2008-2016. Dalle App ad AlphaGo
The Game
Il mondo in cui viviamo
2008
  • In settembre fallisce la Lehman Brothers: avremmo poi imparato che era l’inizio di una crisi economica durissima, destinata a durare per anni. Anche in questo caso, però, i piú grandi player del Game non sembrano scossi piú di tanto dalla cosa. Rallentano e poi ripartono. Sembrano cavalcare un’inerzia che nessuna contrazione dei consumi può veramente fermare. Nasce la loro aura di leggendaria invincibilità. Nasce, presso molti umani, l’istinto a considerarli pericolosi, a temerne l’onnipotenza e a desiderarne la rovina.
  • Nella monotona lista di aziende californiane si inserisce incredibilmente una start up svedese, inventandosi Spotify, una piattaforma di streaming che diventerà modello per molte cose. Il fondatore si chiamava Daniel Ek, aveva 25 anni e aveva iniziato a fare soldi col Web quando era tredicenne [giuro]. Quando pensò Spotify, la situazione era questa: nell’oltremondo della rete, se eri sveglio, potevi raggiungere tutta la musica che volevi senza tirar fuori un soldo. Si chiamava pirateria, era illegale, ma capite che andare a caccia di pirati nell’oltremondo non era facilissimo. Nel frattempo, musicisti e case discografiche vedevano i profitti ridursi al lumicino. Ek pensò che se ne usciva in un solo modo: fare quello che facevano i pirati, ma molto meglio di loro e facendolo costare un po’. Capí che se riusciva a metterti a disposizione tutta la musica del mondo per qualche euro al mese avresti smesso di farti un culo a capanna per scaricare file musicali che poi facevi fatica a organizzare nel tuo computer. Non era un’idea nuovissima: iTunes, per dire, era nato sette anni prima, e faceva sostanzialmente quello. Ma costava di piú, era molto meno divertente, stava acquattato nel mondo Apple e alla fine era tremendamente macchinoso. Ek aveva in mente una specie di videogame elementare, in cui tutto fosse velocissimo, cool, e magico: gli riuscí di crearlo e cosí finí per battere la Apple al gioco che la Apple aveva inventato. Nel 2011 sbarcò negli Usa e da lí non si è piú fermato. Attualmente Spotify ti fa accedere con 9,99 euro al mese a piú di 30 milioni di brani musicali. Le abitudini di consumo a cui inclina e il tipo di business che ha imposto incarnano un modello che possiamo riconoscere in tante vertebre del Game (Netflix, per dire, non è molto diverso): naturalmente possono suscitare critiche di ogni tipo, ma ora quello che è importante capire è che rappresentano, entrambe, tipici prodotti del Game nella sua età matura: spettacolari deduzioni realizzate a partire dalle premesse logiche e tecnologiche fissate nel decennio precedente. Traduco: non inventavano niente di realmente nuovo, ma finivano in maniera geniale il lavoro che avevamo lasciato a metà.
  • Il 10 luglio appare nei device della Apple uno Store on line che prima non c’era: vende delle cose che in Italia vengono presentate col nome di Applicativi. Oggi, in tutto il mondo, si chiamano App. Ne avevano 500, sugli scaffali: di rado superavano i 10 dollari, e in un caso su quattro erano addirittura gratuite. Le scaricavi usando una connessione qualunque e finivano nel tuo device. Un giochetto. Adesso provate a indovinare quanto tempo ci volle a noi abitanti del pianeta Terra per arrivare a scaricare 10 milioni di App.
Quattro giorni.
La Apple fu lieta di diffondere un comunicato stampa in cui praticamente avvertiva che la cosa le era scoppiata in mano. Non avevano idea neanche loro di cosa avevano scatenato. Oggi, noi abitanti del pianeta Terra scarichiamo 197 miliardi di App all’anno. O quanto meno: è quel che abbiamo fatto nel 2017. Capace che nel 2018 facciamo ancora meglio. L’Apple Store è ancora là: ha piú di due milioni di App, e se la cosa vi fa impressione pensate che non è neanche il negozio piú fornito. Google Play, per dire, ha un catalogo di tre milioni di App.
