16.
QUALCOSA DI SANO
Per un po’ pensiamo di dovercene tutti andare fino a La Spezia, finché Petrini ci raggiunge con Pezzoli dal commissariato da dove ha ritelefonato alla madre di Furlani e ci comunica che quest’ultimo sembrerebbe essere tornato a Moncalieri ieri sera, avendo una visita dal suo dottore domattina presto.
Proprio quello che volevamo: poter stringere i tempi. Se quella di Riccardo è stata davvero una trattativa col Fato, dev’essere stato un negoziatore grandioso, perché a quanto pare gli ha strappato un extra di fortuna anche per noi. Così partiamo tutti e quattro per Moncalieri, in due macchine: Petrini, Pezzoli, Berganza e io, mentre Riccardo ci saluta con la mano dalla finestra dell’ospedale come in un film strappalacrime e si prepara ad affrontare un pomeriggio di noia e di avances da parte dell’infermiera-spettro.
Furlani abita in un condominio brutto, vicino all’imbocco dell’autostrada. L’intonaco sembra leopardato, tanti sono i punti in cui si è scrostato, e se nessun tapino è finito nella cronaca locale per essersi beccato i calcinacci sul cranio dev’essere solo perché, sotto al palazzo, il marciapiede è così stretto e malconcio che ben pochi devono avere voglia di passarci. Saliamo le scale – non c’è ascensore, non c’è spazio per metterne uno nemmeno se si volesse, anzi, per l’esattezza lo spazio è così misero che gli inquilini devono probabilmente seguire per regolamento di condominio una dieta che impedisca loro di superare un determinato girovita.
Cerco di figurarmi la vita di Furlani. Ricercatore con uno stipendio inversamente proporzionale a passione e utopia. Che si sobbarca quattro piani di scale ogni settimana con le borse della spesa sospinto dalla fiducia nel meglio che verrà. Lo immagino pensare: “È temporaneo”. Lo immagino dirsi: “I miei vecchi compagni di università si saranno anche già sistemati, ma io so che devo solo essere tenace, e poi nel frattempo almeno posso fare qualcosa che amo davvero, che fortuna”. Lo immagino il giorno dell’assegnazione dei fondi, pieno di trepidazione e speranze, un istante prima di scoprire che gli sono stati negati. E poi un istante dopo.
Berganza suona il campanello.
Da dentro: «Chi è?»
Berganza: «Dottor Franco Furlani? Polizia. Non si preoccupi, dobbiamo solo parlare».
Furlani apre.
È magro come una spiga, pallido da esser quasi traslucido, infagottato in una felpa lisa che una volta doveva essere colorata. Anche nelle vecchie foto di Facebook che abbiamo visto in commissariato era magro, ma almeno era pulito, pettinato e vestito bene; ora sembra solo, be’, magro. La sua testa calva sembrerebbe un litchi sbucciato, se i litchi avessero le occhiaie.
Berganza si presenta, presenta tutti quanti, mentre nel litchi si spalancano due occhi turbati e sempre più sorpresi man mano che raccolgono i dettagli dello strano presepe che si sono ritrovati davanti sul pianerottolo. Poi il commissario dice «Abbiamo un messaggio per lei», gli porge il suo cellulare e fa partire il video.
«Dottor Furlani, si ricorderà di me», esordisce la voce di Riccardo. «Non sono sicuro che voglia vedermi, ma io di certo avevo bisogno di vedere lei, per chiederle scusa. So perché ha fatto quello che ha fatto e, cosa più importante di tutte, credo che lei abbia avuto ragione a farlo. Me lo sono meritato. Mi sono spaventato, non ci ho dormito la notte, ho temuto per il mio futuro, sono stato male fisicamente... e mi sono meritato tutto quanto. Perché sono praticamente certo che siano le stesse cose che ha passato lei a causa mia. Con la differenza che lei non se le è cercate, mentre io sì. Io ho usato le mie influenze, le mie simpatie e il mio prestigio per avere un trattamento di favore, per saltare la fila, per farla facile. E credo che quello che lei mi ha fatto passare negli ultimi giorni dell’ultimo mese non sia che il minimo indispensabile per iniziare anche solo a pareggiare il conto dei dispiaceri che io ho inflitto a lei. Quindi, per quel che può valere, eccomi qui, a chiederle sinceramente scusa.»
