23.
ERA IRONICO

Il problema delle intuizioni è che 1) ti vengono quando vogliono loro, 2) non è detto che ti vengano in momenti comodi. Se ti colgono in piena notte, per esempio, e implicano che per seguirle tu debba interagire con altri esseri umani, finisce che ti tocca aspettare il giorno. E non il giorno nel senso dell’alba: il giorno nel senso di un’ora del giorno in cui gli altri esseri umani, così fastidiosamente ordinari nelle loro attività, possano considerarsi operativi. Il che significa che devo trovare il modo di far passare almeno quattro ore, e a questo punto di dormire naturalmente non se ne parla con tutta questa adrenalina da intuizione in circolo, così non mi resta che oscillare alternativamente fra rompermi le palle sul libro di Henry Dark e rompermi le palle sul libro di Occhialetti; finché un varco spaziotemporale finalmente mi fagocita, una mano mi accarezza una spalla e mi sveglio di soprassalto con i tasti del computer tatuati sulla guancia.

«Hai di nuovo scritto tutta la notte?» mi chiede il commissario mettendomi accanto una tazza di caffè.

«Che ore sono?» esclamo scattando dritta.

«Buongiorno anche a te», ridacchia Berganza. Si sta allacciando la cravatta. «Le sette e mezzo. Sto per andare al lavoro.»

«Devo chiamare una persona», dico. Intanto risveglio il computer dallo stand-by e apro la mia casella di posta.

«Ancora quel rompicoglioni di Dark?»

«No. La receptionist di ieri.»

Pausa alle mie spalle.

«Hai avuto una delle tue intuizioni». Non è nemmeno una domanda. Quindi non è sbagliato che io nemmeno risponda. Ho gli occhi incollati al monitor, sul quale sto scrivendo un’e-mail: Ho ricevuto il file del suo manoscritto e l’ho già letto per quasi un terzo. Possiamo sentirci?

Sento un suono che mi ricorda quello di una sedia trascinata. Volto la testa: oh, ma è una sedia trascinata. Il commissario ha afferrato una sedia da tavolo della cucina e l’ha portata accanto alla mia, per sedersi alla scrivania, di fianco a me.

«Che fai?» chiedo.

«Mi metto comodo. Voglio assistere.»

«Assistere?»

«Lo so cosa sta per fare, Sarca. Ho già visto cosa succede quando ha di queste folgorazioni. Stavolta posso osservare in presa diretta e non ho intenzione di perdere l’occasione.» Incrocia le braccia e si mette a fissarmi come se fosse al cinema, durante i titoli di testa di un film d’azione.

Uh. Wow.

Crampo.

«Okay, allora ecco la situazione», spiego. Sono vagamente lusingata. Fortunatamente, l’adrenalina mi impedisce di deconcentrarmi.

E anche il fatto che, se l’intuizione è vera, stiamo imboccando la scivolosa china verso qualcosa di molto spiacevole.

Molto, molto spiacevole.

«Ho trovato una cosa, nel manoscritto che mi ha passato ieri Occhialetti Rossi – cioè, la receptionist della sezione riviste e quotidiani. Ho bisogno di sentirla al telefono per parlarne a voce.»

«Però sono le sette e mezza», fa notare Berganza. «Credi che così presto sia disposta a...»

In quell’istante sul mio monitor compare una nuova e-mail.

Certo che possiamo sentirci, anche subito!, ha appena scritto Occhialetti, e poi il suo numero di cellulare.

Berganza mi guarda impressionato. Io alzo le spalle, mentre compongo il numero sul mio telefono. «Scrittori che ti mandano un loro inedito in valutazione», spiego. «Nulla al mondo, nessuna Mentos nella Coca-Cola, nessun fiammifero sulla benzina, genera reazioni più rapide, risposte più istantanee, che dire a un aspirante scrittore che ti ha mandato un manoscritto in valutazione L’ho letto, possiamo sentirci?»

«Diabolica», ammette Berganza.

Prima di digitare l’ultima cifra del numero, mi giro a guardare il commissario, seria. «Devo anticiparti una cosa. E cioè che spero di essermi sbagliata. Perché, se quello che ho immaginato è vero, una cosa piuttosto bella e promettente e portatrice di speranza in questo mondo schifoso che è venuta fuori di recente potrebbe franare e mutarsi in disillusione e squallore.»

Berganza alza un sopracciglio. «Ma la verità vincerebbe, giusto?»

