Commentari all’epoca del Game
INDIVIDUALISMO DI MASSA
Molte pagine fa ci è accaduto di parlare, per la prima volta, di Umanità aumentata. Studiavamo i primi anni dell’insurrezione digitale e abbiamo usato quell’espressione per registrare l’ebbrezza che il Web, nascendo, aveva dato a ogni utente: quel modo di spostarsi lateralmente, di viaggiare ovunque, di accedere ai cassetti altrui; la nuova frontiera dell’oltremondo che si spalancava, accessibile a tutti; la velocità, la libertà.
Erano i primi anni ’90. Adesso, a ripensarci, fa sorridere. Adesso che sappiamo cosa è successo nei venticinque anni che sono seguiti, sembra quasi incredibile che usassimo l’espressione umanità aumentata per cosí poco. Neanche potevamo mandare una mail dal telefono e la chiamavamo umanità aumentata: e stavamo già a dibattere se la cosa non fosse nociva per la salute mentale, la società, il mondo!
Che tipi adorabili.
Ma adesso che siamo nel Game, qualcosa di molto piú preciso possiamo capirlo. Anzi, dobbiamo.
Quel che sappiamo con certezza è che quella generica inclinazione a sviluppare le possibilità del singolo individuo si è solidificata nell’epoca del Game in una rete enorme di tool che hanno in effetti aumentato, in ogni direzione, le possibilità degli umani. Non mi sembra neanche il caso di discuterne, ma se proprio volete, prendete quattro gesti a caso, che so, viaggiare, giocare, informarsi, amare, e comparate i tool che oggi ci aiutano a compierli con quelli che avevamo vent’anni fa. Be’, la differenza è abissale, non c’è santo. Umanità davvero aumentata.
Un’altra cosa che sappiamo con certezza è che questa sorta di spettacolare upgrade non ha riguardato una ristretta élite di fortunati ma ha coinvolto praticamente tutti gli umani. Okay, non vi piace l’espressione tutti, va bene. Ma se gli utenti di WhatsApp sono un miliardo, se gli umani che hanno un profilo Facebook sono piú di due miliardi, e se le case in affitto su Airbnb sono 5 milioni, scordatevi di parlare di élite, di roba per ricchi, di giochini per fighetti occidentali: qui stiamo parlando di qualcosa che riguarda un numero impressionante di persone. Ormai ci abbiamo fatto l’abitudine, ma guardate che aprire a una base sociale cosí ampia l’accesso a tutte quelle possibilità è un’impresa colossale. In quanto redistribuzione delle possibilità è anche una redistribuzione del potere. Trent’anni fa, una roba del genere la potevano immaginare solo alcuni hacker un po’ scentrati che si riproducevano nel brodo della controcultura californiana. Ora sappiamo che non stavano vaneggiando. Incredibilmente, la loro idea di usare i computer per rompere privilegi vecchi di secoli e ridistribuire il potere a pioggia su tutti gli umani aveva qualcosa di sensato. Giuro che io non ci avrei scommesso un dollaro. Eppure.
La terza cosa che sappiamo con certezza è che questo tipo di redistribuzione del potere si è incrociato coerentemente con un’altra inerzia rilevabile fin dagli albori dell’insurrezione digitale: l’istinto a saltare le mediazioni, ad avere una presa diretta sul reale, a disinnescare le élite. Sono due forze che hanno lavorato una dentro l’altra, per anni: man mano che il singolo individuo riceveva quote di potere, di privilegio, di possibilità, di libertà, le usava per liberarsi dalla presenza ingombrante di inutili mediatori. Moltiplicate questa dinamica per miliardi di individui e iniziate a capire di cosa stiamo parlando. Una sorta di spettacolare rivolgimento geologico. Un terremoto.
Naturalmente il mondo ne è uscito molto diverso. E noi, adesso, possiamo in effetti capire in che modo è cambiato. Ma è molto importante non fermarsi ai dettagli, o farsi distrarre da alcune singolarità curiose, tipo il fatto che qualcuno possa organizzarsi un viaggio senza l’agenzia di viaggi o che i forum dei lettori contino piú del parere dei critici. Ma chissenefrega. Non è quello il punto. Bisogna allontanarsi un po’, guardare come dall’alto, e allora si può scorgere qual è il vero cuore della faccenda, il punto esatto in cui quel terremoto ha ridisegnato la figura del mondo. È un punto che conosciamo benissimo.
È dove si forma la consapevolezza di sé.
