Contemporary Humanities
Quel che resta da fare
0. Annoto qui 25 tesi sul Game.
1.
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L’insurrezione digitale è stata una mossa quasi istintiva, una brusca torsione mentale. Reagiva a uno shock, quello del ’900. L’intuizione fu quella di evadere da quella civiltà rovinosa infilando una via di fuga che alcuni avevano scoperto nei primi laboratori di computer science. C’era quella tecnologia, il digitale, e per lo piú era usata per consolidare il Sistema. Si intuí, però, che, deviandone la linea di sviluppo, poteva, al contrario, diventare uno strumento di liberazione. Ad avere un’idea del genere fu una comunità tutto sommato circoscritta, che abitava la California degli anni ’70: era un’umanità strana, in cui ingegneri informatici, hippie, militanti politici e nerd geniali si ritrovavano sotto l’ombrello di un preciso sentimento comune: l’insofferenza per il mondo com’era. Erano affamati, erano folli. Furono loro a sviluppare le potenzialità del digitale virandolo sistematicamente, e in modo beffardo, nella direzione di una lotta libertaria. Le loro prime mosse articolarono una partita che poi, in termini brevissimi, si misero a giocare un po’ tutte le intelligenze che nel mondo ronzavano intorno alla computer science. Quando arrivarono i primi capitali – e arrivarono velocemente – l’insurrezione vera e propria si mise in moto. Senza neanche saperlo, il ’900 stava iniziando a morire. |
2.
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L’insurrezione digitale non aveva ideologia, impianto teorico e neppure un’estetica. Poiché era generata per lo piú da intelligenze tecnico-scientifiche, era una somma di soluzioni pratiche. Strumenti. Tool. Non aveva un assunto ideologico esplicito, ma aveva qualcosa di meglio, un metodo. Stewart Brand lo riassunse nel modo migliore: «Puoi provare a cambiare la testa della gente, ma stai solo perdendo tempo. Cambia gli strumenti che hanno in mano, e cambierai il mondo». Applicato con ferreo rigore e formidabile successo, questo metodo è diventato, in una cinquantina d’anni, l’unico vero principio ideologico del Game. L’unica sua credenza quasi religiosa. |
3.
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Si può comprendere il Game solo se si tiene conto del principale scopo per cui è nato: rendere impossibile la ripetizione di un tragedia come quella del ’900. |
4.
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Con cieca lucidità, l’insurrezione digitale intuí i punti d’appoggio della cultura novecentesca e si mise a minarli, uno ad uno. Noi adesso possiamo con una certa approssimazione ricostruire ogni singolo passaggio di quel lavoro, e ammirarne la chirurgica esattezza. Colpirono da subito due obiettivi: l’immobilità e la prevalenza delle élite. Fedeli al loro precetto metodologico, non lo fecero con battaglie teoriche o lotte di potere. Lo fecero costruendo tool. Quando disponevano di un certo numero di soluzioni a un dato problema, sceglievano sistematicamente non la piú giusta, o la piú bella, o la piú semplice: sceglievano quella che assicurava i migliori margini di movimento e che tagliava fuori le élite. Se lo fai per decine, centinaia, migliaia di volte, vedrai che qualche risultato lo ottieni. |
5.
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La seconda mossa che fecero fu molto ambiziosa: scomporre il potere e distribuirlo alla gente. Un computer su ogni scrivania. Un oltremondo fatto di pagine Web in cui chiunque poteva, gratuitamente, circolare, creare, condividere, fare soldi, esprimersi. Arrivarono a immaginare che tutto il sapere del mondo potesse essere raccolto in un’enciclopedia scritta collettivamente da tutti gli umani. |
6.
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Non assaltavano i palazzi del potere, non gliene importava nulla della Scuola, erano indifferenti a qualsiasi Chiesa. Scavavano cunicoli intorno alle grandi fortezze del ’900, sapendo che prima o poi sarebbero crollate. |
7.
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Stanno crollando. |
8.
