9.
UNA PERSONA BUONA

Mentre viaggiamo in auto verso il commissariato, ricapitoliamo gli eventi. Quando arriviamo a Rosa e al suo indice puntato verso di me, Berganza ridacchia. «Prima o poi dovrò proprio sospettarti di qualcosa. Il fato ci porta sempre lì.» Il suo profilo si staglia contro la notte che illumina il finestrino. Illumina, perché la notte è piena di luci. Abbiamo appena imboccato corso Regina Margherita ed è tutto una foschia arancione fosforo. La gente aspetta con ansia che le giornate si allunghino, a me so già che mancherà lo stroboscopio dell’inverno.

«Non c’è niente da ridere», dico. «Non ho fatto un accidente di niente e quella mi odia a morte.»

«Ti dà fastidio perché Rosa ti piace.»

«Certo. Da piccola il mio amico immaginario era un Moai dell’Isola di Pasqua.»

«Ti piace. Altrimenti non te ne importerebbe nulla, del suo muso lungo. A te non importa un tubo di non piacere alla gente, ma ti importa molto di non piacere a certe persone in particolare.» Si gira appena appena, a scoccarmi un’occhiata sorniona. «Come mia sorella, per esempio.»

Uh oh. Questa non me l’aspettavo. «Ti sei... ti sei accorto che io e Ofelia ci stiamo sulle palle a vicenda?»

Il commissario ride. «Sarca, lei sarà anche dotata dell’indiscutibile capacità di entrare nella testa delle persone, ma garantisco che in certi casi anche il modesto intuito d’ordinanza di un poliziotto può bastare.»

Mi giro a osservarlo. «E hai voluto lo stesso frequentarmi? Non te n’è importato nulla che io non piacessi a tua sorella, che in fin dei conti assieme a Ivano è tutta la tua famiglia?»

«La famiglia è quella che ti ritrovi fino a quando non diventa quella che ti scegli.»

Crampo.

Grosso.

Torno a guardare di fronte a me, oltre il parabrezza. «Okay. Accosta qui.»

«Qui? Come mai?»

«Un attimo solo. Nello slargo di quel passo carraio.»

Berganza mi guarda interrogativo, ma accosta.

Come ha fermato la macchina, mi slaccio la cintura, gli scivolo in grembo e gli rifilo il bacio più alto in classifica delle ultime quarantotto ore.

«Non so bene cos’ho fatto per meritarmelo, ma possiamo ripercorrere questa conversazione ogni volta che vuoi», dice un po’ scosso quando mi stacco.

Il commissario non è mai scosso.

Adoro che lo sia a causa mia.

Altro crampo.

«Andiamo a casa mia», sussurro senza pensarci. Lo stomaco mi sta facendo vedere le stelle di tutto l’emisfero boreale, ma chissenefrega. Dovrà farsene una ragione. Non è mica l’unico organo, qui dentro.

Il commissario alza un sopracciglio. «Sul serio? Adesso? Sei sicura?»

«Sì. Cioè. Cavolo. Non lo so. Sto correndo troppo?» Mi irrigidisco. Porca merda. Io che diavolo ne so di come si fanno queste cose. Di come si fanno per bene, intendo. Che a farle andare a caso, goffe e imperfette, son capaci tutti, e io in testa con la bandiera del corteo.

«Oh, no, no!» esclama Berganza. «È che...» Cerca le parole. Si schiarisce la voce. «Be’, credevo fossi il tipo che ci mette... uh. Un sacco di tempo. Prima di – diciamo – lasciarsi andare

«Non con te.» Aggrotto la fronte. Un attimo. «Cosa diavolo dovrebbe significare?»

Il commissario tossicchia di nuovo. Ma adesso sta quasi ridendo, come se si fosse appena reso conto di qualcosa di pazzesco. «E naturalmente io sarei stato un vero signore, dispostissimo ad aspettare che tu ti sentissi pronta a lasciarti andare con me, senza tentare in alcun modo di forzarti...»

Ma certo. Adesso capisco.

«Quell’imbecille di un cretino di uno scrittore da quattro soldi!» grido. «Avanti, cosa ti ha detto di preciso e quando? Voglio saperlo!»

