4.
COLPACCIO

Quindi, niente. Rieccomi seduta davanti a Enrico, nel suo salotto spoglio come un racconto di Carver, mentre il mio capo, silenzioso, davanti a me si sta pulendo gli occhiali.

Da trenta secondi. Trenta di numero. Trenta secondi sono un tempo lunghissimo, per pulirsi gli occhiali. Cioè, sono un tempo lunghissimo anche per pulire l’oblò di una nave.

«Enrico, un consiglio: quando i tuoi polpastrelli si toccheranno attraverso la lente, fermati.»

Enrico alza la testa di scatto, come se lo avessi risvegliato da una profonda meditazione.

«Solo per essere sicura: le cose che stai per dirmi non c’entrano più nulla con le minacce a Riccardo, giusto?»

Enrico scuote il testone. Provo sempre un po’ di compassione per quei poveri muscoli del collo. Costretti dalle circostanze a temprarsi più del normale, come orfani di guerra.

«Fantastico. Quindi due scoop nella stessa serata, e a giudicare dalla tua espressione nessuno bello.» Numero sbagliato, troppa suspense tutta insieme, troppa carne al fuoco. Questo è uno di quei casi in cui sarebbe tutto diverso, se fossimo in un libro. In un libro, il problema da risolvere sarebbe uno solo: trovare lo stalker di Riccardo, fine, e basterebbe alla grande a sorreggere duecento pagine. Tutto sarebbe più lineare, più facile, più riassumibile in quarta di copertina. Una trama sola e via. Non l’intrecciarsi incasinato di mille fili, come in quella matassa esteticamente discutibile che è sempre la realtà. La vita è una performance mediatica molto scadente: ad altissima definizione audio-video, ma con una pessima sceneggiatura.

Enrico si schiarisce la voce. Mi sembra che non sappia bene da dove cominciare.

«Vani, io sono un editore», è la sua opzione, alla fine.

«Lo so, Enrico. Non manchi mai di farlo pesare. È tanto se non te lo sei fatto tatuare sulla fronte, e sì che di spazio ce ne sarebbe.»

«Lo sai cosa fa un editore, Vani?»

«Una via di mezzo fra il capitano d’impresa e il Dio dell’Antico Testamento?»

«Scelte», dice Enrico. «Un editore fa scelte

«Era più o meno quello che intendevo.»

«Scelte dettate dall’esigenza di conciliare qualità e profitto, scelte coraggiose, a volte dolorose, a volte impopolari, a volte persino spietate.»

«A volte anche di merda, ma chiamiamole pure impopolari, se vuoi.»

«E credi che sia facile compiere ogni giorno scelte di questo genere, Vani?»

«No, Enrico. Credo che quando hai deciso, che so, di farmi scrivere l’autobiografia di quel ministro tangentaro due anni fa, o quel saggio sul “falso mito” dell’effetto-serra, per te sia stato un colpo al cuore, poverino. Meno male che sopra ci portavi il portafoglio.»

«È una maledetta fatica!» sbotta Enrico. Uh. Wow. Enrico alterato è sempre divertente. Le sue dita riprendono a incidere circoletti sulle lenti, attraverso la pezzolina. Deve consumarne una alla settimana, di pezzoline così. Tanto saranno a costo zero, in pelle di stagista.

«Tutti quei ragionamenti commerciali. Essere sempre aggiornato sulle tendenze dell’industria editoriale, sulle mosse della concorrenza, precorrere i tempi. Non limitarsi a selezionare i libri più promettenti fra quelli che si ricevono dagli agenti, ma commissionarli direttamente ai potenziali autori più interessanti, che si sentano pronti a scriverli o no.»

So esattamente a cosa si riferisce. Lo so perché in quella frase, “che si sentano pronti a scriverli o no”, “o no” è dove entro in scena io. Se Enrico decide che il bestseller del prossimo Natale dovrà essere un saggio sul nuovo scenario del terrorismo mondiale firmato dall’inviato a Bruxelles di un TG nazionale, e l’inviato in questione reagisce alla proposta con un educato «Ne sarei onorato, ma non saprei quando scriverlo», Enrico gli spiega che scriverlo è il problema minore. Dopo tre mesi vediamo l’inviato leggere con approvazione le bozze del proprio stesso libro, che una ghostwriter pagata sempre troppo poco avrà nel frattempo confezionato imitandone lo stile, le competenze, insomma tutto tranne la remunerazione.