Quel che è accaduto nel Game è che l’ego di miliardi di singoli umani è stato alimentato quotidianamente con delle super vitamine, in parte generate dai tool che moltiplicavano le sue abilità, in parte sviluppato dai ripetuti parricidi che commetteva liberandosi dalle élite. Una nuova consapevolezza di sé è salita in superficie nella coscienza di milioni di individui che non erano abituati a immaginarsi in quel modo. Non erano neanche destinati a immaginarsi in quel modo, se capite cosa voglio dire. In un certo senso, si riscoprivano a contemplare la realtà da posti in prima fila a cui non avevano mai avuto la lucidità di aspirare, o in palchi che da sempre pensavano riservati ad altri per editti sovrannaturali. Prima, se urlavano, li sentivano giusto nella tromba delle scale: adesso un loro sussurro poteva finire in Australia. Molti si sono perfino accorti, d’improvviso, di poter PENSARE DIRETTAMENTE: avere delle opinioni senza dover aspettare, per averle, che una qualche élite le pronunciasse, le sdoganasse e poi le rendesse disponibili, dandoti la chance di condividerle. Le potevi produrre tu, dargli una forma, pronunciarle e poi infilarle nel sistema sanguigno del mondo dove avrebbero raggiunto potenzialmente milioni di persone. Solo cento anni fa una cosa del genere se la poteva permettere, sí e no, qualche migliaio di persone, in tutta Europa.
Dunque, ipertrofia dell’ego. O meglio: ricostruzione dell’ego, perché alla fine quel che l’insurrezione digitale ha ottenuto di restituire alla gente è la robustezza dell’ego che in precedenza era riservata alle élite, e che le élite non hanno mai considerato un’ipertrofia, ma la equilibrata articolazione delle proprie capacità. Quindi: restituzione dell’ego, chiamiamola cosí. Fatta con tremenda abilità, dovete capire. Una caratteristica geniale dei tool digitali è che, oltre ad alimentare il nostro ego, hanno anche fornito a quell’ego una sorta di habitat protetto, un terreno soft dove poter crescere senza rischiare troppo. Tutti i social, ma anche semplicemente i sistemi di messaggistica o i grandi contenitori tipo YouTube, sono studiati per permetterci di uscire allo scoperto ma non poi cosí tanto allo scoperto: ti permettono di esprimere te stesso, con una certa ambizione o addirittura aggressività, ma senza uscire da una certa confort zone. Come situazione è ideale: c’è chi ne approfitta per dare della baldracca a una ministra e chi per postare le sue prime tre canzoni e poi diventare famoso, ma si tratta comunque di una chance di cui moltissimi individui hanno scelto di approfittare e adesso quello che c’è da capire è che, appunto, SI TRATTA DI INDIVIDUI, di tanti umani singoli, e questo, credetemi, non ha quasi precedenti. Voglio dire che se nel ’900, per esempio, poteva accadere a un individuo di sentirsi «umanità aumentata» era quasi sempre nel contesto di un rito collettivo, di un’appartenenza a una certa comunità: poteva provare momenti di altissima intensità, di espressione di sé, perfino di grandezza, ma erano per lo piú momenti che viveva in quanto membro di una comunità, come la sua Nazione, o una Chiesa, o anche solo un partito, o al limite la sua piccola comunità familiare. L’umanità aumentata, in quei momenti, era un upgrade collettivo, non individuale. Lui, da solo, il singolo individuo, non andava poi molto lontano.
Ma negli ultimi trent’anni qualcosa è cambiato, qualcosa di davvero immenso. Il Game ammette quasi esclusivamente giocatori singoli, è pensato per giocatori singoli, sviluppa le capacità del giocatore singolo, dà punteggi ai giocatori singoli. Perfino Trump e il Papa mandano tweet, intuendo che gli abitanti del Game sono abituati ormai a profilarsi individualmente, a giocare uno contro uno. Cosí, il Game è diventato il grandioso incubatore di un individualismo di massa che non abbiamo mai conosciuto, non sappiamo come trattare, e sostanzialmente ci coglie impreparati. È dubbio che sia mai successo qualcosa del genere sul pianeta Terra. L’unico caso precedente che mi viene in mente è, forse, la democrazia ateniese del V secolo a. C.: che era effettivamente una sorta di regime di individualismo di massa, dove però, per massa, si intendeva il 15% degli abitanti di Atene. Tanto bastò a produrre casini immensi (e meraviglie struggenti), ma alla fine si trattava del 15% degli ateniesi. In Italia, per stare nel mio cortiletto, un umano su due ha un profilo Facebook.
