11.
I DUE
PIÙ INTERESSANTI
Una manciata di cartelle e di mezz’ore dopo, mi scuote un messaggio di Berganza. Come sta andando con tua sorella? Fra poco qui verrà Randi a farsi aggiornare. Vuoi unirti?
Volentieri, rispondo.
Guarda che non puoi venire per picchiarlo, però.
Allora non così volentieri.
Ma ci vado lo stesso.
Lascio un biglietto sul tavolo a Lara, che da dietro la porta del bagno sta facendo andare il phon da tanto di quel tempo che penserei al primo tentativo di suicidio con l’aria calda se non conoscessi dall’infanzia lei e le sue tempistiche da zarina di tutte le Russie. Dopo una ventina di minuti, parcheggio nella strada del commissariato.
Nel commissariato che sembra una susina troppo matura – invitante fuori, essendo un palazzo storico del centro di Torino, e schifoso dentro, tutto livido di neon da emicrania – mi accoglie Rovato, l’ispettore più anziano della squadra di Berganza, cioè l’unico ad avere appena superato la pubertà. Per un bizzarro scherzo di un fato gerontòfobo, Berganza si trova a dirigere una squadra che somiglia più che altro a un doposcuola. «Dottoressa Sarca!» esclama lo spilungone biondastro, transitando nel corridoio che cigola di linoleum. «È sempre un piacere. Il commissario è di là, ed è appena arrivato anche Ra... Ro...»
«Riccardo Randi», suggerisco. Rovato annuisce, io entro nell’ufficio di Berganza e seduti attorno alla sua scrivania ci sono lui, gli agenti Arianna Pezzoli e Claudio Petrini, e la fulgida chioma di Riccardo Randi.
«Buongiorno», sorride Berganza, indicandomi una sedia vuota vicino a lui.
«Buongiorno», sorrido io. Faccio un cenno del capo agli altri, circumnavigo la scrivania e nel farlo, mentre passo, tiro una sberla sulla nuca a Riccardo.
«Ahia! E questo perché?» esclama Riccardo.
«Lo sai», dico, sedendomi accanto a Berganza, al quale viene da ridere.
Riccardo fa una faccia fra il divertito, il colpevole e l’“e dai, non potevo non cogliere l’occasione”. Lo sa.
Testa di cavolo.
«Allora.» Berganza inizia a leggere delle carte; con noncuranza, allunga un braccio sullo schienale della mia sedia, dietro le mie spalle. Senza che nessuno possa vederla, la sua mano mi accarezza appena la schiena, come in un saluto privato un po’ più tenero di quanto sia opportuno manifestare in pubblico. Che cosa dolce.
Crampo.
«Domenica notte Randi ed io abbiamo stilato una lista di possibili sospettati fra cui abbiamo poi identificato i sei nomi più a rischio. Questo per aggiornare la dottoressa Sarca.» Si gira a farmi un cenno con la testa e io rispondo con un altro cenno. È tutto molto urbano. Sembriamo il maggiordomo e la governante di Quel che resta del giorno.
«Solo sei? Basteranno?» chiedo.
Riccardo fa una smorfia perché ha colto la frecciata.
«Iniziamo da questi e poi speriamo di non dover andare avanti all’infinito», dice Berganza. Che è un’altra frecciata, infatti Riccardo accusa ancora.
«Sapete qual è la fregatura?», rimugino, e dico “sapete” ma in verità mi sto rivolgendo al commissario. «Che non siamo in un libro.» Dopo la mattinata passata a scrivere, ho ancora un po’ la testa lì. Senza contare il fatto che, per come la vedo io, non essere in un libro è più o meno sempre la fregatura, nella vita. «In un giallo le liste dei sospettati non sono mai troppo lunghe, né si possono ampliare nel corso della storia. Non si può fare. Secondo le regole del giallo classico, l’assassino deve celarsi fra i personaggi che sono in scena sin dall’inizio: l’elenco è quello e quello resta. Fine. È tutto così comodo.»