«In questi anni ho fatto pubblicare a questa casa editrice i nomi più prestigiosi del panorama mediatico, politico e sociale. Ho fatto scrivere per le Edizioni L’Erica magistrati, scienziati, personaggi televisivi e cinematografici...»

«Non è esatto, Enrico. Tu non hai fatto scrivere magistrati, scienziati, personaggi televisivi e cinematografici. Tu hai fatto scrivere me. E hai fatto firmare magistrati, scienziati, personaggi eccetera eccetera.»

«E cosa cambia?» si indigna Enrico.

«Nulla, ovviamente. Agli occhi del pubblico. Ma, visto che stai attribuendo i maggiori meriti della tua direzione editoriale ai miei apporti, volevo farti presente che sono ben cinque giorni che non ti chiedo un aumento.»

Enrico storce il naso. «Te ne ho concesso uno quattro mesi fa, quanti vuoi che te ne dia?»

«Come hai detto prima? “Scelte coraggiose, a volte impopolari”...»

«È una maledetta fatica», ringhia il mio capo, riprendendo il filo. Oh, be’, io ci ho provato. «Eppure, ti sembrerà assurdo, Vani – a me di sicuro lo sembra – ma ci sono state delle rimostranze

«Non dirmi!» esclamo. «Al pubblico non piace la tua politica editoriale, riassumibile fondamentalmente in “facciamo scrivere cani e porci, basta che siano famosi”? Che imbecilli. Loro e la loro assurda pretesa che a scrivere siano gli scrittori.»

«Ma chissenefrega del pubblico!» bofonchia Enrico.

Lo guardo con compassione. «Oh, tesoro. Non così ad alta voce. Qualcuno potrebbe sentirti e scoprire che non sei un vero editore.»

Enrico grugnisce.

«E quindi, sentiamo: chi avrebbe osato contestare le tue linee di produzione? T’è apparso in sogno Johannes Gutenberg sdegnato dalla tua passione per cuochi e youtubers

Enrico tace.

Io aspetto.

Poi una lampadina si accende fra le mie sinapsi.

Lo sai cosa fa un editore, Vani?

Dirige.

Viene messo a dirigere.

Da un consiglio d’amministrazione.

«Enrico... Tu hai dei capi?» Giuro che fino a oggi non ci avevo mai pensato. Enrico Fuschi, l’uomo a cui da dieci anni a questa parte vedo fare il bello e il cattivo tempo come un papa dallo scranno intarsiato del suo studio alle Edizioni L’Erica, non è, di fatto, il capo delle Edizioni L’Erica.

Enrico rattrappisce le labbra così tanto che per un attimo temo che gli si sfilaccerà la pelle sulle tempie.

«E sono scontenti», concludo. «I tuoi capi sono scontenti di te. Oh mio Dio.» Gli sento quasi crepitare i tessuti cutanei sulle ossa della faccia. «Non riesco a crederci.» Apro le mani nell’aria, i pollici in fuori, come a inquadrare un panorama. «Ho una visione. Dante. Dante Alighieri, che giura e spergiura che l’universo è tutta una faccenda di legge del contrappasso. Buddha che descrive il karma. Confucio che predica quella cosa del sedersi sulla riva del fiume e attendere il cadavere del proprio nemico. Saggi amici, io vi ho sempre stimati, e oggi il tizio dal cranio ipertrofico che da una decina d’anni mi tratta come una raccoglitrice di cotone sta lentamente navigandomi davanti sulla corrente, il cuore spezzato dall’essere stato maltrattato dai suoi superiori.» Mi giro verso Enrico, che a questo punto ha le mascelle così serrate che la sua faccia sembra più larga che lunga. «In effetti avrei dovuto immaginarlo, che il tuo comportamento fosse solo un trasferimento di frustrazione. Ho sempre sospettato che Anastasia e Genoveffa non avrebbero mai fatto così le stronze con Cenerentola se la matrigna per prima non avesse angariato loro. A questo proposito, sai quella cosa di poco fa, dell’aumento? Puoi scommetterci che lo voglio. Cioè, che ne voglio un altro. Perché solo ora mi rendo conto di quante sedute psicanalitiche devo averti fatto risparmiare permettendoti di sfogare i tuoi traumi su di me.»

