20.
ANTICORPI EMOTIVI

Enrico passa l’ora e mezza del viaggio di ritorno a far telefonate e quando la volante lo vomita sotto le Edizioni L’Erica – anzi, l’isolato prima, perché nessuno lo veda scendere da una volante e si faccia domande inopportune, e vaglielo a spiegare che nessuno farebbe comunque caso a lui – sia io sia Berganza percepiamo la qualità della nostra vita impennarsi di colpo. Per me non è insolito assistere al miglioramento della mia esistenza non appena Enrico mi si leva da davanti, ma vederlo succedere anche a Berganza mi fa sentire capita. Poi torniamo in commissariato a lasciare la macchina e rimaniamo un attimo da soli nel parcheggio. Sono le quattro e mezza, sta venendo buio, ma non così buio come solo una settimana fa.

Racconto al commissario cosa m’ha detto Riccardo in privato. Il commissario si fa pensoso. A me viene un dubbio. «Uh. Un attimo. Non è che la faccenda, insomma, dell’abbraccio...?»

«Non sono geloso, se è questo che ti stai chiedendo», sorride.

«Anche perché, diciamocelo. Il nuovo Riccardo sarà anche una persona migliore, ma è noioso come la digestione di un cenone.»

Berganza fa l’espressione di chi non si pronuncia per eleganza.

«Bene, è giovedì pomeriggio», sospiro. «Devo andare da Irma. Vuoi venire?» Berganza ci pensa, fa una faccia da “perché no?”, mentre io prendo il telefono e faccio un numero. «Ciao, Morgana, sono io. Sono un po’ in ritardo ma...»

«Sono Laura», dice la voce dal mio cellulare.

«Uh. Ciao, Laura.» Che strano. «Perché non ha risposto Morgana?» In verità, i motivi per cui non ha risposto Morgana possono essere mille e tutti innocenti: “Morgana sta finendo di suonare un pezzo a Irma/sta portando il vassoio con il tè per la merenda/è in bagno, ho visto il tuo nome sul display e ho risposto io”, per elencare solo alcune delle spiegazioni che potrei aspettarmi. Se non fosse che non me le aspetto affatto, perché quel “Sono Laura” è stato una microfrazione di tono troppo serio, e io l’ho notato.

Aggrotto la fronte.

Berganza mi sta guardando e aggrotta la fronte anche lui.

Laura esita, stavolta per un secondo buono. Un secondo intero è tantissimo tempo. «Ma no, niente... te lo spieghiamo poi quando vieni, semmai. Perché stavi dicendo che stai arrivando, vero?»

«Subito», taglio corto, e chiudo.

«La mia macchina è là», dice Berganza, facendo scattare il telecomando delle portiere.

Arriviamo da Irma e nel grande salotto bianco dai mobili di legno scuro, raggomitolata sul divano candido, incastonata fra Laura e Irma che in verità la osservano senza fare nulla, come se ogni tentativo di abbraccio consolatorio o di dialogo costruttivo fosse già stato tentato e dismesso, c’è Morgana che piange.

Ma piange proprio. A singulti. La faccia fra le mani e le scapole che sobbalzano. Ogni tanto si asciuga gli occhi col dorso della mano, come i bambini, il che sarebbe tenero da spezzare il cuore se sul dorso delle mani non le si stesse incrostando una poltiglia di kajal presaga di spettacoli raccapriccianti. Sospetto che, quando Morgana tirerà su la faccia, reagiremo tutti come Christine Daaé quando il Fantasma dell’Opera le si palesa senza maschera.

«Che diavolo succede qui?» esclamo, entrando.

«Qualcuno ha avuto una giornata meravigliosa», dice Irma con un sorriso beato che mi fa pensare, come prima cosa, che la demenza senile abbia sferrato il suo attacco finale. Magari Morgana sta singhiozzando per questo: ha chiesto a Irma cosa ne pensava dei pasticcini del giorno e Irma le ha risposto con un aneddoto del 1970.

«Dai, Morg, raccontaglielo tu», dice Laura dando un colpetto alla spalla dell’amica.

Morgana ulula.

«Ho il numero di un paio di psicologi della questura, se può servire», dice Berganza.

Morgana si decide e solleva la faccia. È persino peggio di quanto pensassi. Le si può fare il test di Rorschach sulle guance.