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Tutto questo lo realizzarono usando una postura che si sarebbe poi diffusa come il logo di quella battaglia di liberazione: uomo-tastiera-schermo. Era un postura fisica ma anche una postura mentale. Implicava un patto con le macchine, la fiducia in loro, la disponibilità a passare da loro per accostarsi al mondo. Arrivava a intravedere un futuro in cui quelle macchine sarebbero divenute delle protesi in cui l’umano avrebbe prolungato sé stesso: dei prodotti organici, quasi bio. Solo un’intelligenza tecnico-scientifica con venature hippie poteva infilare una strada simile senza timori, o tentennamenti, o nostalgia. Sarebbe bastato un poeta, fra di loro, e tutto si incartava. |
9.
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Alla fine degli anni ’90, tutti i pezzi erano sulla scacchiera. Qualcuno schiacciò Play. |
10.
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Nel decennio che seguí, nacque il Game. Il suo momento di fondazione, volendo sceglierne uno, è la presentazione che Steve Jobs fece dell’iPhone il 9 gennaio 2007, a San Francisco. Non espose delle teorie: fece vedere un tool. Ma in quel tool uscivano allo scoperto e trovavano forma tratti genetici che l’insurrezione digitale aveva sempre avuto e di cui ora diventava pienamente consapevole. In quel telefono – che non era piú un telefono – si leggeva la struttura logica dei videogame (brodo primordiale dell’insurrezione), si perfezionava la postura uomo-tastiera-schermo, moriva il concetto novecentesco di profondità, veniva sancita la superficialità come casa dell’essere, e si intuiva l’avvento della post-esperienza. Quando Steve Jobs scese dal palco, qualcosa era arrivato a compimento: le possibilità che il ’900 si ripetesse erano provvisoriamente ridotte a zero. |
11.
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Non vorrei che alcuni nostalgici avessero la possibilità di capire male. Il ’900 fu molte cose, ma soprattutto una: uno dei secoli piú atroci della storia degli umani, forse il piú atroce. Ciò che lo rende spaventoso oltre ogni dire è che non fu il frutto di un passaggio a vuoto della civiltà, e neppure l’espressione di una qualche barbarie: era il risultato algebrico di una civiltà raffinata, matura, e ricca. Nazioni e imperi che avevano ogni tipo di risorsa materiale e culturale, scelsero di scatenare, per ragioni evanescenti, due guerre mondiali che non erano in grado di gestire né di fermare. Lo sterminio degli ebrei fu una politica perseguita con sconcertante solerzia e allucinante invisibilità in un continente che aveva tessuto per secoli una cultura sublime. Un Paese che è stato culla della nostra idea di libertà e democrazia è riuscito a costruire un’arma talmente letale da portare gli umani, per la prima volta nella loro storia, a possedere qualcosa con cui possono autodistruggersi completamente. Trovandosi nella situazione di poterla usare, non esitò a farlo. Intanto, di là dalla cortina di ferro, il frutto malato di rivoluzioni in cui il ’900 aveva osato e sognato mondi migliori iniziava a produrre immani sofferenze, violenze inaudite, e dispotismi terrificanti. |
È abbastanza chiaro
perché il ’900 non è solo il secolo di Proust, ma è un nostro
incubo?
12.
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Qualsiasi cosa si pensi del Game, è un pensiero inutile se non si parte dalla premessa che il Game è la nostra assicurazione contro l’incubo del ’900. La sua strategia ha funzionato, oggi le condizioni perché tutto quello si ripeta sono state smantellate. Ormai ci siamo abituati, ma non va mai dimenticato che c’è stato un tempo in cui, per un risultato del genere, avremmo dato qualsiasi cosa. Oggi, se ci chiedono in cambio di lasciare la nostra mail ci innervosiamo. |
13.
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Nella sua distruzione del ’900, il Game ha ovviamente spianato tutto quel che c’era, senza poter andare troppo per il sottile. Lo ripeto, ha lasciato in piedi le fortezze tradizionali del Potere con una strategia quasi da guerriglia. Ma quando molto ha iniziato a franare, molto è andato perduto: anche cose preziose, irripetibili, belle. Molte erano addirittura giuste. Le stiamo in parte ricostruendo, come dopo un bombardamento. Ogni tanto uguali a come erano prima. Ogni tanto no. Otteniamo i risultati migliori quando accettiamo la sfida di usare i materiali costruttivi del Game e la sua idea di design. |
14.
