18.
I QUATTRO CAVALIERI
(PIÙ UN ARCANGELO)
La mattina dopo in commissariato e ci arriviamo a due a due come ai trampolini dei tuffi sincronizzati. Io e Berganza prima; dopo un attimo Riccardo, ancora un po’ pallido ma nell’insieme in forma, oltre che palesemente felice di essere fuori. All’Infermiera Delle Nevi dev’essere spiaciuto un casino rilasciarlo, o forse è lui che ha fatto di tutto per darsi alla fuga anticipata e sfuggire alle sue grinfie: magari il colorito ancora un filo smunto si deve al fatto che ha corso.
Insieme a Riccardo – sorpresa, sorpresa – Enrico.
«Ti porti il lavoro a casa?» chiedo a Riccardo, che ridacchia.
«Volevo solo venire a controllare», dice Enrico.
«Controllare il procedere delle indagini o controllare me?»
«Mi è sempre piaciuto ottimizzare», dice Enrico con una smorfia.
«Il consiglio d’amministrazione sarà lieto di sentirlo», commento, ed Enrico si piega un tantino su sé stesso come se ricordandogli dei suoi capi gli avessi sferrato un calcio nel plesso solare.
Berganza fa qualche domanda a Riccardo riguardo alla sua salute, poi ci fa sedere tutti come al solito attorno alla sua scrivania. Oggi manca Rovato, che deve dirigere un’operazione altrove, e aspettiamo Petrini che è andato a fare la spola col laboratorio. Pezzoli però inizia lo stesso, perché anche a lei piace ottimizzare.
«Marco Carro abita a una decina di minuti di macchina dal professor Randi», dice la piccoletta. «Mezzi pubblici comodi fra la sua zona e quella del professore non ce ne sono, il che è un peccato perché avremmo potuto chiedere ai frequentatori abituali della tratta se lo riconoscessero. Ma tanto l’ipotesi è che si sia mosso di domenica, quindi non avremmo potuto nemmeno contare sui normali pendolari infrasettimanali...»
«Siamo sempre dell’idea che si sia mosso di domenica?» chiede Berganza corrugando la fronte.
Riccardo alza le spalle. «In effetti, pensavamo che lo stalker avesse fatto un solo giro a casa mia, di domenica appunto, per ottimizzare i tempi.» Già, eccone un altro. «Ma se stiamo parlando di uno che abita a dieci minuti di macchina da casa mia, be’, potrebbe essere venuto anche il giorno dopo.»
«Quindi dovremo controllare il suo alibi anche per il lunedì», desume Pezzoli, con la voce di una che sta per ascoltare il rumore delle proprie ossa che si sgretolano sotto il peso in costante aumento della roba da fare.
Scuoto la testa. «Non so, non mi quadra. Se lo stalker abita così vicino a Riccardo, perché fare per forza tutto insieme, così ravvicinatamente? Carro è pure pensionato. Sarebbe potuto tornare in qualsiasi momento e cadenzare anche meglio le minacce.»
«Forse voleva che la lettera e i biscotti arrivassero così vicino alla penna, perché sta diventando più aggressivo», fa notare Berganza. Riccardo è molto bravo a dissimulare il brivido gelido che gli corre lungo la schiena; non altrettanto Enrico, che per un istante lo guarda come si guarda il nonno a cui il gerontologo ha appena dato una prognosi di due settimane.
«Ho bisogno di un caffè», dice Enrico.
«Mi creda, non di questo caffè», dice Berganza. «Pezzoli, cosa sappiamo delle abitudini di Carro?»
Pezzoli passa alla seconda pagina dei suoi appunti, quando al fruscio dei fogli si aggiunge il cigolio della porta che si apre. No, non è esatto. Non è un cigolio, è un latrato. Perché Petrini non si è limitato a entrare, ma ha fatto irruzione.
«Oh, eccoti, Petrini. Siediti», dice il commissario.
«Preferirei di no», dice Petrini, novello Bartleby.
Il commissario lo guarda con una sorpresa deliziata, perché Petrini, da che tutti noi abbiamo memoria, a Berganza non ha mai detto un no. Petrini è talmente devoto al suo capo che probabilmente, pur di non essere mai costretto a dirgli un no, parlando con lui evita persino i vocaboli che contengono quella sillaba. «Che carino, è entrato nell’adolescenza», dico.
