7.
DEFINIZIONI

iTalia

Italia, giorni nostri. Lisa Salis, ventiquattro anni, è una brillante neolaureata all’Accademia di Belle Arti che non trova lavoro. Dopo mille delusioni decide, un po’ per forza un po’ per caso, di sfruttare un talento innato che possiede in misura quasi sovrannaturale: l’abilità di creare dei falsi pittorici credibilissimi. Il che la introduce in fretta nel giro losco delle aste e del collezionismo privato. Anni dopo, la ritroviamo divenuta ormai una donna dura, sexy, abiti neri e rossetti scuri, che si destreggia fra commissioni e perizie richieste da trafficanti e altri personaggi senza scrupoli. Il mercato dell’arte in Italia è più florido e variegato che in tutto il resto del mondo e Lisa è al crocevia di una serie di traffici internazionali. Un giorno, tuttavia, l’acquirente di un suo Modigliani – evidentemente creduto autentico – viene trovato morto. Nel corso dell’indagine sull’omicidio, Lisa viene individuata e sottoposta a interrogatorio dal commissario Prospero Raimondi, che però capisce subito che la ragazza non solo è innocente, ma che con la sua conoscenza dell’ambiente e le sue competenze tecniche può aiutarlo a risolvere il caso. In questo episodio e nei successivi della serie, o creando falsi che facciano da esche, o smascherando falsi altrui, o infiltrandosi con il commissario nel mondo eterogeneo – ora sacro ora opulento – dell’arte italiana, Lisa diventa la sua perfetta partner nelle investigazioni come nella vita.

«Non ci posso credere», dico.

Che, fra l’altro, ultimamente sembra il mio motto. Potrei farmici stampare delle magliette.

Appallottolo il foglietto su cui ho appuntato il soggetto dettatomi da Dark in versione Santa Teresa d’Avila, in piena estasi creativa. La tentazione di buttarlo fuori dal finestrino è altissima, ma resta il fatto che io su questa roba devo lavorare, così lo affondo nella tasca del mio impermeabile, dove si piazza sotto la cintura di sicurezza a pigiarmi sulle gonadi non solo metaforicamente, con la sua forma a pallocco che comunque non si merita di essere lisciata.

Il commissario guida e scuote a testa.

«Ispiratori di un romanzo di quel pagliaccio», sospira. «Ma tu dimmi. Roba da pazzi. E se non ho capito male io dovrei somigliare a Robert De Niro.»

«Tu somigli a Robert De Niro», dico. «Sono io che mi rifiuto di diventare una dark lady ipersexy in minigonna di pelle nera.»

«Tu sei una dark lady ipersexy in minigonna di pelle nera.»

Crampo.

«Quello che non mi va giù è che abbia tirato in ballo proprio me», bofonchio. «Cioè, me me. La mia, boh, identità. Capisci? Nah, non puoi capire perché mi sto spiegando di merda.» Sono confusa. Io odio essere confusa. Sono confusa perché c’è qualcosa, in fondo alle mie viscere, che suppura e si agita e mi turba profondamente. Io odio essere turbata. E odio odiare così tanto essere confusa e turbata. Vorrei che tutto mi scivolasse addosso. Una volta mi veniva meglio. Ma le cose ti scivolano addosso quando puoi permetterti di non prenderle sul personale, e mi chiedo cosa ci sia di più personale di questa faccenda.

«Fammi provare a indovinare.» Berganza si gira appena a guardarmi, mentre l’auto si inerpica su per la collina oltre il Po. Inizia a fare buio, piazza Vittorio si accende di lampioni dietro al mio finestrino. È uno spettacolo, ma al momento non me ne frega un accidente. «Non ti va giù perché fino a oggi nulla ha fatto più comodo a Enrico della tua mancanza di identità. Il fatto che tu fossi ovunque ma senza mai pretendere di metterci la faccia. E anche a te, fino ad oggi, è sempre andata benissimo così. Ma adesso che Enrico ha bisogno di farsi salvare il culo nella maniera più eclatante di tutte, ecco che di colpo da te pretende proprio quello: la tua faccia, la tua ispirazione, il tuo personaggio. Quello che sei, non solo quello che fai. E questo ti fa sentire esposta, radiografata, e soprattutto fregata, perché questo coinvolgimento personale era del tutto fuori dai patti.»

Lo guardo.

Sbatto le palpebre.

Torno a guardare di fronte a me. «Sì, be’, a grandi linee potrebbe essere più o meno quello che intendevo.» Poi aggiungo a voce più bassa: «Sia chiaro che questa cosa, questo trucchetto dell’entrarmi nella testa, lo lascio fare solo a te».