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In ogni caso quelle distruzioni hanno lasciato il segno, e in molti una forma di rancore. La prima vera guerra di resistenza al Game è stata combattuta, pacificamente, negli anni ’90. I resistenti erano per lo piú abitanti del ’900 fermamente decisi a non abbandonare le loro case. La loro opposizione fu travolta dall’inarrestabile diffondersi del Game. |
15.
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Il Game non ha una sua costituzione scritta. Non ci sono testi che lo legittimano, lo regolano, lo fondano. Tuttavia ci sono «testi» in cui è conservato il suo patrimonio genetico. Ne cito almeno cinque, che andrebbero tramandati e studiati a scuola: Spacewar, uno dei primi videogame della storia (1972); il sito Web in cui, nel 1991, Tim Berners-Lee spiegava cos’era un sito Web; l’algoritmo originario di Google (1998); la presentazione dell’iPhone fatta da Steve Jobs nel 2007; l’audizione di Mark Zuckerberg alle commissioni Giustizia e Commercio del Senato Americano, nell’aprile 2018. |
16.
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Trovandosi nella seccante situazione di dover salvare dal diluvio universale uno solo di questi testi, quello che va salvato è il primo. Per quanto possa sembrare curioso, in Spacewar c’era già tutto il codice genetico della nostra civiltà, che infatti da videogiochi come lui ha preso il nome. In loro erano leggibili il senso dei computer, le potenzialità del digitale, i vantaggi della postura uomo-tastiera-schermo, una certa idea di architettura mentale, una collezione di sensazioni fisiche, una precisa idea di velocità, la beatificazione del movimento e l’importanza di un punteggio. In un certo senso i videogame sono stati il testo facilitato in cui i padri della rivoluzione digitale lessero cosa stavano facendo, e cosa avrebbero potuto fare. |
17.
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Spacewar significa Guerra nello spazio. Una volta Stewart Brand scrisse: «Guerra nello spazio ha fatto molto per la pace sulla terra». Intendeva ricordarci che il Game è una civiltà di pace. Neanche tanti anni fa, per vivere in una civiltà del genere avremmo dato qualsiasi cosa. Oggi, se ci chiedono in cambio di lasciare la nostra mail ci innervosiamo. |
18.
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C’è stato un giorno, ora è difficile dire quale, in cui il Game ha iniziato a scricchiolare, sotto il peso dei suoi tool. Dovendo proprio individuarne uno, sceglierei il 9 gennaio 2007. Nel preciso istante in cui Steve Jobs scese da quel palco. |
19.
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Il principale difetto del Game è di tipo banale, ed è riscontrabile in tutti i sistemi che sono prolungamenti di movimenti insurrezionali. Mosse che sono ideali per spezzare un fronte e invertire una tendenza generano alla lunga effetti lontani che non funzionano poi cosí bene. Spesso, molto semplicemente, quel che funziona in una comunità ristretta non è detto che sia gestibile quando i numeri iniziano a salire. Cosí, per fare un esempio, l’idea di umanità aumentata ha una sua bellezza, ma quello che poi riesce problematico è gestirne la deriva quasi inevitabile: umanità aumentata, rinnovata percezione di sé, individualismo di massa, egoismo di massa. Ti distrai un attimo, infili quella discesa, e il guaio è fatto. Tornare indietro e cercare di interrompere il flusso non è molto piú facile che costruire dighe per domare un fiume in piena. Mentre è in piena, voglio dire. Tuttavia è quello che dobbiamo fare. L’altra possibilità sarebbe abbandonare il Game. Ma non è che ci sia tutta quella calca, all’uscita. |
20.