«Io ci vedo due germani reali che planano, e tu?» dico a Berganza, mentre Morgana annaspa per riuscire a parlare.

«Mi ha baciata!» urla alla fine, e la voce dopo tutto quel piangere è così gracchiante e sgraziata da oscurare quasi la poesia pazzesca di quello che, effettivamente, ha detto.

«Stai scherzando?» dico. «No, cioè – non che lo trovi impossibile, chiaro. Ma... ho capito bene? Ema ti ha baciata?»

Morgana riaffonda la faccia nelle mani e riattacca a imitare acusticamente una nave che salpa.

«Okay, okay. Da quanto tempo va avanti così?»

«Da quando è tornata dalle prove», dice Laura.

«È entrata, mi ha salutata, mi ha dato la notizia e poi ha iniziato», dice Irma.

«In realtà aveva cominciato già prima», spiffera Laura. «Davanti a Irma ha tentato di trattenersi, e invece...»

Morgana ha un altro singulto. Probabilmente sta cercando di esprimersi a parole per chiedere scusa o per giustificarsi, ma non lo sapremo mai.

Alzo gli occhi al cielo. «Va bene. Laura, sii gentile. Vai a prendere un bicchiere d’acqua, anzi, no, una bottiglia, perché quella laringe sarà ormai ridotta a una striscia di velcro.» Come Laura si alza, mi siedo al suo posto e frugo nella mia borsa alla ricerca di un pacchetto pieno a metà di salviette struccanti. Poi giro Morgana verso di me, le estraggo la testa dai gomiti e inizio a pulirle la faccia.

Morgana continua a piangere per tutta la durata dell’operazione, ma sempre più piano, come se la toeletta la placasse. Con i gattini funziona, dopotutto.

Berganza scambia con Irma un’occhiata partecipe, poi va a sedersi sul divano di fronte, non prima di avere posato una piccola carezza sulla testa della nostra sirena (per oggi nell’accezione non mitologica).

Al termine della ripulitura, ho di fronte la faccia di una bambina. Non che Morgana abbia mai dimostrato un minuto in più dei suoi quindici anni, anzi; ma questa è la prima volta da quando ne aveva undici che la vedo priva dello strato protettivo di bitume sulle palpebre, ed è come vedere un giocatore di football senza gli sbaffi neri sulle guance: indifeso e mancante di qualcosa, anche se quel qualcosa non è che gli servisse oggettivamente a un granché. Ecco, Morgana adesso è indifesa come non mai: sembra una specie di neonata, una marmocchia dell’asilo dal naso rosso e dalle cornee lucide come neon.

«Tieni.» A coronamento del processo, le porgo un fazzoletto di carta. Ci si soffia il naso a un volume che fa impallidire quello dei singhiozzi di poco fa. Sembra un elefantino che barrisce.

«Adesso racconta.»

«Abbiamo fatto le prove», inizia, la voce tremante, tutta scomposta, proprio lei che sa controllare un basso o un acuto come nessuno. «In questo periodo le facciamo due volte a settimana perché sabato avremo il nostro primo concerto da headliner al Quicksand e a seconda di come andrà imposteremo il concerto di giugno, nel senso che a giugno abbiamo il concerto di fine anno a scuola ma tra poco iniziano le interrogazioni e Ema poi avrà la maturità e quindi dobbiamo darci dentro già adesso finché...»

«Morgana, non andare fuori tema.» Quando è agitata, la mia piccola secchiona dark risponde solo a stimoli precisi, perentori, e possibilmente legati al gergo scolastico.

Infatti si raddrizza subito. «Oggi gli ho fatto sentire l’ultima canzone, quella che abbiamo scritto per te... per voi.» Nel dire “voi” si rende davvero conto per la prima volta che anche Berganza è presente. Non finirà mai di stupirmi: quando non vuole farsi notare, il commissario sa veramente non farsi notare. Dev’essere un Impermeabile dell’Invisibilità, quello. Percepisco Morgana impietrirsi dall’imbarazzo all’idea di avere dato spettacolo davanti a Berganza. Se la conosco – e la conosco – deve soppesare per un momento la prospettiva del seppuku lì, sul posto, sul parquet di Irma, con il coltello della torta della merenda. Per fortuna il commissario la sta guardando come sa fare lui, con l’aria più pacata e imperturbabile del mondo, e Morgana si consente di continuare a vivere. «C’erano anche gli altri della band, quando l’ho suonata, ed è piaciuta a tutti... Hanno detto che era una figata avere finalmente in repertorio una canzone d’amore che però non fosse proprio d’amore d’amore, così al concerto le coppiette avrebbero potuto pomiciare ma noi non avremmo perso la nostra reputazione di band hard rock che...»