«No perché forse fra un attimo sarà lei ad alzarsi, capo...» specifica il putto in divisa. «Mi sa che ho grosse novità.» È agitato. Il commissario si protende in avanti. Io mi protendo in avanti. Petrini esita. Scosta i fogli che sta tenendo premuti al petto, come una damina dell’Ottocento con la lettera del fidanzato soldato, li sbircia, poi li ripreme allo sterno. «Ho i risultati dal laboratorio. I risultati delle analisi.»
«Abbiamo un riscontro delle impronte digitali?» chiede Berganza, pronto a stupirsi.
«No. Dalla carta crespa degli involti come immaginavamo è impossibile prenderle, sulla busta della lettera ce ne sono troppe perché siano riconoscibili, sui fogli e le forbici ce n’erano tante ma nessuna schedata. Quindi niente impronte dirimenti da nessuna parte», dice Petrini. Il commissario fa una faccia che significa “lo immaginavo”.
«Ma io non mi riferivo a quelle analisi», continua Petrini. «Mi riferivo a quelle del...» La voce gli si spezza. «Be’. Del sangue.»
Berganza alza un sopracciglio. «Non avevamo chiesto le analisi del sangue.» Vero. Visto che avevamo dato per buona l’ipotesi che fosse sangue di coniglio.
«Infatti.» Petrini ha il colore di uno che s’è lavato la faccia con l’acqua ossigenata. «Ho... ho sbagliato. Quando ho portato i reperti a Coppolo gli ho dato la lista degli esami da farci e per la forza dell’abitudine ci ho messo anche quello del sangue. Sa.» Deglutisce. «C’era del sangue. Così, be’, ecco. Lo so che gli esami costano. Però, la forza dell’abitudine. Appunto.» È quasi stupito che il commissario non lo stia mettendo in castigo.
«E cos’è venuto fuori?» chiede invece Berganza, incuriosito.
«Come sa che è venuto fuori qualcosa?» si illumina Petrini.
«Petrini, Gesù, ogni tanto sembri Betti – anzi, ti ordino di non frequentarlo per le prossime quarantotto ore. Perché altrimenti non saresti qui a dirmi che hai delle novità, no?»
Petrini arrossisce, il che significa che il suo colorito torna in media. «Guardi qua», dice, decidendosi finalmente a passare un paio di fogli a Berganza. «È venuto fuori che il sangue...»
«...non era di coniglio», conclude Berganza guardando la scheda.
Cavolo. Questo è interessante davvero. Mi avvicino.
«State scherzando? Significa che un uomo è stato ferito per macchiare penna, forbici e lettera?» intuisce Riccardo sbarrando gli occhi. Enrico ha una faccia che starebbe bene sulla locandina di un film horror.
«Si riesce a risalire a chi è?» chiedo.
«Se solo in Italia esistesse un archivio del DNA», sbuffa Berganza, gli occhi sempre ancorati alla pagina del referto. Ecco un’altra cosa che devo ricordarmi, per la prossima volta che Henry Dark cercherà di farmi americanizzare le nostre trame italiane. Tutte quelle puttanate dei raffronti computerizzati a tempo di record fino al lampeggiare a pieno schermo del trionfale MATCH FOUND come quando vinci alla slot machine, be’, noi ce le possiamo anche sognare.
«Ma esiste», dice timidamente Petrini.
Berganza cambia foglio. «No, è la grande leggenda del sistema giudiziario, la Salerno-Reggio Calabria delle investigazioni», spiega, più a me, immagino, che a Petrini. «Nonché lo spauracchio che si agita sempre davanti ai delinquenti sprovveduti per convincerli che se ci riprovano li beccheranno subito. Non è che non esista tout court: è in fase di realizzazione, ma come minimo fino a dopo l’estate non sarà operativo – sempre che questo sia finalmente l’anno buono...»
«Se permette, capo, non è del tutto esatto.» Petrini si schiarisce la voce, impressionato dal suono delle sue stesse parole. Berganza lo guarda. Io lo guardo. Tutti lo stiamo guardando. Petrini suda.
«Vede... è vero che da dopo l’estate l’archivio sarà, o si dice che dovrebbe essere, completo e ufficialmente funzionante, ma il processo di archiviazione e registrazione dei dati è già in corso da mesi», pigola. «I tecnici di laboratorio hanno già accesso al database del laboratorio centrale, a Roma – per forza, perché devono caricare ciascuno la propria porzione di risultati e testare che il motore di ricerca funzioni. Quindi, in sostanza, in giro c’è già una certa quantità di addetti ai lavori che ha la possibilità di effettuare delle consultazioni...»