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Attualmente le principali disfunzioni del Game, quelle che davvero stanno portando molti suoi abitanti a viverlo come un nemico, sono tre. |
La prima è che il Game
è difficile. Magari divertente, ma troppo difficile. È aperto,
instabile, multiforme, non si spegne mai. Per sopravviverci bisogna
avere skill non indifferenti che peraltro non vengono insegnate: si
impara giocando, come nei videogame. Il fatto è che qui non si
hanno molte vite, e quando si cade, si cade. Non ci sono reti di
protezione, né sistemi per recuperare chi è caduto. Chi si stacca,
a poco a poco scivola lontano. «Non
lasceremo nessuno indietro» non è una
frase da Game.
La seconda disfunzione
è che un sistema nato per ridistribuire il potere ha finito per
distribuire piú che altro possibilità, ottenendo in compenso
l’imprevisto risultato di creare delle concentrazioni di potere
immani: sono collocate in punti diversi di quelle novecentesche, ma
non sembrano essere meno impenetrabili. La loro logica è
illeggibile almeno quanto quella delle cancellerie europee di
inizio ’900. Le loro disponibilità finanziarie aumentano a ritmi
che il ’900 non conosceva.
La terza disfunzione
sta in quella decisione di lasciare intatte le grandi fortezze del
’900: lo Stato, la Scuola, le Chiese. Gesto brillante, che però
alla lunga ha avuto spiacevoli conseguenze. In qualche modo è come
se il Game avesse lasciato intatto lo scheletro del mondo, andando
poi a sviluppare masse muscolari micidiali e articolazioni da
contorsionista. Ovvio che qualcosa prima o poi si spacchi, in punti
diversi, in tempi diversi. Una collezione di micro e macro
fratture. Per essere pratici: se lo scheletro dell’educazione è
lasciato a una scuola che ancora è ferma ad addestrare buoni
cittadini di una media democrazia anni ’80, poi non ci si può
illudere di lanciare nel Game dei player idonei: facilmente si
spezzeranno. Cosí, puoi immaginare tutta la mobilità possibile, e
continuare a sviluppare tool che producono velocità, ma se il
sistema sanguigno degli Stati continua a costruire strettoie,
occlusioni, dogane, caselli, blocchi e muri, diventerà poi
difficile scaricare tutta quella dinamicità, quella pressione,
quella rapidità. Ci si troverà a fronteggiare delle emorragie
interne mica male.
Mi sento di aggiungere
che trovare delle soluzioni a questi tre problemi non è una cosa
che sia attualmente alla nostra portata. Possiamo apportare dei
correttivi, e lo facciamo ogni giorno. Ma le soluzioni a problemi
come quelli le può trovare solo un’intelligenza che ha la loro età.
Voglio essere chiaro: nessuno che sia nato prima di Google
risolverà mai questi problemi.
21.
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Il Game è un sistema giovanissimo, tanto giovane da essere ancora generato, nella maggior parte dei casi, da gente che non c’è nata. Brin e Page non avevano smartphone in tasca quando inventarono Google, e Berners-Lee non poteva rilassarsi giocando alla Play Station mentre inventava il Web. A livelli molto piú bassi, la capillare e quotidiana edificazione del Game è oggi in buona parte nelle mani di gente che ha telefonato alla fidanzata da una cabina telefonica e usato un’agenzia di viaggio per viaggiare. Quel che sappiamo con certezza è che il Game sprigionerà tutte le sue potenzialità solo quando sarà interamente disegnato da intelligenze da lui disegnate. Allora sarà sé stesso. |
22.
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Faccio un solo esempio, forse il piú delicato. Menti novecentesche, per quanto profetiche e illuminate, non sono nemmeno andate vicino, negli ultimi quarant’anni, a coniare, per il Game, un suo proprio modello di sviluppo economico, di giustizia sociale, di distribuzione della ricchezza. I ricchi del Game lo sono in modo molto tradizionale. I poveri, pure. Probabilmente, solo una generazione di nativi digitali, capaci di incrociare le lezioni del passato con gli strumenti del presente, potrà disegnare soluzioni che oggi non ci sono. Inventare modelli, articolare delle prassi, generare una cultura diffusa. È uno dei compiti che hanno davanti. Se falliranno, il Game resterà imperfetto, e in fondo fragile. Presto o tardi, la collera sociale lo capovolgerà. |
23.