«Morgana. Tema.»

«Sì, sì, giusto, scusa.» Deglutisce. «Poi abbiamo finito le prove e tutti se ne sono andati. Io ho tardato apposta a mettere via la chitarra. Anche Ema fa sempre così. Sarà un mese ormai che usciamo sempre per ultimi. Tanto abbiamo l’abbonamento mensile e non dobbiamo fermarci a pagare ogni vol...»

«MORGANA

«Siamo usciti e come al solito siamo arrivati all’incrocio a cui ci salutiamo, poi io giro a destra verso casa mia – cioè nostra, insomma mia e tua, Vani – e lui tira dritto verso la sua. Stavolta rimaniamo a chiacchierare un pezzo e nessuno dei due ha voglia di andare via, così a un certo punto lui fa finta di niente e inizia ad avviarsi nella mia direzione, la mia, non la sua!, ma disinvolto, come se fosse la cosa più normale del mondo, e intanto parliamo, parliamo del concerto, parliamo di come vengono i pezzi, parliamo delle cose di cui parliamo sempre, e io non ho il coraggio di interrompere la conversazione e chiedergli come mai sta camminando con me verso casa mia, perché ho paura, capisci, Vani?, ho paura che se lo dico ad alta voce si spezzi qualcosa e lui, che ne so, ci ripensi, o si imbarazzi, o pensi che mi dà fastidio, o che lo sto, sai, tipo, prendendo in giro, o facendo la civetta...»

Stavolta non la interrompo.

Prende fiato. Un sacco di fiato. Mi stupisco che non si gonfi come un salvagente. «Alla fine sotto casa mia – nostra – ci arriviamo davvero. Mi fermo, lui si ferma, continuiamo a parlare, ma si vede che ormai stiamo parlando tanto per fare, perché ci piace parlare l’uno con l’altra più che perché ci stiamo dicendo cose davvero interessanti. Insomma, a chi frega del fatto che Giò ha imparato a fare il riff che non gli veniva un mese fa. E così a un certo punto le cose da dire le finiamo. Cioè, no, ne avremmo a milioni di cose da dirci, ma non così, non attaccate al discorso superficiale che stiamo facendo, capito?, e il discorso che stiamo facendo però appunto si esaurisce e allora non c’è più niente da fare, devo dirlo per forza: “Be’, io sono arrivata”. E poi aggiungo: “Grazie per avermi accompagnata.” E lui mi sorride. E io non so più cosa dire ma voglio essere gentile e così dico: “La sai la strada per tornare a casa tua, vero?”. Pensa che cretina! E lui ride e dice: “Sì, be’, certo che sì!”, e io penso che sono un’imbecille e sento che la faccia mi va a fuoco e però lui ha riso!, ma non riso di me, eh, ha riso in un modo carino e quindi io spero, spero tantissimo che non mi abbia presa per una deficiente, e...»

Riprende fiato, il che non le viene facilissimo perché a “cretina” ha rificcato la faccia fra le mani, e io ora la sto guardando in una maniera così intenerita che temo potrebbe essere ancora più lesiva della mia reputazione di quella in cui guardo il commissario.

Fatto sta che Morgana risolleva la faccia dalle mani come un tuffatore che riemerge, inspirando per l’ennesima volta fortissimo, deve avere uno strappo che perde da qualche parte perché non si capisce dove possa mai tenerla, tutta quell’aria lì, e parla tutto d’un fiato prima che l’imbarazzo le decurti di nuovo l’ossigeno o la sua faccia incandescente esploda come un fuoco d’artificio. «...E insomma gli dico: “Oh mio Dio, ma certo che la sai, scusami, volevo solo dire una cosa gentile e m’è uscita ’sta cazzata”, e lui ride ancora, e io gli dico “Be’, allora ciao, buona serata, ci vediamo domani a scuola” e lui mi guarda un attimo – Vani, devi immaginartelo, mi dice: “A domani”, e poi si blocca un momento, come un fermo-immagine, e poi si china e mi bacia. Veloce. Ma non troppissimo veloce. E poi se ne va senza dirmi più niente, anche se si gira da sopra la spalla a farmi un ultimo sorriso, e io – che cretina! – quel sorriso lì lo vedo solo di sfuggita perché ho chiuso gli occhi e li riapro un attimo troppo tardi e così lo vedo praticamente solo di schiena che va via e però ha le orecchie rosse, Vani, è possibile che un ragazzo arrossisca anche con le orecchie? Ma quindi quando nei libri dicono “arrossì fino alle orecchie” non è un modo di dire, è proprio vero