Adesso Berganza sta ridendo apertamente, non senza – io me ne accorgo – un sottofondo di sollievo. «È stato durante la sua deposizione, domenica sera, mentre eri da Fuschi. A un certo punto, sai – l’ora tarda, la stanchezza, la tensione – l’atmosfera si è fatta quasi cameratesca, e Randi ha buttato lì: “Non gliel’ho ancora detto esplicitamente, commissario, ma sono felice per lei e per Vani”. Ha detto che era davvero dispiaciuto di averci rovinato la prima cena insieme, e poi ha lasciato cadere: “E mi rendo conto che avreste avuto programmi ben più interessanti che fare da balia a me”. Poi ha fatto, sai, una specie di mezzo sorrisino colpevole, come se non riuscisse a trattenersi dal dire qualcosa di inopportuno, e ha aggiunto: “Per quanto, se conosco bene Vani, stasera i vostri programmi si sarebbero limitati a qualcosa di molto platonico”.»

Sbarro gli occhi in un conato di scandalo. «Stai scherzando?!»

Il commissario scuote la testa. «Io ho detto qualcosa per fargli chiudere il becco, come puoi immaginare, al che lui è scoppiato in una risata di scuse e ha detto: “Ha ragione, commissario, mi perdoni. Forse le sto parlando un po’ troppo da uomo a uomo. Ma, solo per sua informazione, Vani è molto più ritrosa di quello che può sembrare. Abbia molta pazienza con lei, d’accordo?”. Dopodiché ha cambiato argomento, e abbiamo ripreso a parlare della sua lista dei sospettati.»

Cucciolo di panda questo paio di grandissime palle. «Quel covone di letame. Quella deiezione canina sotto la scarpa dell’universo.»

Berganza sta ancora ridendo di cuore. «Il bello è che – devi ammetterlo – sembrava un ammonimento del tutto plausibile. Insomma, tu sei, in generale, una che ci mette tanto, prima di fidarsi, di lasciarsi andare con qualcuno... E lì per lì ho pensato che fosse stato anche un bel gesto da parte sua farmelo presente. Nobile. L’innamorato scartato che si accerta che la sua bella sia comunque in buone mani.» Scuote la testa. «E invece era solo per... Insomma, per indurci a procrastinare il più possibile...»

«Ma che cazzo! Ti rendi conto di cosa sarebbe potuto succedere?» Sì che se ne rende conto. Tutti e due ce ne rendiamo conto. Io mi sarei chiesta per giorni come mai lui non si dimostrasse più – uh – audace. Poi mi sarei fatta avanti io, naturalmente, ma a quel punto mi sarebbe rimasto il dubbio che, forse, insomma, se non fosse stato per me... e magari mi sarei fatta anche delle domande, delle domande scomode, che so, delle stupide paranoie del tipo “magari quanto a intesa cerebrale siamo favolosi ma non lo attraggo da quel punto di vista”. Ah, ma poi, certo. Quello stronzo di uno scrittore ipertricotico ha sempre ironizzato sulla differenza d’età fra me e il commissario. Di sicuro voleva farmi venire il dubbio che il commissario fosse troppo vecchio per essere davvero, uhm, interessato.

Berganza mi chiude le mani attorno al viso. «Vani.» Ha sempre l’aria divertita, ma c’è anche un’altra scintilla che gli danza negli occhi.

«Quel lombrico ignobile. E noi che l’abbiamo pure trattato bene!»

«Vani.» Pollici che mi carezzano le guance, vicino alle labbra.

«Cosa.»

«Il suo piano diabolico sarebbe comunque fallito.»

«Come fai a dirlo?»

«Perché sei la donna più spaventosamente attraente che abbia mai incontrato in tutta la mia vita.»

Ci guardiamo.

«Andiamo a casa mia», sentenzio, risgusciando di corsa sul mio sedile e allacciando la cintura.