Enrico mi guarda, poi pian piano disincastra la mascella dalla mandibola. «Hai finito?»

«Un attimo ancora, per favore, ci ho preso gusto. Che ne dici se ci scambiamo qualche confidenza da impiegati bistrattati? Dovremmo farlo, sai, come tutti, a mensa o alla macchinetta del caffè. Pare sia liberatorio e terapeutico. Tu mi racconti cosa ti hanno fatto quei bastardi dei tuoi capi e quanto sono stronzi, io ti racconto di quanto è stronzo il mio.»

Enrico tace.

«Okay, finito», annuncio con tutta calma dopo qualche secondo di pura beatitudine.

Enrico esala un sospiro al grisou. «Vani, seriamente, adesso. Le Edizioni L’Erica navigano in cattive acque. È sicuramente un effetto della crisi generale del settore, e tutto sommato ci sono case editrici altrettanto storiche che hanno registrato tracolli anche più preoccupanti, ma il consiglio non è contento e scarica tutta la responsabilità sulla mia direzione. Se non metterò sul tavolo un progetto dalle prospettive più che ottime entro i prossimi tre mesi, le conseguenze potrebbero essere fatali.»

Alzo un sopracciglio. «Fatali?»

Enrico annuisce. Su e giù del testone, che sembra in procinto di staccarsi dal collo sottodimensionato e rotolare giù. E forse non è una metafora.

«La tua testa», deduco.

Su.

E giù.

Okay. Questo cambia le cose. Enrico che perde il posto.

Perché Enrico senza un posto significa anche me senza Enrico.

E questo merita una riflessione.

Intendiamoci. Io sono illicenziabile. Sono più illicenziabile io del fondatore delle Edizioni L’Erica, che comunque è morto centocinquant’anni fa e quindi ha già perso il confronto a priori. Sono illicenziabile perché so fare il mio lavoro, ed è un lavoro pressoché unico. Ma sono illicenziabile anche perché so esattamente quali e quanti degli scrittori delle Edizioni L’Erica sono bufale totali. Il giorno che le Edizioni L’Erica vorranno smettere di pagarmi uno stipendio faranno bene a uccidermi. E il giorno in cui andrò in pensione i casi sono due: o compreranno il mio silenzio con un obeso vitalizio, o accelereranno la mia fine con una morte prematura e tragica, tipo facendomi colpire da una freccetta al curaro mentre firmo i documenti dell’INPS.

Dunque, non dovrei avere problemi a immaginare un futuro senza Enrico.

A dirla tutta, il mio futuro potrebbe essere persino meglio, senza Enrico.

Eppure.

«Vani, devi aiutarmi», dice il mio datore di lavoro.

Lo fisso in silenzio per un po’.

Ho la netta sensazione che se gli dicessi “no” scoppierebbe in lacrime. Così. Su due piedi. Come i mocciosi nell’istante in cui si accorgono che la loro pallina di gelato ha traslocato dal cono al marciapiede. Forse gli farebbe bene. Enrico Fuschi in lacrime. Potrebbe alleviargli la pressione intracranica: magari gli si sgonfierebbe la testa. Potrei anche filmarlo e poi contattare tutti i suoi redattori-schiavi per vendergli il video dell’umiliazione del loro aguzzino a peso d’oro, tanto, anche se non li conosco, conosco Enrico e so che è il genere di cose per cui uno paga volentieri.

Tuttavia.

E poi non mi ha ancora detto il come. Come dovrei aiutarlo, cos’ha in mente stavolta. E io, ahimè, da quando lavoro per la polizia ho questo inestirpabile problema di salute, questa malattia autoimmune della quale ricordo un prima ma di cui non vedo la cura: la curiosità.

