11.
CENTRO
Per tutta la mattina i miei pensieri seguono uno schema ripetitivo. “Sono a casa mia. Va tutto bene. Sono al computer e sto ultimando il sesto capitolo del libro di Bianca. Sono stata a letto con Riccardo.” Piccolo sforzo di volontà, recupero del filo del ragionamento, attenzione di nuovo focalizzata sul monitor. “Ora inserisco un paragrafo sul tema del perdono consapevole. È una buona idea. Gli angeli amano parlare di perdono. Questo probabilmente renderà inevitabile un altro paragrafo sul rapporto fra perdono e giustizia, ma posso rimandarlo al capitolo seguente. Ah, e sono stata a letto con Riccardo.”
Be’, è stata una nottata notevole. È normale che mi venga da ripensarci. Peccato solo per un dettaglio.
Non ho assolutamente capito se adesso io e Riccardo siamo una coppia o no.
Cazzo. Non riesco a credere di avere questo dubbio. Non si può uscire dalla casa di un tizio con cui si è passata la notte – una bellissima notte – e ritrovarsi con domande come questa. Avrei dovuto chiedere. Già, e come si chiedono queste cose? “Scusa, solo per capirci, quindi adesso saremmo insieme? Giusto per sapere come organizzarmi con la pillola.” Nah. Ma certo che Riccardo non pensa che stiamo insieme. Siamo realistici. Tanto per cominciare, dalla sua bocca non è uscita nessuna delle seguenti espressioni: «stiamo/stare insieme», «fidanzato/a», «a dopo/a stasera». Non che sia sempre indispensabile pronunciarle esplicitamente, certo; ci sono casi in cui l’intesa è così perfetta che l’intenzione di entrambe le parti di considerarsi impegnate è inequivocabile. (E, se dobbiamo essere obiettivi, l’intesa che c’è stata fra di noi ieri notte potrebbe effettivamente rientrare in questa categoria.) Però non è un sistema di cui mi fidi. La storia è piena di tapine che si sono basate sull’«intesa», hanno dato per scontato che il loro partner le avesse promosse a compagne per la vita, e poi si sono sentite rispondere al telefono «Antonella chi?». Io preferisco una dichiarazione formale, possibilmente su carta bollata e con firma autografa in calce.
Solo che non c’è stata nessuna dichiarazione formale, quindi il bilancio è che nulla, appunto, mi autorizza a ritenere che Riccardo ora mi consideri la sua ragazza.
È così evidente che non so perché ci stia ancora pensando.
Limpido.
Chiaro come il sole.
Anzi, diciamola tutta. Solo un malato di mente potrebbe voler fare di Vani Sarca la propria fidanzata. E solo da malata di mente Vani Sarca potrebbe fare di sé la fidanzata di qualcuno. Cristo santo, tanto varrebbe mettersi con un orso bruno. Okay: Riccardo ha piantato un gran casino, questo è vero. I regali. Gli inviti. La pasticceria. Normalmente uno non fa tutti questi giochi di prestigio solo per portarsi a letto una tizia; anche perché, se uno come Riccardo vuole portarsi a letto una tizia, gli basta un decimo dello sforzo per raccattare bracciate di studentesse ventenni adoranti dalle curve antigravitazionali. Quindi capisco che possa sembrare che Riccardo abbia puntato a qualcosa di più serio. Però ci stiamo dimenticando che io ho anche un gran bel carattere di merda. Lo so io, lo sa Riccardo, lo sanno tutti. Probabilmente, se c’è vita su Marte, lo sanno anche lì: nel bacino di Hellas, il giorno che impareranno a decifrare la scrittura dei marziani, vedranno inciso a chiare lettere: Vani Sarca ha un carattere di merda. Quindi, cos’è più plausibile? Che Riccardo abbia mirato solo a portarmi a letto, preda dell’attrazione fisica, o a fare di me la sua fidanzata, ammaliato dal mio carattere di merda? Suonano improbabili entrambe, ma, dovendo scegliere, sono abbastanza sicura che il mio carattere sia peggiore del mio aspetto fisico – e giuro che non è un complimento al mio aspetto fisico. E quindi, in ultima analisi, ne concludo una volta per tutte che Riccardo non mi considera, né deve avere mai avuto intenzione di considerarmi, la sua ragazza.