Non rispondo. C’è questo attimo di silenzio surreale, eterno e immobile, in cui tutti nella stanza stiamo zitti a lasciar depositare il racconto di Morgana. Morgana che ho conosciuto quando aveva sette anni e oggi ha ricevuto il suo perfetto, poetico, primo bacio dal primo ragazzo di cui si sia mai innamorata.

«Okay, vieni qui», le dico. Apro le braccia. Morgana ci si getta dentro e mi stringe fortissimo e io abbraccio lei. «Be’, Morgana, da ascoltatrice esterna e imparziale, posso dirti che mi sembra che sia stato uno dei migliori primi baci della storia», dico alla cima del cranio della mia micro amica, facendole pat pat sulla schiena. «Ti sei comportata benissimo – anche il tocco di goffaggine è stato molto tenero, sai?, e probabilmente è stato quello che ha dato ad Ema il coraggio di farsi avanti, quindi puoi smetterla di darti della cretina. Complimenti, ti sei appena portata a casa un meraviglioso primo bacio da ricordare per tutta la vita. Alla luce di tutto ciò», aggiungo, scostandomi un attimo in modo da vederla in faccia, «si può sapere perché diavolo piangi?»

«È quello che le abbiamo chiesto anche noi!» dice Irma facendo spallucce. A ottantadue anni, Irma ha raggiunto una visione della vita molto chiara: per le cose belle, si ride; per quelle brutte, si piange, se non fosse che piangere non serve a un accidente, quindi tendenzialmente non si piange nemmeno per quelle ma le si incassa con classe e una tazza di tè.

«Cioè, è una cosa bella!» le fa appunto eco Laura, che dal canto suo avrà quindici anni ma quanto a spirito pratico non è seconda a nessuno.

Morgana alza la faccia. Le sono tornati gli occhi lucidi. «Perché ho paura, Vani!» Mamma mia. Avrà dodici anni al massimo. Undici. Dieci. «Non riesco a crederci. È tutto così... È tutto...»

«...troppo bello per essere vero», concludo per lei.

«Esatto! Tu lo sai! Tu mi puoi capire!» esclama. «E non è solo questo. Non è che penso che sia troppo bello per essere vero e quindi ho paura che debba finire tutto. Io so che finirà. È questo il punto, ed è orribile!» Le sta tremando tutto l’emisfero sud della faccia. «Siamo a metà febbraio, Vani. E poi ci sono marzo, aprile, maggio, e un pezzettino di giugno, e a giugno sarà tutto epico e straordinario e faremo il concerto più meraviglioso della nostra vita davanti a tutta la scuola, e poi...» Si morde il labbro. «E poi ci saranno le vacanze ed Ema avrà la maturità e dopo l’estate andrà a fare l’università non so nemmeno bene dove ma mi sa che vuole fare la scuola per interpreti, c’è la scuola per interpreti e traduttori a Torino, Vani? Perché io mi sono informata e mi sa che c’è solo a Trieste o a Forlì, e sono lontanissime!, e cambierà tutto, Ema non ci sarà più, la band smetterà di esistere, io ci scommetto, perché anche Dado e Giò vanno a fare l’università e già lo sappiamo che sarà un casino tenere in piedi la baracca, solo che non ci vogliamo pensare, suoniamo e pensiamo già al concerto più leggendario della nostra storia ma a cosa succederà dopo non ci vogliamo pensare, e io è da quando suono con loro che ci penso sempre ma allo stesso tempo non ci voglio pensare, ma adesso, Vani, adesso che Ema mi ha baciata, che so che possiamo stare insieme, adesso che questa cosa è diventata concreta e reale e vera... io come faccio a lasciare che mi scappi dalle mani?»

E ricomincia a piangere.