Il commissario guarda Petrini in un modo che potrebbe rendermi gelosa, se anch’io non stessi probabilmente guardando Petrini nello stesso modo. «Non mi dire. Coppolo?»
Il Piccolo Principe annuisce. «Non proprio Coppolo, ma un amico di Coppolo, sì. Un suo ex compagno di studi.»
«Petrini, sei riuscito a convincere Coppolo a far sbirciare il suo amico nel database per vedere se il nostro uomo fosse per caso già schedato? Mio Dio. È l’iniziativa più intraprendente e intelligente che tu abbia mai preso. Come hai fatto?»
Petrini sta irradiando luce come una supernova. «In realtà è stato facile», sorride. Si guarda i piedi. «Mi ha visto disperato in corridoio per avere sbagliato gli esami e devo avergli fatto pena.»
Oh, angelico Petrini.
«Be’, è una gran notizia!» esclama il commissario. «Perché stai per dirci che è emerso qualcosa, giusto?»
Il biondino si impettisce come un fante in rivista e consegna al commissario gli ultimi fogli che ancora teneva in mano. Un’altra scheda, ma diversa. Con una foto in bianco e nero.
«Dario Agliano, anni ventisei, ex detenuto del carcere di Monza. Abbiamo il suo DNA perché una delle categorie dei soggetti schedati è quella degli arrestati in flagranza di reato, e lui lo è stato, due volte. Una rapina e il furto di una macchina, entrambi finiti con dei feriti. L’anno scorso è stato assegnato a un programma di reintegro sociale, ora ha finito di scontare la sua pena e gli è stato trovato un lavoro regolare come uomo delle pulizie. E vuole sapere la più bella, capo?» Petrini indica col ditino candido una riga piccola della pagina. «Lo sa come lo chiamavano in carcere? “Dario il Sanguinario”.»
Adesso stiamo tutti guardando Riccardo. Il quale scuote la testa, lento, meditabondo. «Dario Agliano. No. Il nome non mi dice niente, maledizione. Nemmeno la foto.» Per sicurezza, Berganza gliela sta porgendo perché la guardi meglio, ma zero.
Ci sono circa dieci secondi di silenzio durante i quali cerchiamo tutti di metabolizzare la tonnellata di informazioni che ci è piovuta addosso.
«Fatemi capire», dico io, che ormai ho pienamente adottato la tipica battuta del commissario – il prossimo passo sarà congiungere le punte delle dita mentre parlo e iniziare a fumare come un camino. «Ora sappiamo che a sgocciolare come un idrante sopra questa roba è stato non un coniglio ma un uomo, e che questo uomo si chiama Dario Quello Che È ed è un ex detenuto. Le domande sono due: perché il suo sangue? Qualcuno l’ha ferito, o magari addirittura fatto fuori, per macchiarci penna, forbici e lettera? Oppure è possibile che sia lui lo stalker, cioè che abbia usato il proprio stesso sangue?»
«Statisticamente, quest’ultima è l’ipotesi più probabile», dice Pezzoli. «Uno stalker classico difficilmente fa male a qualcun altro che non sia il suo bersaglio; inoltre, se lo stalker perseguita il suo bersaglio per fargliela pagare per qualcosa, per sottolineare di essere lui la vittima, è abbastanza frequente che si dia a manifestazioni autolesioniste, per mandargli il messaggio “guarda in che condizioni mi hai ridotto”.»
Berganza batte i palmi delle mani sulla scrivania. «Possiamo fare ipotesi finché vogliamo, oppure possiamo andare a scoprirlo. Petrini, dove lo troviamo, questo signor Agliano?»
«Ecco qui», dice Petrini. Sta vivendo il giorno più bello della sua vita. «Questo è l’indirizzo di casa, ma l’assistente sociale che è rimasta in contatto con lui dice che non c’è mai perché è sul posto di lavoro dalle otto di mattina alle sette di sera. Molto più facile che lo troviamo lì.» Passa l’ultimo dei suoi fogli a Berganza. Il commissario lo guarda. Il commissario sbarra gli occhi. Il commissario mi fa vedere.
«Cosa?!» esclamo io, leggendo. È un indirizzo di Milano.
