lara, ecco» – e Lara alza le spalle con modestia, senza chiedersi particolarmente se «come Lara» stia a significare bella come lei, popolare come lei o estroversa come lei, o tutte e tre le cose insieme – «certe vicende possono essere molto dolorose. Ma tu non devi…»
Vani alza gli occhi al cielo. «Mamma. Guarda che non me ne frega un tubo.» Vorrebbe dire «un cazzo» per la pura curiosità di assistere alla reazione dei nonni. Un infarto del miocardio, probabilmente.
I volti dei presenti si distorcono all’istante nella canonica espressione da “sì, e io ci credo”. Vani sa che è una battaglia già persa.
«Giustissimo, amore», incalza la madre. Altra carezza. Vani pensa ai camaleonti, che possono mimetizzarsi e diventare invisibili. Che culo. «Uno che ti molla è sempre un idiota che non ti merita.» Su e giù generale delle teste di famiglia. Che cazzata autoindulgente per ragazzine piagnone. Se uno ti molla, il problema puoi benissimo essere tu. Naturalmente in questo caso Vani sa benissimo che non è affatto colpa sua: Fabio era un imbecille, e fine del discorso. Ma pare che i suoi non vogliano credere che lei lo sappia sul serio.
«E poi tu hai altro, amore», prosegue la madre. «Tu non hai mica bisogno dei ragazzi. Tu hai la scuola, lo studio, andrai all’università e diventerai… be’, chi lo sa?, qualcosa di fantastico!» Sorrisi luminosi su tutti i fronti. Sorrisi sinceri, peraltro. Perché questo è ciò che tutti pensano di Vani. Che sia perfetta per la scuola, lo studio, un luminoso futuro da chissà cosa. E se nel presente è una piccola asociale musona che le poche volte in cui viene invitata a una festa non si preoccupa nemmeno di inventare una scusa per rinunciare, be’, verrà un tempo in cui si accorgerà da sola di avere commesso dei gravissimi errori, e a quel punto si sarà già autopunita a sufficienza.
«Certo, se la smettessi di vestirti sempre di nero…» borbotta il padre.
La madre si gira a trafiggerlo con un’occhiata. L’occhiata però non vuole dire: “Lasciala in pace, falle fare come vuole”. L’occhiata vuole semplicemente dire: “Non è il momento, caro. Sai che la penso come te, ma, via, un po’ di tatto, con la nostra geniale figlia disadattata”.
Ci pensa sua suocera a correre a dar manforte al figlio. «In effetti, amore», aggiunge, «un po’ di colore ti starebbe tanto bene. Non c’è niente di male in un po’ di grazia femminile, sai? Non devi mica avere paura di sembrare meno intelligente.» Wow. E così, a quanto pare, anche la nonna, quando ci si mette, sa infilare quella venatura di ironica ambiguità nella voce. Dev’essere una caratteristica di famiglia, geneticamente legata al cromosoma X. «Dopotutto non sei mica brutta, hai dei bei capelli, così biondi, magari non saranno come quelli di tua sorella ma se li lasci crescere ancora un po’, e magari te li levi dagli occhi, che con quel ciuffone non ti si vede il faccino… E poi non sei tanto alta per la tua età e non hai nemmeno ancora il seno: perché non ti provi qualcosa di Lara, qualche volta? Ci sarà qualcosa che ti andrà bene…»
Vani passa sull’anfiteatro di facce uno sguardo sfinito. Su quella di Lara, che vibra di un segreto divertimento, indugia un istante di più. Non è colpa di Lara. Cioè, lo è, ma Vani sa come stanno le cose. Sa che Lara torna a casa da scuola incazzata e frustrata perché la professoressa di italiano le ha dato un’insufficienza, e per redarguirla le ha detto: «Com’è possibile che tua sorella fosse tanto brillante e tu non riesca a imparare come si coniuga il congiuntivo?». Sa che Lara la invidia e la ammira, ma non sa esprimerlo in altro modo che con quel suo continuo punzecchiarla, metterla alla prova. Sa che resta sveglia la notte, a rivoltarsi nel piumone, al pensiero delle preiscrizioni alle scuole superiori. Scadranno a fine gennaio e i loro genitori sono intenzionati a mandare Lara al medesimo liceo classico di Vani, il che significherebbe per lei altri cinque anni di confronto fallimentare con il fantasma della sorella. Vani sa che Lara ci soffre, anche se non lo ammetterebbe mai. Vani sa che non sarebbe maturo, da parte sua, prendersela con una ragazzina che soffre. Vani sa che i suoi si aspettano che lei sia superiore e lasci correre ogni piccola provocazione. Perché «dai, Vani, tu sei grande e matura. Col cervello che hai, dovresti capire che da te si pretende qualcosa di più. E degnaci di un sorrisino, magari, qualche volta, che non muore nessuno».
Vani sa tutto.
Che palle.
«Però la nonna non ha tutti i torti, amore», aggiunge la madre, che evidentemente non riesce a dire “la nonna ha ragione” nemmeno quando concorda con lei al cento per cento. «Se ti curassi un po’ di più nel vestire… e magari potrei accompagnarti dal parrucchiere e potremmo trovare un bel taglio speciale che ti valorizzi il faccino… Con gli abiti e i capelli giusti potresti essere, ecco… un po’ più…»
Un po’ più bella?
Un po’ più normale?
Un po’ più come Lara?
Vani attende, apatica.
«…Un po’ più a tuo agio con te stessa», conclude la madre, raggiante per avere trovato l’espressione più diplomatica.
Vani socchiude gli occhi.
È la prima espressione significativa che le si dipinge in volto da quando è iniziato il dibattito, quindi tutti prestano un poco più di attenzione, Lara compresa.
«Sai, mamma? È un ottimo consiglio. Credo che tu abbia ragione.»
La madre si lascia scappare un gemito di gioia.
Il giorno dopo Vani compra una tinta nera e poi si taglia i capelli da sola, davanti allo specchio (con un discreto risultato, per essere il primo tentativo. Con il tempo, ovviamente, perfezionerà la tecnica). Corti corti dietro, ma con un lungo ciuffo corvino a coprirle quasi completamente gli occhi.
Ah, ora sì.
Finalmente.
In famiglia si scatena l’inferno, chiaro. Ma Vani è così a suo agio con sé stessa, ora, che non avrà la minima intenzione di cambiare per i successivi diciannove anni.