Silenzio, poi nero, e il video finisce.
Siamo tutti colpiti, lo devo dire. Riccardo è un istrione per natura e a recitare è sempre stato bravo. Ma su questo pianerottolo rachitico, illuminato da una plafoniera che sfarfalla perché la lampadina quindici watt sta per fulminarsi, mi viene da pensare che i casi sono due: o Riccardo è stato sincero, o questo video ha documentato la miglior performance teatrale della sua vita.
Inoltre – c’è un inoltre. Un “inoltre” al quale Petrini o Pezzoli possono non aver pensato, nella loro candida inesperienza di neonati in divisa, ma che io e Berganza abbiamo subito condiviso con uno sguardo (crampo. Sì, anche la perfetta intesa con cui comunichiamo a occhiate mi appallottola le interiora). È l’effetto venditore porta a porta, che non ti chiede se vuoi comprare il suo aspirapolvere ma direttamente se preferisci il modello ultraspeed o quello deluxe. La strategia mamma-diabolica-che-ti-smaschera-con-grazia, quella per cui tua madre non ti chiede se sei stato tu a rompere la statuina di Capodimonte con una pallonata ma direttamente se ti sei fatto male coi cocci, e tu coglione a dirle di no tutto felice. Dare per scontato qualcosa nel parlare con qualcuno induce quel qualcuno a venirti dietro senza sindacare: a comprare l’aspirapolvere, a confessare di avere schiantato l’orrendo soprammobile – o ad ammettere di essere lo stalker al quale la vittima sta offrendo comprensione. In pratica, Riccardo avrà registrato il video per il sincero desiderio di scusarsi, ma Berganza e io sappiamo che sentir dare così per assodata la propria colpevolezza dovrebbe avere anche il vantaggio collaterale di indurre Furlani ad ammetterla senza opporre alcuna resistenza.
Trucchetti psicologici prêt-à-porter. Berganza li conosce per ché è uno sbirro, io perché entro nella testa della gente per mestiere, entrambi li conosciamo perché abbiamo letto più gialli di quanti ce ne siano in un campo di girasoli. Devo appuntarmi mentalmente di chiedere a Enrico, la prossima volta, se l’aumento me lo darà del dieci o del quindici per cento.
Furlani muove la bocca a vuoto per qualche istante, poi finalmente da qualche parte dentro la sua laringe arriva il suono, come quando non usi una biro troppo a lungo e l’inchiostro per riaffiorare ci mette un po’.
«Signori», dice, «io... io vi ringrazio, e ringrazio il professore. Non ho mai nemmeno osato sperare di udire queste parole da lui, e posso solo immaginare quanto gli siano costate. Non ce n’era nemmeno bisogno, ma lo ringrazio, davvero, vi prego di riportarglielo. Posso solo chiedervi una cosa?» Esita, non sa bene come metterla. «A cosa si riferisce quando dice “quello che lei mi ha fatto passare negli ultimi giorni dell’ultimo mese”?»
Pezzoli e Petrini aprono la bocca e poi la richiudono, come la Sirenetta quando si rende conto di essere diventata muta.
«Avanti, Furlani, lo sa», dice pacato e gentile Berganza. «Ma è finita, adesso. Ha vinto.»
A Furlani scappa un sorrisino amaro, malinconico. «Vinto? Io? E cosa mai avrò vinto, io, mi perdoni?»
«Scusi... ma lei davvero non sa di cosa stiamo parlando?»
Furlani scuote la testa.
Berganza mi guarda.
Io guardo Furlani, poi Berganza, poi Furlani.