Berganza ridacchia e continua a guidare.

«Eccoci.» La macchina del commissario sterza dentro il cancello di una villa con parco. Casa Giay Marin: la semileggendaria dimora della più celebre casata di stilisti torinese, oggi abitata, insieme a un pugno di domestici, da Irma Envrin, ottantadue anni e un principio di demenza senile che la rende la creatura più imprevedibile di mia conoscenza – e, di conseguenza, una delle poche interessanti rimaste da frequentare su questa desolata crosta terrestre.

Irma è stata la cuoca dei Giay Marin per decenni; oggi, dopo una serie di vicissitudini, è rimasta l’unica occupante, potremmo quasi dire erede, della villa. Io lo so perché durante quelle vicissitudini, be’, c’ero: incaricata di intervistare Irma per scrivere un libro sui Giay Marin, ho finito per considerarla molto più di uno dei bidimensionali autori effimeri a cui presto periodicamente la voce. Il risultato è che da qualche settimana, insieme a Morgana, la vado a trovare ogni lunedì e giovedì pomeriggio. Oggi è lunedì pomeriggio ed è per questo che il commissario è venuto a prendermi: per presentarci insieme, ufficialmente, da lei.

Di presentare Berganza ai miei non mi frega un cazzo. Presentarlo a Irma è come andare a fare richiesta ufficiale per il certificato di nascita della mia nuova vita.

«Okay», dico mentre attraversiamo il parco ed entriamo nel villone. «Morgana e Laura – sai, la sua amica del cuore – sono probabilmente già qui: devono essere arrivate un’oretta fa con l’autobus. Devo avvertirti: potrebbero essere un filo su di giri. Morgana, in particolare, lo sai com’è fatta: si atteggia tanto a streghetta cinica ma poi piange sul finale dei cartoni della Disney. Potresti trovarla un pochino sopra le ri...»

«SORPRESA!» Il boato ci investe nell’esatto istante in cui la punta del mio anfibio varca di un centimetro la soglia della sala, nemmeno avesse fatto scattare una fotocellula. Voci da soprano più una fastidiosa frequenza assordante come di clacson incazzati in piazza Derna alle otto di mattina. Dietro all’onda sonora, quando la realtà smette di vibrare, c’è una cosa rosa. Grande. Che ingombra tutto il nostro campo visivo. Le mucose intrabuccali della balena come devono essere apparse a Pinocchio mentre veniva inghiottito. Sbatto le palpebre. Metto a fuoco. Non sono mucose. È una torta gigante.

«Tanti auguri alla nuova coppia più bella del mondo!» strilla una doppia voce mal armonizzata e dal registro acutissimo. Da dietro la torta sporgono le facce di Morgana e Laura, che con la mano libera – con l’altra stanno reggendo insieme il vassoio – si rimettono in bocca due trombette di Menelik (ecco cos’erano, i clacson).

Poi grazie a Dio finalmente tacciono, sorridenti e saltellanti come comprimari di Winnie the Pooh.

Mi viene da vomitare.

«Hanno insistito», dice Irma alle loro spalle.

Oltrepasso Morgana senza dire nulla e raggiungo Irma. Sono ancora scossa. «Cerbottane di sedativi. Quelle che si usano per i pachidermi. Appena usciamo di qui, vado a ordinarne una fornitura su internet.»

«Oh, su, su, non fare sempre la scontrosa.» Irma mi abbraccia. È bianca e ossuta e sa di borotalco. «Sono solo contente per voi. Anch’io, fra l’altro, eh. Anche se quella tortaccia che hanno voluto ordinare in pasticceria sarà immangiabile. Questa moda della pasta di zucchero io proprio non la condivido.» Nel frattempo anche Berganza le si è avvicinato. «Commissario», sorride Irma. Ogni tanto, quando fa così, quando saluta gli ospiti che le piacciono e la sua testa è in giornata buona, dietro la filigrana di rughe riaffiora la bella signora che è stata decenni fa. Una cuoca, ma abituata a trattare con divi del cinema e ministri e tutti gli ospiti vip di casa Giay Marin. «Mi dicono che ci siamo già conosciuti, è così? La mia memoria non è più quella di una volta... Uh, no, aspetti.» Trattiene la mano di Berganza fra le sue, protende di colpo la faccia e si mette a studiarlo a una distanza da visita oculistica. Berganza non riesce a non ritrarsi un pochino. «E invece sì che mi ricordo di lei. Eccome. Alla festa di Natale. Ma certo. Gesù, tanto varrebbe crepare, se non mi ricordassi più manco i begli uomini.»

