9.
HA ANCHE UN IMPERMEABILE
Sembra che non ci sia molta differenza tra l’ufficio di un commissario di polizia e quello di un redattore. Una grande scrivania, un computer con stampante, un mucchio di carta.
Le luci sono, in ogni stanza e in ogni corridoio, dei neon da refettorio, di quelli troppo bianchi che fanno venire mal di testa. L’edificio non sarebbe orribile, in sé – è pur sempre uno dei palazzi storici del centro di Torino – ma i neon rendono livide e inospitali le sue viscere dai soffitti a volta. I pavimenti di linoleum cigolano sotto le suole degli agenti che vanno avanti e indietro. Durante il mio interrogatorio, due giovani in divisa, un uomo e una donna, sono entrati per portare a Berganza un fascicolo e rispondere a tre veloci domande su qualcosa che dev’essere avvenuto alla Falchera. Lui li ha congedati in fretta, cortesemente ma senza fronzoli. Si vede che è un capo nato. I passi dei due agenti lungo il corridoio mi hanno fatto stridere le orecchie per i dieci minuti successivi, come quando un’unghia gratta su una lavagna. Mi chiedo come faccia Berganza a lavorare qua dentro tutto il giorno. Ci manca solo che il caffè della macchinetta faccia schifo, e poi l’aria pesta del commissario avrà trovato piena giustificazione.
«Mi faccia capire», sta dicendo Berganza adesso. Sono le sette di sera passate, nell’ufficio ci siamo solo io, lui e l’imberbe agente addetto alla trascrizione del verbale, in un angolo alle mie spalle. Berganza è stanco. Chissà da che ora del mattino è in giro. Non che io riesca a immaginare una faccia come la sua in versione riposata e fiorente: è uno di quei tipi che sembrano nati per avere l’aria esausta e un bicchiere di bourbon in mano.
A dirla tutta, la faccia di quest’uomo è uno spettacolo. Non riesco a fare a meno di studiarla. Non che sia particolarmente bella; è che – non so come esprimerlo meglio – dal momento in cui l’ho vista è come se ogni commissario, detective, investigatore privato di cui abbia mai letto una storia non possa che avere avuto esattamente quella faccia lì. Quest’uomo sembra uscito da un libro, anzi, dalla fusione di mille libri. Non è il volto di un comune essere umano, il suo: è il volto di un prototipo. Mi viene quasi da sorridere. Be’, no, da sorridere no – dopotutto sto subendo un interrogatorio in quanto potenziale accusata di sequestro di persona – ma c’è qualcosa nell’uomo che ho davanti, nel suo viso così letterario, che mi mette inspiegabilmente a mio agio.
D’altro canto, è piuttosto normale che il doppione di Lisbeth Salander si trovi a suo agio con il doppione di Philip Marlowe, giusto?
Se io fossi vestita come mio solito, questa stanza sembrerebbe un ritrovo di cosplayer.
Il commissario si strofina gli occhi con i polpastrelli di pollice e indice. «Mi faccia capire», ripete. «Mi faccia un esempio pratico di come fa.»
Di cosa faccio, nel senso del mio mestiere, abbiamo già parlato. Più o meno per un’ora, senza contare che Berganza doveva già esserselo sentito spiegare anche da Enrico. A questo punto, gli è più chiaro dei neon che ci pendono sopra la testa che di mestiere mi fingo Bianca, o un qualunque altro autore di turno, e scrivo un libro a nome suo. Del mio lavoro non gli resta più niente da scoprire sotto il profilo legale, tecnico e contrattuale. Ma adesso al commissario non interessa cosa faccio, gli interessa come. E non è una domanda scontata.
«E come vuole che faccia?» svicolo, fingendo che non ci sia niente di speciale. «Scrivo.»
«Sia più specifica.»
«Penso a cosa scriverebbe l’autore e lo scrivo io.»
«Può essere ancora più specifica?»
Sospiro. E sia. «Prendiamo lei, per esempio.»
«Io?»
Annuisco. «Facciamo finta che lei debba emettere un comunicato per una conferenza stampa, o una breve intervista al telegiornale sull’andamento dell’indagine, e che non abbia tempo di occuparsene, e che quindi mi chieda di scriverlo al suo posto. Come si esprimerebbe, lei, in maniera efficace e credibile? Ecco, questa è la domanda da cui partirei.»