Va detto che Henry Dark sarebbe fiero di noi. Sembra proprio una delle sue scene stereotipate e straviste: la coppia appena formatasi che entra nel portone tutta avvinghiata – la mano di lui serrata alla vita di lei, il braccio di lei avviluppato al collo di lui – e poi per quattro piani d’ascensore non fa che pomiciare occupando un terzo dello spazio disponibile nell’abitacolo. Il rossetto antimacchia è l’invenzione del millennio, nonché ciò che ci impedisce di ridurci a due gigantesche barbabietole. Il commissario ha un modo di baciare da film in bianco e nero, che sembra diretto da George Cukor: inclinandomi un po’ all’indietro e sostenendomi la schiena, come se potessi abbandonarmi completamente e non preoccuparmi nemmeno di dover restare in piedi da sola. Tutto sommato, in quello che Riccardo ha detto c’è davvero una certa verità: non mi era mai capitato di lasciarmi andare – letteralmente – così. È abbastanza sconcertante. È come quando provi uno sport nuovo e scopri di avere muscoli che nemmeno pensavi, o come quando suoni uno strumento da autodidatta e poi incontri un maestro e scopri che si può fare in un altro modo e viene meglio. È come tornare indietro e resettare tutto, come quando a tredici anni m’innamorai di Atreiu, a quindici del principe Myškin e a sedici di Cyrano di Bergerac. (Sul fronte bacio, poi, immagino che nessuno dei tre avrebbe mai retto il confronto. Atreiu per plausibile inesperienza, Cirano per limiti meccanici, e Myškin, povero gracile principino, diciamocelo, probabilmente nel bel mezzo dell’impeto passionale sarebbe stato stroncato da un attacco epilettico.) Quando la porta dell’ascensore si apre sul pianerottolo, le mie mani stanno artigliando le spalle del commissario attraverso l’impermeabile e il mondo sa di tabacco e cerata. Mi spiace solo doverne staccare una, di mani, per scavare le chiavi fuori dalla borsa, ma è un investimento che conto di veder fruttare.

«Ciao», sento dire da una voce femminile da dove dovrebbe trovarsi la mia porta.

«Oh, Gesù. Morgana, di qualsiasi cosa si tratti, può aspettare.»

«Morgana chi?»

Sbarro gli occhi.

Mi stacco.

Mi giro.

Berganza fa altrettanto.

E di fronte a noi, sul mio zerbino, sta mia sorella Lara – circondata da due immense valigie da volo intercontinentale, due borsoni e un beauty case.

«Uh oh», dice piano Berganza.

«Non mi hai più chiesto com’era andata col biglietto», dice Lara, con tono quasi di scuse, flebile, mesto. «Così ho pensato di venire a raccontartelo di persona, una volta tanto che ho io una storia interessante.» Alza le spalle. «Ho lasciato Michele.»

E scoppia a piangere.

Violetta Valéry che schiatta di tisi prima di poter coronare il suo sogno d’amore con Alfredo Germont.

Romeo (l’altro, quello giovane e scemo) che s’ammazza prima di vedere Giulietta svegliarsi.

Mosè che spira sul monte Nebo senza riuscire a entrare nella Terra Promessa.

Queste le immagini che mi si avvicendano davanti agli occhi mentre, con una faccia che immagino somigli a quella del marchese di Cardigan di fronte allo sterminio di Balaklava, infilo la mano nel frigo e ne estraggo tre birre.

«To’», dico a Lara, ficcandogliene una in mano. Adesso è seduta sul mio divano e si asciuga con un fazzoletto il mascara ruscellato giù per le guance.

«Non c’era una camomilla?» ha anche il coraggio di dire.

A casa mia. Come se non sapesse già la risposta.

Mi avvicino al commissario, che se ne sta in un angolo del salotto, le mani in tasca e l’espressione di Joe Frazier a Manila, solo un po’ più zen. Senza dire una parola gli allungo una birra e lui senza dire una parola la prende. Contemporaneamente, ciascuno dalla sua bottiglia, ne beviamo un gran sorso rassegnato. Solo lui può capirmi, solo io posso capire lui, e solo l’alcol può capire entrambi.

«È stato... è stato orribile», sta singhiozzando Lara. «C’era la cena in tavola, il suo piatto preferito, avevo versato il vino e messo il biglietto sotto il tovagliolo. L’ha letto e ha detto... Oh mio Dio!» Si prende la faccia fra le mani e ricomincia a singhiozzare.

Io ribevo.

«Mi ha detto “scommetto che questa puttanata te la sei fatta scrivere da tua sorella”! Proprio così!» Okay, questo qualcosina dentro me lo smuove. Ma è il solito, tradizionale disprezzo per quel cervello di calcina di Michele, quindi nulla che non abbia già straconosciuto negli ultimi otto anni.