Resta da capire, a questo punto, una cosa da nulla: cosa sia, veramente, una App.
Non semplicissimo, se siete dei comuni mortali.
Ma, per capirci: le App, quando aprí l’Apple Store, esistevano già da anni. Il sistema con cui si mandavano le mail era sostanzialmente una App. Lo era anche Word, il sistema di scrittura. Li chiamavamo però programmi (o anche software, barando un po’): massicce sequenze di comandi che portavano un computer a raggiungere un determinato scopo: ad esempio mandare una mail o permetterti di scrivere. Se da un certo punto in poi abbiamo smesso di chiamarli programmi, scegliendo una parolina molto piú pop, è per tre ragioni. La prima è che App era molto piú facile da pronunciare. La seconda è che abbiamo iniziato a inventare programmi molto piú pop di Word, e definitivamente figli del Game: migliaia di videogiochi, naturalmente, ma anche programmi che ti ricordavano quando dovevi andare in bagno, o ti dicevano cos’era la musica che stavi sentendo al supermercato o ti viravano le tue foto che sembravano quadri di Van Gogh. La terza ragione, decisiva, è che hanno iniziato a nascere programmi che non erano fatti per il tuo computer, ma pensati apposta per il tuo smartphone: strumenti leggeri che ti potevi praticamente portare addosso. Finivano a coprire una serie di bisogni o desideri che andavano in giro con te e non potevano aspettare che tu tornassi a casa davanti al tuo computer. O anche solo non valevano la pena di accendere un computer: erano lí, prendevi il cellulare in mano, cliccavi su un’icona, ed era fatta. Capite che il nome App era perfetto. È quasi onomatopeico, tipo bomba, o ticchettio.
Da quando i programmi sono diventati App abbiamo iniziato ad amarli, a usarli, a fidarci di loro, e a giocare con loro. Sono diventati, per cosí dire, animali domestici: prima erano orchi. La cosa ha avuto una conseguenza che dobbiamo assolutamente registrare: con le App abbiamo aperto una quantità immensa di porticine per l’oltremondo. Quello che un tempo sapeva fare praticamente solo il Web (farci entrare nell’oltremondo), adesso lo fanno anche milioni di App che non necessariamente hanno a che fare col Web. Spesso non hanno un indirizzo Web, non sono raggiungibili dal Web. Sono, per cosí dire, locali chiusi, dove entriamo e usciamo per prendere qualcosa che ci serve. Ma sono locali chiusi collocati nell’oltremondo e il numero vertiginoso di App che circolano sul pianeta dice quindi una cosa molto semplice: il traffico con l’oltremondo, in entrata e uscita, è diventato immenso e velocissimo, tanto immenso e tanto veloce che spesso conservare una vera linea di demarcazione tra mondo e oltremondo è diventato impossibile, e quasi sempre inutile.
Siamo a un nodo importante: quando non riesci piú a distinguere quella linea, allora sei nel Game.
  • Nasce Airbnb, start-up perfettamente coerente con la ormai antica decisione di saltare tutte le mediazioni possibili e avere una presa diretta sul reale. Hai una casa che non abiti per un po’? Bene, mettila nell’oltremondo e affittala. Iniziarono a farlo in parecchi, e la cosa diventò molto piú semplice quando tre giovanotti americani trovarono il modo di creare un sito Web fatto apposta per mettere in contatto quelli che cercavano casa con quelli che l’avevano.
Per la cronaca, il nome nasce da questa spiritosa circostanza: i tre giovanotti, trovatisi a San Francisco con una casa decente ma pochi soldi in tasca, presero tre materassini gonfiabili (air bed), li misero nel soggiorno e li affittarono. Airbedandbreakfast, chiamarono la cosa.
Come nome era un tantino lungo. Adesso è Airbnb.