«Sono regole degli anni Trenta», dice il commissario alzando le spalle.
«E poi, allora, bisognerebbe capire da dove far cominciare la storia», chiosa Riccardo. Vero. Nella vita vera, non ci sono frontespizi né chiare divisioni in volumi. Cerchi le ragioni del tuo presente e finisci quasi sempre per trovarle in un prequel. «Inoltre, ti sarei grato se non lo chiamassi “l’assassino”. Non diamogli idee, per favore.» Mio malgrado, ridacchio.
Anche Berganza sogghigna e riabbassa gli occhi sui fogli. «Tornando a noi e ai nostri possibili sospettati. Si tratta di tre aspiranti scrittori a cui Randi ha sconsigliato di proseguire con la letteratura e che l’hanno presa particolarmente male. Con uno di loro ha usato parole molto forti...»
«Non è colpa mia», sbuffa Riccardo. «Lui e quel suo erotismo goffo. Sembrava davvero il fratellino abortito di Charles Bukowski.» Dio. E poi si stupisce che lo vogliano accoppare.
Berganza riprende. «Poi abbiamo un laureando al quale il professor Randi ha promesso di seguire la tesi salvo poi dimenticarsene, rinunciare, costringerlo a riorganizzarsi e fargli ritardare la laurea di quasi un anno. Cosa che a sua volta gli ha impedito di partecipare a un concorso. Il che non sarebbe stato così grave se il giovanotto non avesse una madre invalida a carico...»
Riccardo tossicchia nervosamente.
«E poi ci sono i due più, uhm, interessanti.» Il commissario punta l’indice in cima al foglio degli appunti. «Primo posto pari merito per movente. Franco Furlani, quarantadue anni, ricercatore in letteratura americana, cui Randi ha sottratto un’importante promozione universitaria, sulla quale contava grandemente. Potremmo dire che gli ha soffiato l’osso da sotto il naso. Su di lui ha fatto delle ricerche Petrini.»
Il più giovane degli agenti di Berganza, Faccia D’Angelo Petrini, si raddrizza come una vela al vento e inizia a sfogliare una pigna di carte che lo rende simile a un’annunciatrice del telegiornale. «Furlani soffre di depressione reattiva», esordisce, schiarendosi nervosamente la voce ogni quattro parole congiunzioni incluse. «Assume psicofarmaci ed è altamente probabile che faccia coincidere l’inizio della malattia nonché la sua causa diretta con l’interferenza di Riccardo Randi nel progetto della sua vita.» Prende fiato. Petrini fa sempre così. Si riempie di nozioni fino a gonfiarsi come un pesce palla, le esala tutte d’un fiato e dopo sembra il giovane Werther in procinto di spirare. «Naturalmente è la sua condizione di depresso a farcelo considerare un candidato più probabile di altri al ruolo di stalker, perché chi si vede privo di prospettive talvolta ritiene anche di non avere niente da perdere, e dunque di potersi dare a gesti estremi, magari illegali o pericolosi per sé oltre che per la vittima.»
«Come l’ispettore Pastor», commento io a mezza voce.
«Un collega?» si interrompe Petrini.
«Di carta.» Scuoto la testa. «Un personaggio di un romanzo. Di – ah, lascia perdere.»
Petrini si gira nervosamente verso Randi e gli sorride. «La dottoressa Sarca è una letterata», gli spiega, come per scusarmi.
«La conosco», dice Riccardo, e poi, accostandosi a lui e sussurrando in modo da farsi sentire benissimo da tutti: «Abbiamo avuto una relazione, sa?».
Gli occhi di Petrini si modellano in due gigantesche O e le pupille corrono stupite dalla faccia di Riccardo, compunta come una badessa, alla mia. Io alzo gli occhi al cielo.
«L’altro sospettato principale», interviene Berganza senza fare una piega, «si chiama Marco Carro, e su di lui invece ha lavorato Pezzoli.»