«E cosa c’è di intrinsecamente buono nel fatto che vinca la verità?»

«La verità», dice Berganza alzando le spalle.

Completo il numero.

Occhialetti risponde al primo squillo. Metto in vivavoce. «Dottoressa Sarca, è stata gentilissima!» è l’esordio.

«Non è vero, non ho ancora detto niente.»

«Il solo fatto di avere lett...»

«No, dico sul serio. Non vuol dire niente che abbia letto metà libro in una notte, chi lavora in casa editrice legge veloce per mestiere. Non sprechi dei grazie senza motivo, glielo dico come consiglio professionale.»

Ci pensa un po’ su, poi emette un «D’accordo!» pieno di buona volontà. Sindrome di Stoccolma: tratta male una persona e ti odierà, trattala troppo bene e ti odierai tu per la tua ipocrisia, ma tienila sulla corda e quasi sarà più felice che per un apprezzamento esplicito, dopodiché andrà in giro a dire che grazie a te ha imparato tantissimo.

«Mi dica pure», dice Occhialetti, affabile.

«A pagina 67 lei parla di una “banca del DNA”, ossia di un archivio centrale nel quale vengono raccolti i profili genetici di tutti i pregiudicati e i detenuti d’Italia. Da dove ha preso quest’informazione?»

Esitazione. Per forza. Si aspettava dei complimenti sul suo romanzo e invece è arrivata una domanda, e pure spinosa. Mi spiace, Occhialetti, nulla di personale, ma devo poter contare sull’effetto sorpresa per essere certa che sarai sincera. «Oh mio Dio, è sbagliata? Io giuro che...» Crede evidentemente che io, da redattrice, le stia facendo notare scandalizzata un difetto di documentazione. Magari per rinfacciarle che è una puttanata e chiederle come abbia osato sprecare il mio tempo con un manoscritto pieno di simili assurdità. Non so, la gente si immagina che gli editor siano sempre dei mostri metà uomini metà colpevolizzazione. In verità, nessun redattore chiamerebbe mai un autore alle sette e mezza del mattino per fargli il culo su un’inesattezza, naturalmente, ma Occhialetti questo non lo sa.

«Stia tranquilla, si capisce che lei è una seria, che si documenta.» Odo Occhialetti sospirare di gratitudine. (Bastone. Carota. Stoccolma.) «Quindi non credo che abbia ficcato nel suo libro questa leggenda dell’archivio del DNA senza che qualcosa o qualcuno l’abbia fatta sentire legittimata a farlo.»

«In effetti è così», dice Occhialetti mesta. «Non è per scaricare il barile, ma... ha presente Dario Agliano, l’inserviente di cui mi avete chiesto ieri? Quando è proprio un ex detenuto a parlarti dell’esistenza di uno strumento del genere, pensi che la fonte sia ineccepibile, no?»

«È stato l’Agliano a parlargliene, quindi?» Ecco. Ci siamo.

«Ci raccontava che quand’era in carcere i secondini gliela sventolavano in continuazione davanti agli occhi, la minaccia di quel database. Per convincerlo a rigare dritto. “Il tuo DNA ce l’hanno già da quando sei stato ficcato qui”, gli dicevano, “se esci e commetti un altro reato, basta che ti cada un pelo per terra e sapranno che eri lì.” Lo raccontava a tutti noi per convincerci che anche se era stato in prigione non dovevamo avere paura di lui, che avrebbe sempre fatto il bravo. Come se potessimo avere paura di un bonaccione del genere.»

Metto in muto il telefono.

Guardo Berganza. «È come dicevi tu», dico.

Berganza aspetta.

«Quando dicevi che lo spauracchio dell’archivio del DNA dei pregiudicati viene spesso sfoderato con i delinquentelli sprovveduti per dissuaderli dal riprovarci», ricordo. «Dario Agliano ha evidentemente ricevuto questo trattamento. Dario Agliano è uno di quelli che sono convinti che l’archivio del DNA esista e sia operativo da tempo.»

Berganza fa la faccia di chi improvvisamente ha capito.

«...e nessuno che sia sinceramente convinto che dal suo DNA si possa risalire a lui spedirebbe mai delle lettere anonime intrise del proprio sangue.»

Ci guardiamo in silenzio.

«Per contro, se qualcuno di altrettanto sinceramente convinto dell’esistenza di questo archivio volesse incastrare qualcuno e avesse a disposizione il sangue di quest’ultimo...»