«Cosa, “cosa”?» chiede Riccardo. Pezzoli sta allungandosi come un telescopio per sbirciare anche lei.
«È l’indirizzo di un gruppo editoriale», dico. E poi guardo Enrico e Riccardo. Soprattutto Enrico. «È l’indirizzo della tua concorrenza, Enrico.»
Che vuol dire – ed Enrico lo capisce subito, sbiancando: è l’indirizzo degli editori italiani a cui hai fottuto Henry Dark.
«Devo venire anch’io?» chiede Enrico nel parcheggio. Riccardo ci è corso dietro e l’ha trascinato con sé, saltellante a passi diseguali e riluttanti come un canguro con la borsite. Ora noi stiamo appunto già entrando in auto – noi, cioè io e Berganza in una macchina e nell’altra Pezzoli e Petrini – ed Enrico ha avuto finalmente il coraggio di affrontare la questione.
Già mezzo seduto al volante, Berganza si gira e squadra Enrico e Riccardo. Riccardo sta aprendo la portiera posteriore con una mano e con l’altra tirando Enrico per il cappotto. «No che non dovete venire», risponde Berganza a Enrico, e contemporaneamente «Certo che veniamo anche noi», gli risponde anche Riccardo.
«Non intralceremo», ribadisce Riccardo.
«Io temo che intralcerò tantissimo», dice Enrico.
«Sì, intralcerete tantissimo», dice Berganza.
«Sentito il commissario?», dice Enrico.
Riccardo si gira verso Enrico. «Enrico, io voglio sapere!» Enrico fa una faccia che significa che si è perso il punto in cui quest’affermazione avrebbe dovuto coinvolgerlo.
Il commissario alza gli occhi al cielo, poi mi guarda di sghimbescio, mentre allaccio la cintura nel sedile del passeggero. «Cos’è, li hai contagiati tutti? Hai sparso un germe che induce i civili a rompere i coglioni finché non riescono a farsi portare in missione dalla polizia?»
«No no, io posso rimanere, non si preoccupi», dice Enrico facendo per allontanarsi. Riccardo però lo riacciuffa per una spalla. Sembra che ormai Cip non si fidi ad andare da nessuna parte senza Ciop.
«So che dovrei stare dalla tua, in quanto mio capo e mio partner», sussurro a Berganza, «ma, ecco, mi conosci. Non sono proprio la persona più adatta per oppormi, se qualcuno insiste per essere presente al grido di “voglio sapere”.»
Berganza si gira e squadra Enrico, che ora Riccardo sta cercando di infilare in macchina come certi grossi cani recalcitranti. «Dobbiamo davvero portarci appresso queste due macchiette?»
«Se diventano molesti possiamo sempre abbandonarli in autostrada.»
Con uno sbuffo, Berganza si sistema alla guida ed Enrico e Riccardo sul sedile di dietro. Enrico, finalmente rassegnatosi, manda un messaggio per avvertire Antonia, la sua segretaria. Dall’auto di fianco, Petrini fa un cenno d’intesa a Berganza come fossero due piloti di aerei da combattimento, poi decolla, cioè mette la freccia per uscire dal parcheggio. Mi sa che il figurone che ha fatto con la storia dell’archivio del DNA l’ha gasato un tantino. Versa ancora in stato semistuporoso: deduco stia rievocando in loop le tappe della bella figura di cui s’è appena ammantato, nonché provando nella sua testa le frasi con cui stasera spiegherà alla mamma l’importante missione in cui è stato coinvolto. (Devono essere frasi precise e memorabili, perché poi mamma le dovrà riferire alle zie.)
Anche Berganza mette in moto e cadiamo istantaneamente in un silenzio attonito, pieno di cigolii di ingranaggi cerebrali che lavorano. Enrico, in particolare, ha l’aria implosa di uno che non ha mai avuto tanto a cui pensare. D’altro canto, in una testa così grossa il vantaggio è che ci puoi far stare un sacco di rovelli.
«Be’», dico, a bassa voce, mentre un sorrisetto mi increspa le labbra mio malgrado. «Ammettilo, Enrico. È emozionante.»
«Me la sto facendo sotto», dice Enrico, molto molto molto piano.