E così pure il commissario ha avuto la sua dose di imbarazzo. Bene. È proprio vero che siamo una coppia alla pari.

Mi siedo sul divano bianco. «Adesso pensate che potremmo parlare di qualcos’altro che non sia il fatto che ci siamo messi insieme?»

«No! Non ho ancora finito!» si affretta Morgana. La guardo come Medea deve avere guardato i suoi figli: “vi ho voluto bene, ma adesso dovete morire”. Morgana non coglie. Piuttosto, sfodera un foglio di quaderno a righe, coi buchi. «Vani, sono ancora in debito con te per una cosa. Ti ricordi la nostra conversazione di ieri pomeriggio? Temo di averti dato l’impressione di avervi trovati una coppia bella, sì, ma... uh, strana.» Ci sbircia da dietro il foglio con quei suoi occhioni tutti pasticciati di matita ai quali non si riesce a dire di no. «Così ho fatto un elenco di celebri coppie della letteratura ancora più strane della vostra, ma che funzionano, come dimostra il fatto che siamo ancora qui oggi a parlarne.»

«Veloce, però, che voglio fare merenda», chiosa Laura, il cui spirito pratico è fonte per me di costante sollievo.

Mi abbatto sullo schienale come se mi avessero sparato. Tanto Morgana mica aspetta un mio okay per iniziare a leggere. Alla mia destra, Berganza fa una microrisata che sento solo io.

«Romeo e Giulietta... Il suo nome non c’entra, commissario, lo giuro. Famiglie in lite, sappiamo la storia, insomma, le ultime persone che avrebbero dovuto mettersi insieme. Eppure sono diventati l’emblema dell’amore che supera gli ostacoli. Sì, be’, questa era banale.

Cyrano e Rossana. Lui bruttissimo, lei la più bella di tutte. Giusto per essere chiari: non sto paragonandovi esteticamente a loro, eh. Commissario, lei non è affatto bruttissimo! Vani, questo però non significa che tu non sia la più bella di tutte! Dicevo: nessuno li immagina insieme, pensano tutti – anche Rossana – che il suo compagno perfetto sarà Cristiano, bello quanto lei, ma invece a unirla a Cyrano c’è qualcosa di più profondo e duraturo.

Amy e Laurie. Ah, questa so che ti piace, Vani! Anche se io questo tuo parteggiare per Amy mica l’ho mai tanto capito, sai. Io sono più il tipo da Jo – ma okay, ne abbiamo già parlato. Anche in questo caso, tutti giurerebbero che la coppia predestinata sia un’altra, e invece sono questi due, imprevedibilmente, a sposarsi e fare figli. Cioè. Uh. Non vorrei mettervi a disagio. Non volevo insinuare che dobbiate sposarvi e fare figli, eh. Ma neanche che non dobbiate! Mi piacerebbe un sacco diventare zia... Okay, okay, vado avanti, meglio. Vani, non guardarmi così.

Jane Eyre e Edward Rochester. Una donna colta e indipendente che fa breccia nel cuore di un uomo molto più... Uhm. Maturo di lei.

E infine. Aragorn e Arwen. Lo so, questa può sembrare ridicola. Ma: sia Arwen sia Aragorn appartengono a razze per cui l’età non conta come per noi umani, e lui ha cose rischiose e importanti da fare, missioni da portare a termine, persone da proteggere, e lei, be’, lei lo aiuta, lo capisce, gli dà conforto e veglia su di lui. Quindi, ecco. Aragorn e Arwen.»

Morgana smette di leggere.

Berganza si gira verso di me con un mezzo sorriso fra l’ironico e l’affettuoso. «Siamo Aragorn e Arwen?» mi chiede piano. Io mi nascondo la faccia fra le mani. Sono scivolata progressivamente così giù, lungo il divano, che sembro un liquido versatoci sopra, e le mie scapole sono all’altezza della giuntura sedile-schienale.

«Morgana, ti ringrazio davvero per questa ricerca che ha nobilitato sia noi sia te, ma ho la sensazione che la mia signora, qui, stia sfiorando l’autocombustione per l’imbarazzo. Che ne diresti di tagliare quella torta?»

Morgana la prende come un’approvazione e corre a recuperare piatti e posate.

Non credo che i miei crampi allo stomaco mi permetteranno di mangiare un tubo.

immagine di un fregio

Giugno 2008.