Berganza aggrotta la fronte. «Sì, ma come? Recidendogli accidentalmente un’arteria per imbrattarci degli oggetti?»

Levo il muto.

«Dov’era finita, dottoressa?» trilla Occhialetti. «Mi sa che ho parlato mezz’ora col vuoto...»

«Solo dieci secondi. Devo chiederle un’altra cosa, uh...» – come diavolo si chiama... cerco velocemente la sua e-mail sul monitor – «...Maria», aggiungo una frazione di secondo prima che la mia esitazione si percepisca. «Anzi, sto proprio per farle una domanda che le sembrerà molto bizzarra. E gliela faccio in veste di aiutante della polizia, non di editor, stavolta. Mi assicura che ci penserà bene prima di rispondermi?»

«Be’, certo, se posso», replica Maria perplessa. Mi sa che avrebbe preferito continuare a parlare del suo manoscritto. Abbi pazienza, Maria: tanto siamo in Italia, hai tempo fino ai quarantacinque anni per essere “una giovane promessa della narrativa”.

«È mai capitato, da che si ricorda, che Dario Agliano avesse qualche incidente lì al lavoro da voi, per esempio si ferisse e sanguinasse sopra degli oggetti?»

Silenzio.

«Sta scherzando?» dice poi la voce di Maria dal mio telefono.

«Perché dovrei scherzare?»

Maria ridacchia, come quando non riesci a credere di dover spiegare a qualcuno che la terra è rotonda. «Santo cielo, pensavo lo sapeste», dice. «Visto che lo cercavate... credevo che sapeste tutto di lui, per esempio com’era soprannominato in carcere.»

«“Il Sanguinario”», dico io aggrottando la fronte.

«Sì, esatto... e non l’avete trovato divertente?»

Aggrotto la fronte un altro po’. Un’altra domanda che non capisco e avrò una saracinesca sopra l’arcata sopracciliare. «Divertente “il Sanguinario”? E dove, a Guernica?»

Risata di Occhialetti. «Ma no! È divertente perché sembra il nomignolo di un macellaio, mentre, be’... era ironico

Faccio mente locale su quel che sappiamo dei reati per cui Dario è stato messo dentro. Una rapina e un furto d’auto, ha detto Petrini, entrambi finiti con dei feriti. Abbiamo pensato che si fossero svolti in modo aggressivo e brutale, giustificando il soprannome di Dario, ma la verità è che è stata una nostra illazione. E i feriti potrebbero esserci scappati per mano di qualche complice.

«Sta dicendo che Dario non ha affatto una fama di violento?»

«Proprio no, guardi. Il contrario, semmai. “Il Sanguinario” era appunto per prenderlo in giro per questo, perché l’unico sangue che versava era il suo. Vede, “il Sanguinario” è per via delle epistassi.»

«Epistassi?»

«Sì. Esatto. Sangue dal...»

«...dal naso, lo so.»

«Esatto. Dario ne soffre un sacco, sin da quando era bambino, pare. Come si agita un po’, come si scalda, bam!, sangue. Se corre, se deve affrettarsi da qualche parte, bam!, giù le dighe. Se gli sale la pressione – be’, ha capito. Capillari deboli, gli hanno detto in carcere, ma secondo me è una diagnosi del cavolo, che non vuol dire niente, fatta così tanto per fare – chissà quei poveretti con che superficialità vengono curati, là dentro. Comunque: a volte sono solo poche gocce, altre delle fiumane. Da quando lo conosco io, gli sarà successo almeno tre o quattro volte. E non è improbabile, anche se non ne ho la certezza, che qualche volta gli sia capitato anche dentro a uno degli uffici.» Fa un verso di disgusto misto a una risata. «Fra l’altro, è proprio per questo che è finito a parlarci del database del DNA. Raccontava che i secondini lo sfottevano. Gli dicevano: “Bada, con tutto il sangue che spargi in giro, al prossimo delitto ti rintracciano subito. Tanto vale che ti passi i polpastrelli nell’inchiostro e vai a lasciare impronte digitali su tutto quello che ti capita a tiro.”»

Io sto fissando Berganza. Berganza sta fissando me.

«Cazzo.» Scatta in piedi. Ha il suo cellulare già all’orecchio. Si allontana di corsa a chiamare Petrini.

«Maria, lei non sa quanto c’è stata d’aiuto. Gliela posso fare un’ultima domanda bizzarra?»

«Ma certo», dice Maria mogia.