La Torino-Milano è l’autostrada più noiosa del mondo. Tempo di percorrenza poco più di un’ora e mezza, tempo percepito l’età del Bronzo. Dritta come un ragionamento in tedesco e monotona come un salmo in latino. Altro che adrenalinici inseguimenti a sirene spiegate con una colonna sonora hard rock che trasuda direttamente dall’asfalto – altra minchiata irreale che pervade i thriller alla Dark. Verrebbe da pensare che gli eterni lavori all’altezza di Novara siano una messinscena, un finto cantiere – come il finto accampamento militare di La cruna dell’ago – tirato su apposta per movimentare la vita dell’automobilista a rischio di colpo di sonno. Nella nostra macchina però nessuno dorme. Abbiamo un sacco di cose di cui dibattere durante il viaggio.
Highlights:
Enrico (fra sé): «Hanno saputo. Hanno scoperto che gli ho fottuto l’autore e me la stanno facendo pagare».
Riccardo: «Cosa diavolo dovrebbero aver saputo, Enrico?».
Enrico (scuotendosi): «Non posso dirtelo».
Riccardo: «Enrico, col cazzo che non puoi dirmelo. Ho diritto di sapere: di qualsiasi cosa si tratti, ci ho quasi lasciato le penne!».
Enrico (irrigidendosi): «Violerei un contratto di riservatezza».
Riccardo: «Tu avrai firmato il contratto, ma quello piegato in due col veleno in corpo ero io, se non ricordo male!».
Berganza: «Oh, su, Fuschi. È un’ipotesi del tutto fantascientifica che la concorrenza abbia deciso di farle fuori un autore perché lei ne ha fregato uno a loro».
Enrico: «Commissario!».
Io: «Non ha mica detto che è Henry Dark».
Enrico: «VANI!».
Io: «Ops». (Risatina.) «E dai, Enrico, Riccardo ha ragione, si merita di sapere. E poi è Riccardo, farebbe di tutto per te. Tipo, morire».
Riccardo: «Hai fregato Henry Dark alla concorrenza?».
Enrico (incapace di trattenere un sorriso a ottantotto tasti): «Che colpaccio, eh?».
Riccardo: «Dio, Enrico, come cavolo hai fatto a convincere Henry Dark? Ha bisogno di un trapianto di rene? Perché per meno non si spiega».
Enrico: «Ma perché dite tutti la stessa cosa? Non potrei semplicemente essere un editore che sa fare il suo mestiere?».
Silenzio.
Io (dopo un po’): «Perché uno che ha cancellato le proprie impronte dappertutto dovrebbe essere così coglione da imbrattare gli oggetti con il proprio DNA?».
Berganza: «Ci stavo pensando anch’io. Perché gli serviva l’effetto spaventoso del sangue ma non sapeva che avremmo potuto beccarlo grazie al database, direi».
Io: «E perché uno che ha a disposizione un animale morto deve usare il proprio, di sangue?».
Berganza: «Perché può averci pensato dopo avere già inviato il coniglio. Forse ha costruito la sua strategia in seguito, a poco a poco».
Riccardo: «Oppure perché la ragazza, la poliziotta – come si chiama?».
Io e Berganza: «Pezzoli».
Riccardo: «...perché Pezzoli ha ragione e l’autolesionismo è coerente con i messaggi che l’Agliano vuole mandare».
Enrico: «Oppure perché il sangue non è il suo e lui è solo una pedina nelle mani del vero colpevole».
Io: «Lo sapevo che ci prendevi gusto, Enrico».
Enrico: «...che potrebbe essere qualcuno dei boss della nostra concorrenza».
Io: «Enrico, basta».
Enrico: «Ma perché vi sembra così folle?».
Io: «Non esiste un pulsante per l’eiezione del suo sedile?».
Riccardo: «Almeno un’autoradio ce l’hanno, questi trabiccoli?».
Ingresso a Milano.
Casello.
Coda in corrispondenza dell’uscita Fiera. Coda in corrispondenza dell’uscita Cormano. Sulla destra: l’hotel a quattro stelle con il panorama più orrendo del mondo – il cavalcavia della Torino-Venezia. Sulla sinistra: un capannone espositivo di assurdi artefatti di cartapesta che imitano le statue di Abu Simbel. Il tutto in un panorama di palazzine, capannoni e cielo malva. Coda finale, in corrispondenza dell’uscita Sesto San Giovanni: la nostra. Viale Zara. Viale Sarca.
«Ehi», dice Enrico.
«Lo so. Non dire altro. Me l’ha fatto notare anche la tua redattrice, Olga, appena una decina di giorni fa.»