«Cazzo, capo. Credo sia sincero.»
Il commissario resta come in stand-by per un paio di secondi, poi tutto d’un colpo sbuffa e trasecola. «Furlani, mi faccia capire: non è stato lei a minacciare di morte il professor Randi?»
Furlani scoppia a ridere. Già. Abbiamo davanti un depresso che si fa la prima sincera risata da mesi: forse dovremmo complimentarci con noi stessi. «Sta scherzando! Sarò depresso, ma non sono mica impazzito!»
Vedo con la coda dell’occhio Petrini e Pezzoli scambiarsi un’occhiata interdetta.
«Le spiacerebbe farci entrare un attimo?» chiede il commissario.
Furlani non è una Pasqua all’idea di avere ospiti, si vede. Il suo salotto odora di museo di provincia, e sembra di entrare in un fotogramma virato grigio, nel disegno a matita morbida di un bambino maldestro che ci ha passato sopra il fianco della mano. Non è polvere o sporcizia; è una patina di trascuratezza, più che di particelle organiche. So bene che la depressione clinica, in quanto malattia a tutti gli effetti, non ha molto a che fare con la tristezza o con qualsiasi altro stato d’animo propriamente inteso, ma di certo vivere in questa pozza di desolazione non deve fare molto per l’umore di questo tizio.
Fatto sta che Furlani ci fa entrare e lascia che Berganza gli si sieda davanti. Petrini si sistema sua sponte in piedi a lato del commissario come un corazziere, Pezzoli ed io ci aggiriamo piano per la stanza, lei guardandosi intorno un po’ affascinata un po’ imbarazzata per il disturbo che stiamo arrecando, io controllando il cellulare.
«Cos’ha fatto in questi mesi, dottor Furlani?» chiede Berganza.
«Il depresso», risponde il depresso, con un mezzo, amaro sorriso e una certa dose di autoironia. «Essenzialmente, me ne sono stato chiuso qui dentro da solo... come potrete constatare dallo stato non esattamente accogliente della casa, temo.» Berganza gli fa un microgesto che significa che non si deve preoccupare di queste cose con noi, che è abituato a ben di peggio e che apprezza la cortesia (i gesti del commissario sono come le parole che inventava Lewis Carroll: uno solo ne contiene una decina). «Comunque», prosegue Furlani, grato, «dopo che ho perso la promozione mi sono tappato dentro e non sono uscito per un mese. In capo a due, la mia fidanzata mi ha lasciato. Non eravamo insieme da tanto, ma stavamo costruendo qualcosa, e... Lei non mi aveva ancora visto in una situazione di crisi: mi aveva conosciuto nelle vesti di brillante promessa accademica e, ha detto, non pensava che in caso di tracolli della fortuna avrei reagito così. Ha detto che questo minava alla base ogni possibilità di una futura vita insieme, perché non poteva immaginare di condividere il futuro con qualcuno che in caso di difficoltà si sarebbe barricato in casa a piangersi addosso. E la volete sapere una cosa? Aveva ragione. Se n’è andata e io non posso biasimarla.»
Furlani scuote il testone pallido che, se non fosse circonfuso di un’aureola di desolazione, forse non sarebbe nemmeno così brutto. Nelle foto, brutto brutto non mi era sembrato.
«Livia e io abitavamo qui insieme. Fossi stato da solo – quando ancora stavo bene, intendo – avrei preferito un appartamento più piccolo ma in un edificio e in una zona migliori. Ma questa era una delle poche case che potessimo permetterci che fosse abbastanza grande da pensare di... be’, sì. Insomma. Di crescerci una famiglia.» La voce gli si abbassa sul finale. Una specie di dissolvenza al nero. «Ultimamente dormo in una delle due camerette. La nostra ex camera matrimoniale l’ho chiusa a chiave. Lì non riesco nemmeno più a entrare.»
Mi pare di udire una specie di sospiro soffocato dalle parti di Pezzoli. E così la nostra giovane promessa dell’investigazione cela un cuore romantico. Ma pensa.