Mi scappa un mezzo sorriso. «Poi le prometto che parleremo del suo libro – che, per inciso, è molto meglio di quanto mi aspettassi. Ha qualche ingenuità, ma ci si può lavorare. Okay?»

«Mi dica!» esclama Occhialetti di colpo ringalluzzitasi.

«Che lei sappia, nei dintorni della sua casa editrice, nell’ultimo paio di mesi è per caso stato ucciso un coniglio?»

Per farla breve, ci mettiamo praticamente tutto il giorno. Prima confrontarsi con Pezzoli e Petrini, le telefonate con i responsabili dell’amministrazione penitenziaria, l’assistente sociale, rivedere daccapo il dossier sull’Agliano eccetera. Ricavare anche un certo tempo per fare assistenza psicologica a Petrini, che non riesce a credere di avere bucato così la sua prima occasione da solista e precipita in un abisso di autocritica dal quale occorre riacciuffarlo al più presto per i serici capelli. Poi tornare a Milano, farsi di nuovo l’Autostrada del Sonno, telefonare a Riccardo, non trovarlo, provare con Rosa, riparlare con Maria – eccitata e incredula e collaborativa – e, finalmente, interrogare lui, Dario.

Io e Berganza personalmente, stavolta.

È un buon diavolo davvero, Dario Agliano. Parla troppo, candido, ogni tanto balbetta. Si spiega male, si agita, si emoziona, nella foga di esprimersi si ingarbuglia, e per dipanare la matassa dei significati delle sue parole frenetiche ci vogliono proprio la pazienza di un saggio commissario e la perspicacia di una ghostwriter – che oltretutto, a questo punto, sanno già dove cercare. Non ci stupisce che ciò che ha detto a Petrini ieri sia suonato ambiguo e confuso e contraddittorio, fuorviante e autosabotante. Ci sono persone alle quali le parole si rivoltano contro come cani male addestrati. Ed è di un’ironia malinconica che spesso ciò accada a quelle persone il cui animo è più limpido e pulito.

Se potessi, penso mentre sfilo la verità dalle frasi arruffate di Dario, è di quelli come lui che farei la ghostwriter. Presterei volentieri la mia parola a chi non sa domare le sue, e ci finisce impigliato in mezzo.

Dario la prende larga, ha tante cose da dirci di sé. Tanto per cominciare, appuriamo che in carcere c’è andato veramente solo per furto e rapina, nei quali fra l’altro – noi ascoltatori esterni lo evinciamo molto bene – è stato coinvolto da “amici” senza scrupoli bisognosi di carne da cannone. Ma mai, mai, ha o avrebbe alzato le mani su un poverino, per usare le sue parole.

E nemmeno su un coniglio, se è per quello. Figuriamoci. Una bestiolina. Quando ha trovato quel piccolo disgraziato morto nel parcheggio, c’è rimasto così male, così scosso. Era così malridotto, e poi l’idea che l’avessero tirato sotto e se ne fossero andati come niente, piantandolo lì... È per quello, spiega Dario, che è diventato pazzo a chiedere una scatola per tutto l’ufficio. Anche il povero coniglietto aveva diritto alla sua bara. Lo sappiamo, noi, che lui da bambino guardava tutti i cartoni di Bugs Bunny?

E cosa ci dice del database dei DNA? Be’, che lo sanno tutti che esiste e quindi non devi fare il furbo. I secondini l’hanno avvertito e straavvertito, ah sì. Una volta il suo compagno di cella gli aveva detto di non abboccare, perché lui ci aveva messo altri tre furti d’appartamento prima di farsi incastrare e, se fosse bastato il DNA di un capello caduto, poco ma sicuro che gli ci sarebbe voluto di meno. La volta seguente lui, Dario, alle guardie aveva risposto proprio così, riportando le argomentazioni del suo amico, e loro gli avevano caldamente suggerito di non credere a tutte le vanterie degli altri carcerati, che in galera tutti sono o innocenti come bambini o più diabolici di Landru, nel qual caso millantano decine di imprese vincenti, oltre a quell’unica sfigata per cui son stati presi. (Poi, be’, poi dopo qualche tempo, quasi per caso, gli avevano chiesto cos’è che gli avesse detto esattamente il suo compagno di cella riguardo agli altri due furti, e di lì a poco il suo compagno di cella era stato trasferito e lui non aveva saputo più nulla.)

E di Sonia? Cosa ci dice di Sonia, e di quello che lui ha fatto per lei?

