14.
QUICKSAND

Devo fare il bucato.

È veramente triste a dirsi, ma devo tornare a casa mia per fare il bucato, o mi toccherà indossare le camicie usate di Riccardo non solo per circolare in casa sua. Diciamo che negli ultimi giorni le faccende domestiche mi sono un filo scappate di mano. Okay: diciamo che negli ultimi trentaquattro anni le faccende domestiche mi sono un filo scappate di mano; negli ultimi giorni ho semplicemente avuto una scusa migliore del solito. Così oggi Riccardo mi sta accompagnando a casa mia per poi dirigersi verso l’università, e io sto entrando psicologicamente nel mood di una che passerà parte del proprio prezioso pomeriggio a dividere i neri dai meno neri. Ma va bene: un po’ di lontananza rafforza la passione, io conoscendomi so che prima o poi avrò fisiologicamente bisogno di starmene un po’ da sola e quindi tanto vale che mi porti avanti, e quanto a Riccardo, be’, senza addentrarmi in tecnicismi medici, credo che potrebbe trarre dei benefici da una parentesi di riposo e ascesi, fino al nostro prossimo incontro.

Ah, già, e poi dovrei anche lavorare.

Arriviamo davanti al mio portone proprio mentre, lungo le strisce pedonali di fronte a noi, stanno sopraggiungendo anche Morgana e Laura, evidentemente di ritorno da scuola.

Le due ragazzine approdano sul marciapiede e gettano un’occhiata all’auto che sta accostando, giusto per accertarsi di non venirne investite. Il mio sguardo e il loro si incrociano attraverso il parabrezza; vedo un sorriso piacevolmente sorpreso fiorire sulle loro facce, poi le loro pupille si spostano, immagino per controllare chi sia il misterioso conducente che sta dando un passaggio a quel lupo solitario di Vani Sarca. Quando i loro quattro occhi si spalancano, capisco che hanno notato Riccardo.

Ovviamente non mi aspetto che due quindicenni abbiano riconosciuto il viso dello scrittore dell’anno (anche se forse, nel caso di Morgana, non sarebbe così strano). Quello che mi aspetto, e che infatti dev’essersi appena verificato, è che classifichino con enorme sorpresa l’accompagnatore di Vani Sarca come uno dei più indiscutibili pezzi di fichi che abbiano mai visto dal vivo.

Dico: «Ciao, a dopo», a Riccardo, apro la portiera e metto fuori i piedi, quando Riccardo, che ha seguito con una punta di divertimento la direzione del mio sguardo, decide di dare spettacolo. Mi riacciuffa e mi tira dentro per un ultimo bacio come Dio comanda. Guardarsi intorno mentre si viene baciati è difficile – il naso dell’altra persona ti occlude la visione periferica – ma sono certa che le due ragazze hanno gli occhi incollati alla scena. Finalmente riesco a divincolarmi da Riccardo (che ridacchia, la canaglia); mi strizza l’occhio, dice «a stasera» e riparte.

Io resto sul marciapiede, mi giro molto lentamente, e Morgana e Laura sono ancora lì a fissarmi come la pastorella Bernadette deve avere guardato la Madonna quel lontano giorno del 1858.

«No», dice Morgana, per prima. Non è un vero no. Non c’è nessun tipo di rifiuto, in quel no. Anzi. È un no da “non ci posso credere”, ma in senso positivo. Sebbene, ora che ci penso, non ci sia molto di positivo nel fatto che una ragazzina che ti vede ricevere un bacio da un maschio di primo livello come reazione immediata non ci possa credere.

«Non ci posso credere», soffia infatti Morgana. «Quello è il tuo ragazzo?»

«Credevi che le creature della mia specie si riproducessero per partenogenesi?» rispondo. «Non solo non è così, ma dovrebbe essere una buona notizia anche per te.»