«In ogni caso, l’abbandono di Livia non ha certo migliorato il mio stato», prosegue Furlani. «Come ho detto, ho continuato a rimanermene chiuso in casa da solo fino a quando mia madre me ne ha tirato fuori a forza costringendomi a consultare uno specialista. Mi è stata diagnosticata una depressione reattiva. Ora assumo dei farmaci e ogni mattina mi sforzo di fare un po’ di ginnastica. Dovrei uscire, andare a correre o fare nuoto, ma ancora non ci sono riuscito.»
Sbircio Pezzoli, che lo sta guardando come si guardano di solito i servizi del telegiornale sui sopravvissuti a un terremoto: con infinita pietà e una luce negli occhi che tradisce la voglia cieca di fare qualcosa subito. Inoltre, si sta martoriando la punta della coda. Non riesce a trattenersi: «Ma ci saranno altre posizioni all’università, no? Magari il professor Randi potrebbe...»
Furlani fa un altro tenue sorriso. Probabilmente sta dando fondo al budget del semestre. «Non datevi pena», dice. «Non avrei nemmeno le capacità, in questo momento, per riprendere il mio lavoro da dove l’ho lasciato. I farmaci mi levano la concentrazione, dormo male, e quando sono sveglio sono sempre stanco e annebbiato.» Scuote la testa-litchi. «Ma potrebbe andare molto peggio, sapete. Non si può licenziare una persona con problemi di ansia o depressione, quindi il mio posticino in università è lì che mi aspetta. Sono stato dichiarato invalido al 30% e anche questo non è molto ma qualcosa fa. Poi, più il tempo passa più la valutazione della mia malattia mi avvicina alle categorie protette, il che spero mi aiuterà un poco dopo che il mio attuale contratto sarà finito. Mia madre, anche se vive lontano, gode di permessi e agevolazioni per potermi assistere e portare alle visite, visto che a me non è consentito guidare. Insomma, tutto questo per dirvi che qualche volta lo Stato funziona... e soprattutto per dimostrarvi che non avrei davvero motivo di avercela così tanto col professor Randi.»
Berganza annuisce.
«Inoltre», riprende Furlani, ora più timido, «c’è anche un’altra cosa. Più recente.» Si mordicchia un labbro, esitando. «Negli ultimi tempi, sembra che Livia si stia riavvicinando. Pare si sia finalmente resa conto che la mia è una malattia vera, che non stavo piangendomi addosso, per dirla con le sue parole, e credo di poter dire che si senta un po’ in colpa per avermi abbandonato. Mi... mi chiama per sapere come sto, si interessa ai miei progressi, un paio di volte è persino passata a lasciarmi un po’ di spesa sulla porta.» Posso sentire il cuore crocerossino di Pezzoli sciogliersi all’interno della sua gabbia toracica come una mou dimenticata al sole, e forse anche spezzarsi un pochino. «È ancora presto per dire che ritornerà sui suoi passi, naturalmente, ma intanto mi aggrappo a queste piccole cose e... e mi sento speranzoso, semmai, non livoroso, ecco.» Furlani ci chiede con gli occhi se lo troviamo patetico.
«Dottore, che dire», commenta Berganza. «Grazie della collaborazione.»
«Figuratevi. Se posso esservi ancora utile...» In quel momento gli squilla il telefono. «Oh, è lei, è Livia», dice guardando il display. Alza un dito, come a chiederci scusa, sarà una cosa da un minuto. «Dimmi», risponde.
Io alzo la testa di scatto.
Ora. È solo un “dimmi”, lo so anch’io. Però quelle due sillabe pizzicano all’istante una dissonanza sulle mie corde interiori. Quel “dimmi” è come Michele rispondeva a mia sorella quando lei gli telefonava. “Dimmi” è sbrigativo, di servizio, e non contiene nessuna sfumatura di quei “che bello, sei tu”, “sono felice di sentirti”, “ti sono grato perché so che non sei obbligata a chiamarmi” eccetera, che ti aspetteresti da uno che vede comparire sul display il nome della sua ex che ancora ama.