Pezzoli sfodera i suoi, di fogli. Non credo particolarmente nella solidarietà femminile, ma la piccoletta con la coda è la mia preferita della banda. Più che altro è l’unica a cui darei da caricare la mia lavatrice senza sentire il bisogno di farle dei disegnini. «Marco Carro ha sessantasette anni. È stato un operaio metallurgico ed è in pensione da poco; avrebbe volentieri continuato a lavorare, però, perché sono ancora a suo carico la moglie, casalinga, e le due figlie, Rossana di venticinque e Lucia di diciotto anni. E un cane, Smaug, come il drago dello Hobbit.»
«Rossana, Lucia, Smaug. Gente che legge», diagnostico.
Pezzoli annuisce. «Già. Legge così tanto che la figlia maggiore, Rossana, qualche anno fa si iscrive alla facoltà di lettere e al primo anno segue il corso di letteratura americana del professor Randi. E... be’, e perde completamente la testa.»
Riccardo si gratta i capelli e sembra di colpo molto interessato alle proprie ginocchia.
«Rossana è una ragazza molto bella e intelligente e il professore, ecco... il professore intreccia con lei una relazione di un paio di mesi.» Non dovrei, lo so, ma mi lascio scappare un lieve fischio. Riccardo si agita sulla sedia. «Dopodiché decide di troncare, ma Rossana non la prende bene. Supplica, minaccia, si dispera. Quando vede che non c’è più niente da fare, lascia l’università. Per qualche mese si trascina nella nullafacenza, poi trova un modesto impiego come cuoca in un fast-food. Per farla breve», sospira Pezzoli, «incontra tale Vito, un fornitore della tavola calda, lo sposa in una fretta cieca, lui si scopre essere un violento, la picchia, divorziano, lei non riesce a farsi restituire i soldi della sua metà di casa, va a stare in affitto e poi, visto che i risparmi non le bastano più, di nuovo dai suoi. E Marco Carro, che assiste impotente al mutarsi della sua promettente figliola in un relitto umano senza più voglia di vivere, dà tutta la colpa al professor Randi.» Pezzoli si schiarisce la voce, imbarazzata. «Un padre che vuole vendicare la figlia. Anche questo risponde abbastanza al profilo di chi può arrivare a fare qualsiasi cosa.»
Riccardo si copre un po’ la faccia fingendo di massaggiarsi le sopracciglia. Ha il buon gusto di non commentare niente.
«Cazzo, Riccardo, questo non è uno stalker, questo è il karma che torna a bussare alla tua porta», dico. «Il suo piano non è semplicemente accopparti. È accopparti e poi stare a guardare mentre ti reincarni in uno stercorario.»
«Carro ha quasi settant’anni», riflette Rovato. «È possibile che un uomo di settant’anni acchiappi e uccida un coniglio?»
«Secondo Rosa era un vecchio coniglio macilento, mica un cinghiale», dico, e poi, di nuovo sbirciando allusivamente Riccardo: «E comunque non credereste mai a quante risorse abbia un uomo anziano».
Riccardo fa la faccia di uno che incassa. Io faccio la faccia di una che può dichiararsi soddisfatta. Berganza fa la faccia di uno che da diversi minuti avrebbe molteplici e variegate ragioni per farsi una risata ma è un signore e non può.
«Dove si trovano Furlani e Carro in questo momento?» chiedo.
«Eravamo giusto arrivati a questo punto», dice il commissario. «Ragazzi?»
Petrini scuote il capo. «E questo è il primo problema. Furlani risiede a Moncalieri, ma va spesso a stare dalla madre, che vive a La Spezia. Sembra che in questi giorni sia lì, nello specifico da sabato scorso. Quindi in teoria domenica sera non poteva essere a Torino a collocare oggetti insanguinati fuori dalla porta del professor Randi.»
«Fra La Spezia e Torino ci sono tre ore di macchina», commenta Berganza. «Avrebbe potuto andare e tornare, e se la madre dormiva quando è rientrato a notte fonda può non essersi accorta che il figlio era stato fuori così a lungo. Senza contare che gli alibi forniti dalle madri non contano.»