Cosí ci troviamo a vivere uno scenario inedito, dove mai nessuno, prima di noi, ha veramente giocato una partita fino alla fine. Ripetutamente ci troviamo di fronte a situazioni di gioco assurde che facciamo fatica anche solo a inquadrare. Per dire: quando l’individualismo diventa di massa, la prima cosa che entra in crisi è il concetto stesso di massa. Non esistono piú, voglio dire, delle placche sociali che si muovono in quanto placche, come grandi sovra-individualità tenute insieme da una certa appartenenza: che so, i cattolici, gli inglesi, gli amanti di musica pop, i comunisti. Erano, in passato, animaloni che si muovevano di un movimento quasi impersonale, impresso dalla mansueta appartenenza di molti a una comunità, e controllato da un’élite capace di mano ferma e guida sicura. Nel Game questo tipo di movimento si è fatto raro perché l’individualismo di massa genera milioni di micro movimenti e smantella il mestiere delle guide. Coerentemente al vecchio precetto del movimento innanzitutto, anche le grandi coagulazioni di consenso si formano e disfano velocemente, perché non sono formazioni geologiche sedimentate nel tempo, ma veloci raggruppamenti di individui destinati poi a ricomporsi in altro modo alla prossima mossa. Risultato: nel Game, in seguito all’avvento dell’individualismo di massa, la massa non esiste piú, se mai si forma, episodicamente, in singole situazioni di gioco.
Un altro paradosso che mi affascina è questo: si registra spesso il triste fenomeno dell’individualismo senza identità. Cioè umani che, per esempio, possono gestire brillantemente le proprie opinioni senza averle, dare giudizi autorevoli senza disporre della sufficiente competenza, o prendere decisioni cruciali per la loro vita senza avere una passabile conoscenza della loro vita. È come se la capacità tecnica avesse sopravanzato di gran lunga la sostanza delle cose. È come se i tool digitali avessero finito per mettere motori potentissimi dentro a carrozzerie non abbastanza solide da tollerarli, da controllarli, da usarli veramente. Non è uno scenario completamente inedito, perché spesso ci è successo di generare sistemi mentali senza avere le capacità immediata di sostenerli: l’Illuminismo, per dire, generò una rivendicazione di libertà che sul momento non era affatto in grado di gestire, e il Romanticismo rese disponibile a basso prezzo una sensibilità che buona parte degli umani non poteva fisicamente sopportare. Quindi è una cosa che conosciamo: ma questo non risolve il problema di vivere in un Game in cui una buona metà dei giocatori si esibisce sul palcoscenico quando dovrebbe stare zitto in platea, a guardare. Il pigia pigia, dietro le quinte, è piuttosto notevole.
Non vorrei farla troppo lunga, quindi annoto un ultimo paradosso, e lo faccio in tre righe. È che mi sta a cuore. L’individualismo è sempre, per definizione, una postura contro: è sedimento di una ribellione, ha la pretesa di generare un’anomalia, rifiuta di camminare nel gregge e cammina in solitudine in controsenso. Ma quando milioni di persone si mettono a camminare in controsenso, qual è il senso giusto della strada?
Se li immaginavano, i padri dell’insurrezione digitale, paradossi del genere? Non credo. Erano immaginabili? Forse sí, con un po’ di lucidità si sarebbero potuti prevedere. Si può convivere con paradossi del genere? Bisogna ammettere di sí, visto che attualmente ci conviviamo. Ma certo rappresentano delle crepe, come delle falde che si sono staccate in modo imprevisto dal corpo del Game, togliendogli forza, coerenza, perfino bellezza. Generano smarrimento e sconcerto. Sconsiglierei tuttavia di dimenticare che vengono da una mossa di liberazione, di strappo, di speranza. Il minimo che potesse succedere, a ridistribuire il potere, era che il paesaggio generale perdesse in nitore, armonia e forse perfino sostanza. Cosí, se torno a comportarmi da archeologo, e a studiare le rovine di quella civiltà, nell’epoca dell’apparente trionfo del Game quello che mi sembra di riconoscere sono i segni di una stagione imperfetta in cui, dopo aver restituito dignità a molti e consapevolezza ai piú, quegli uomini passarono i primi anni del Game costretti a fare i conti con situazioni paradossali, nell’attesa di ricomporre equilibri, raggiungere maturità e generare una qualche nuova eleganza. Ancora mancava loro, si direbbe, l’abilità a essere sé stessi. Nessun tool, in effetti, gliela poteva dare.
NUOVE ÉLITE
A proposito di paradossi e di fenomeni curiosi. A studiare quei reperti archeologici, un altro evento risulta evidente: dopo anni spesi a disinnescare le élite e fondare un sistema capace di reggersi sull’individualismo di massa, quel che è successo, ovviamente, e che il Game ha finito per produrre una sua élite, nuova, completamente diversa, ma pur sempre élite. C’è un fossile, scoperto recentemente, che racconta splendidamente il fenomeno. L’audizione al Senato degli Stati Uniti di Mark Zuckerberg tenutasi nell’aprile 2018.