Il che significa che mi viene da prestare particolare attenzione al resto della telefonata.
«Sì, sono con delle persone. No, macché uscito, Li’, te l’ho detto che ancora non mi sento in grado. Sono venuti loro da me... sono dei poliziotti. Già: la sai la fortuna che ho, i guai non me li devo neanche cercare, sono loro che cercano me.» Risatina amara. «L’appuntamento è domattina alle nove. Sì, ci vado da solo, mamma è a casa sua, poverina, fa quel che può ma non posso pretendere che ci sia sempre. Eh, andrò a piedi, cosa vuoi che ti dica... Mah, se riesco a prendere l’autobus anche una quarantina di minuti, ma la mattina è sempre pieno e lo sai che sono diventato anche claustrofobico, quindi... Se proprio insisti, ma non voglio essere un peso per te, se poi devi anche andare a lavorare... Okay, allora alle otto e mezza qui sotto. Facciamo otto e venti che con il traffico non si sa mai.»
Chiude e ci guarda felice. «Dicevamo? Oh, sì, ci stavamo salutando.» Petrini allenta la posa da gargoyle, come se si preparasse a incamminarsi.
«Solo un’ultima domanda.» Questa sono io, quasi distrattamente, sempre con gli occhi sul mio cellulare. «Ha detto che le è proibito guidare. È perché assume antidepressivi che inducono sedazione, vero?»
«Esatto», annuisce Furlani.
Berganza mi guarda incuriosito e io guardo lui perché sapevo che mi avrebbe guardata. Sono certa che sta pensando all’ipotetico viaggio La Spezia-Torino su cui abbiamo già teorizzato in commissariato. Solo che non è lì che voglio arrivare.
«Sono gli stessi farmaci che non bisogna assumere insieme all’alcol, giusto?»
«Proprio loro», annuisce Furlani, collaborativo. «L’alcol ne amplifica gli effetti e può portare al coma o anche alla morte.»
Annuisco anch’io, accorata. «Già. Un sacco di rockstar se ne sono andate proprio così.»
«A me basterebbe tornare ad avere una vita normale, non miro a fare la rockstar», sorride mesto Furlani.
«Capisco bene. Ma, allora, mi dice perché tracanna superalcolici come un tombino?»
E di colpo mi stanno guardando tutti. Io sto placidamente smanettando sul mio cellulare, e mi avvicino a Furlani allargando una foto sul display per mostrargliela bene.
«Questa è l’ultima foto pubblicata da lei sulla sua pagina Facebook insieme alla sua fidanzata, che presto sarebbe diventata ex. Risale a quattro mesi fa. Lo vede lo sfondo?» Furlani non sa bene cosa dire. Siccome Petrini, Pezzoli e anche Berganza si sono avvicinati ma cinque teste sopra uno stesso telefono non hanno mai una buona visuale, spiego ad alta voce: «Vi trovate in questo salotto, in quel punto, vede?, e alle vostre spalle c’è quella vetrina là. È la classica vetrinetta dei liquori: dentro ci sono una bottiglia di brandy, una di rum, un amaro e un whisky. Fra l’altro, mi lasci dire: il rum e il brandy sono di qualità più che accettabile, il whisky deve proprio imparare a sceglierselo meglio. Comunque: lo vede il livello degli alcolici nelle bottiglie?»
«Sono piene», dice Petrini per lui, visto che Furlani sembra indeciso su che suoni far uscire dalla sua bocca.
«Esatto.» Non aggiungo altro: mi volto verso la vetrina, tutti fanno lo stesso, e le quattro bottiglie – sempre loro, anche se in posizioni leggermente diverse rispetto alla foto, il whisky davanti al brandy e il rum tutto a sinistra – ci salutano mostrandoci le due dita scarse di alcol che, in media, giacciono sul fondo di ciascuna. Ne è comparsa anche un’altra, di gin, che sta tirando gli ultimi anche lei.