Petrini fa un tenue sorrisino perché il suo sospettato non è stato scartato.
Aggrotto la fronte. «Un depresso non può guidare se è sotto benzodiazepine.»
«E tu come lo sai?» chiede Berganza, colpito.
«Due anni fa ho scritto un manuale di neuroscienze.»
«Ehi, ma voi vi date del tu!» esclama Petrini gioioso. «Capo, ma quindi anche noi...?»
«No, Petrini», dice il commissario. «Solo la dottoressa Sarca.»
Petrini riabbassa la testa sugli appunti, annuendo come se fosse giusto così e avesse peccato di hybris solo osando pensarlo.
«Non prendertela, Petrini, è perché il commissario e io abbiamo una relazione», dico serissima. Petrini rialza la testa di scatto, poi, dopo un attimo di esitazione, lui e Rovato scoppiano a ridere di gusto. Io incrocio lo sguardo di Pezzoli e capisco 1) che almeno lei ha capito; 2) che non riesce a credere di avere due colleghi così bambocci; e ah, da un velocissimo sorriso, 3) che probabilmente è felice per noi.
Brava ragazza, Pezzoli.
«Tornando alle benzodiazepine», dice Berganza. «In treno fra Torino e La Spezia ci sono dei cambi, è lunga e Furlani non ce l’avrebbe mai fatta ad andare e venire in nottata; che gli abbiano dato un passaggio è improbabile; se ha fatto avanti e indietro in macchina sotto farmaci c’è da stupirsi che non si sia schiantato. Inoltre, è contro la legge. Comunque controlliamo che auto possiede e se c’è qualche traccia di un suo transito sulla E70 domenica; se sì, possiamo sempre fermarlo accampando la guida sotto farmaci come scusa e approfondire con un interrogatorio.» Sappiamo tutti che ci sono dei vizi di forma in questo piano ma anche che Furlani non può saperlo, quindi okay. Mi piacciono i metodi del commissario.
«Vado.» Petrini scatta in piedi volenteroso e in un batter di ciglia si è teletrasportato nel corridoio.
Pezzoli sfodera i propri appunti e giochicchia con la punta della coda. Quando è sulle spine se l’attorciglia attorno all’indice come il filo di una trottola. «Carro invece non fa nemmeno finta di avercelo, un alibi. Domenica sera sua moglie e le figlie sono andate al cinema e poi a prendere una cioccolata, e lui è rimasto da solo a casa tutto il tempo. O almeno questa è la versione ufficiale. E questo...»
«...e questo è meno sospetto che se un alibi ce l’avesse», conclude Rovato con uno sfoggio di sagacia che ci sorprende tutti. «Perché nessuno è così scemo da compiere davvero un crimine senza nemmeno cercare di imbastirsi uno straccio di alibi, no?»
«O forse sa che un alibi traballante è peggio di un alibi inesistente, perché nella realtà succede, di non avere sempre una scusa pronta per i giorni in cui qualcun altro ha combinato qualcosa», replica Pezzoli. Io e Berganza ci scambiamo una veloce occhiata che vuol dire “non male” e per un attimo ci sentiamo i fieri genitori di mocciosi che tutto sommato, al di là di ogni aspettativa, stanno venendo su bene.
Crampo.
«Potremmo provare a...» sta rilanciando Rovato, quando la porta dell’ufficio si spalanca e in un attimo fra noi si è rimaterializzato Petrini, fremente e con qualcosa in mano.
«Capo», dice a Berganza. «Qua fuori... c’era qualcuno.» È nervoso. Uh. Di colpo ha la nostra attenzione. «Un uomo, che a sentire Betti» – Betti è l’agente che sta alla reception – «si aggirava fuori dall’edificio già da un po’. Insomma, questo tizio è entrato e ha detto “C’è un ospite, dentro, vero? Un intellettuale, una testa fina... Dategli questo”.» E ci allunga un biglietto, un foglietto di bloc-notes malamente strappato e piegato in quattro.
Berganza lo apre.
Dice: Io ti ammazzo. Devi solo morire.