Lara si asciuga di nuovo gli occhi. «Allora io gli ho detto che doveva avere proprio una bassissima considerazione di me e che comunque anche se mi fossi fatta aiutare da mia sorella sarebbe stato solo perché ci tenevo a scrivere qualcosa di bello, e lui ha detto “sì, sì, okay, adesso fammi mangiare”, e né un grazie, né niente, capisci, Vani? E io improvvisamente mi sono vista come da fuori, hai presente?, e ho pensato che quella era la mia vita, quella! Che quella scena riassumeva al cento per cento tutta la mia vita con Michele, e allora gli ho detto che era un ingrato e lui, uh!, lui è saltato su come una molla e mi ha detto: “Ingrato io? Guarda questa casa! Sei tu che mi devi tutto!” e abbiamo cominciato a litigare, ma un litigare diverso, litigare forte.» Soffiata di naso. La punta le rimane nera di mascara.

Mi giro verso il commissario. «Voglio che sia chiaro che l’ho fatta entrare solo per non passare per un’insensibile senza cuore e fare brutta figura davanti a te.»

Il commissario mi guarda e beve.

«E io ho capito che non potevo, non potevo continuare così, Vani! Come faccio a stare ancora con uno... con uno stronzo che mi dà per scontata e ritiene che io non solo non possa volere niente di più, ma che nemmeno ne abbia il diritto? E mi critica perché sto ingrassando e mi fa storie se voglio uscire e la sera nemmeno mi parla perché “è stanco”, dice!, cosa farà mai in quel suo ufficio del cavolo da stancarsi così tanto?, però è sempre troppo stanco per parlare con me, dirmi che sono bella, dirmi un grazie!» Soffiata di naso. Pianto.

«Il fatto che io senta questi discorsi a cadenza semestrale da otto anni a questa parte spiega la mia palese mancanza di empatia», dico nuovamente al commissario. «Te lo specifico sempre nell’ottica del non passare per un’insensibile e non fare brutta figura con te, che al momento è la mia principale, per non dire unica, preoccupazione.»

«Così l’ho lasciato. Una volta per tutte. Ho aspettato oggi perché andasse al lavoro, ho fatto le valigie, ho chiamato la babysitter e addio. Basta, fine, stop.» Stavolta Lara il mascara se lo asciuga direttamente con le dita, perché il fazzoletto – il terzo – è ridotto a una poltiglia di cellulosa. Sembra un po’ Morgana, con la sua matita sempre pasticciata.

«Lara, sarà la decima volta che lasci Michele», telegrafo. «Volta più volta meno, capisci che potevi benissimo non rompere e non venirlo a scaricare addosso a me proprio stasera.»

«Non ho mai lasciato Michele da quando siamo sposati!» esclama Lara, scandalizzata. Uh. In effetti, ora che ci penso, potrebbe essere vero. «E tantomeno da quando abbiamo avuto i gemelli. E poi, perché proprio stasera no? Che cosa sarebbe...» Sbarra gli occhi. Per la prima volta da quando ha pronunciato la prima sillaba sul pianerottolo, il piccolo cervello egoriferito di Lara sembra aprirsi alla coscienza del presente, e, in sostanza, registrare la presenza del commissario.

Proprio così. Lara ci ha visti – cioè, non visti visti, evidentemente; ma ci ha avuti nel suo campo visivo – mentre uscivamo dall’ascensore avviluppati come due piovre in un tango; eppure vede, nel senso di vede vede, Berganza solo adesso. Sembra impossibile, se non fosse che 1) Berganza è un bravo sbirro e un bravo sbirro sa evidentemente rendersi invisibile, 2) Lara è un pessimo essere umano che certe volte, la maggior parte direi, non vede altro che sé. Specialmente quando ha qualche rogna che l’angoscia. Io lo so. Il giorno che mi sono tinta i capelli di nero corvino – ero in seconda superiore e Lara in terza media – Lara aveva il compito di matematica per la testa e si accorse solo dopo trenta ore che la sua bionda sorella era diventata il corvo di Edgar Allan Poe.

«Oh mio Dio.» Lara sbianca. «Ma lei è...»