Solo che adesso anche Laura e Irma annuiscono come a dire “be’, effettivamente”. Per la verità, Laura ha proprio uno sguardo da bassotto accorato e apre la bocca almeno una decina di volte alla ricerca di qualcosa di consolatorio da dire. Se non fosse che non c’è.

Perché Morgana ha ragione. Gli amori dell’ultimo anno sono una merda, fine del discorso. Le paure, le anticipazioni, i sospetti, sono tutti veri.

La abbraccio di nuovo e le appoggio il mento sulla testa. Morgana si accoccola e non sa che l’ho fatto perché ho bisogno io di un sostegno per il mio cranio zavorrato dai pensieri.

«Dai, Morg... da qui a metà giugno sono quattro mesi, sono circa centoventi giorni», dice Laura, esitando. «Centoventi giorni sono tantissimi, sono un terzo di un anno...» Morgana continua a piangere sommessamente, perché non è il tipo che trova la risposta nei numeri. Anche se Laura ha una sua logica, specialmente visto che un quadrimestre, a quindici anni, dura quanto quattro anni sopra i trenta – poi diciamo dei cani. Così le lancio uno sguardo che vuol dire “bel tentativo, comunque; per quel che può valere, io sono d’accordo”, che la gratifica un po’.

«E poi non è mica detto che Ema parte», ci riprova, incoraggiata.

«E se invece sì?» geme Morgana.

«Magari potete avere un rapporto a distanza...»

«Bella roba! E poi, ma dai, chi conosci che ci riesce?»

«Oh, senti, non è nemmeno detto che stiate insieme fino ad allora, eh!»

«E questo in che modo dovrebbe consolarmi?» mugola Morgana, sollevando per un istante la testa. “Ah già”, dice la faccia di Laura.

«Ma forse sarebbe meglio!» aggiunge Morgana, fissando nel vuoto, drammatica come Antigone. «Forse sarebbe meglio non iniziare nemmeno qualcosa che tanto sai già che non potrà che finire di merda!» Incrocia il mio sguardo. «Tu! Tu come hai fatto, Vani?» Ha l’aria di avere appena avuto un’illuminazione. «Tu l’avrai avuto, un fidanzato, l’ultimo anno del liceo – o un fidanzato che era all’ultimo anno del liceo. Ci sarai passata. Vero? E come hai fatto, tu?»

La mocciosa ci ha preso. Ci sono passata anch’io, eccome. E mi è anche capitato di ripensarci di recente – appena qualche giorno fa, guarda un po’, prima che la notte di San Valentino prendessi l’iniziativa più importante della mia vita e andassi a bussare alla porta del commissario. Ci sono passata, e ho fatto esattamente ciò che ha appena ipotizzato lei: ho troncato tutto prima che arrivasse il dolore, eutanasizzato la storia appena udita la diagnosi, pensato che già che ci sarebbe stato da sopportare il distacco tanto valesse farlo subito, senza chissà quali palle a far perdere tempo.

Questo, in tutta onestà, dovrei rispondere a Morgana.

Solo che no.

«Morgana, se non iniziassimo nemmeno tutte le imprese che hanno una forte, diciamo pure fortissima, diciamo pure infallibile probabilità di finire di merda, dovremmo suicidarci appena nati.»

Morgana mi guarda.

«Perché capisci, visto che alla fine dobbiamo morire comunque, tanto varrebbe non...» Morgana continua a fissarmi smarrita, come se davvero le stessi suggerendo di bere della cicuta. Quando sono in fase di picco emotivo, questi adolescenti perdono lo humour. «Ho capito, niente paradossi, non è il clima. Provo nella nostra lingua. Rossana mollerebbe Cristiano appena saputo che andrà in guerra. Romeo sfreccerebbe da Angelina appena scoperto che Giulietta è una Capuleti. Jay Gatsby si leverebbe dalla testa Daisy appena appreso che si è sposata con Buchanan. E Armando Duval col cavolo che si riavvicinerebbe a Margherita Gauthier proprio quando viene a sapere che ha la tisi.»

Morgana fa un debole sorrisino. «Però forse avrebbero fatto bene sul serio. Non mi sembra che abbiano avuto vite tanto allegre.»

«Noi però ci saremmo perse dei gran libri.»

«Devo soffrire per scrivere un’autobiografia e allietare migliaia di lettori?»