Enrico tace, perché non gli piace sembrare prevedibile, ma soprattutto non gli piace sentirsi dire che fa le stesse osservazioni di una redattrice.
Dopo un’ora e trentasei minuti stiamo dunque parcheggiando davanti al palazzo del complesso editoriale. Non è proprio in periferia ma nemmeno in centro, è grande, è austero, è brutto. Ma, soprattutto, è costeggiato da un grande parcheggio, a sua volta delimitato da un prato pieno di sterpi. Scommetto la testa di Betti che il coniglio veniva da lì.
Berganza guarda i messaggi sul cellulare. «Pezzoli ha fatto delle telefonate mentre eravamo in viaggio. Alla reception dovrebbero saperci già dire dove dirigerci.»
La hall è monumentale e gelida, l’incrocio fra un’astronave e un crematorio. In una gigantesca guardiola dalla gigantesca vetrata, dietro a un gigantesco bancone, una minuscola impiegata dagli occhiali a mezzaluna esamina velocemente il tesserino del commissario. È vero che è preparata; ci dice al volo: «La persona che cercate lavora nell’altra sezione. In fondo al corridoio a sinistra, trova la mia collega e chiede a lei».
Poi riabbassa gli occhi sul suo monitor senza degnare nessuno di noi di un secondo sguardo. Nemmeno Riccardo, che comunque non sembra particolarmente preoccupato dal fatto di non essere stato riconosciuto, visto che occhio e croce mi sembra più preoccupato a preoccuparsi d’altro, per esempio del fatto di stare forse per trovarsi faccia a faccia col suo aspirante assassino, il che ha senso.
Chi invece vive con disagio la cosa, mi accorgo, è Enrico. Attraversiamo tutto il corridoio, lunghissimo, su cui si affacciano una dozzina di uffici e tre open space. Sulle targhe delle porte leggo distrattamente “Ufficio diritti”, “Direzione narrativa”, “Direzione saggistica”. In pratica da ciascuna di queste stanze potrebbe sbucare da un momento all’altro un direttore editoriale o un capo marketing o un referente per i diritti stranieri che con Enrico può avere conversato a convention, rassegne, fiere del libro. Enrico si è un po’ nascosto dietro Berganza – anche se naturalmente la sua testa non può trovare un vero nascondiglio se non dietro la Muraglia Cinese – perché si sta preparando all’idea di venire identificato e deve decidere in fretta che diavolo di atteggiamento indossare. Posso quasi udire i suoi pensieri: per inciso, suonano come quelli di una trentenne che sceglie la mise per un appuntamento. Se ci sono veramente i suoi concorrenti dietro allo stalking di Riccardo (ipotesi che non riesce a scrostarsi da quella sua stupida capocciona), Enrico si dice che dovrebbe optare per la collezione Diffidenza e Superiorità; ma metti che invece non abbiano fatto niente, metti che venga fuori che anche solo averli sospettati sia ridicolo (come peraltro sembrano pensare tutti tranne lui), e allora sarebbe socialmente più consigliabile puntare subito su Amichevolezza e Non Indovinerete Mai Perché Sono Qui. Nel dubbio, Enrico si butta addosso il primo straccetto che trova, cioè un’espressione neutra – una poker face, direbbe Dark –, e prima di ogni porta si impettisce un po’, perché la dignità è un tubino nero, non esce mai di moda. Prima di transitare davanti alla porta contrassegnata come “Direzione editoriale”, azzarda addirittura un accessorio, ossia preimposta un sorrisino.
Fatica inutile, dato che la porta è socchiusa e dentro, e da dentro, non si vede un tubo.
Cioè, a essere sinceri, su duemila miglia di corridoio degli impiegati che ci squadrano con curiosità li incrociamo anche. Solo che i loro sguardi sono più che altro indirizzati al mio impermeabile.
Insomma alla fine un accidente di nessuno riconosce un accidente di nessuno. Fine del discorso. Nessuno ferma Riccardo né Enrico esclamando, che so, «Ma che onore! Cosa ci fa qui? Perché nessuno mi ha avvertito che veniva?». Enrico, come tutti noi, potrebbe attraversare l’edificio vestito da ballerino di flamenco o trasportando un Kalashnikov e nessuno lo registrerebbe nemmeno. Se lo conosco – e lo conosco – accorgersene gli sta facendo malissimo. Anche se scommetto un Ardbeg dieci anni che stasera farà finta che essere passato inosservato sia stata una botta di culo, perché altrimenti sai che rotture di palle, fermarsi, spiegare, perdere tempo.