Betti viene convocato con la velocità del fulmine. Significa che arriva corricchiando in quel modo irritante per cui si marcia, non di più, ma si muovono busto e piante del piede come se si fingesse di affrettarsi.
Betti non è esattamente un modello di solerzia. Ce n’è uno in ogni posto di lavoro, credo.
«Gli hai chiesto il nome, vero?» chiede Berganza, più con disperazione che con fiducia.
Betti alza le spalle. «No, perché?»
Berganza lo fissa come si fisserebbe un alieno. Uno di quelli brutti, non uno di quelli poetici. «Come, perché?»
«Commissario, io chiedo nome e cognome alle persone che vogliono qualcosa, che devono fare una denuncia, insomma che vogliono parlare con lei o con un agente... Questo mi ha chiesto solo se potevo consegnare un biglietto a uno che conosceva che era dentro. Non erano mica affari miei.»
Spero che, quando morirà, Betti doni il suo cervello alla scienza, sempre che la scienza riesca a trovarglielo. Berganza fa una faccia dalla quale si capisce che lui invece spera semplicemente che Betti muoia. «Com’era fatto?» incalza.
«Cosa?»
«Indovina. Quello che ti ha portato il biglietto!»
Betti assume un’aria meditabonda, che sulla sua faccia significa che sembra sul punto di addormentarsi. «Mah, né alto né basso...»
«Può voler dire tutto», gli fa notare Rovato.
«Furlani è un metro e ottanta», dice Petrini. Non è risolutivo. Betti è sul metro e settantacinque e bisognerebbe capire se gente alta più o meno come lui la consideri alta normale o alta e basta.
«Alto più o meno di lei?» chiede saggiamente Riccardo.
«Lei chi?» chiede Betti.
«Lei te», sospira Riccardo. E non può trattenersi dallo scambiare uno sguardo di solidarietà con Berganza, che con questo idiota deve averci a che fare tutti i giorni.
«Eh, ma io mica lo so quanto sembro alto visto da fuori», dice però Betti. Il che è anche vero, tant’è che per un attimo lascia tutti interdetti con la sua saggezza naïve.
«Okay, allora capelli, occhi...?» Questa sono io.
«Capelli pochi», dice Betti, passandosi d’istinto la mano sopra il cranio, nel caso ci fossimo dimenticati dov’è che stanno i capelli.
«Pochi quanti?» sospira Berganza.
Pezzoli sfoglia le sue carte. «Carro è calvo con un po’ di capelli sopra le orecchie e sulla nuca. Si vede dalle foto su Facebook della figlia.»
Petrini ha il naso negli appunti. «Furlani è calvo. Cioè, è calvo perché è stempiato e quindi si rade la testa.» Alza uno sguardo smarrito. «O almeno così faceva quando era in salute e pubblicava foto. Magari adesso che è depresso ha smesso di radersi e ha anche lui i ciuffi sopra le orecchie.»
«Era tutto calvo», dice Betti.
«E allora perché hai detto “capelli pochi”?» sbuffa Rovato.
«Perché uno si rade la testa quando di capelli ne ha pochi!» dice Betti con la sua inoppugnabile logica.
«Betti, per l’amor del cielo, vai avanti», dice Berganza. «Età, corporatura...?»
«Età, boh, sui quaranta», dice. Ci guardiamo tutti di colpo. Carro è escluso. Furlani sale.
Petrini sembra uno che ha puntato tutto sul cavallo in testa. «Ecco!» esclama quando finalmente gli arriva sotto le dita ciò che cercava fra i suoi appunti, ossia una foto decente, stampata da internet. «Era lui, vero?»
Betti la fissa.
A lungo.
Poi: «No».
Petrini vede il suo sogno infrangersi. «Sei sicuro? Sicuro sicuro?»
«È tutto diverso.»
«E allora perché l’hai fissato così a lungo?» dice Rovato.
Che domande. Perché è Betti, ecco perché, e il suo tempo scorre come quello degli dèi.