Enrico capta la mia titubanza e capisce che non può permettersi di lasciarmi il tempo di decidere. «Sarebbe un bel lavoro, stavolta, Vani. Una volta tanto, niente manuali di cucina o autobiografie di vip. Stavolta ti darei da scrivere nientemeno che...» Tenta una piccola pausa a effetto. Che tenero. È dolce quando s’impegna, come i bambini al saggio dell’asilo. «...che dei thriller all’americana», conclude.

«Cioè, tipo quelli in cui un investigatore maudit e una giornalista dalle gambe chilometriche fra una fuga in moto e un amplesso ginnico denunciano alla stampa un’industria farmaceutica per esperimenti genetici illegali?»

Enrico si illumina di quella speciale luce che fanno i neon di un caveau di banca sui lingotti d’oro. «Lo vedi? Sei nata per questo!»

«Enrico, era ironico. Questo è il genere di trama stereotipata e improbabile che partorirebbe un thrillerista scadente che campa imitando i grandi. Ti prego, dimmi che non stai chiedendomi di diventare l’alter ego di un thrillerista scadente che campa imitando i grandi. Oppure dimmelo, così me ne vado subito: a quest’ora il commissario starà chiedendo a Riccardo la lista di chi lo odia e vorrei essere lì ad annotarmi i nomi dei miei nuovi futuri migliori amici.»

«Vani», geme Enrico.

«Enrico.»

«Tu non scriveresti roba qualunque.» Enrico non molla.

«Nessuno scrive mai roba qualunque, Enrico. Non c’è autore che non presenti il suo libro come qualcosa di, come minimo, “molto particolare”.» Questa è una battuta privata che Enrico coglie con una smorfia. Quante volte l’ho sentito rispondere all’interfono ad Antonia, la sua segretaria, che gli sottoponeva candidature appena arrivate per e-mail. «C’è qui un giudice di Bari che ci propone un suo manoscritto, un legal thriller a suo dire “molto particolare”...» «Buttalo, Antonia. “Molto particolare” significa che non ha azione, non ha colpi di scena e si basa tutto su paginate di riflessioni introspettive del protagonista. Un libro vincente non è mai “molto particolare”, quante volte te lo devo dire. Un libro vincente è una gigioneria mainstream che possiamo presentare come “il nuovo Codice da Vinci” o “la nuova Twilight Saga”.»

Enrico avrà gusti editoriali discutibili, ma non è scemo. Mentre termina di fare quella smorfia ci attacca un’occhiata eloquente, una roba tra il supplichevole e il colpevolizzante che significa “vedi, Vani, quante cose condividiamo. Battute, sfottimenti, passato. Non credere di poter fare tanto facilmente a meno di me”. Vorrei fargli notare che I duellanti è solo un libro e nella vita vera se condividi con qualcuno una storia fatta soprattutto di tentativi di reciproco annientamento alla fine sei solo felice se la controparte ti si leva dai coglioni. Ma qualcosa dentro di me mi induce ad aspettare.

«Non sarebbe un libro qualunque perché lo firmerebbe il più speciale di tutti», dice Enrico. «Il mago della caccia all’uomo, dell’inseguimento, del cardiopalma.»

«Ah ah ah, ma certo. Ho sempre sognato di diventare la ghostwriter di Ian Fleming. Peccato che sia morto. O di Mickey Spillane. Uh, no, aspetta: è morto anche lui.»

Enrico si umetta le labbra. «E... di Henry Dark?»

«Be’, lui è vivo ma mi fa schifo, Enrico.» Voglio dire, è proprio il genere di thrillerista scadente a cui pensavo prima, che vive di imitazione e riscoprendo mille volte sempre la stessa merda, come un cane con l’Alzheimer. «Non è nemmeno lontanamente paragonabile a Fleming e... »

«Però vende, Vani. Vende come un mitragliatore.»

«Sì, sul senso estetico di noi lettori. Ma poi perché siamo qui a dibattere sulle qualità di scrittore di Henry Dark?» Mi blocco. «Oh, porca merda. Perché stavi dicendo sul serio

Enrico continua a tacere. Però fa un altro cauto, lento, scenografico su e giù con la testa.