«Con un’autobiografia è tanto se ne allieti qualche decina, le autobiografie non vendono. E comunque no. Scherzi a parte. Devi farlo per te. Perché un giorno sarai tu a rileggere con la mente il libro della tua vita e non ti dispiacerà aver rischiato e anche sofferto; anzi, sarai grata alla te stessa di quindici anni per averlo fatto.»

Okay. Questa è difficile da spiegare. Morgana mi guarda e so cosa vede: vede la tizia che passa indenne attraverso la vita e ha sempre la soluzione per soffrire di meno. Vede il vampiro incontaminato dalle emozioni che ha sempre una frase sarcastica con cui prendere le distanze dal mondo e dagli umani tormenti. Quanto mi invidia, per quello che vede. E quanto sbaglia. E quanto è ora, una volta per tutte, che io per prima riesca a farglielo capire.

«Laura ha detto bene, Morgana. Da qui a quando il Fato potrebbe presentarti il conto ci sono più di cento giorni. Cento giorni sono cento possibili ricordi indelebili. Cento momenti nei quali ti metterai alla prova, imparerai un sacco di cose sui tuoi modi di agire e reagire, su cosa ti piace e cosa no, su che persona vorrai essere, su cosa potrai fare meglio la volta dopo. Finirà male? Molto probabile. Non sono il tipo che indora la pillola, lo sai. I rapporti a distanza non funzionano, e che un ragazzo all’università continui a stare insieme alla sua fidanzata che va ancora al liceo è un caso che nelle statistiche si colloca sotto gli avvistamenti delle tigri albine. Ma poi la supererai, andrai avanti, arriverai alla mia età, ripenserai alla te stessa di quindici anni, e allora la ringrazierai per essersi buttata nella vita a farsi le ossa senza delegare a una Morgana più adulta. Perché, vedi, certe cose sono come gli orecchioni: ci devi passare da piccolo per uscirne immunizzato, e se diventi adulto senza esserteli beccati devi solo sperare che non ti tocchino mai, o a quel punto sì che ti faranno male sul serio.»

Morgana mi guarda serissima.

«Immunìzzati, Morgana. Fatti una full immersion di sperimentazioni emotive per poco più di centoventi giorni, goditela e poi piangici su come tutti e incassa e stai a guardare come funziona man mano che ne esci. Impara a non avere paura di queste cose. Dopodiché avrai un sacco di ricordi di cui a poco a poco ti resterà solo il bello, e degli anticorpi che ti faranno dire: “Non sono morta quella volta, non morirò la prossima”. E magari...» Mi mastico un labbro. «E magari non dovrai crepare di terrore, tipo, vent’anni dopo, il giorno in cui deciderai finalmente di esporti con qualcuno a cui tieni davvero.»

Il commissario mi sta guardando da dietro la testa di Morgana.

In un modo che mi fa venire i crampi, e anche da sorridere, perché chi l’avrebbe mai detto che la qualità della mia vita per migliorare avesse bisogno di crampi.

«Secondo me devi andarci a letto», dice Irma. Tutti ci giriamo verso di lei, non propriamente scandalizzati ma solo per una serie di casi fortuiti: io perché a me Irma non causa mai scandalo, Berganza perché a Berganza niente causa mai scandalo, e Laura perché Laura a giudicare dalla faccia con la frase di Irma ci s’è trovata subito d’accordo. «Sul serio», insiste Irma, composta. «Tanto prima o poi dovrà succedere, no? E allora tanto vale che ne approfitti perché succeda con questo giovanotto che mi sembra tanto un bravo figliolo e, se posso dire, dalle foto anche parecchio bellino.»

«Ma Irma! Ho quindici anni!» si autocensura Morgana, con la faccia tutta rossa, però almeno adesso per un’altra cosa.

Ridiamo (tutti tranne Irma, ovviamente).

Morgana si rigira a guardarmi. È un pochino più serena, adesso. «Allora lo faccio? Vado? Gli parlo, gli dico che se lui ci sta ci sto anch’io?»

«Non hai niente da perdere.»

Annuisce, lenta.

«E poi, diciamocelo», concludo. «Se t’avessi detto: “Sì, hai ragione, tronca tutto subito, è molto meglio”, saresti stata più felice?»

«Neanche per sogno», ammette la nanerottola. «Adesso voglio almeno un secondo bacio!»