  • Il 4 novembre Barack Obama vince le presidenziali americane. Sarà il primo presidente afroamericano nella storia degli Stati Uniti. Se compare in questa nostra carrellata è, tuttavia, per un’altra ragione: fu il primo a usare il mondo digitale per vincere. Non si limitò a considerarlo uno dei tanti media possibili: come è stato notato, lo scelse come «sistema nervoso» della sua campagna.
Il cuore di tutto era il suo sito Web: si chiamava MyBO [sic] e in poco tempo costruí una cosa che non era un partito, non era una campagna, non era un’organizzazione: era una enorme comunità di persone che condividevano un sogno, quello di Obama presidente, e adesso disponevano di tool molto semplici per trovarsi, riconoscersi, scambiarsi informazioni e dare una mano. Nel sito, per dire, c’erano 20 mila gruppi: sceglievi quello che ti piaceva (ce n’erano di ballerini di tango, di mamme single, e cosí via) ed entravi in una piccola comunità di gente come te. Se ti andava di dare una mano, il sito ti forniva i contatti di elettori che vivevano dalle tue parti e che erano incerti: potevi telefonargli o andare a trovarli, come volevi. C’era anche una parte del sito dedicata al fundraising: non è che ti chiedevano soldi, era molto piú divertente: praticamente diventavi uno che raccoglieva soldi per la campagna di Obama, ti stabilivi un obiettivo, per dire 10 mila dollari, e poi iniziavi a martellare amici e conoscenti. Un grazioso termometro ti indicava a che punto della tua missione eri arrivato. L’ho detto, erano anni in cui se non facevi cose che assomigliavano a un videogame non vincevi [lo sono ancora].
A ispirare e realizzare tutto questo furono in molti ma adesso è istruttivo ricordare un personaggio in particolare, quello che fu la mente di tutta l’operazione: aveva 24 anni, si chiamava Chris Hughes ed era uno dei quattro fondatori di Facebook, l’intellettuale del gruppo: non amava la Silicon Valley, preferiva la East Cost, si era laureato in Storia della letteratura francese [!] e lasciò Facebook per andare a lavorare con Obama. Vale anche la pena di ricordare che la sala macchine di MyBO, diciamo la parte muscolare di quell’impresa, faceva capo a un’azienda, la Blue State Digital, che anche lei non veniva dalla Silicon Valley, e aveva sede a Washington D. C. e a Boston: la cosa ha un suo significato perché vi aiuta a capire come nella Silicon Valley della politica non fregasse niente a nessuno: ci voleva della gente che andava in ufficio a pochi isolati da dove si esercitava il potere, per rendere credibile l’ipotesi di applicare il digitale a una cosa cosí obsoleta come la vita politica.
2009
  • Nasce, un po’ per caso, WhatsApp. In origine l’idea era quella di fare un’App che ti consentisse di aggiungere al tuo nome, quando appariva nelle rubriche degli altri, una piccola frase, tipo «Oggi lasciatemi perdere», o «Mi sa che andrò in piscina». Una cosina divertente. Solo che nel metterla su i due inventori si ritrovarono in mano un sistema di messaggistica molto semplice ed efficiente. Si chiamavano Jan Koum e Brian Acton. Il primo era nato a Kiev ed era emigrato nella Silicon Valley a sedici anni, povero in canna. Una cosa da annotare non è tanto la sua parabola tipicamente americana (adesso è ovviamente miliardario) quanto il fatto che sia lui sia Brian Acton erano impiegati di Yahoo, e che l’idea di fare WhatsApp sia venuta a Jan il giorno in cui si comprò un iPhone trovandoci dentro l’Apple Store e scoprendo l’esistenza del mercato delle App: voglio dire, erano inventori di seconda generazione, come lo saranno quasi tutti gli inventori di quegli anni. Gente che lavorava dentro un sistema e ne sviluppava le potenzialità, non gente che inventava sistemi, per capirci. Era il Game che iniziava a figliare e a moltiplicarsi, da sé.