Ci dice le stesse cose che ha detto a Petrini, naturalmente. Perché sono la verità, chiaro. Ci ripete, appunto, che Sonia sa che tutto quello che lui ha fatto l’ha fatto solo per lei. Ma quindi significa che è stata lei a chiedergli di portare quei pacchetti, quei regali? Certo che è stata lei. L’ha già detto, ieri. Solo che lui non riesce proprio a credere che lei volesse fare, o fargli fare, qualcosa di male. Dev’esserci un equivoco, una spiegazione. È quello che ha cercato di far capire anche ieri all’agente che l’ha interrogato: Sonia è un angelo e farla contenta non può essere nulla di cattivo – nel senso che un angelo non può mica chiederti di fare cose brutte, giusto?

E, naturalmente, no che non lo sapeva cosa c’era nei pacchi che lei gli dava da consegnare o spedire. Regalini, gli aveva detto lei. Cose belle. L’unico non incartato, di cui anche lui poteva vedere il contenuto, aveva dentro degli innocentissimi biscotti, quindi perché non crederle? Lei gli chiedeva di non sbirciare, per non gualcire il pacchetto, e lui obbediva, perché lui è il tipo che fa quello che gli dicono di fare, specialmente se a dirglielo è lei.

Mentre ci spiega queste cose, infervorato, emozionato dal fatto di essere capito, inizia a sanguinargli un po’ il naso.

Com’è successo anche ieri sera, durante l’interrogatorio.

Finito di parlare con Dario, Berganza e io ci guardiamo. È il momento che io prenda il telefono. Il momento della parte difficile. Cerchiamo Riccardo, che ancora non risponde. Cerchiamo Sonia, che non è in ufficio. Cerchiamo ancora il primo e poi la seconda e poi richiamiamo Maria-Occhialetti per darci una mano e dai e dai, alla fine, abbiamo fatto le otto passate.

Dobbiamo muoverci.

Quando finalmente risponde, Riccardo è divertito. «È così che funziona, quindi? Io rovino la cenetta romantica a te e tu la rovini a me?» In sottofondo sento musica d’atmosfera e occasionali clangori di stoviglie. Ristorante. «La tua però era il primo appuntamento, io e Sonia abbiamo cenato insieme già ieri, quindi io ho fatto più punteggio.» Scommetto le zie di Petrini che ha strizzato l’occhio a Sonia che lo sta ascoltando dall’altra parte del tavolo.

«Riccardo, ho bisogno di tutto il tuo talento di attore. Devi fingere che questa sia una seccante telefonata di lavoro.»

«Uh? Ma co...?»

«Riccardo, ti fidi di me?»

Pausa.

«Come si chiama il posto in cui state cenando?»

Altra pausa. Poi, garrulo: «Perché ti interessa? Sei gelosa?» e io sto già pensando che è un imbecille che non mi prende sul serio e che se crepa se lo merita, se non fosse che una frazione di secondo dopo lo sento attutire il microfono con la mano e dire piano a Sonia «La mia collega», come se io non dovessi udire. Dopodiché mi fa il nome di un ristorante, e lo dice come se se ne stesse vantando per punzecchiarmi.

E bravo Riccardo. Perché gigioneggiare in questo modo è esattamente quello che farebbe se al telefono ci fosse una sua collega dell’università.

Berganza ha sentito il nome del ristorante e fa segno a Petrini di cercarlo. Zona navigli. Ma certo. Navigli. Tutto quadra.

«Hai già mangiato e bevuto?»

«Ovvio che sì, grazie dell’interessamento. È appena arrivato il primo, e me lo stai già rovinando.»

«Ti sei mai allontanato dal tavolo, tipo per andare alla toilette o a fare una telefonata, mentre avevi del vino nel bicchiere?»

Pausa. «Uh. Sì. Almeno una volta, di sicuro.»

«Merda. Okay. Allora adesso smetti subito di bere. Se Sonia dovesse accorgersene, o insistere, prendi sorsi piccoli e fai attenzione a lasciare almeno mezzo bicchiere per quando arriveremo lì.»

«Va bene, va bene. Lunedì risolviamo. Che palle, però. Ecco, adesso sono teso. Queste rogne mi fanno sempre passare l’appetito.»

«Bravissimo. Ora aspettaci. Se Sonia vuole andarsene prima, trova il modo di restare lì. Capito?»

«Sì, lo so, lo so, che mi ami.»

Cretino.

Chiudo. Scambio uno sguardo d’intesa con Berganza.

E corriamo.