«La persona che mi ha accompagnata alla festa di Natale dei Giay Marin e di cui hai visto le foto sui giornali, sì.» Visto e rivisto. Lara ci ha sbavato come un bulldog per tutto gennaio, su quelle foto, per l’invidia. Sua sorella in abito d’alta sartoria e al braccio di un uomo affascinante e misterioso. Che ora ha davanti, in tutto il suo fulgore tridimensionale.

«Ma... Ma quindi voi, insomma, siete di nuovo... Cioè, siete ancora... Non mi dire. Non me lo dire.» Si preme le mani sulla faccia. Ci guarda, prima uno poi l’altra e poi ancora l’uno e l’altra, come a legarci con gli occhi. «È... è una cosa seria?»

«Spero di sì», dico, e il commissario dice «Può scommetterci», e il mio stomaco si avvita su sé stesso come il naso di un narvalo.

«Oh mio Dio», ripete Lara coprendosi la bocca con le mani.

Sbuffo. «Ma sì, dai, non è così grave. Come dici tu», soggiungo girandomi verso Berganza, «noi, in fondo, per recuperare abbiamo tutto un futuro...»

«...non puoi esserti trovata una relazione seria proprio quando io ho lasciato mio marito!» sbotta Lara. «Vani! Te li immagini mamma e papà? Già saranno arrabbiati con me per aver mandato a rotoli il mio matrimonio, ma se ti ci metti anche tu a farti proprio adesso uno straccio di storia decente per la prima volta nella tua vita allora vuoi davvero farmi sfigurare!»

«Okay, fuori.» Indico la porta, a braccio teso.

«Vani! Sono andata via di casa! Dove vuoi che...?»

«Affari tuoi, non qui. Hai oltrepassato ogni limite. Fuori.»

Lara si corruccia, poi si morde il labbro inferiore, che riprende a tremarle.

«Okay, okay, scusa. Hai ragione. Volevo dire che sono felice per te. Va bene? Non posso tornare a casa.»

«Allora vai dai nostri genitori.»

«Non posso.»

«Perché?»

«Te l’ho appena detto. Perché mamma andrà fuori di testa quando saprà che ho mandato a rotoli il mio matrimonio.»

«Mamma che ce l’ha con te non è la cosa peggiore che possa capitarti nella vita. E, come sai, te lo dico con cognizione di causa.»

Lara mi fissa con quei suoi occhioni chiari circondati da paludi di matita. Un altro panda. Dio, ma che cos’hanno tutti ultimamente, che non fanno che guardarmi come ursidi in pericolo?

«Vani. Tu... sei abituata. Tu hai sempre avuto il mondo contro e non te n’è mai fregato niente. Io... io non sono pronta. Ho paura.»

La guardo.

Credo sia l’ammissione più sincera che abbia sentito uscire dalla sua bocca negli ultimi, vediamo, trentun anni. Ventinove, perché Lara non è mai stata una bambina granché precoce e ha imparato a parlare molto tardi.

Abbasso il braccio, anche perché sta iniziando a farmi male.

Ma che cazzo, però.

«Dai, vai a lavarti la faccia e mettiti un pigiama. Ci dormi su e ne riparliamo domani.»

Con la coda dell’occhio, vedo Berganza annuire, fiero di me.

«Ma domani te ne vai», mi levo la soddisfazione di concludere.

Che palle.

Lara emette un singulto a metà fra il singhiozzo da pianto e il sospiro di sollievo. Dev’esserci anche della gratitudine, là in mezzo, da qualche parte, ma mia sorella non è mai stata in grado di esprimerla a parole, quindi immagino che dovrò farmelo bastare. Mentre corre in bagno e si sente scrosciare l’acqua del lavandino, mi giro a guardare Berganza.

«Mi dispiace. Dio! Mi dispiace!» mugolo.

Lui sorride. «Hai fatto bene. In verità, credo fosse l’unica cosa da fare.» Sospira. «Vado a casa. Vi lascio sole. Tua sorella avrà molto da dirti e, soprattutto, avrà bisogno di sentirsi dire molte cose da te.»

«Come se non lo facessi da una vita. Forse stanotte mi ascolterà per la prima volta.»

Il commissario si lascia accompagnare fino alla porta stringendomi un braccio attorno alle spalle, poi, mentre aspettiamo insieme l’ascensore, mi guarda fisso. Insospettabilmente, sembra divertito.