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Attualmente, la cosa migliore che si possa fare per correggere il Game, è raddrizzarlo. Se fosse un aereo in volo, lo si vedrebbe piegarsi da una parte, una delle ali che punta verso terra, l’altra che indica il cielo. Questo assetto inclinato gli viene dalla sua origine ed è ben riassunto in questo dato statistico: nella stragrande maggioranza, i padri del Game erano maschi, bianchi, americani e ingegneri/scienziati. Ma l’intelligenza del nostro tempo e piú variegata, e chiaramente il tipo di volo che ha permesso l’avvento del Game non è il piú giusto per assisterlo nella stagione della sua maturità. Probabilmente ci volevano ingegneri per scassinare il ’900 e farlo esplodere, ma se l’altra intelligenza non entra al piú presto nei processi di produzione del Game, è difficile che il futuro ci riservi un habitat sostenibile. C’è bisogno di cultura femminile, di sapere umanistico, di memoria non americana, di talenti cresciuti nella sconfitta e di intelligenze che vengono dai margini. Se i nativi digitali che si prenderanno cura del Game, portandolo a maturità, continueranno a essere maschi, bianchi, americani e ingegneri, il mondo in cui vivremo finirà in un loop senza prospettive. |
24.
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Piú di ogni altra cosa, il Game ha bisogno di umanesimo. Ne ha bisogno la sua gente, e per una ragione elementare: hanno bisogno di continuare a sentirsi umani. Il Game li ha spinti a una quota di vita artificiale che può essere congeniale a uno scienziato o a un ingegnere, ma è sovente innaturale per tutti gli altri. Nei prossimi cento anni, mentre l’intelligenza artificiale ci porterà ancora piú lontani da noi, non ci sarà merce piú preziosa di tutto ciò che farà sentire umani gli uomini. Per quanto possa oggi sembrare assurdo, il bisogno piú diffuso sarà quello di salvare un’identità della specie. A quel punto raccoglieremo ciò che abbiamo seminato in questi anni. |
25.
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Non è il Game che deve tornare all’umanesimo. È l’umanesimo che deve colmare un ritardo e raggiungere il Game. Una restaurazione ottusa dei riti, del sapere e delle élite che colleghiamo istintivamente all’idea di umanesimo, sarebbe una perdita di tempo imperdonabile. Abbiamo invece fretta di cristallizzare un umanesimo contemporaneo, dove le orme lasciate dagli umani dietro di sé siano tradotte nella grammatica del presente e immesse nei processi che generano, ogni giorno, il Game. È un lavoro che stiamo facendo. C’è tutta un’area di memoria, immaginazione, sensibilità e figure mentali in cui gli abitanti del Game si son messi a raccogliere le impronte del loro essere umani. Non fanno poi tanta distinzione tra un trattato filosofico del Quattrocento e un sentiero in montagna. Cercano l’uomo, e dove lo trovano, lo annotano. Qualcosa scartano, molto conservano. Tutto traducono. E questo fanno con un’intenzione molto lucida: finire di costruire il Game in modo che sia adatto agli umani. Non solo prodotto dagli umani: adatto a loro. |
Stanno raddrizzando il
volo del Game.
La Grande Biblioteca in
cui lo stanno facendo non esiste, ed esiste ovunque. Il suo
catalogo è immenso: si potrebbe passare una vita solo scorrendo i
titoli tra i Simpson
e Spinoza. A chi lo facesse,
accadrebbe di incrociare reperti magnifici: una certa capacità di
accostare gusti o colori, la possibilità di filare pensieri lunghi
o frasi di molte righe, una certa misteriosa capacità di lentezza e
immobilità. C’è il rischio che restino fossili da ammirare la
domenica nei musei. Ma se diventeranno contemporary humanities,
cioè scenari del Game, ci ritroveremo a giocarli, e allora sarà
tutta un’altra storia. Una storia di umani, ancora una
volta.