«Sta scherzando?» Ah, okay: Furlani alla fine ha optato per la linea dello scandalo. Va bene. Fanno quasi sempre così: negare e offendersi, un evergreen della psiche del colpevole. «Cos’è, il medico della mutua? Non si può nemmeno più offrire da bere agli amici?»
«Ma quali amici, Furlani, se l’ha detto lei che sono mesi che qui non mette piede un’anima. Pure Livia, ha detto, le lascia la spesa sulla porta.»
«Era... era un modo di dire, “nessuno”... Magari, qualche amico, qualche volta...»
«Allora ci dica quali amici. Se non teme che non confermino.»
«E poi mia madre viene a pulire una volta a settimana...»
«Dev’essere un lavoraccio, se poi ogni volta ha bisogno di scolarsi tre bicchieri di liquore per tirarsi su.»
Furlani arrossisce di colpo, su tutto il cranio. «Non capite», sbotta. «Nessuno capisce mai. La depressione è una brutta bestia. Uno sa cosa dovrebbe fare per guarire, razionalmente; sa cosa gli hanno detto i medici, ma poi ogni tanto ha le ricadute e allora magari una sera si scola un cicchetto, e poi un altro, pensando di poter stare meglio, e...»
«Risparmi la recita, tanto per oggi il premio al miglior monologo è stato già assegnato. Furlani, quella roba ha in media quarantacinque gradi. E sono cinque bottiglie, praticamente prosciugate in altrettanti mesi. Creda me che me ne intendo. Bisogna essere dei consumatori, uhm, decisamente costanti, oppure avere costantemente dei visitatori. E nessuna delle due cose mi pare compatibile col suo status dichiarato di eremita sotto antidepressivi.»
Silenzio.
Pesante, ingombrante e sonoro come un soprano lirico.
«Dottor Furlani», dice Berganza, la voce più cavernosa che mai. «Credo che sia il caso di fare due chiacchiere.»
«Ma porca puttana!» sta ancora ringhiando il commissario mentre saliamo in macchina e partiamo in direzione di Torino centro. «Non si fa in tempo a cercare un delinquente che ne spunta subito un altro! E poi: possibile che non esista più uno straccio di essere umano al mondo che sia capace di avere una relazione non malata?»
Già.
Mentre guardo la tangenziale sfilare fuori dal mio finestrino e finisco di scrivere a Riccardo il resoconto degli eventi, penso anch’io che per l’ennesima volta abbiamo infilato le mani nella fossa settica della psiche umana.
È venuto fuori che Furlani ci ha mentito, sì, ma anche un po’ no. Dopo il fattaccio di Riccardo, si è effettivamente chiuso in casa per un paio di mesi a piangersi addosso, fino a che la sua ragazza l’ha mollato e la madre, rosa dalla preoccupazione, ha iniziato a insistere perché andasse a farsi vedere da un professionista, “non sia mai che tu abbia la depressione”. Non è vera depressione, naturalmente, ma per l’occasione Furlani s’informa e – ohibò – scopre che a simularla magari ci scappa pure qualche vantaggio. Tanto per cominciare, una serie di aiuti economici piccoli ma cumulabili, in cambio dei quali oltretutto non deve fare assolutamente niente, se non corrompere o raggirare un dottore ogni tanto (e badare a mantenere uno stile di vita dimesso e morigerato, ovviamente, perché se ti fingi depresso poi non è che puoi passare le serate raggiungendo discoteche in Porsche; ma non è nulla che non si possa fare, come dimostrano certi boss latitanti imbottiti di soldi che finiscono a dormire in scantinati senza coibentazione). Tuttavia, il vantaggio più grande che la sua finta depressione gli dà è psicologico: Furlani imbraccia la diagnosi come l’ariete con cui abbattere l’istinto di autoconservazione di Livia. La Stronza Che Non L’Ha Capito (E Che Anzi Ha Contribuito A Gettarlo Nella Malattia) si ritrova manipolata come un blocco di plastilina dalle grinfie della compassione e del senso di colpa. Così è credibile, effettivamente, che Furlani non covi alcun rancore verso Riccardo Randi, ma solo perché la sua vendetta se la sta già godendo sulla pelle di qualcun altro.