Taccio e anche Berganza tace. Diavolo. Quando dice specifica, intende davvero specifica. Così mi tocca continuare.
«Be’, innanzitutto lei parla molto bene, ha un vocabolario ricercato, e non è vittima di quel burocratese che spesso si assorbe stando nella forza pubblica.» Il commissario lancia un veloce sguardo sopra la mia spalla destra. Intuisco che abbia appena detto con gli occhi allo scrivano di continuare a prendere nota, perché non ha intenzione di obiettare.
«Quindi è un uomo colto, credo che abbia studiato qualcosa di umanistico, almeno per una parte della sua vita, e teniamo conto che in quest’intervista dovrebbe rivolgersi innanzitutto ai fan di Bianca, che sono pur sempre gente che legge, anche se legge cazzate. Oh, mi scusi, volevo dire stupidaggini… nah, a chi voglio darla a bere, volevo proprio dire cazzate, e, tanto, lei già lo sa.» Mi scappa un sorrisetto e Berganza, prima di accorgersene, lo ricambia. Poi torna serio e concentrato, come se se ne fosse pentito.
«Per questi motivi, appunto, eliminerei il gergo rigido del burocratese poliziesco, perché non si addice né a lei né a coloro a cui parlerebbe.
«In secondo luogo, lei è un uomo di poche parole, che non ama dare troppe spiegazioni. Ho visto come ha trattato i suoi sottoposti poco fa, quando sono venuti a portarle quelle comunicazioni. Dunque sfrutterei questa caratteristica, così che sembri che non abbia voglia né interesse a dilungarsi in chiacchiere, anziché che non ha ancora nulla da dire. Le suggerirei di mantenere l’aria ombrosa, il fare burbero, senza sembrare indispettito, ma semplicemente ruvido di natura. E… credo che non le costerebbe nessuna fatica.»
Lo sguardo di Berganza si assottiglia.
«E in terzo luogo…»
Berganza sembra sinceramente interessato, ma io esito.
Ora. Io non sono una che si cerca grane. A me, nella vita, basta che mi si lasci fare il mio lavoro e non mi si rompano le palle. Ho decine e decine di aneddoti personali che testimoniano, croce sul cuore, che questo è il principio cardine che guida le mie scelte.
Eppure, per qualche ragione che non riesco a identificare, la faccia di Berganza mi fa venire voglia di giocare col fuoco. Di spingermi oltre, per il puro gusto di vedere se indovino, e cosa succede se ci riesco.
Così, sì, esito, ma solo per mezzo secondo. Poi sento la mia voce uscirmi di bocca e una parte del mio cervello chiedersi cosa diavolo sto facendo.
«In terzo luogo… Lei è un po’ un personaggio da hard-boiled, sa? Ma certo che lo sa. Il modo in cui si stropiccia gli occhi, in cui dice “mi faccia capire”… Ha anche un impermeabile. Probabilmente legge un sacco di libri noir, perché sono gli unici che non la fanno sentire in colpa quando non lavora, anche se se ne vergogna un po’ perché combatte lei stesso ogni giorno con la tentazione di identificarsi in essi. Probabilmente è disgustato dalla differenza fra il mondo artefatto della fiction e le miserie quotidiane, la noia e le lungaggini del suo mestiere reale. Probabilmente lei è un disilluso che cova un senso d’avventura. Fra l’altro, somiglia un po’ a Robert De Niro, e, per aggiungere un altro “probabilmente” alla lista, probabilmente lo sa, e non fa nulla per nasconderlo».
Gli occhi di Berganza ora sono due fessure.
Mi irrigidisco un poco sulla sedia. Ho appena tagliato i panni addosso a un uomo: 1, che conosco da tre ore; 1b, sempre che si possa dire che lo conosco; e 2, dal quale dipende la mia imminente libertà. Ecco. Adesso sono a disagio, e avrei l’impulso fortissimo di fare una battuta idiota. Solo che non posso. L’unica cosa che posso fare è continuare, cercando di darmi un tono e di sembrare convintissima di me.
«Quindi, per concludere, le metterei in bocca parole raffinate, sicure e concise, anche un po’ aspre se necessario: a della gente che legge sembrerà di conoscerla da una vita, la identificheranno con Marlowe e Wallander e Montalbano e si fideranno di lei. E lei sarà libero di dire solo quello che ritiene necessario, senza per questo tirare addosso a sé stesso, o alla polizia in generale, la diffidenza o l’insoddisfazione del pubblico.»