«Era più grosso», dice di propria, inaspettata iniziativa. «Grosso sopra. Cioè, nel senso. Non grosso tutto.»
«E chi diavolo era, l’Incredibile Hulk?» trasecola Pezzoli.
Qualcosa mi si accende in testa.
«Betti, intendi dire che aveva le spalle larghe e le braccia e il petto grossi come uno che ha esagerato in palestra?» Berganza mi guarda. Riccardo mi guarda. Tutti mi guardano.
Betti fa di nuovo quella sua faccia da precoma. Poi: «Sì, possibile. Sì».
«E testa rasata, statura medio-alta... Il naso era per caso piccolo e un po’ adunco?»
Occhi da narcosi. Poi su e giù della testa: Betti annuisce.
«Cazzo.» Cazzo. «Riccardo, non era per te, il biglietto. Era per me. Quello era il marito, spero presto ex marito, di mia sorella.»
Il commissario si fa vitreo. «Che cosa? Ti ha seguita?!»
Annuisco. «Evidentemente ha capito che Lara è da me e si è appostato sotto casa mia. E stamattina, quando mi ha vista uscire, mi avrà pedinata con la speranza di bloccarmi da qualche parte e... boh, e farmi passare la voglia di dare asilo a sua moglie, suppongo. È una vera fortuna che di tutti i posti al mondo io dovessi venire proprio in un commissariato.» Nel frattempo cerco il mio telefono. «Il che peraltro non l’ha dissuaso dal farmi recapitare il biglietto.»
Riccardo è stupito. Indica Betti. «Ma a lui ha detto...»
«...ha detto che c’era un’ospite, un’intellettuale. Il problema è che, a pronunciarlo, non si vede l’apostrofo. L’ospite intellettuale sarei io, non tu.»
«Ha detto di dargli il biglietto», fa notare Rovato.
«Già. E benvenuto nel magico mondo di Michele Citto, che non sa usare i pronomi.»
Rovato arriccia il naso. «È assurdo. Quale imbecille minaccerebbe una persona per iscritto sotto gli occhi di un’intera squadra di poliziotti?»
«E quale imbecille accetterebbe di consegnare un biglietto in un commissariato senza chiedere nemmeno il nome al tizio che lo porta?» dice Berganza, guardando Betti di sbieco. Esatto. Stiamo sperimentando gli effetti di un evento che ha del meraviglioso, del leggendario, come l’allineamento dei pianeti o la confluenza fra correnti e pressioni che genera un tornado: l’incontro fra due assoluti cretini di razza purissima.
Solo un cretino come Michele può pensare di fare una cazzata come lasciare un bigliettino minaccioso a sua cognata in un commissariato senza che gli vengano posti degli ostacoli e dei problemi. Solo un deficiente come Betti può accettare di consegnare il suddetto biglietto senza aprirlo e senza porre gli ostacoli e i problemi in questione.
È disturbante quando la capacità di entrare nella testa della gente ti apre le porte della testa degli imbecilli. Perché passi per Betti, che rasenta la fantascienza, ma nel cranio di Michele io lo so come funziona. Sono anni che lo so. Michele è il tipo che per ben figurare davanti ai suoi capi, al lavoro, pretende di parlare alla riunione di pianificazione, se non fosse che non è in grado di scriversi un discorso; così Lara mi rompe le palle finché non glielo aggiusto io ma Michele, pur di non accettare le osservazioni della sottoscritta, non accetta le correzioni e finisce per sbagliare i congiuntivi in pubblico, coprendosi di ridicolo. È il tipo che sbraita e insulta l’operatrice del call center e poi riattacca e si vanta di essersi preso “la sua bella rivincita contro quegli stronzi” della compagnia telefonica. È il tipo per il quale la realtà non si divide in diritti e doveri, ma in diritti e in ingiuste rotture di cazzo che è un diritto cercare di aggirare. Dunque me lo vedo, Michele, riesco a immaginarmi il suo processo mentale, la sua visione tubolare dei fatti: segue sua cognata col preciso scopo di farle il culo, la vede entrare in un posto nel quale non può raggiungerla e fuori dal quale non ha voglia di aspettare magari per ore; non riuscendo ad accettare l’idea di doversene andare senza averle fatto almeno un po’ di male, scribacchia il biglietto e glielo lascia lì, tanto che problemi ci saranno nel far recapitare un biglietto. Insomma, è un pezzo di carta, non è mica un reato. Nella sua testa, le parole non sono mai un reato. Perché le parole non sono mai nulla, le parole non hanno valore.