La verità, mio povero patetico Enrico, ingenua new entry nel vasto universo dell’anonimato, è che, come diceva Foster Wallace, la gente pensa a noi molto meno di quanto crediamo.
Credi a me. Credi a un fantasma che cita un altro fantasma.
La seconda reception sta all’ingresso di un secondo corridoio, che in verità è la continuazione del primo (questo dev’essere il palazzo più lungo del mondo). C’è però una porta in mezzo, sulla quale è scritto “Sezione riviste e quotidiani”. Berganza la varca senza esitazione, noi dietro, e in coda Enrico che getta all’ala libri lo sguardo di chi lascia una festa di capodanno senza essere riuscito a rimorchiare.
Ora davanti a noi c’è appunto la seconda hall, con una guardiola lievemente, ma solo lievemente, meno gigantesca della prima, una vetrata proporzionata, cioè comunque sproporzionata rispetto al resto del mondo reale, e dietro la vetrata una collega della prima receptionist, però meno secca, in senso fisico e, a giudicare dall’espressione, probabilmente anche figurato.
In effetti, lo sguardo di questa seconda receptionist è parecchio espressivo. Gli occhi le si allargano dietro gli occhialetti (li porta anche lei, ma dalla montatura rossa, sbarazzina) e ci osservano avanzare nemmeno fossimo i cavalieri dell’Apocalisse. (Io sarei Morte, naturalmente; Bergan za può fare Guerra, Riccardo vince Pestilenza per quanto mi ha ammorbata nei mesi passati e a Enrico, braccino corto con gli aumenti, calza a pennello Carestia. Mancano Pezzoli e Petrini, ma a Petrini quantomeno possiamo assegnare una parte da arcangelo, per ovvie attinenze estetiche.)
Berganza si accosta per parlarle e la lentezza con cui lo sguardo della ragazza si scolla da Riccardo per concentrarsi sul suo interlocutore mi dice molte cose. Per l’esattezza, che non solo trova Riccardo un soggetto degno di essere guardato più a lungo di qualunque altro – e fin qui, grazie, nessuna novità – ma anche che lei, sì, finalmente deve averlo riconosciuto.
Riccardo ha appena battuto Enrico uno a zero.
«Cerchiamo un addetto delle pulizie di nome Dario Agliano», spiega Berganza dopo essersi identificato.
«A quest’ora dovrebbe essere in servizio», dice Occhialetti Rossi pronta, affabile, scartabellando qualcosa che non vedo sotto il livello del bancone. «Ve lo cerco. Nel frattempo» – indica la porta a vetri opachi che divide la hall dal corridoio degli uffici – «appena oltre quella porta c’è una saletta caffè. Se volete aspettare lì...»
Berganza annuisce e i quattro cavalieri ripartono. Sento gli occhi della receptionist attaccati alle nostre schiene.
E poi accade una cosa strana.
La porta a vetri, come ho detto, è opaca: uno di quei vetri temperati dietro ai quali le sagome si muovono come ombre cinesi fuori fuoco. Eppure, mentre attraversiamo la hall formato Piazza Rossa, ho questa strana sensazione di déjà-vu, di familiarità, nell’osservare una silhouette che transita dietro la porta. È sempre più nitida man mano che ci avviciniamo. Una silhouette indubbiamente femminile – gambe sottili, gonnella svolazzante, massa di capelli in cima al tutto.
Tuttavia, non ha senso avere un moto di riconoscimento e familiarità verso quella che resta pur sempre una sagoma dietro un vetro opaco, una sagoma in bassa definizione che potrebbe essere di mille persone diverse.
Eppure ce l’ho.
Poi Berganza apre la porta e la sagoma – che sta facendo avanti e indietro dal corridoio con in mano un plico di fogli stampati – ci si palesa e io non ho più bisogno di ricordarmi niente.
Una giovane donna dai riccioli neri e lucidi e i tratti della bellezza del sud. I cui occhi neri, grandi e gentili, si girano verso di noi e di colpo si spalancano come portoni.
Fermandosi in particolare su una delle nostre facce.
«Oh mio Dio. Ciao, Riccardo», dice con la voce dello shock.
E Riccardo risponde: «...Sonia?»