«Okay. Questa la voglio sentire. Così, per curiosità personale. Dimmi, Enrico: che diavolo hanno a che fare le Edizioni L’Erica con Henry Dark? Le sue traduzioni italiane vengono tutte pubblicate dalla concorrenza.»

«E invece la sua prossima serie la pubblicheremo noi», dice Enrico, senza impedire agli angoli della sua bocca di impennarsi un pochino.

«E dei concorrenti che ne avete fatto? Messo del gas nervino nei condotti dell’aria?»

«È stata una scelta personale dello scrittore», elude, sapendo di solleticare la mia dannata curiosità. Il bastardo. Gli ho porto un pezzettino di manico di coltello e ci si sta aggrappando come un naufrago a una scialuppa del Titanic. «Alla concorrenza rimarranno naturalmente i diritti per le serie già in corso. Ma con noi Henry ne pubblicherà una tutta nuova.» Si protende in avanti. «È il nostro colpaccio, Vani. Una nuova serie di Henry Dark, ambientata in Italia. Come fece Grisham con Il professionista. O Forsyth quando andò a Buccinasco a studiare la ’ndrangheta. Una serie che verrà tradotta in italiano prima che in qualsiasi altra lingua e pubblicata in contemporanea in Italia e negli Stati Uniti, sei mesi prima che nel resto del mondo.» Alza le spalle. «O almeno questo è ciò che Henry e le Edizioni L’Erica faranno credere a tutti. La verità è che questa serie la scriverai tu direttamente in italiano, e verrà tradotta in inglese in seconda battuta.»

Ci rifletto.

«Ti aiuto a visualizzare le dimensioni dello scoop, okay?» si prodiga Enrico. «Stephen King. Anni Ottanta. It. Solo che lo ambienta in Umbria. E il libro esce in anteprima in lingua italiana, sei mesi prima che nel resto del mondo.»

Visualizzo.

«Oppure, che so: J.K. Rowling. L’ultimo capitolo di coso, là, Harry Potter. Che però per qualche strana ragione magica – che tanto lì vale – si svolge tutto a Venezia. Edizione in anteprima in lingua italiana, sei mesi prima...»

«...Che nel resto del mondo», taglio corto. «Ho capito, ho capito.» Caso mediatico, tour italiano dell’autore, edizioni da collezionisti e infinito prestigio per l’editore che si è accaparrato la bomba. Il solito circo, insomma. Con la differenza che Henry Dark non è nemmeno lontanamente uno Stephen King o una J.K. Rowling, ovvio – o, per rimanere nel suo genere specifico, cioè il thriller d’azione – un Michael Crichton o un Ken Follett. Dark è solo un second-comer che ha fatto proprie due regole fondamentali sulla serialità e la suspense e si è gettato nella mischia puntando sui lettori pigri e facendosi un punto di forza della propria mancanza di originalità.

Se non fosse che vende. Enrico ha detto il vero. Henry Dark vende un casino. Quindi, sì, è un grande di diritto, agli occhi di Enrico e di chi come lui, nonché come un registratore di cassa, traduce il mondo in numeri, meglio se preceduti dal simbolo di una valuta forte.

«Enrico, ma perché io? Dark ha pubblicato più di trenta romanzi dall’inizio del millennio. Deve averne già una squadra intera, di ghostwriter, coautori e collaboratori. Perché cavolo dovrebbe volere proprio me a scrivere le sue stronzate inverosimili?»

«Perché tu sei la migliore, Vani.» Lo dice così, semplicemente, senza nemmeno tutta questa enfasi, come se fosse un dato di fatto, quasi superfluo da rimarcare nella sua eclatante verità.

Uhm.

Pausa.

«Okay, facciamo finta, solo per un attimo, che tu mi abbia incuriosita. Ripartiamo dall’inizio. Domanda: come ha fatto Enrico Fuschi, di cui tutti conosciamo le scarsissime capacità seduttive, a convincere Henry Dark e i suoi agenti a prestarsi a una cosa del genere, cioè a cambiare scuderia e squadra per imbarcarsi in una nuova serie? Non puoi avergli promesso un sacco di soldi, perché mi hai appena confessato di non averli, un sacco di soldi, e forse nemmeno un po’ di soldi. Cos’è, Dark è malato di cuore e gli hai giurato che gli donerai il tuo? Lo sa che non ce l’hai?»