«Devo dirti una cosa che non ti piacerà», aggiunge.

«Peccato, mi rovinerà la serata magica.»

«Sarca, lei è una persona buona.»

Faccio una smorfia. «Uh, sexy.»

«Più di quanto tu creda.»

Mi bacia con dolcezza infinita, sorride, poi scompare nell’ascensore.

immagine di un fregio

Maggio 2010.

«Si può sapere perché diavolo dobbiamo vederci per due domeniche di fila?» dice Vani entrando nella sala da pranzo dei suoi e calcolando fra sé che per disintossicarsi dalla sua famiglia dopo quest’overdose le servirà come minimo un mese e mezzo di trasferta nella Terra del Fuoco.

La risposta arriva sotto forma di un qualcosa di rosa, argento e bianco sparatole sotto il naso prima ancora che abbia del tutto varcato la soglia.

«Mi sono fidanzata!» strilla Lara.

Ritrae la mano abbastanza perché Vani possa mettere a fuoco. Le sta mostrando l’anello – un macigno traslucido che gareggia per il titolo di Risposta Del Nuovo Millennio Al Koh-i-Noor. Lara agita i ditini, compiaciuta, e Vani quasi si chiede come faccia a conservare la mobilità della mano con tutto quel peso sulle falangi.

Dietro a Lara, la tavola è imbandita a festa. Il padre è già seduto a leggere il giornale, la madre se ne sta accanto al proprio posto con le mani giunte davanti al seno e l’aria dell’avido Mazzarò davanti alla roba. I suoi occhi hanno uno sfavillio estatico di confetti, di fiori recisi, di nastri legati ad antenne di auto. È entrata nel mood matrimonio. Vani ha un brivido. Si ricorda di colpo, chissà perché, il Batman di Tim Burton, in cui il Joker interpretato da Jack Nicholson avvelenava Gotham City diffondendo cosmetici che avevano effetto letale solo se combinati insieme. Non che sua madre non sia già abbastanza letale di suo, ma sua madre unita al wedding planning le sembra l’arma di distruzione di massa del secolo.

«Non mi dici nemmeno congratulazioni?» trilla Lara.

«Congratulazioni», dice meccanicamente Vani. Pensa a quanto la agghiacci l’idea che Michele entri a tutti gli effetti a far parte della sua famiglia. Cioè, a quanto potrebbe agghiacciarla, se a lei della sua famiglia fregasse qualcosa, cosa che fortunatamente non è. Per lei, avere una famiglia è più o meno come possedere un monolocale occupato in una periferia in degrado: ci entra chi vuole, spesso gentaglia, e a lei ne vengono solo tasse.

«Racconta anche a Vani com’è andata!» cinguetta madre Sarca.

Vani si siede. La vita è sofferenza.

«Eravamo al ristorante e ha fatto mettere l’anello nel mio champagne!» gorgheggia Lara. «Poi si è inginocchiato davanti a tutti! Proprio come nei film!»

«Davanti a tutti?» Vani non riesce a non storcere il naso.

Lara si irrigidisce. «Sì, be’, non è che fosse uno stadio pieno, eh. Cioè, non era nemmeno vuoto – una sala vuota sarebbe stata triste – ma era una saletta discreta, romantica...»

«Dov’eravate, amore? Sai che ora che ci penso non me l’hai ancora detto, dove ti ha portata?» dice madre Sarca.

Lara sbarra per un attimo gli occhi. «Oh. È vero. Non te l’ho detto.» Poi sorride. «Al Tre Oche, dove lavora il suo amico Mattia.»

«Il Tre Oche ha una sala gigantesca», dice Vani.

Lara si gira a guardarla quasi irritata. «E tu che ne sai?»

Vani alza le spalle e Lara si ricorda di colpo che per un certo periodo, una decina di anni prima, Vani ha frequentato il figlio fighetto di una famiglia di riccastri.

«Possono averlo ristrutturato, dall’ultima volta che ci sei andata!» sbotta. «Non è che devi sapere sempre tutto tu!»

Vani alza un sopracciglio.

Lara si ricompone e torna a guardare la madre. «Poi ci hanno portato il dolce, e tutta la sala ha fatto un brindisi per noi.» In teoria lo starebbe raccontando a Vani, ma sa che la madre è un pubblico molto più appagante di Vani per una storia del genere, anche se è già la quarta volta in dodici ore che la sente.