Un imbecille.
Il problema è che gli imbecilli sono pericolosi. Per una ragione o per l’altra, qui dentro lo sappiamo un po’ tutti: io e Riccardo perché siamo scrittori e conosciamo la natura umana, il commissario e i suoi ragazzi perché sono poliziotti e passano gran parte delle loro giornate a constatare i danni che l’imbecillità può generare. Gli imbecilli vedono solo i loro moti d’animo, le loro pulsioni e insoddisfazioni. Non sono lungimiranti, non calcolano le conseguenze, non hanno la lucidità per vagliare il quadro generale. Sono quelli che uccidono e si fanno beccare, che picchiano per gli accessi d’ira; vengono presi, ma intanto il morto è morto e il picchiato è stato picchiato. Sono quelli che non vengono dissuasi dal commettere il reato dal pensiero della pena perché il pensiero della pena sarebbe, appunto, un pensiero, e loro non sanno pensare, e sono quelli che non si può far ragionare perché non ne sono semplicemente capaci.
Cazzo se sono pericolosi, gli imbecilli. Sono i più pericolosi del mondo.
In tutto questo, ho trovato il mio telefono e composto il numero di mia sorella. «Pronto, Lara?» Al mio orecchio destro arriva una cacofonia di tastiere. «Dove sei?»
«A casa tua, e dove sennò. Ho deciso di regalarmi un momento di pace, mi sto spalmando la tua crema ascoltando la radio. Tu hai solo dei cd macabri, ma ho trovato una grandiosa stazione anni Ottanta.»
«Lara, Michele mi ha seguita.»
Silenzio. Poi: «Che cosa? Come, seguita?».
«Eh, come. Dev’essersi appostato fuori casa stamattina e avere aspettato che uscissi.»
Balbettio, recupero delle idee. «Ma... perché ha seguito te anziché venire da me sapendo che eri fuori?»
«Bella domanda. Credo che volesse iniziare da me per tenere te per ultima, con comodo.»
«Quindi potrebbe stare venendo qui? Oh Dio!» Sento Lara respirare forte. Alle sue spalle Belinda Carlisle sta cantando With You Heaven Is A Place On Earth e non è mai stato così ironico. «È blindata, la porta di casa tua? C’è una portineria in questo palazzo? No che non c’è...»
«Lara, stai calma. Forse ho un piano. Ascoltami.»
Lara mi ascolta.
Mi massaggio la fronte con due dita. Anche se non ci sto facendo caso, concentrata come sono, nell’ufficio intorno a me anche Berganza, Riccardo, Pezzoli, Rovato e Petrini mi stanno ascoltando. (Betti no. Betti ne ha approfittato per sgusciare via e tornare a leggere la «Gazzetta dello Sport» in guardiola, ma non c’è niente da fare. C’è sempre qualcuno che mentre Batman salva il mondo sta prendendo a calci un parchimetro o scuotendo un distributore automatico.)
«Per prima cosa, Lara, chiama la babysitter. Finché i bambini sono a casa di Michele, Michele può usarli per ricattarti. Di’ alla babysitter di riempire una borsa con le cose essenziali per i gemelli e portarli all’indirizzo di nostra madre. Spiegale che se mentre esce venisse per caso intercettata da tuo marito deve dirgli che li sta portando al corso di – che cazzo ne so, di acquaticità o una di quelle menate sprecasoldi che nomini sempre – come ogni martedì. Michele se ne è sempre fottuto di quelle cose da madri e non si renderà conto che è una balla.»