«Henry Dark è in debito con me», annuncia Enrico con sussiego.

«Un debito così grosso? Enrico, i trapianti di cranio sono ancora intentati, lo sai?»

Enrico storce il naso. «Sai cos’è “Dark”, Vani?»

«Il brutto nome d’arte di un autore di noir senza fantasia?»

«L’abbreviazione di D’Archino.»

«Henry Dark è italoamericano?» Mi raddrizzo. «Ma dai. Non si dice da nessuna parte.»

«No, Vani. Non è italoamericano. È italiano al cento per cento. E sai chi sono stati i primi a cambiargli nome in Henry Dark da Enrico D’Archino?»

Scuoto la testa.

«I nostri compagni, Vani. Perché di Enrico in classe ce n’era già uno, ed ero io.»

Tutto sommato, è una storia semplice, quasi massonica nella sua deprimente ovvietà. Enrico, che è ricco di famiglia, viene mandato dai genitori a studiare in Svizzera (sì, proprio così: come i bambini dalle matrigne cattive nei romanzi strappalacrime del primo Novecento). In collegio incontra un altro rampollo d’oro; cioè, tecnicamente ne incontra ben più d’uno, in quel collegio-incubatrice per cuculi dell’alta società, ma quello che interessa a noi è lui, appunto, Enrico D’Archino. Alla scuola svizzera le lezioni si tengono in francese e inglese, e in più D’Archino ha una nonna americana che va a trovare ogni estate, dunque la sua padronanza dell’inglese è assoluta e ingannevole. Due Enrichi in classe significano la necessità di trovare un soprannome per almeno uno di loro, e così a poco a poco uno degli “Enri” diventa “Henry”, “l’americano”. Nel frattempo, i due omonimi si sparano assieme tutte le classi di due cicli scolastici, poi si perdono un po’ di vista, com’è fisiologico, incrociandosi giusto a qualche fiera e forse seguendosi a distanza sulle pagine delle riviste o sulle copertine dei romanzi; per ritrovarsi però a Montecarlo sabato sera, cioè ieri, a un party per il lancio sul mercato francofono dell’ennesimo bestseller di Henry. Rievocano i vecchi tempi, il professore di matematica, la signorina della mensa, et voilà, il campo è aperto ad accordi di mutuo vantaggio, o win-win, come dice la loro genìa.

«Quello che non mi è chiaro, EnricoDue», dico, accentuando il “due”, «è perché sostieni che EnricoUno sia in debito con te. Fin qui sembra che siate semplicemente stati amici d’infanzia, sai che roba. Ma per concederti uno scoop del genere è evidente che EnricoUno deve davvero farsi perdonare qualcosa. Cosa?»

«Non essere pignola, Vani. Due vecchi amici si ritrovano e uno sente il bisogno di testimoniare con un gesto generoso l’affetto che ha sempre provato nei confronti dell’altro, anche se magari ai tempi non l’aveva manifestato altrettanto chiaramente, perché sai come sono i ragazzini...»

Socchiudo gli occhi. Oh. Oh oh. «Aspetta, aspetta. Mi stai lasciando intendere che EnricoUno ti bullizzava da piccolo?» Oh mio Dio. Non ci posso credere. Mi premo le mani giunte sulla bocca, come le vecchie signore quando cercano di trattenere l’emozione ai matrimoni. Berganza che mi dice che vuole fare sul serio con me (crampo). Riccardo minacciato di morte. Adesso Enrico vittima dei suoi capi e anche di Henry Dark. È il giorno più felice della mia vita.

«Bullizzava, che parola grossa», si indigna Enrico. «Minuzie, dispettucci fra amici.» Anche meglio, così non dovrò nemmeno sentirmi in colpa per avere, una volta nella mia vita, provato simpatia per un bullo. Che poi, diciamocelo: se tanto mi dà tanto, Enrico a dodici anni sarà stato un principino petulante, viziato e lagnoso. Probabilmente gli avrei fatto dei dispetti anch’io (esattamente come oggi, peraltro).