Finalmente chiudo la mia stupida bocca.
Berganza mi fissa in silenzio ancora per qualche secondo. Mi aspetto che da un momento all’altro estragga da sotto la scrivania, che so, un diploma di perito industriale, la «Gazzetta dello Sport», un Dizionario dei termini ricercati ma comprensibili per fingere una cultura letteraria che non si possiede. Qualunque cosa capace di sbattermi sui denti la dura realtà, e cioè che stavolta, alla faccia dei miei metodi da Sherlock Holmes dei poveri, ho proprio tirato a indovinare, basandomi su nulla più che sensazioni di pelle e di pancia, per il solo gusto di tentare di sbalordire il commissario.
Il quale infila effettivamente una mano sotto la scrivania.
Senza una parola, mi lancia davanti il libro che teneva nel cassetto. Un tascabile gualcito che evidentemente legge in pausa pranzo o nei momenti di stanca, con un’orecchia per tenere il segno.
È La solitudine del manager di Manuel Vásquez Montalbán.
Faccio molta fatica a non sorridere. «Le piace Pepe Carvalho», constato.
«Mi piacciono tutti», sospira Berganza. «Philip Marlowe. Nero Wolfe. Sam Spade. Hercule Poirot. Mi piacciono Leonard, Lansdale ed Ellroy; e McBain, e Scerbanenco e Malet e la Vargas e la Highsmith. E più o meno chiunque altro le venga in mente.» Mi guarda con quell’aria da segugio sfatto che vorrebbe solo un whisky e andarsene a dormire, e mi accorgo che potrei sottoscrivere entrambe le cose.
Stavolta non è una mia impressione che il commissario ricambi il mio sorrisetto.
«Devo chiederglielo, Sarca. Mi faccia capire. Come ha imparato a farlo? Ci è nata? O lo è diventata a un certo punto della vita? E, se è così, a causa di cosa?»
«Mi scusi ma non capisco, commissario. “Diventata” come?»
«Ma così, Sarca. Capace di entrare nella testa degli altri. Al primo colpo, anche improvvisando, come ha appena fatto con me. Non mi dica che è una cosa normale. Non c’è una sola persona in questo commissariato che sarebbe anche solo lontanamente capace di fare quello che mi ha appena mostrato lei, e sì che qui usiamo le nostre doti deduttive per mestiere. Ha studiato psicologia? Criminologia? O, come sono più propenso a credere, è una specie di inclinazione innata che si è limitata a coltivare nella vita di tutti i giorni?»
Sospiro. «Commissario. Mi sta facendo sembrare una specie di fenomeno da baraccone.»
«Quindi niente da raccontare? Sul serio? Un passato perfettamente comune? Nessun aneddoto su quando andava a scuola, e probabilmente era già in grado di dare a ciascun professore esattamente ciò che voleva ricevere? Fratelli, sorelle, niente? Nessuna complicazione nel rapporto con i familiari? Nessuna iper responsabilizzazione? Nessun senso di solitudine? Nessuna invidia da parte di amici, o diffidenza, per paura di venire letti come libri aperti? Nessuna tentazione giovanile di approfittare di questo suo dono per trarne qualche piccola rivincita?»
Stavolta sbuffo apertamente, anche se non in maniera così esasperata da offenderlo. Inutile negarlo: il commissario mi sta proprio simpatico, e questo suo interesse insistente verso la mia presunta storia personale mi lusinga. Ma soprattutto: porca miseria. Io sarò anche naturalmente dotata, ma lui è uno sbirro che adopera l’intuito per professione ogni giorno della sua vita da decenni. E si vede che ci sa fare, perché ha appena toccato con precisione chirurgica tutti, ma proprio tutti i punti sensibili della mia vita. Sono piuttosto colpita. “Ecco come ci si deve sentire, dall’altra parte”, mi dico. Ciò non significa, naturalmente, che abbia voglia di dargli corda e che mi metterò a sbrodolare episodi strappalacrime per ogni punto che ha menzionato, ma resta il fatto che quest’uomo è uno sbirro pazzesco. Devo stare attenta, con questo tizio, perché sono abbastanza certa che se mi beccasse in un momento di vulnerabilità sarei capace di raccontargli anche di quella volta che ho rubato il bavaglino a Lara per vomitarci il passato di ceci.