Laura scoppia a ridere (è meno speciale di Morgana, ai miei occhi, ma ha il suo bravo senso dell’umorismo. Naturale, altrimenti la mia piccola Morgana non la frequenterebbe). Morgana si scuote, un poco imbarazzata. «Io… be’, ecco, io credevo che tu stessi con, non so, tizi con i capelli fino alla vita e la faccia bianca e…»

«Piccola, ascoltami bene: se superati i sedici anni ti accorgi che ti piacciono ancora i tizi con i capelli fino alla vita e la faccia bianca, corri da un analista.» A questo punto anche Morgana scoppia a ridere, anche se sul suo viso, così come su quello di Laura, continua ad aleggiare uno strano rossore da shock. Nemmeno se ne accorgono, ma stanno continuando a lanciare occhiate verso il punto della strada in cui è scomparsa l’auto di Riccardo, come sperando che la divina apparizione si manifesti di nuovo.

Mi dirigo verso il portone, convinta di essere seguita dalle ragazze, quando mi accorgo che Laura si è bloccata. «Hai visto? Lei può capire! Devi dirglielo!» Si sta rivolgendo a Morgana, e ha il tono categorico di chi ha appena avuto una rivelazione.

Anche Morgana si è fermata. Esita. Il suo sguardo rimbalza fra il viso dell’amica e il mio. «Io non… non so, la disturbo e basta…»

«Ma non lo vedi?» Laura sembra ispirata, convinta. Mi indica. «È innamorata! Ti capirà al volo!»

Oh Gesù. Questa poi.

«Una cosa», sospiro. «Non fare mai, mai notare a una come me che potrebbe forse anche essere “innamorata”. Scegli qualunque altro termine, ma non quello. “Innamorato” ha tutto un universo dietro. “Innamorato” richiama svagato e melenso e rimbecillito. Darmi dell’innamorata significa dirmi che in questo momento della mia vita io ai tuoi occhi appaio svagata e melensa e rimbecillita. Circondata da un’aura rosa caramella e dagli uccellini guanciuti di Biancaneve. La lingua italiana consente pochi sinonimi, ma trovali. Per quelle come me, innamorata è un’offesa, una parolaccia, uno svilimento, un cliché. Ci siamo capite?»

Laura ride.

«Sono seria.»

Laura smette di ridere.

Morgana invece caccia un lungo angosciato sospiro. Per essere precisi, quella cosa tormentata a metà fra il sospiro e lo sbuffo che si fa quando si ha un peso sul petto ed è come se i polmoni dovessero fargli posto. Dura un sacco di secondi, oltretutto. La ragazza ha un potenziale da sassofonista.

«Avanti, che c’è?» la invito.

«Sono innamorata.»

«Ecco, appunto», trasecolo, strappando l’ennesima risata a Laura e un sorriso esitante a Morgana. Nel frattempo le due statuette hanno ricominciato a muoversi, così le precedo dentro al portone. Chiamo l’ascensore, mi appoggio al muro come James Dean e faccio un cenno d’incoraggiamento. «Sentiamo.»

Morgana tentenna – essersi appena data da sola della svagata melensa rimbecillita deve sembrarle già abbastanza autolesionista senza aggiungerci dell’altro –, così al posto suo ci pensa Laura, Miss Senso Pratico, a vuotare il sacco.

«C’è questo ragazzo del penultimo anno, che si chiama Emanuele, che a Morgana piace un casino. Da mesi. La sua classe è sul corridoio della nostra, quindi ogni tanto lo incontriamo e ci parliamo assieme. Ema suona in una band metal e sabato c’è una specie di manifestazione di gruppi emergenti a cui partecipa anche il suo. È una figata, sai, perché tutte le band suonano per tipo mezz’ora e poi per il resto del tempo i musicisti possono ascoltare gli altri e chiacchierare e stare in compagnia degli amici, e insomma sarebbe l’occasione perfetta per Morgana, solo che i miei non mi ci fanno andare per accompagnarla e la madre di Morgana non vuole che lei vada da sola in un posto del genere.»

«Che posto?» indago.

«Il Quicksand.»