Berganza si è fatto anche aprire la grande camera in cui Furlani dormiva con Livia e nella quale, a suo dire, non riusciva nemmeno più a mettere piede. Ci mette piede benissimo, invece, e anche tutto il resto del corpo: ci ha installato un monitor quaranta pollici, collegato al computer, sul quale passa le giornate a giocare ai videogames e guardare serie tv. E a coltivare il suo nuovo profilo Facebook, Frank Ultimodeiromantici, che ha come avatar una foto in bianco e nero di James Dean con gli occhiali da lettura e con il quale pubblica citazioni da romanzi, foto dell’autunno e ogni tanto qualche amara riflessione sulla vita. Ha trecentosei amicizie, tutte femminili, tutte raccattate negli ultimi quattro mesi. E a quanto pare alcune di loro mettono periodicamente anche il loro corpo, assieme a quello di Furlani, in questa stessa stanza – immagino dopo che mammina è stata chiamata a rendere presentabile l’appartamento – ed è nel loro tubo digerente, oltre che in quello di Furlani, che è scomparso il grosso della scorta di liquori dai tempi della foto che ho scovato.
E poi, niente. Oggi, Furlani è stato smascherato da una ghostwriter in possesso di due caratteristiche fondamentali, ossia 1) una certa competenza in materia di psicofarmaci, derivante da uno dei suoi lavori del passato (quel saggio sulle neuroscienze che ho scritto due anni fa non ha ancora smesso di essermi utile, pazzesco); 2) l’occhio sempre pronto, in una stanza, a farsi attrarre dalla vetrina degli alcolici.
«Ma quello che mi fa veramente girare le scatole è che questo volpone dovrebbe chiedere scusa a tutti i depressi d’Italia», ringhia Berganza. «Con la fatica che fanno a vedersi assegnare degli aiuti, con il bisogno che hanno di essere davvero assistiti, e soprattutto con le difficoltà che hanno a far capire che la loro è una malattia vera e non un capriccio o uno stato d’animo passeggero, gli manca soltanto uno come Furlani che decida di bere dal loro rigagnolo.»
Il mio cellulare squilla. Riccardo ha letto e ci sta richiamando. Metto in vivavoce. «Non ci posso credere», è il suo esordio. Benvenuto nel club.
«Già. Ora siamo retrocessi alla casella di partenza con l’indagine», dico. «In più, trovo che sia veramente uno schifo che il primo tizio con cui tu abbia deciso di essere una brava persona si sia rivelato uno stronzo.»
«Be’, se non altro questo mi fa sentire un pochino meno in colpa nei suoi confronti», sospira Riccardo.
«Randi, no.» Questo è Berganza. «Non lo faccia. Non ragioni così.»
«Uh... Vuole che continui a sentirmi una merda?» chiede Riccardo perplesso. «Non le basta che sia stato appena avvelenato?»
«Randi, seriamente.» Berganza mi lancia un’occhiata in tralice. «Sa qual è il problema peggiore del crimine? O della violenza, insomma, del male in generale... e le parlo da commissario, sulla base delle situazioni che ho visto nella mia esperienza.»
«N-no?»