Bene.
Basta saperlo.
Non c’è nessun problema. Anzi. È senza dubbio la soluzione ottimale anche per me. Ho trentaquattro anni, sono indipendente, moderna ed emancipata. È perfettamente normale che mi capiti, di quando in quando, la classica avventura di una notte. Non è certo la prima volta. Non devo fare altro che compiacermi all’idea che stavolta sia successo con uno dei tizi più ambiti e affascinanti in circolazione, complimentarmi con me stessa per quanto sono indipendente, moderna ed emancipata, magari rievocare anche con soddisfazione il fatto che sia stata davvero una piacevolissima notte, e poi tornare finalmente a concentrarmi su questo schifo di noiosissimo libro.
Squilla il telefono.
«Vani!» È Riccardo, il mio partner occasionale. Sembra euforico. «Volevo chiamarti prima ma sono riuscito a prenotare solo ora!» Non so di cosa stia parlando. «Fatti trovare pronta per le quattro. Ho in mente un posto fantastico in cui portarti per la nostra prima uscita ufficiale di coppia.»
Oh.
«Vestiti normale», aggiunge, e riattacca.
Io invece resto con il telefono in mano, a chiedermi quando è successo che le mie famose capacità deduttive se ne sono andate a quel paese.
La macchina di Riccardo sfreccia lungo via Reiss Romoli, che è forse la strada più brutta e squallida di Torino. Riccardo è allegro. Io sono vestita normale, cioè normale per me, con il mio solito impermeabile e il rossetto viola. Riccardo chiacchiera del più e del meno, e si capisce che lo fa apposta per eludere le mie domande.
«Senti», lo interrompo. «Stanotte è piaciuto anche a me, okay? Se capita, non ho niente in contrario a rifarlo. Promesso. Quindi, visto che non hai più bisogno di farmi le tue pirotecniche sorprese per convincermi a venire a letto con te, puoi dirmi per una dannata volta dove stiamo andando?»
«No. Zitta e fidati.»
È allegro, l’ho già detto? Lui.
«Riccardo.»
Forse chiedere resta la migliore delle opzioni.
«Sì?»
«Quindi, in pratica, adesso, noi due…»
«Sì?»
«Voglio dire, saremmo… ufficialmente…»
Riccardo si gira e mi getta uno sguardo sornione. Sarà allegro, ma non è stupido. Ha capito benissimo in che stato mi trovo. «Non riesci nemmeno a dirlo, vero?» Sorride.
«Insieme. Riesco a dirlo benissimo.» Adesso lo strozzo e sarà stata la relazione più corta del mondo.
«Be’, sì, eccome!» esclama. Poi si gira di nuovo. «Cioè, se per te va bene… Per te va bene, vero?»
Pausa.
Sospiro.
«Direi di sì.»
Riccardo si infila in una stradina laterale e parcheggia. La stradina sembra lo scenario di un omicidio fra pregiudicati beoni, di quelli che occupano al massimo un trafiletto nella cronaca locale.
«Romantico», dico, guardandomi intorno.
«Ti piace?»
«Ma certo», annuisco. «Immagino che le alternative fossero una scontata, dozzinale cena al Cambio, oppure una mortale serata al Teatro Regio. Hai fatto proprio bene a optare per la terza possibilità: un eccitante tour delle zone preferite dagli spacciatori di Torino Nord.»
Riccardo ride. «Prova a guardare da quest’altro lato, scema.»
Così mi sporgo a vedere quali meraviglie si celino oltre la sua sagoma, e nel finestrino sinistro dell’auto appare un edificio, sulla cui facciata campeggia la scritta TIRO A SEGNO NAZIONALE – SEZIONE DI TORINO.
«Mi hai portata al poligono di tiro?» Trasecolo.
Riccardo è radioso. Una lucciola. «Prova a dire che non ti piace.»
«Si fottano il Cambio e il Regio!» esclamo, estasiata come una mocciosa.