Sento i miei occhi contornati di viola spalancarsi prima che possa controllare i muscoli delle palpebre. Oh porca merda. Il Quicksand. Quanti ricordi. Fra i quali, uno solo positivo: il giorno in cui ho deciso di smettere di andarci. Voglio dire, il Quicksand. Cosa diavolo salta in testa a queste due piccole ignare di voler andare al Quicksand? Non sanno che se al Quicksand organizzano un festival per band di ragazzini, probabilmente, è perché qualcuno di loro scomparirà misteriosamente nella notte e diventerà l’ingrediente segreto dei panini del mese seguente? Ma con tutti i cazzo di locali da metallari sicuri, puliti e kid-friendly che esistono a Torino, proprio questo relitto putrido di un’epoca che dovrebbe sparire dalla storia come Atlantide? Perché l’amministrazione comunale, dopo tutti questi anni, non si è ancora decisa non dico a farlo chiudere, cosa che probabilmente scatenerebbe le forze dell’inferno a difesa della loro succursale di superficie, quanto perlomeno a distribuire sin dalle scuole elementari istruttivi libelli in cui Hänsel e Gretel imparano a loro spese che al Quicksand non deve mettere piede nessuno che non abbia ricevuto un addestramento a West Point e tutte le vaccinazioni esistenti, e soprattutto nessuno con meno di venticinque, possibilmente trent’anni, a eccezione di una certa Vani Sarca di molto tempo fa?

Le ragazzine mi guardano. Sui loro visi aleggia un vago senso di colpa, ma sembrano determinate. Ma certo che sembrano determinate. Ah, il fottuto amore.

Sospiro.

E così la piccola Morgana è innamorata. La mia pupilla quindicenne ha una cotta per un metallaro di diciotto anni. Ci sono talmente tanti di quei sentimenti contrastanti a riguardo ad accapigliarsi nel mio petto che riesco quasi a guardarli dall’esterno con distacco, in una visione d’insieme che pare un quadro di Bruegel. Il mio piccolo clone secchione è verosimilmente ridotto a un sacchetto di ormoni in subbuglio, e scommetto che fantastica su come potrebbe essere la sua prima volta con un tizio le cui mani hanno in programma di toccare gli elementi d’arredo del locale più sporco, mal tenuto, mal frequentato e finanche architettonicamente fatiscente della provincia. Chissà se la madre di Morgana le ha mai parlato di sesso. Se le ha detto le cose che contano davvero, intendo. Cioè non tutte quelle cazzate inutili sull’importanza di saper dire di no e di aspettare la persona giusta – che tanto gli adolescenti non ascoltano mai. Le avrà parlato dell’igiene? Dio santo, se la prima volta di Morgana dovesse avvenire nei bagni del Quicksand, io non le direi di usare un preservativo, le direi di usare uno sterilizzatore. E l’alcol? L’avrà ammonita riguardo al consumo di alcolici? Al Quicksand servirebbero vodka anche a un dodicenne, non foss’altro perché sotto quelle luci rossastre tutte le facce dai dieci ai settant’anni si riducono a maschere del teatro kabuki; ma se Morgana beve per farsi coraggio e non sa che l’alcol ci mette un po’ a fare effetto, finisce che esagera e termina la serata a vomitare nel cortile. Ci sono cose che vanno dette, per la miseria. Non mi fido dell’educazione delle madri. Quest’età è troppo delicata perché si possa affidare la mole di informazioni di cui una ragazza ha bisogno alla discrezionalità di una genitrice. Cazzo, se questo fosse un mondo ragionevole, ogni giovinetta allo scattare del quattordicesimo anno dovrebbe vedersi assegnare d’ufficio una tutor di almeno un decennio più grande, a cui chiedere informazioni precise e da cui ricevere degli avvertimenti circostanziati. Morgana innamorata. Ma pensa. Il mio quadro di Bruegel è tutto un brulichio.

«Sì, be’, okay, è il Quicksand», mi riporta sulla terra Laura, «ma non è uno schifo come dicono, è cambiato da…» La fulmino un attimo prima che possa pronunciare il fatidico «i tuoi tempi». Anche perché sappiamo entrambe che non è vero. Quel posto era una merda allora, e una merda resta. «Ci vuole qualcuno che lo spieghi alla madre di Morgana in modo che le dia il permesso di andare.»

«Qualcuno che sia convincente», sospira Morgana.