WhatsApp è stato venduto nel 2014 a Facebook per 19 miliardi di dollari.
Attualmente un miliardo di abitanti del pianeta Terra lo usa regolarmente.
Per scelta dei fondatori, nessuna pubblicità compare e comparirà mai nell’applicazione.
Dal 2016 la App è completamente gratuita.
Come diavolo fanno a vivere, allora?
Se volete una risposta facile e consolatoria, eccola: vendono i vostri dati.
Ma in realtà la cosa è tutta da dimostrare, è contraria ai principî dei due fondatori ed è esclusa dai Termini di Servizio che accettate quando scaricate la App. Può esistere un margine di dubbio sull’uso delle foto, ma i vostri messaggi scritti WhatsApp non li legge e non li commercia.
E allora come cavolo li pagano i server con cui fanno funzionare tutta quella roba, direte voi?
Per quello che ho potuto capire io, la risposta piú ragionevole è questa: se sei in grado di raggiungere quotidianamente un miliardo di umani che si fidano di te, troverai sempre qualcuno che ti presti dei soldi, e prima o poi un sistema per farli tornare.
  • Nasce Uber, per la gioia dei taxisti di tutto il mondo. Nasce poco dopo Airbnb e nello stesso posto (San Francisco): evidentemente girava nell’aria, da quelle parti, questa idea che se avevi qualcosa che non stavi usando, be’, potevi darla a qualcun altro guadagnandoci un po’ di soldi. Hai un’auto e un paio di ore libere? Mettiti a fare il taxista, senza esserlo, e spiazzando completamente i taxisti. Ampliate un po’ il concetto e vi trovate la Sharing economy, una delle linee di tendenza degli anni del Game. Nasce dall’istinto a saltare le mediazioni, ma aggiunge una sfumatura importante: un’idea di proprietà condivisa che inizia con l’affittare la stanza in piú e poi finisce nei cohousing, nel carsharing, o nel crowdfunding. Ai padri ribelli e hippie dell’insurrezione digitale la cosa sarebbe sicuramente piaciuta. Di solito piace meno alle caste che controllano certi consumi collettivi: se la gente si organizza e si divide le cose che ha senza ricorrere a esperti, mediatori, sacerdoti e possessori di licenze, ovviamente qualcuno finirà per perdere un bel po’ di roba. In questo senso la rissa legale (e spesso fisica) tra Uber e i taxisti riassume bene uno scontro che in quegli anni possiamo riconoscere un po’ ovunque. Non è il caso qui di schierarsi da una parte o dall’altra: però è utile capire che nulla di ciò sarebbe successo senza la nascita di piattaforme digitali studiate apposta per favorire e regolare lo scambio diretto di beni tra umani normalissimi. Cioè per scatenare la rissa.
Ah, ancora un cosa. I due che inventarono Uber erano già ricchissimi al momento di metterlo su: tutt’e due avevano fatto i soldi vendendo startup digitali di un certo successo: una era un singolare motore di ricerca (StumbleUpon), l’altra una piattaforma di file-sharing (Red Swoosh). Voglio dire: erano già al secondo giro di giostra. Dove si inizia a intuire che, da creazione visionaria di alcuni outsider, l’insurrezione digitale stava diventando la nevrosi di una ristretta élite, appena nata.
  • Il 4 ottobre viene fondato, in Italia, il MoVimento 5 Stelle. È la prima volta che l’insurrezione digitale genera direttamente una formazione politica, proponendosi di attaccare il palazzo del potere. Come abbiamo visto piú volte, non è un gesto che le era congeniale: la tecnica di invasione dell’insurrezione digitale prevedeva di scantonare allegramente le grandi istituzioni novecentesche (politica, scuola, chiesa, ecc). e di scavare cunicoli tutt’intorno, costruendo un tool dopo l’altro. Anche nella vicenda di Obama, il mondo digitale si era limitato ad offrire dei tool, lasciando che il sistema di valori e di principî dell’aspirante presidente dimorasse tranquillo nella solida tradizione novecentesca del Partito Democratico. Ma il M5S è un’altra cosa. Lí accade che, di fronte a una classe politica sempre piú stanca, corrotta e grottesca, una parte degli abitanti del Game perda la pazienza e parta in tromba dicendo una cosa molto semplice: lasciate fare a noi.