«Immagino che in vanisarchese significhi: “un uomo capace di portarmi in un posto del genere si merita davvero di essere il mio fidanzato”.» Esito. Avvampo. Lui ride. «Mi piace anche nella tua lingua.» Mi dà un bacio, poi smonta dalla macchina. Sembra molto fiero di sé.
Fa bene.
La tizia del banco dell’accettazione sistema con Riccardo le pratiche per il noleggio della piazzola e delle armi, mentre io mi guardo intorno. L’ambiente è marziale, minimalista e così carico di testosterone che se inspiro forte potrei rimanere incinta.
«Come facevi a sapere che ci volevo venire da una vita?» mormoro a Riccardo, mentre attendiamo. «Oh. Aspetta. Ce l’ho scritto in faccia, vero?»
«Ero indeciso fra questo e un corso di cake design», risponde Riccardo serissimo.
«Dovreste compilare questi», ci informa la segretaria. Ci allunga quattro moduli e due penne. Compiliamo. Uno dei moduli è un’autocertificazione che dovrebbe attestare la nostra piena capacità di intendere e di volere. Per un attimo mi torna in mente il commissario Berganza che mette in dubbio la mia, e mi scappa un sorrisetto. Una delle domande riguarda il consumo abituale di alcolici. Segno no. Scusa, amato Bruichladdich, so che capirai. Restituiamo, e la tizia esamina il modulo delle mie generalità.
«Aspetti un momento, signorina.» La rigidità con cui mi si rivolge è direttamente proporzionale al languore con cui la sorprendo a sbirciare quello che, a quanto pare, è a tutti gli effetti, senza più possibilità d’equivoco, il mio nuovo fidanzato. Forse dovrei ingelosirmi. Cosa fa una fidanzata in questi casi? Cosa fa una fidanzata in generale? Gesù, in che follia mi sono cacciata. Io non le so fare, queste cose.
«Spiacente, ma il suo nome non coincide con il codice fiscale», mi comunica. «Non c’è corrispondenza con la quinta e la sesta lettera. Ha per caso un secondo nome?»
Merda.
Ecco quello che succede quando gli ormoni surclassano i neuroni. Si abbassa la guardia quando meno si dovrebbe.
La tizia lo prende per un sì e mi avvicina un modulo pulito da ricompilare da zero. Io esito.
«Girati», dico a Riccardo.
Lui scoppia a ridere. «Mica stai per spogliarti!… E comunque non mi girerei lo stesso. Anzi.»
Arrossirei, ma sto cercando di smettere. «Ho detto girati. Non voglio che tu veda quello che sto per scrivere.»
Riccardo biascica un «okay, come desideri», si gira, poi naturalmente si volta di nuovo un istante prima che io sia riuscita a ridare il modulo alla segretaria – che non sembra affatto infastidita dalle esuberanze dell’affascinante giovanotto in giacca senza cravatta.
«Adesso sarò costretta a ucciderti», sospiro. «Lo sapevo. Mai che riesca a farla durare, una relazione.»
«Non posso credere che ti chiami Cassandra», trasecola Riccardo.
«Silvana Cassandra Sarca», cantileno io. «Ti concedo altri venti secondi di prese per il culo, poi non ne parleremo mai più.»
Ma Riccardo mi sta improvvisamente fissando con occhi stretti e penetranti. (Parallelamente, la segretaria sta fissando con occhi stretti e penetranti Riccardo. Inizio a intuire che sarà un maledetto stress, portarmi in giro per il mondo questo schianto di fidanzato. Eppure, tutto sommato, potrebbe essere un rischio che sono disposta a correre.)
«Vani, sto per farti una domanda stupida e personale, e vorrei che prima mi garantissi che non mi scaricherai seduta stante per questo.»
«Ci sarebbe anche quella cosa che hai detto prima sul cake design», lo avverto.
«Hai mai pensato che il fatto di chiamarti Cassandra potrebbe avere influenzato la tua personalità e le tue scelte di vita?»