Vani la scruta, non dice nulla e beve distrattamente il Traminer che ha davanti, anche se in teoria avrebbe dovuto aspettare il brindisi.

Lara termina di mangiare in fretta e poi si fionda in camera per telefonare alle amiche a cui non ha ancora detto niente. Vani si ricorda troppo tardi di essersi ripromessa, già che le toccava andare dai suoi, di approfittarne per riprendersi finalmente la copia di I sei giorni del condor rimasta nella sua vecchia libreria. Vani bussa alla porta della loro ex camera comune e Lara non risponde nemmeno. Da dietro la porta la sente chiacchierare al telefono, anche se non distingue le parole. Lara se ne sta chiusa in camera da così tanto tempo che Vani si stufa di aspettare, apre la porta – tanto deve solo andare e tornare dalla libreria e Lara se ne farà una ragione. Lara sta dicendo «E comunque Il Cibo degli Dèi è proprio lo scenario perfetto» quando alza gli occhi su Vani fra l’orripilato e il mortalmente offeso per via della privacy violata.

Vani prende il libro e se ne va.

Dopo circa mezz’ora Lara ha smesso di parlare ed esce dalla camera per andare in cucina a bere un bicchier d’acqua.

Quando torna in camera, seduta sul suo ex letto di adolescente, c’è Vani.

Vani è passata a spulciare la sua vecchia copia di Il maratoneta e sta chiedendosi se valga la pena di portarsi a casa anche quella. Adora quel libro, ma proprio perché lo adora ne ha già una copia più nuova.

Lara fa per uscire e tornarsene in salotto.

Vani dice: «Ho sentito».

Lara si blocca sulla porta.

Vani continua a leggiucchiare Goldman. «Non te lo dico per ricattarti o intimidirti, è solo perché tu ne sia informata.»

Lara si impettisce come uno svasso. «E per cosa dovresti ricattarmi, sentiamo?»

«Per niente. Ho giustappunto detto che non ne ho intenzione.» Vani alza dal libro uno sguardo quasi annoiato. «Capisci quando parlo? Sono frasi semplici.»

Lara fa per dire qualcosa di stizzito, poi è come se ci ripensasse. Sospira, chiude la porta, poi va a sedersi sul suo letto, parallelo a quello di Vani.

«Cos’hai capito di preciso?» chiede. Cerca ancora di fare la sostenuta. È quasi ammirevole nella sua ostinazione, specie considerando che conosce Vani da quando è nata, letteralmente, e dovrebbe sapere che contro le intuizioni di Vani non si vince.

«Era evidentemente Angela al telefono, prima», risponde Vani con algida asepsi. «La ragazza di Mattia. Hai dovuto dirle che eravate al Cibo degli Dèi e non al Tre Oche perché altrimenti Mattia non avrebbe confermato la storia.»

Lara sta fissando, senza vederla, la parete di fronte. Non sposta la testa né gli occhi, ma Vani la vede deglutire.

«Non c’è stata nessuna scena da film con champagne e brindisi generale, vero?»

Lara si lascia cadere all’indietro sul letto, lo sguardo ora sul soffitto.

«Eravamo... in una pizzeria.»

Vani sta sempre sfogliando il suo libro. «Balla anche questa. Michele dice sempre che non si deve mai andare in pizzeria il sabato sera, perché ti fanno aspettare troppo.» È una delle sue massime da uomo di mondo del cazzo.

«Eravamo... Oh, uffa.» Lara sta ancora fissando il soffitto. Adesso però abbassa la voce.

«Eravamo a casa sua.»

Vani le getta un’occhiata in tralice. «Tutta ’sta messinscena ed eravate a casa sua? Mi sembra nettamente lo scenario migliore, invece.»

Ma Lara esita. «Eravamo a letto.»

Vani alza le spalle. «Plausibile ometterlo nel raccontarlo a mamma e papà, ma sempre meglio che al ristorante.» Torna a leggiucchiare.

«Avevamo appena fatto... be’, cose. Cose... cose un po’ spinte, ecco.»

Vani le lancia un’altra occhiata in tralice ma sopprime i circa trecento commenti salaci che le hanno appena affollato la testa.