«Che sappia di cosa sta parlando», insiste Laura.

«Un adulto», sentenzia Morgana.

C’è un lungo momento di silenzio.

«…Per favore?» tenta Morgana, con un filo di voce.

Piccola stronzetta paracula.

Saliamo in ascensore e fra i gridolini entusiasti delle due ragazze pigio il pulsante del piano sopra il mio.

«Le dirai che non c’è nessun pericolo e che le voci negative che circolano su quel posto sono tutte leggende metropolitane?» freme Morgana, vibrante di speranza.

«E che sarà pieno di ragazzi della nostra età e che sono tutte persone affidabili e che non girano assolutamente né fumo né alcol né tantomeno droghe?» le fa eco Laura.

Lo so io cosa dirò, irresponsabili mostriciattoli neopuberi che non siete altro.

La signora Cossato Emilia, madre di Morgana, viene ad aprirci la porta distrattamente, con gesto automatico. Stavolta però si trova davanti una terza persona inaspettata, così esita e si asciuga le mani nel grembiule, rivolgendomi uno sguardo sorpreso. Dietro di lei si intravede un corridoio simmetrico a quello di casa mia, ma con una carta da parati rosa pompeiano che spegnerebbe la voglia di vivere di una nidiata di cuccioli.

Avrò visto la madre di Morgana quattro o cinque volte in tutto l’ultimo anno. Non mi sarei nemmeno ricordata il suo nome, se non avessi dato una veloce sbirciata alla targhetta del campanello. È una signora giovane che si veste come una signora vecchia. Ha dei bei riccioli biondi – lievemente screziati di grigio, il che significa che il biondo è naturale – che però tiene sempre stretti in una specie di sciatto chignon. Non si trucca, indossa gonne dritte sotto il ginocchio e collant color carne. Mi fa venire quasi voglia di porgere delle scuse a Culo Di Tweed per ciò che ho sempre pensato del suo abbigliamento. Cosa l’abbia spinta a chiamare la propria unica figlia Morgana, e come abbia fatto la suddetta figlia a trasformarsi in un piccolo pipistrello pur vivendo sotto lo stesso tetto di questa specie di suora laica, sarebbe per me un interrogativo altamente stimolante, se me ne fregasse qualcosa. Be’, in effetti, se mai un giorno il mio apparato riproduttivo dovesse fare un golpe e mi spuntasse una sottospecie di desiderio di maternità, potrebbe davvero iniziare a fregarmene qualcosa. Se non altro per accertarmi che io, specularmente, non rischi di mettere al mondo una sciatta vecchietta in miniatura.

Fatto sta che la madre di Morgana mi guarda perplessa e poi mi chiede educatamente: «Sì?».

«Buongiorno, signora, e perdoni il disturbo. Sono Vani Sarca, la vicina del piano di sotto.»

Cossato Emilia si scuote. «Oh, ma certo, lo so benissimo. Venga, entri pure, stavo finendo di preparare il pranzo per le ragazze.»

Mi rendo conto che non è stata solo la sorpresa per la mia presenza ad averla indotta a fissarmi per qualche secondo di troppo. È che io e Morgana, viste l’una accanto all’altra, dobbiamo fare un certo effetto. Probabilmente la signora ha avuto un breve mancamento nel trovarsi davanti contemporaneamente sua figlia e sua figlia fra vent’anni.

«Grazie, le rubo solo due minuti.» Passo davanti a Laura e Morgana, che mi lanciano sguardi di gratitudine e incitamento, e seguo la signora che nel frattempo è accorsa in cucina a rimestare un risotto.

«È per qualcosa del condominio?»

«No, veramente riguarda sua figlia.» La Cossato si incuriosisce, mentre Morgana e Laura, a margine della scena, seguono con attenzione febbrile.

«Signora, mentre eravamo in ascensore ho avuto modo di chiacchierare con sua figlia e la sua amica e ho sentito che la ragazza ha in programma di recarsi questo sabato sera a una manifestazione musicale in quel noto locale torinese chiamato Quicksand.»