«Da quando in qua avere un certo nome dovrebbe incidere sulla personalità di qualcuno?» protesto, ignorando l’ologramma di Morgana che mi si è appena materializzato davanti agli occhi, tipo padre di Amleto, per rinfacciarmi ciò che io stessa le ho detto sul tram numero 4 giusto qualche giorno fa.
Riccardo si gratta la testa. «Lo so che è una teoria cretina, ma, sai… Anche tu sarai stata una ragazzina, anche tu ti sarai aggrappata a ogni spunto possibile per costruirti una tua identità, in primis al tuo stesso nome… E Cassandra è colei che vive ignorata e inascoltata, relegata nell’ombra, ma che ha il dono della profezia, ossia, in senso lato, di saper dire le parole più cruciali, quelle a cui tutti anelerebbero…» Improvvisamente scuote la testa. I suoi capelli non sembrano risentirne. La segretaria lo guarda rapita. «Ah, lascia stare. Ogni tanto mi faccio trascinare da queste suggestioni da psicologia da bar.» Mi rivolge un largo sorriso scanzonato.
Io lo fisso per un attimo in un silenzio scandalizzato. Ieri Berganza che mi sciorina metà della mia vita in una manciata di frasi. Oggi Riccardo. Questa sarebbe la mia parte, cazzo. Ridatemi immediatamente il mio lato della barricata.
Anche se devo ammettere che ritrovarmi circondata da tutti questi uomini che, una volta tanto, mi stanno al passo a livello d’intuito, è un’inaspettata boccata d’aria fresca.
«Se provi a psicanalizzarmi un’altra volta, non ti mollo: ti uccido», brontolo.
Ma ricambio il sorriso, prima di precederlo lungo il corridoio.
Non sono sicura che quella fosse una frase da fidanzata, ma si fa quel che si può.
Il ranger che sorveglia lo stand delle pistole ad aria compressa mi squadra con aperta diffidenza.
«Te l’avevo detto di vestirti normale», mi sussurra Riccardo, mentre io esamino l’arma che ci spetta in quanto neofiti del poligono privi di porto d’armi.
Devo ammettere che sono un filo delusa. Non sembra affatto una pistola. Somiglia più che altro alla figlia illegittima di un arricciacapelli e di un fon. Un po’ come se l’avesse disegnata un bambino a cui una pistola fosse stata descritta solo a voce. La canna è troppo lunga e sottile, l’impugnatura così ergonomica da essere quasi offensiva. Il ranger si avvicina e, parlando il meno possibile, mi mostra come caricarla. Questo è già più interessante. Per dimostrargli che non ho intenzione di ammazzare nessuno, mi azzardo a sorridergli.
«Occhio, che le pareti di questi gabbiotti sono di legno», bofonchia lui, così mi ricordo che quando ho il rossetto viola i miei sorrisi funzionano peggio del solito.
«Dai, prova», mi incoraggia Riccardo. Noto che è andato a mettersi alle mie spalle, nel mezzo del corridoio su cui si aprono le cosiddette piazzole, cioè le cabine di legno che si affacciano sui bersagli.
«Paura?» dico. «Ho l’impressione che quest’affare non scalfirebbe nemmeno un panetto di burro.»
«Be’, intanto però il bersaglio è a dieci metri. Non dev’essere del tutto una bufala se può sparare a dieci metri, no? Vedi cosa sai fare.»
Uhm. Ma sì. Proviamoci. Mi affaccio alla finestra che si apre sulle corsie dei bersagli e assumo la posizione che ho visto nei film: di profilo, braccio teso all’infuori, viso girato sulla spalla. Un po’ tiratrice, un po’ schermidora. Elegante. Mi piace. Sparo, e il mondo si divide in due: dentro di me, un terremoto di grado 7 della scala Richter ha appena ridotto il mio braccio destro in gelatina; fuori, pare che non sia accaduto assolutamente niente.
«Che cazzo», protesto, massaggiandomi il gomito.
«La prossima volta mi metto davanti al bersaglio, pare che sia il posto più sicuro», ridacchia Riccardo, fingendo di scrutare l’orizzonte per individuare dove sia finito il proiettile.
«Per l’amor del cielo, Sarca, ma cosa fa», dice dal corridoio una voce che conosco.