«Ma comunque, che importa, Vani. È roba del passato.» È stizzito. «Il punto è che, quando ci siamo rivisti, Enric... Henry è stato molto felice, abbiamo chiacchierato dei tempi della scuola, e poi da cosa è nata cosa e il progetto ha preso forma.»

Scruto Enrico. Visualizzo la situazione. Non è difficile. La psiche umana non lo è mai, nemmeno se si esprime fra i salotti dell’upper class.

«Credo di essermi fatta una mia idea di come siano andate veramente le cose, Enrico. Vediamo se ti convince. Henry ti maltrattava da piccolo, poi siete cresciuti e siete diventati entrambi due esponenti di spicco dell’editoria – lui più di te, diciamocelo. Solo che tu, professionalmente parlando, oggi stai surfando sulla merda, così quando te lo ritrovi davanti ti viene un’ideona. Lo supplichi, in nome dei vecchi tempi, di seguirti in un accordo disperato: dovrebbe accettare di mettere il suo nome su una serie dal successo sicuro – in quanto garantito dal suo nome e dai tuoi stanziamenti promozionali – per la quale non solo non dovrebbe muovere un dito, ma nemmeno mobilitare, cioè pagare, la sua abituale squadra di ghostwriter e collaboratori: ci penseresti tu, a tue spese, a mettergli a disposizione la tua. In pratica, gli metti in mano la tua salvezza, in cambio solo della sua firma in fondo a un manoscritto. Ed è ovvio che lui accetta, perché sai che sforzo, è l’accordo più vantaggioso di sempre: ti salverebbe il culo, cioè ti avrebbe in pugno (proprio come gli piaceva averti in pugno da piccolo), e si beccherebbe pure un sacco di royalties, in cambio solo di una firmetta in fondo a un romanzo già pronto. Che dici, ci ho preso?»

La faccia di Enrico si indurisce come creta all’aria. Mi stupisco che non ci compaiano delle crepine. «Anche ponendo che sia andata in modo vagamente simile, cosa che non sto confermando», dice, «non è vero che ha accettato la proposta per il gusto di avermi in pugno, uffa. Siamo adulti e siamo in ottimi rapporti, ora. E semmai sarebbe solo un andare in pari, dopo tutte le volte che mi ha...»

«...che ti ha?»

Enrico tace di scatto.

«Ti prego.» Mi protendo in avanti. Quasi gli tocco le ginocchia. «Dimmelo. Cedi alla mia forza persuasiva, come tutti. Dimmi che dispetti ti faceva EnricoUno a scuola. Ti riempiva le scarpe di dentifricio? Ti nascondeva i vestiti fuori dalla doccia? Ci sono: ti scriveva sulla fronte mentre dormivi. Con un pennello da parete.»

Enrico sbuffa come un mantice. «E comunque sai cosa l’ha convinto sopra ogni altra ragione?» Si protende in avanti anche lui. «Il fatto che gli ho giurato, sottolineo: giurato, ti è chiaro?, giurato, che il ghostwriter che gli avrei messo a disposizione avrebbe fatto un lavoro fantastico.»

«Così però te le cerchi. Come potrei mai più guardarmi allo specchio se non ti chiedessi un aumento dopo questa frase?»

«Prima fai quel lavoro fantastico, poi parleremo del tuo secondo aumento. Henry vuole vederti all’opera prima di firmare il contratto.»

Lo guardo.

A lungo.

«Vani.»

«Enrico.»

«Aiutami.»

«Come.»

«Scrivi quei dannati libri.» Enrico si drizza un poco.

«E la mia occupazione principale potrebbe diventare raccontare storie seriali di bellissime poliziotte orfane di padri magistrati morti in servizio che con l’aiuto di avvocati espulsi dall’ordine per troppa onestà svelano un intrigo neonazista e nel frattempo fanno sesso spinto in una funivia?»

«Lo vedi? Sei un talento naturale.»

«È quello su cui conto, Enrico. Sbrigare la faccenda nella metà del tempo e beccarmi uno stipendio intero. E non dimenticare l’aumento», sussurro.