«Oh, no, o ha capito male lei o ha capito molto male mia figlia», si affretta a protestare la donna, lanciando un’occhiataccia alla rampolla. «Perché io non ho affatto autorizzato nulla di simile!»

«Lei mi solleva, perché ero giusto venuta a chiederle di impedire alla ragazza di fare una cosa del genere.»

Posso udire il pop! dei bulbi oculari di Laura e Morgana proiettati all’infuori dallo spalancarsi delle palpebre. Allo stesso tempo, la Cossato mi scruta inclinando la testa, sorpresa – in positivo – da quello che ho appena detto.

«Vede, io conosco quel locale e so di cosa parlo», argomento. «E, mi perdoni se m’impiccio, pur sapendo che non sono certo affari miei… ma ho pensato che lei forse avesse dato il suo permesso senza avere una chiara idea del posto, fidandosi delle informazioni ricevute.»

«Morgana mi ha detto che è un locale in periferia in cui si suona musica metal fino alle due di mattina», borbotta la donna come se stesse descrivendo l’inferno di Dante.

«Quindi non le ha parlato dell’alcol, del fumo e delle droghe», dico. Alla periferia del mio campo visivo, alle due ragazze dev’essere appena crollata la mandibola sulle piastrelle del pavimento. La parola TRADIMENTO è così nitida nei loro pensieri che quasi la percepisco telepaticamente.

«No che non l’aveva fatto! Altrimenti non sarebbe nemmeno arrivata a finire la frase!» esclama la Cossato puntandosi le mani sui fianchi. Ormai è tutta una vibrazione di sdegno materno, nonché di gratitudine nei miei confronti. Io sono la Dea della Verità, venuta a sostenere con i dati le sue impopolari decisioni genitoriali.

Mi stringo nelle spalle. «Non sto mica dicendo che le abbia taciuto questi aspetti apposta», chioso. «Conosco Morgana abbastanza da sapere che è una brava ragazza, giudiziosa e affidabile. Sono sicura che le ha dipinto il quadro con colori più rosei perché, semplicemente, non era al corrente di altro. Cosa vuole che ne sappia una brava ragazza dei lati oscuri di un posto in cui non è nemmeno mai stata… D’altra parte, chi di noi conosce tutti i lati oscuri di questa città? Santo cielo, secondo me, se sapessimo tutto delle ombre che si annidano nei punti più impensati di Torino, ci tapperemmo in casa e non andremmo più da nessuna parte!» Scoppio a ridere del mio stesso paradosso, e la Cossato, ormai a rimorchio, ride e annuisce con me.

«Lei avrà capito dal mio look, signora, che per lavoro mi tocca bazzicare spesso ambienti come il Quicksand e simili», specifico. Improvvisamente agli occhi della Cossato lo strano accostamento fra il mio eloquio saggio e il mio abbigliamento da spostata smette di stridere: come sempre accade, le parole «per lavoro» fanno il loro effetto, e in questo caso elevano istantaneamente l’impermeabile nero al livello di una divisa. Il bello è che la Cossato non ha la minima idea di che lavoro si tratti. Potrei essere una spacciatrice, per esempio, ma naturalmente a lei, come a chiunque oda la locuzione «per lavoro», l’idea che il lavoro in questione non sia rispettabile non passa nemmeno per la testa: il suo cervello, abile nell’autoinganno come quello di chiunque altro, deve avere immaginato che io, tipo, scriva recensioni di musica underground, o faccia l’ispettrice per i NAS. Uno dei piccoli trucchetti cognitivi che ho imparato lavorando al libro dell’insopportabile dottor Mantegna. Sapevo che mi sarebbe tornato utile, prima o poi.

«Quindi mi creda se le dico che sono posti in cui mai, mai manderei un’adolescente da sola», proseguo.

Piccola pausa grave.