Lara sta sempre fissando il soffitto, i riccioli sparsi sul copriletto. «E alla fine Michele mi ha guardata, ha, tipo, riso... poi ha detto “ma sì, va’, diciamo che te lo sei meritato. Vai alla cassettiera e guarda sotto i calzini”. E lì c’era lo scatolino dell’anello.»

Uh.

Vani alza la testa dal libro.

«Cioè. Fammi capire. Te l’ha buttato lì come se fosse stato un premio per avere fatto cose?» Cazzo. Che Michele fosse il trait d’union fra l’uomo di Neanderthal e il vuoto lasciato dalla sua estinzione già lo sapeva, ma che potesse arrivare a tanto sorprende anche lei.

Si accorge che gli occhi di Lara si sono inumiditi.

«Non esattamente la cosa più romantica del mondo, vero?» Lara tira su col naso. «Dice che ce l’aveva lì da un po’ e non si decideva mai, e che in quel momento, sai, sull’onda del buonumore, ha agito d’istinto...» Si morde il labbro inferiore. Forse per farlo smettere di tremare.

Vani la sta guardando.

Lara sta sempre, cocciutamente, fissando il soffitto.

«Sai, cioè. Io lo so che Michele è un po’ così. Lo so anch’io, che non è esattamente Richard Gere in Pretty Woman. Però è anche uno che ama la bella vita, le macchine, uscire insieme nei bei locali... L’avevo immaginata, qualche volta, la scena della sua proposta di matrimonio, e pensavo che se c’era una cosa che Michele sapeva fare se non altro era mettere in piedi una bella scena.»

Vani sa a cosa si riferisce Lara. Lei e Michele hanno in comune la totale mancanza di eleganza, gusto e sobrietà e confondono “bello” con “appariscente” e “pacchiano”. Ma proprio per questo sarebbe stato, sì, perfettamente nelle capacità di Michele soddisfare questo lato di sé e di Lara inscenando qualcosa di chiassoso come una proposta in un ristorante di lusso. Non foss’altro per potersene poi vantare raccontandolo a posteriori agli amici.

E invece.

Una merda cafona come Michele, eppure l’unica cafonata che una volta tanto sarebbe andata bene è stata negata a Lara.

Lara alza la mano sinistra davanti alla faccia. La mano si staglia contro il bianco del soffitto. Lara si guarda l’anulare.

«Se non altro è un anello fantastico», mormora.

Vani sa che significa: «Ma di che cosa ti lamenti, oh, con l’anello che ti ho dato», pronunciato dalla voce di Michele.

Vani sospira.

«Devi chiamare Michele e dirgli che hai detto a tutti che è successo al Tre Oche», dice. «Poi devi chiamare Angela e dirlo anche a lei.»

Lara aggrotta la fronte e si gira a guardare Vani. «In che senso?»

Vani chiude il libro. Tanto ha già deciso di prenderlo. «È evidente che hai chiesto a Michele di poter dire in giro che è avvenuto tutto in un ristorante, e che Michele ha accettato perché ci avrebbe fatto più bella figura anche lui.» Lara fa per dire qualcosa di stizzito, però poi invece annuisce. «Solo che vi siete dimenticati di concordare il dove, e quando la mamma te l’ha chiesto hai sparato il Tre Oche perché è il primo che t’è venuto in mente.» Si gira verso Lara. Ha l’aria pacata di un preside che detta la pianificazione del programma. «Tanto per cominciare devi dirlo a Michele, in modo che, se lo racconta in giro anche lui, le vostre versioni combacino. Poi devi chiamare Angela e avvertirla che hai detto a tutti che è successo al ristorante dove lavora il suo ragazzo. Le dirai che lei è l’unica a sapere che è avvenuto in realtà al Cibo degli Dèi, ma che avete deciso di dire in giro che è stato al Tre Oche perché non volevate che gli amici pensassero che il ristorante di Mattia non vi piacesse abbastanza.» Alza le spalle. «Gliela fai passare come una delicatezza, un favore a Mattia.»

Lara sbarra gli occhi. Sono ancora umidi. Belli.

Quello sguardo significa “sei un genio”, “lo faccio immediatamente”, e anche “grazie”.

Naturalmente a parole non lo dirà mai.

A Vani sta bene. Nemmeno a lei piace dovere niente a nessuno.