«Croce sul cuore, giurin giuretto», mi decido a tagliar corto. «Senta… io capisco che un appassionato di romanzi gialli possa avere la tentazione di scavare, scoprire retroscena, aneddoti rivelatori, storie torbide del passato e cose così, ma gliel’assicuro: non sono una veggente, non sono una telepate, non sono un caso umano. Non sono stata morsa da un camaleonte radioattivo che mi ha trasferito i suoi poteri. Sono una persona veramente poco interessante, che semplicemente sa fare il proprio mestiere.»
Berganza attende un istante, poi annuisce. Non l’ho minimamente convinto, è ovvio. Ma sembra che abbia accettato di rispettare la mia reticenza.
«Deve ammettere che l’ipotesi del camaleonte radioattivo era molto convincente», conclude.
Il resto dell’interrogatorio fila così liscio che non sembra neanche un interrogatorio. Roba da chiedere indietro i soldi. Il commissario non cerca di mettermi in difficoltà nemmeno per un attimo. Mi lascia dire quello che so, annuisce, quasi chiede opinioni. Sembra stia consultandosi con un suo pari, anziché scandagliando l’innocenza di una sospettata. Devo fare in modo che Enrico mi assegni un giallo, come prossimo incarico, perché evidentemente ho bisogno di impratichirmi sul vero mondo delle investigazioni e io una cosa la imparo bene solo quando la devo studiare per un libro.
Alla fine Berganza annuisce e fa un cenno con la testa che significa che è tutto.
«Non mi chiede se ho accesso ad altre macchine oltre alla mia?» insisto.
Mi guarda interrogativo.
«Un’auto più grande, per trasportare Bianca nel bagagliaio», spiego. «Potrei avere le chiavi della macchina di, che so, un genitore, una sorella. Vale anche per la casa: appurato che la mia è inadatta come nascondiglio, dovrebbe chiedermi se i miei genitori vivono in campagna, o se ho ereditato da un nonno un capanno sui monti della Val di Susa, cose del genere. O no?»
Ora conosco la sua faccia abbastanza bene da poter cogliere al primo colpo la sfumatura di divertimento.
«No.»
«Ma dovrebbe.»
«Forse. Ma non ne ho bisogno.»
«E perché?»
«Sta cercando di insegnarmi il mio mestiere, Sarca? Guardi che la maggior parte della gente che si siede al suo posto è più che felice di sentirsi rivolgere meno domande del previsto.»
«Sono solo curiosa. Lei ha l’aria di uno scrupoloso, quindi deve avere degli ottimi motivi per tralasciare delle domande così importanti. Magari non ha bisogno di chiedermi cose del genere perché in qualche modo, grazie ai vostri database e controlli incrociati, sa già che non ho accesso a nessuna seconda macchina o seconda casa, tantomeno in montagna o in posti isolati, e che i miei familiari sono le ultime persone su cui conterei mai.»
Berganza annuisce come se stesse soppesando l’ipotesi. «Vorrei tanto poterle dire che i nostri sistemi di ricerca sono così rapidi ed efficienti, ma no, non avevo assolutamente idea di tutto ciò.» Per un attimo le sopracciglia gli si contraggono in una cosa che potrebbe essere rammarico o ironia. «È molto triste, fra l’altro. Che lei non possa contare sui suoi familiari, dico. Ma, mi creda, lo stato schifoso dei nostri sistemi di ricerca è ancora più triste.» Okay, era rammarico e ironia. Sto davvero prendendo dimestichezza con le espressioni del commissario.
«Quindi l’unica ragione per cui non mi sta mettendo alle strette è che ha già definitivamente deciso, dentro di sé, che io non posso essere la psicopatica sequestratrice di Bianca Dell’Arte Cantavilla.»
Stavolta il sorriso di Berganza è esplicito. «Be’, è così. Mi assumo una grossa responsabilità, ma mi sento di dichiararlo ufficialmente: credo che lei non possa essere la psicopatica sequestratrice di Bianca Dell’Arte Cantavilla. Anche se…»
«Se cosa?»
«Se sulla sua completa normalità continuo a non voler mettere la mano sul fuoco.»
Ci guardiamo.
Berganza si alza e io faccio lo stesso.
«Lo prenda come un complimento e se ne vada a casa, che è tardissimo. La faccio accompagnare da Petrini.»