Il DNA digitale è fin dal primo momento molto spiccato. A fondare il M5S sono in due. Uno è Beppe Grillo, un attore comico molto popolare che da quattro anni teneva un blog di enorme successo (autorevoli classifiche di quegli anni lo mettono tra i dieci siti piú influenti del mondo). L’altro fondatore è Gianroberto Casaleggio, un programmatore dell’Olivetti poi diventato apprezzato consulente per Aziende che cercavano un posizionamento nel mondo della Rete senza quasi sapere di cosa stavano parlando (le aziende, non lui, che lo sapeva benissimo). Grillo era molto bravo a risvegliare l’energia latente che covava tra le pieghe di un Paese disilluso, mortificato dall’insipienza dei politici e sospettoso nei confronti delle grandi potenze economiche. Casaleggio sapeva creare i tool per organizzare quell’energia e darle una forma politica. Già nel 2007 si erano presentate alle elezioni regionali alcune liste civiche generate dalla comunità che si raccoglieva intorno al blog di Grillo. Nello stesso anno, una manifestazione dal sofisticato titolo Vaffanculo-Day aveva riempito molte piazze d’Italia, e da quel giorno quella comunità era divenuta cosí visibile da meritarsi un nome: i grillini. Due anni dopo nasce il Movimento vero e proprio. Le 5 Stelle non sono un riferimento a un grand hotel ma fissano cinque priorità: acqua, ambiente, connettività, sviluppo, trasporti. Erano piú o meno i cavalli di battaglia di Grillo: se li spacchettate trovate cose come il reddito di cittadinanza, la decrescita felice, Internet come Diritto Fondamentale, la tutela assoluta per l’ambiente, la scelta di uno stile di vita a impatto zero. Di suo, Casaleggio ci mise l’idea di una democrazia digitale, una sorta di democrazia diretta che, coerentemente a certi assiomi dell’insurrezione digitale, saltasse tutte le mediazioni possibili e portasse la gente a intervenire direttamente nell’azione politica grazie all’uso dei device digitali. Sembra una visione utopistica ma se ci pensate bene era un upgrade abbastanza logico, e solo ambizioso, di quello che stava succedendo nei fatti: in un mondo in cui ci sono Uber e Airbnb, in cui l’Enciclopedia piú diffusa è scritta da tutti, in cui puoi rispondere a un tweet del Papa e in cui le news ti arrivano su Facebook, perché mai la gente non dovrebbe votare con un click ed eventualmente mettersi a fare politica senza appartenere a nessuna élite particolare? Detto questo, il Game non è fatto di idee ma di tool, e quindi immaginare una democrazia digitale non significa nulla se poi non crei una piattaforma che la renda possibile. Casaleggio l’ha creata. Si chiama Rousseau. A dire il vero, non gode di una grande reputazione. È stata giudicata dall’Autorità garante della Privacy «del tutto priva dei requisiti di sicurezza informatica che dovrebbero caratterizzare un vero e proprio sistema di e-voting». A molti non sembra appropriato il fatto che sia di proprietà di chi l’ha creata (scomparso Gianroberto Casaleggio, nel 2017, la piattaforma è ora di proprietà del figlio): in effetti, in un mondo in cui il Web è stato regalato a tutti gli umani, è curioso che qualcuno si tenga stretto il tool con cui far funzionare una democrazia diretta. Comunque sia, Rousseau esiste, macina lavoro e, di fatto, regola la democrazia diretta dei 5 Stelle: che io sappia non esiste niente del genere da nessuna parte del mondo.