A Torino fa caldo. È appena finito un temporale e la città odora di asfalto bollito. Casa Sarca sta a un piano alto ma il puzzo satura lo stesso il salotto, attraverso le finestre aperte. Che schifo, l’estate in città. Per come la vede Vani, è come abitare per tre mesi in un’immensa ascella.

L’unica cosa buona è che la città è vuota.

Sarebbe domenica pomeriggio ma a causa del temporale nessuno è uscito a fare un giro. Michele ha paura dei temporali perché i temporali estivi spesso significano grandine e grandine significa che la macchina non può rischiare di uscire dal garage. Di conseguenza, Lara è stata lasciata a marcire sul divano, dal quale sta finendo di guardare in televisione Ragione e sentimento, mentre il padre in poltrona legge il quotidiano del giorno prima e la madre armeggia in cucina.

A dirla tutta, Lara è stata lasciata a marcire sul divano anche per altre ragioni collaterali, tipo una litigata avvenuta per motivi irricostruibili due sere prima e non ancora veramente superata, che ha ridotto di molto la voglia di lei e Michele di vedersi in tempi brevi.

Si sentono le chiavi nella toppa ed entra Vani. Vive da sola da un pezzo, ma di tanto in tanto la madre pretende che si faccia vedere, quindi, se proprio deve succedere, Vani ne approfitta per scroccare una cena. Si affaccia in salotto, lo sguardo le cade sullo schermo e le sue corde vocali emettono involontariamente un verso di disapprovazione.

«Oh mio Dio! Sentiamo! Sentiamo che cos’ha da dire adesso la sorella intellettuale!» sbotta Lara.

«Ciao anche a te», dice Vani, che già sta calcolando mentalmente il minutaggio minimo per consumare una cena e battersela.

«Tanto lo so che pensi sempre merda di tutto quello che guardo io», insiste Lara, petulante.

A Vani girano i coglioni. Lara la deve finire di scaricare ogni frustrazione su di lei solo perché per tutta la loro infanzia e adolescenza l’ha trovato comodo. Non è colpa di Vani se Lara ha dei problemi con Michele ed è stizzita con l’universo. (Nessuno le ha rivelato che Lara sta avendo problemi con Michele, ma a Vani non serve che qualcuno glielo dica: conosce la psiche umana, conosce Lara, conosce Michele, conosce Lara e Michele insieme.) Poi, insomma. Di problemi con Michele Lara ne ha avuti sei mesi prima, ne ha adesso, ne avrà fra altri sei mesi. Tanto, Vani lo sa, quei due si sposeranno e figlieranno e continueranno ad avere problemi a cadenza bisettimanale. Se Lara avesse un minimo di memoria storica e capacità proiettiva, lo capirebbe anche lei e la smetterebbe di farne una tragedia ogni volta. Poche cose rompono le palle a Vani quanto i problemi artificiali che si fa la gente: la vita è già abbastanza difficile così anche senza 1) cercarsi un fidanzato idiota, 2) se proprio non si è potuto fare a meno di raccattarsene uno, cadere dal pero ogni volta che lui si dimostra un idiota.

«Okay, visto che hai chiesto. Nel libro la sorella maggiore ha diciannove anni», dice Vani. «Qui, con tutto il rispetto per la bravura dell’attrice, hanno dato la parte a una cariatide.» Ancora le fa venire l’orticaria il ricordo dell’Amleto interpretato da Kenneth Branagh: il biondino tormentato e ribelle del suo immaginario mutato in un quarantenne coi capelli di Annie Lennox. Attori di teatro e lettori con una capacità di visualizzazione troppo vivida: le due categorie che non andranno mai del tutto d’accordo con il cinema.

«E ti pareva che l’enciclopedia vivente non aveva letto il libro», rogna Lara.

«Dieci minuti ed è pronto», annuncia madre Sarca dalla cucina. Vani finisce il calcolo ed evince che fra trentacinque minuti dovrebbe poter essere di nuovo sul pianerottolo. Il pensiero le dà un vago conforto.

Siccome non ha altri posti in cui aspettare la cena e sedersi già di là a tavola significherebbe esporsi a una conversazione con la madre, Vani ritiene che la scelta più prudente sia depositare borsa e impermeabile e andarsi a collocare all’altro capo del divano, con Lara, davanti alla TV. Siamo al punto in cui Marianne, superate le turbolenze estrogeniche dell’adolescenza, si decide ad accettare la corte dell’anziano colonnello Brandon.

«Ma no, che schifo, è un cesso», sbuffa Lara.