«Oddio», sospiro. «Non che naturalmente non faccia bene, a suo modo, venire prima o poi a contatto con delle realtà del genere, per imparare a destreggiarcisi, a riconoscere al volo di chi potersi fidare e di chi no, insomma per crearsi un bagaglio di tutte quelle piccole accortezze che tornano utili, se non indispensabili, quando poi inevitabilmente all’università un’amica esuberante ci trascina in un locale del genere, se non in posti peggiori.» Lo sguardo della Cossato si fa vitreo, come se non avesse mai contemplato questa eventualità prima d’ora. «Ma, ovviamente, recarsi in un luogo simile da soli non è una palestra di vita, è un’imprudenza e basta. Quindi, ripeto: lei mi solleva, dicendomi che ha proibito a Morgana di andarci. Anzi, mi creda, mi scuso per avere pensato il contrario.»

Sorrido.

Silenzio dall’ala di Morgana e Laura.

La Cossato sorride a sua volta, stringendosi nelle spalle come per schermirsi con modestia dai miei complimenti alle sue doti di madre.

«Certo, sarebbe stato tutt’un altro discorso se ad esempio avessi potuto accompagnare io Morgana, visto che in ogni caso dovrò andare al Quicksand per conto mio per lavoro…» dico. Una vibrazione nell’aria mi segnala che le antenne delle ragazze, oltre che della Madre dell’Anno, si sono improvvisamente levate. «Però, in effetti, ora che ci penso…» Fingo di riflettere. «Tutto sommato, se Morgana venisse da me un po’ prima, diciamo alle nove, e poi si accontentasse di rincasare entro mezzanotte e mezza, massimo l’una, potrei anche farcela a portarla con me…»

«Be’, ma perché no?» azzarda la Cossato, riaprendo finalmente bocca. Adesso è il suo quadro di Bruegel interiore ad apparirmi chiaro. Avendo appena ricevuto la targa di Genitrice Perfetta, sente che può fare di più. Sente che può spingersi fino a diventare la Genitrice Più Amata, la Mamma Troppo Forte che, nei limiti della ragionevolezza, sa concedere alla figlia la Meritata Fiducia, mostrando di non aggrapparsi a prevenzioni e paure ma di saper prendere, con Equilibrio e Buonsenso, persino Decisioni Audaci.

Che le ho ficcato in testa io, ma lei non se ne accorgerà mai.

«Voglio dire… Se tanto lei ci deve andare comunque, e Morgana non le è di disturbo, perché no? A me farebbe anche piacere che facesse certe esperienze, che imparasse a gestirsi non solo in ambienti protetti», annuncia con un tono da Manuale del Perfetto Pedagogo, ripetendo le idee che le ho appena instillato io.

Mi giro verso le ragazze. «Se a Morgana non dà fastidio accodarsi a una vecchiarda che di certo le renderà la serata noiosa…» Gli occhi di Morgana, e anche quelli di Laura, non solo sono rientrati nelle orbite, ma sfavillano come un’insegna al neon. Nello specifico, l’insegna recita: SCUSA SE ABBIAMO DUBITATO DI TE, SEI UN GENIO, SEI LA NOSTRA DIVINITÀ, UN SOLO TUO GESTO E FAREMO TUTTO CIÒ CHE VUOI.
È un’insegna lunga.

Esagerate.

Sono solo riuscita a convincere una diffidente medioborghese a lasciare che sua figlia passi la notte in un locale dalla fama che peggiore non si potrebbe, insieme a una perfetta sconosciuta dall’occupazione ignota, di vent’anni più vecchia e conciata come un personaggio di Tim Burton.

Che sarà mai.

«Allora ti aspetto giù da me sabato alle nove. Non tardare, per favore. Ricordati che per me è un’uscita professionale.» Saluto la signora, lancio un’impercettibile strizzata d’occhio alle fanciulle che faticano a celare il loro entusiasmo, e mi congedo.

Morgana mi corre dietro sul pianerottolo, ufficialmente con la scusa di ringraziare. «Ti sei sacrificata per me!» esclama in un soffio, per non farsi sentire dalla madre. «Grazie, grazie, grazie! Non ti dispiace perdere un sabato sera per accompagnarmi?»

«Piccola, non hai capito. Io sarei probabilmente riuscita a convincere tua madre anche a lasciarti andare da sola. Il punto è che in quel posto di merda non ti avrei mai lasciata andare da sola io.»