Per la cronaca, il M5S si è presentato per la prima volta alle elezioni nel 2010: erano elezioni regionali, e il risultato oscillò tra l’1 e il 7 per cento. Otto anni dopo, alle elezioni politiche del 2018, è diventato il primo partito italiano, pur non essendo un partito, raccogliendo il 32% dei voti. Mentre sto scrivendo queste righe, sta cercando di trovare un modo di governare l’Italia. È costretto a trovare degli alleati, perché il 32% dei voti non basta per comandare. Solo che se hai in mente di rovesciare il sistema e dare a tutti gli italiani la password del potere, non è che poi ti ritrovi tutti ’sti partiti che muoiano dalla voglia di darti una mano. Cosí stanno armeggiando, faticosamente: in un certo senso stanno cercando di connettere un tablet con un trattore, e cercano di farlo con una chiavetta USB. Capite che ci vuole pazienza. Difficile dire come andrà a finire. Ma se prima della fine del libro succede qualcosa, prometto che ve lo farò sapere: magari vi siete appassionati alla cosa e volete sapere come diavolo ne siamo usciti.
2010
  • Nasce Instagram, un social network molto piú fighetto di Facebook: tempo due anni e Facebook se lo comprerà. L’inventore, Kevin Systrom era laureato a Stanford, aveva lavorato per Google ed era reduce dall’aver inventato una App per l’iPhone poi rivelatasi piuttosto fallimentare (Burbn): il perfetto identikit dell’innovatore di seconda generazione! Naturalmente era maschio, bianco, americano e ingegnere.
2011
  • La Apple lancia iCloud: è un sistema per cui puoi tenere i contenuti del tuo computer in un posto che non è il tuo computer (idem per il tuo iPhone). Li metti su una nuvola, per cosí dire: quando ti servono li vai a prendere e quando hai finito li rimetti lí. Al di là del funzionamento tecnico della cosa (è brutto dirlo ma i vostri file, i vostri indirizzi, i vostri messaggi d’amore e le vostre foto in mutande non stanno su una nuvola ma in altri computer, stoccati a milioni in posti assurdi) il valore simbolico è notevole: eravamo gente che voleva smaterializzare la realtà, e a quel punto potevamo ben dire di esserci riusciti. Una buona parte della nostra vita si era messa a pesare niente, a essere da nessuna parte, e a seguirci senza occupare né spazio né tempo. Notevole. In termini pratici, il vantaggio della cosa è che se il cellulare ti finisce nella tazza del cesso puoi anche tirare l’acqua tanto la tua rubrica è al sicuro. Lo svantaggio è quella sinistra sensazione di lasciare in ostaggio tutto quello che hai a qualcuno che non sai bene chi sia. Avete presente quando in spiaggia dovete andare a fare il bagno ma vi secca un po’ lasciare lí lo zaino con dentro tutto, e allora quello dell’ombrellone vicino vi dice «Vada tranquillo, gli do un’occhiata io». Ecco, quella cosa lí.
  • Tre studenti di Stanford inventano Snapchat. Di per sé è una normale App di messaggistica, molto elementare, facile e diretta, una roba apparentemente da ragazzini. Ma ben presto inserisce una variabile strepitosa: i testi, le foto e i video che mandi con Snapchat, dopo 24 ore scompaiono nel nulla. Irresistibile! Dato che ormai, nel Game, una delle cose piú difficili è nascondersi, sparire, cambiare idea, pentirsi, cancellare, ecc., Snapchat ottiene subito un certo successo. Attualmente si sta avvicinando ai 200 milioni di utenti giornalieri.