Lara ha una psicologia molto elementare. Vani è un asso a entrare nella testa della gente, ma non le ci vuole chissà che superpotere per intuire che Lara, sorella minore frivola e prosperosa, abbia in centoventi minuti di film sviluppato un’identificazione con il personaggio di Marianne.

«Ma Willoughby è un coglione», dice Vani.

«Ma il colonnello è brutto e vecchio.»

«Non è brutto. E nemmeno così vecchio. Nel libro ha trentacinque anni.»

«Trentacinque e lei diciassette! Come fai a metterti con uno con così tanti più anni di te, ma dai!»

«Comunque è un brav’uomo.»

«Eh, un brav’uomo, un brav’uomo, che palle!»

Già. Cosa t’aspetti da una che perde la testa per i tamarri cafoni.

«E comunque, per tua informazione, anche Michele è un brav’uomo!» dice Lara.

Vani non ha detto niente.

Vani guarda Lara e il suo sguardo dice esattamente quello: “Io non ho detto niente”. Che sarebbe a dire: “Hai fatto tutto tu”. Che sarebbe a dire: “Se non è coda di paglia questa”. (O meglio, nella lingua di Vani, sarebbe più che altro a dire excusatio non petita, accusatio manifesta, ma tanto Lara non capirebbe, quindi.) Lara coglie e avvampa peggio che se Vani le avesse fatto notare tutto ad alta voce, perché Vani è così, ti fa sentire uno schifo quando ti parla e ti fa sentire ancora più uno schifo quando non ha nemmeno bisogno di dirti nulla.

Vani non lo sa quanto sia pesante vivere con una così tanto più intelligente di te.

«E poi non è mica successo niente», ringhia Lara ancora. «Lo so che pensi che lui sia un idiota ignorante, ma non ha fatto niente, okay? Prima che lo insinui. Niente. C’è stata solo una normale discussione fra normali persone adulte, com’è normale nelle coppie consolidate. Cosa che sapresti, se ne avessi una.»

Vani continua a guardare la sorella con un’espressione neutra.

«Anzi, sai una cosa? Adesso vado a chiamarlo, perché non è successo niente, appunto, proprio niente di niente, niente di grave o irreparabile o chissà che, così la smetti e ti levi quell’aria saputa da “io l’ho sempre detto”.» Lara si alza e scatta verso camera sua, impugnando il cellulare come Durlindana.

Vani si gira a guardare lo schermo, sempre con la medesima espressione neutra.

E così ancora una volta ha salvato Michele grazie al proprio disprezzo per Michele. Che ironia.

La madre si affaccia in salotto con due piatti in mano. «Che hai fatto a tua sorella?»

«Esisto», comunica Vani.

La madre la prende per una risposta polemica, sbuffa e brontola qualcosa e torna a finire di apparecchiare.

Vani calcola: meno venticinque minuti.

Emma Thompson è in preda a una specie di crisi isterica di gioia perché ha appena scoperto che potrà impalmare Hugh Grant.

Vani pensa che il colonnello fosse meglio.

immagine di un fregio

La telefonata arriva mentre sto valutando di chiedere un bis di torta. (A quanto pare, i miei crampi allo stomaco non mi hanno affatto impedito di apprezzare il pan di Spagna con la crema. Anche se, Irma aveva ragione, la pasta di zucchero mi fa schifo e l’ho tutta ammucchiata da una parte.) Morgana sta raccontando a Irma del compito di inglese. A Irma non frega assolutamente un accidente del compito di inglese di Morgana, ma Morgana è molto fiera di come ha risposto alla domanda sulle origini storiche del genere romanzo e Irma, dall’alto della sua olimpica saggezza, la lascia parlare perché dopotutto non gliene fregherebbe un accidente nemmeno di nessun altro argomento di conversazione in particolare, sentir chiacchierare Morgana le piace di per sé, quindi tanto vale che Morgana si tolga le sue soddisfazioni. Laura ascolta e ogni tanto interviene con qualche contrappunto, Berganza ascolta e nel frattempo contempla con interesse il Segantini autentico appeso al muro; fino a che gli squilla il telefono e lui si affretta a rispondere e la risposta è «Randi, dica» e io, appunto, sollevo di scatto la testa dall’ultimo boccone di torta.

Si interrompe anche Morgana, alla quale il nome “Randi” dice ovviamente qualcosa – era il suo candidato numero uno a mio consorte fino a trentasei ore fa –, così ci interrompiamo tutti. «Arriviamo», dice il commissario.

Poi si gira verso di me. «È là», dice. «Lo stalker è fuori da casa sua.»