Lara fa un gemito che significa “okay”.
«Poi fatti una borsa tua e aspettami. Arrivo fra quindici minuti – ti chiamo quando devi scendere, se senti solo il citofono non rispondere, se ti telefona qualcun altro che non sia io non rispondere, se ti chiama Michele men che meno – e andiamo insieme da mamma anche noi.»
«Da... mamma?» pigola Lara.
«È venuto il momento, sì.»
Pausa.
«Lara? Sei lì?»
«S-sì.» Col volume del sospiro di una libellula.
«Ora l’ultima cosa. Mi raccomando, è la più importante di tutte. Vai in camera mia e apri il cassetto più basso della scrivania. Troverai una latta nera, di quelle del tè in polvere. Ti sembrerà vuota, ma è semplicemente perché contiene qualcosa di molto leggero. Prendila e portala via con te, senza aprirla e senza farti domande. Hai capito?»
Un altro “sì” più emanato telepaticamente che emesso a voce.
«Bene. Muoviti. Io intanto arrivo.» E metto giù.
Ecco: questo è il momento in cui mi accorgo che mi stanno guardando tutti.
Il commissario fa per dire qualcosa, ma io alzo il mio telefono e un dito. «Un attimo solo.» Non ho ancora finito. Cerco il numero di Michele. Lo digito, poi metto in vivavoce.
«Brutta stronza, l’hai ricevuto il mio biglietto, eh?» è l’esordio di milord.
«Come no, brutto coglione, e l’ho letto sotto gli occhi di cinque poliziotti.» In un certo senso, è liberatorio. È la prima volta dal giorno del coniglio investito che io e Michele possiamo chiamarci apertamente con gli appellativi che ci siamo sempre dati a vicenda nel chiuso delle nostre teste. È come aprire le finestre in una stanza in cui un cavolo marcio ha suppurato per anni.
«Uh, povera piccolina che piagnucola che le hanno detto le cose brutte. Sai quanto me ne frega, ho scritto una cosa e basta, mica t’ho fatto niente, ci devono solo provare a romperm...»
«Michele, taci e ascolta. Lara è disposta a parlare con te. Vuole che vi incontriate per chiarirvi guardandovi in faccia.»
«Ma certo che vuole, quella cretina, vorrei anche vedere che non vuole più parlare con me. Ho pure saltato il lavoro oggi per star dietro a te e a quell’altra scema...»
«Ha detto che ti aspetta nel posto in cui le hai chiesto di sposarti, Michele. Capito?»
Silenzio.
«E dove cazzo è ’sto posto in cui le ho chiesto di sposarmi?» abbaia il troglodita dopo un attimo.
«E io che cazzo ne so? Devo ricordarmelo io, secondo te? Ciao e buona fortuna.» E chiudo.
Berganza mi sta sempre guardando, uno sguardo solista davanti al coro degli sguardi di tutti i presenti. «E questo posto sarebbe?»
«C’è tutto un dibattito a riguardo. Michele rimbalzerà fra la sua vecchia casa da scapolo, un ristorante chiamato Le Tre Oche o un altro chiamato Il Cibo degli Dèi. Se questa parte del mio piano va come spero, Michele non trovando Lara da nessuna parte si girerà tutti e tre i posti, cioè se ne starà fuori dai piedi per tutta la prossima ora e soprattutto non andrà né a casa sua, dando alla babysitter il tempo di portar via i bambini, né a casa mia, da dove sto per portare via Lara. Poi, quando saremo da mia madre, richiamerò Michele e gli dirò di raggiungerci là.»
«Perché, cosa succederà da tua madre?» Il commissario ha l’aria terribilmente preoccupata. Non l’ho mai visto così. Crampo.
«Se glielo dico le spoilero il finale del mio piano, capo.»
«Col cazzo che se ne va incontro al suo finale senza di me, Sarca», ringhia Berganza, precedendomi verso la porta.
Petrini si gira verso Riccardo e fa una faccia stupita. Non capisce perché ci siamo dati di nuovo del lei.