  • Il 2011 è anche l’anno in cui si verifica un curioso, e a suo modo cruciale, sorpasso. Non ho la minima idea di come facciamo a saperlo ma è l’anno in cui l’uso delle App ha superato quello del Web. Sarò piú preciso: da quell’anno, quando abbiamo uno smartphone in mano, clicchiamo piú spesso sull’icona di un’App che su quella del browser che ci fa entrare nel Web. Al professor Berners-Lee, la cosa non sarà sicuramente piaciuta. Non tanto per il sorpasso in sé, quanto per il fatto che lui sognava l’oltremondo come spazio aperto, di proprietà di nessuno, in cui gli umani si scambiavano tutto ciò che possedevano. Le App non sono esattamente questo: sono di proprietà di qualcuno, e non sono uno spazio aperto, ma degli hangar, magari immani ma chiusi, in cui uno entra per avere un certo servizio e poi se ne torna nella sua tana. La differenza la capite. Volendo è un sintomo, tra altri, di una sorta di allegra degenerazione del Game: un lento scivolare lontano dalle sue spinte utopiche originarie. Ma è un’osservazione su cui metto in guardia il lettore: la possibilità che sia un’analisi moralistica, consolatoria e novecentesca è piuttosto alta.
2012
  • Dopo musica, foto e video, anche la televisione diventa, ufficialmente, digitale. Basta con il sistema analogico. In Italia viene smantellato nel 2012. Attualmente l’unico Paese al mondo in cui non arriva il segnale digitale è la Corea del Nord.
  • Nasce Tinder, e riesce a sdoganare per sempre un penoso desiderio che avevano quasi tutti: tornati a casa completamente scoglionati, poter scegliere in un catalogo un partner mai visto prima con cui uscire a cena [o eventualmente entrare in un letto]. Non era la prima volta, ovviamente, che qualcuno provava a mettere su un sito di incontri, ma la genialità di Tinder fu quella di capire che stare lí a scegliere nel catalogo con le chiappe sul sofà e la tv accesa rappresentava per la stragrande maggioranza degli umani una cosa piú divertente che uscire a cena [piuttosto caro e comunque dovevi prima lavarti e vestirti] o accoppiarsi veramente [non sto a sottolineare le innumerevoli seccature]. Cosí si ebbe gran cura a far diventare quel catalogo una specie di videogame elementare, sottilmente erotico, e facilissimo da giocare. Praticamente un solitario con le carte. Il fatto che non fosse escluso ritrovarsi poi, due ore dopo, a pomiciare con la donna di picche contribuí al successo.
2016
  • Dal 9 al 15 marzo, un software sviluppato da Google (ancora loro…) affronta in un match di Go il numero 1 della classifica mondiale, Lee Sedol (un sud coreano di 32 anni). In palio un milione di dollari. Il match fu diffuso in diretta su YouTube. Era al meglio delle cinque partite. AlphaGo vinse per 4 a 1.
Era una macchina. Vinse contro l’uomo migliore.
Lo so che tutti avete in mente Deep Blue e la sua vittoria a scacchi con Kasparov (era il ’96, e il software l’aveva sviluppato l’IBM). Ma vi invito a cogliere la differenza: qui stiamo parlando di Go, un gioco immensamente piú complicato degli scacchi. Per capirci, quando fate la prima mossa di una partita a scacchi potete scegliere fra venti soluzioni diverse; se giocate a Go, la mosse possibili sono 361. Ammesso che arriviate vivi alla seconda mossa, se state giocando a scacchi dovete scegliere tra 400 soluzioni possibili. A Go, il numero delle mosse tra cui dovete scegliere la vostra è un tantino piú alto: 130 mila! Auguri.
Questo per dire che creare una macchina capace di gestire una roba cosí complicata implica un certo lavoro. Alpha Go è stato allenato facendogli memorizzare 30 milioni di partite precedentemente giocate da degli umani (bravi). E fin lí, credetemi, in fondo era solo una cosa muscolare, di capacità di calcolo: niente di particolarmente affascinante. Il bello iniziò quando i programmatori si misero a lavorare con reti neurali profonde (non cercate di capire cosa sono) ottenendo un risultato che ha, questo sí, del favoloso: Alpha Go impara dagli umani ma poi fa di testa sua, inventa delle mosse che gli umani non hanno mai fatto, applica strategie che nessun umano aveva pensato: è per quello, che vince.