«L’infettività», dice Berganza. «Il male che giustifica il male. Se qualcuno ti fa del male, ti senti autorizzato a farne anche tu, a quella stessa persona o anche a terze, perché in fondo l’hai già visto fare a qualcun altro e quindi, pensi, non può essere così grave. E se poi a fare o a farti del male è qualcuno a cui tu hai cercato di fare del bene, o di dare affetto – che so, come nel caso dei genitori abusanti, o dei mariti violenti –, nove volte su dieci il seme del cinismo ti si radica dentro e il poliziotto che è arrivato un giorno a salvarti ha altissime probabilità di ritrovarsi, un domani, a salvare qualcuno da te.» Ehi. Quando diceva “seriamente”, intendeva davvero “seriamente”. Lo conosco da quattro mesi ed è il primo discorso per il quale stia superando il muro delle cinquanta parole. «E succede a tutti i livelli, sa. Quelli alti, dei mali grossi, fanno paura: il bambino maltrattato che diventa un padre violento, o la donna abusata che lascia che la figlia subisca il medesimo scempio dal padre, perché non hanno mai assorbito modelli più sani. Ma è nelle cose piccole, nel piccolo schifo quotidiano, che il contagio è più implacabile: nel tizio che froda il fisco perché il vicino gli ha detto che lui lo fa e tanto non gli succede niente; nell’impiegato che si prende i meriti dello stagista perché quando era in prova lui anche i suoi supervisori l’hanno umiliato e sfruttato; nella ragazzina tranquilla che vede le compagne bullizzarne un’altra e si unisce perché se lo fanno loro può farlo anche lei.»
Riccardo non ha bisogno di dire niente perché si capisca che lo sta ascoltando profondamente. È quello che sto facendo anch’io.
«Mica devono essere per forza delitti di sangue: spesso sono solo minuscole meschinità. Una catena quotidiana di piccoli squallori che con l’esempio reciproco tutti ci autorizziamo a vicenda a compiere, e che stritola chi cerca di elevarsi di qualche centimetro sopra questa pianura di merda.» Berganza sospira. «Quindi sì, Randi. È uno schifo. E Furlani è uno stronzo, e lei potrebbe avere la tentazione di perdonarsi perché il male che gli ha fatto l’ha fatto a uno stronzo, quindi pari e patta e punteggio azzerato. Ma, Randi, non so se se ne rende conto. Il suo bisogno di chiedere scusa, il suo desiderio di metterci la faccia, è probabilmente la cosa migliore che stia uscendo da questo letame di storia. Non si faccia trascinare al livello di queste bassezze. La coltivi, la sua nuova personalità. Perché, e le assicuro che non avrei mai immaginato di dire queste parole un giorno proprio a lei, ma stava iniziando a piacermi, e io odio vedere andare in malora le poche cose che mi piacciono.»
Silenzio.
«Randi? I sedativi l’hanno stroncata?»
«No, sono sveglio. Sono solo, be’. Stupito.» Pausa. «Grazie, commissario.»
«Buona serata, Randi. Domani, se la fanno uscire, ci vediamo nel mio ufficio alle nove per fare il punto e ripartire da Marco Carro. Nel frattempo cerchi di riprendersi e tenga un coltello sotto il cuscino nel caso l’infermiera vampiro cercasse di abusare di lei nottetempo.»
Chiudo la telefonata.
Mi giro verso il commissario.
Non mi è mai sembrato così attraente.
«Lo sai cos’hai appena fatto?» gli dico.
«Una battuta di pessimo gusto sul personale ospedaliero?»
«Hai appena salvato un’anima dall’inferno. Sei una specie di eroe.»
Il commissario fa un mezzo sorriso, lusingato. Allungo una mano e gli carezzo una guancia. Le mie dita dalle unghie viola sulla sua faccia stropicciata. «Romeo Berganza, lei è una persona buona.»
Appoggia la sua mano sulla mia, tenendola lì dov’è.
«E lo so che ora avremmo appuntamento da Ivano, ma ti spiacerebbe infilarti un istante con la macchina in quella piazzola?» aggiungo. «Ho improvvisamente capito cosa intendevi quando mi hai detto che essere persone buone è più sexy di quanto si creda.»
Il commissario scoppia a ridere e mi dà un bacio sulle dita. Poi mi getta un’occhiata delle sue, ironica e piena di significati, e con mia grande gioia devia davvero verso la piazzola più vicina.