C’è un nome, per quello che Alpha Go incarnava, sviluppava e portava all’attenzione della gente: INTELLIGENZA ARTIFICIALE. Neanche ci provo a spiegarvi cosa esattamente significa, ci penserò tra dieci anni quando scriverò la terza puntata della saga dei Barbari. Ma qui avevo bisogno di appuntare quel nome perché è sicuramente il nome di una svolta, di un nuovo passaggio tecnologico, forse addirittura di un nuovo orizzonte mentale. In esso si chiude un capitolo del Game (quello che abbiamo studiato in questo libro) e se ne apre un altro su cui è francamente difficile fare previsioni. Se pensate a robot che ci pisceranno sulla testa, siete fuori strada (quel tipo di intelligenza artificiale è ancora al palo). Ma il resto e un orizzonte aperto, tutto da scoprire. Si vedrà.
Per adesso, portiamoci a casa la deliziosa soddisfazione di aver disegnato una parabola che parte da un gioco di marzianini e finisce in un gioco da sud coreani. Tra un gioco e l’altro, vedo finalmente l’elegante srotolarsi di una catena montuosa dove è scritta la civiltà in cui vivo. Posso ragionevolmente sperare che la vediate anche voi?
Screenshot finale
Ultimo tratto della spina dorsale. Domina la vaga impressione di una civiltà che ormai i suoi capisaldi li ha fondati e adesso si permette di avvitare bene i bulloni. C’era un lavoro da finire e l’hanno finito.
Probabilmente sarà ricordato come il periodo delle App. In effetti la trasformazione di orchi misteriosi, pesanti e molto cari (i vecchi software) in leggeri animaletti domestici praticamente gratuiti (le App) porta a compimento un sacco di movimenti iniziati anni prima:
scioglie il traffico tra mondo e oltremondo dissolvendo la frontiera psicologica che ancora nell’epoca precedente divideva quelle due regioni dell’esperienza;
porta a regime quel sistema di realtà a due forze motrici che il Web, per primo, aveva cominciato a immaginare;
permette di far fuori un sacco di mediazioni e quindi di mediatori;
abitua a risolvere problemi solo e sempre in modo divertente, sciogliendo gli impicci quotidiani in un mare di piccoli videogame;
generalizza l’impressione di essere ammessi a un’umanità aumentata;
facilita l’accesso alla post-esperienza;
inclina alla mobilità assoluta, privilegiando lo smartphone e alleggerendo al massimo la postura uomo-tastiera-schermo;
riduce, infine, la distanza tra uomo e macchina fino a far percepire i device come prodotti organici, quasi bio, prolungamenti «naturali» del corpo e della mente.
Non è poca roba, come potete ben capire. Sono tante spinte che si compongono in un unico modo di stare al mondo. Tante intuizioni che si incastrano in un unico disegno. Un’insurrezione che diventa civiltà. Una quarantina d’anni di ribellione che defluiscono in un’unica grande Terra Promessa: il Game.
Perfettamente realizzata, la patria voluta fortissimamente si lascia indietro per sempre l’incubo del ’900 e si prepara, raccogliendo le forze, alla prossima elettrizzante colonizzazione: i progressi sorprendenti dell’intelligenza artificiale indicano chiaramente la direzione.
Insomma, un’epoca trionfale, si direbbe.
Tuttavia, se ci mettiamo a scavare, a entrare nelle rovine, e a togliere polvere dai reperti archeologici, le cose raccontano un’altra storia, un po’ piú complessa. Un’epoca che sembrava tirare le somme, allegramente, di tutto il lavoro fatto in precedenza, si rivela in realtà attraversata da movimenti geologici sotterranei, contraddittori e a tratti rovinosi. Tracce di distruzioni, di lotte e di terremoti emergono qua e là. Il quadro si fa piú difficile da leggere. Si incrina la certezza che il Game sia un sistema compiuto. Emergono strane domande. Non per tutte c’è una risposta.
Come si vedrà nei Commentari che seguono.
iTalia