Come si ricorderà, si era da poco scoperto che una azienda inglese, la Cambridge Analytica, si era portata via milioni di dati personali di utenti Facebook, usandoli poi per influenzare le elezioni americane del 2016. Punti nel vivo, i vecchi politici di Washington, che fin lí avevano lasciato scorrazzare Zuckerberg come gli pareva, si sono risvegliati dalla sonnolenza postprandiale e hanno convocato il ragazzino dal preside. La cornice scenica, se andate a controllare il video, è sublime: i potenti seduti un po’ in alto, quasi a semicerchio, dignitosamente sprofondati in poltrone di pelle, spalleggiati da un paio di file di non so cosa, forse porta-borse. Si sporgono un po’ verso il basso, dove, al centro del ring, c’è il ragazzino, un po’ rigido, molto solo, relegato a una specie di banco dell’imputato, con il sollievo di un bicchiere d’acqua da carcerato. Indossa giacca e cravatta, e questo ha la sua importanza: non è venuto con il suo dress code, ma con quello dei batraci là sopra: ha accettato di giocare con le loro regole. In ogni sua parola riverbera lo sforzo di tradurre per dei bambini vecchissimi qualcosa di cui loro ignorano le origini, i meccanismi e in fondo il senso. Alle volte gli fanno domande surreali e lui fatica visibilmente a rimanere serio. A parti invertite è come se lui avesse chiesto a un senatore cose del tipo: ma lei fa il senatore per guadagnare dei soldi o per aiutare gli Stati Uniti? Oppure: i suoi elettori, da quando l’hanno eletta, stanno meglio? Domande del genere. È tutto assurdo. Ma lui riesce a non ridere, anzi sembra piuttosto teso in quel suo strano ruolo di studente spedito dal preside. È nella situazione assurda di essere messo nell’angolo di un ring di cui non gliene è mai fregato niente; sta perdendo a un gioco a cui non ha mai giocato, sta con le mani alzate sotto il tiro di una dozzina di fucili a cui, anni prima, lui e quelli come lui hanno tolto le cartucce. Che fantastica situazione narrativa: Shakespeare, al confronto, era un dilettante.
La vecchia élite e la nuova, una di fronte all’altra.
Paciosa, un po’ imbolsita, agée, irrimediabilmente piena di sé e ancora potente, la prima. Vagamente artificiale, fredda, quasi impersonale, sicura di sé ma presa alla sprovvista, la seconda.
Neanche si può dire chi abbia vinto: è come chiedersi se è piú forte l’aquila o il ghepardo [è una domanda che i figli fanno, alle volte, da piccoli; chiedono anche se è piú forte Spiderman o Gesú]. Son proprio due mondi che non c’entrano. Ma non c’entrano a livelli spaziali. Prendete una cosa, anche solo una, ma centrale: l’uso che fanno, o non fanno, dell’ideologia. I senatori si presentano con un certo corredo ideologico, Zuckerberg no. I senatori hanno il problema di far funzionare la realtà alla luce di alcuni principî ideali, Zuckerberg ha il problema di far funzionare la realtà, punto. I senatori si incartano nel tipico dilemma americano: come mettere delle regole senza intaccare il totem ideologico del liberismo piú sfrenato; Zuckerberg vuole connettere gente, punto. Quando gli chiedono, inorriditi, se tutto sommato non potrebbe essere utile introdurre dei paletti come hanno fatto quei cagasotto degli europei, lui dice che probabilmente sí, sarebbe utile: del liberalismo americano non gliene importa un tubo. Vuole connettere gente, e in effetti gli spiace se la cosa poi crea dei guai. I suoi tecnici provvederanno. Non si aspetta che i governi ci possano fare qualcosa, ma se, nel caso, hanno qualche suggerimento utile, perché no. Fine. È il laicismo – totale, senza rimedio, talvolta spaventoso – dei padri del Game.
L’audizione di Zuckerberg al Senato degli Stati Uniti riassume piuttosto bene la situazione: rende fisica la distanza abissale tra i due tipi di potere che in questo momento se ne stanno uno di fronte all’altro: quello novecentesco e quello del Game. Ci aiuta a inquadrare il cambio di paradigma, e l’irrompere di una nuova élite. Ma sarebbe riduttivo credere che per «élite del Game» si debba intendere solo gente come Zuckerberg, cioè quella manciata di miliardari che ha inventato i tool di successo con cui abbiamo rivoltato il mondo. Al limite quelli sono, anzi, irrilevanti: la forza dei sistemi non sta mai nelle oligarchie al vertice, sta nella capacità di generare una diffusa élite che tesse quotidianamente, a ogni latitudine, il dettato di un certo stare al mondo. In questo senso, se volete davvero capire quali sono le nuove élite, guardate un po’ piú in basso e lí le troverete. Sono umani che non è difficile riconoscere: SONO QUELLI CAPACI DI POST-ESPERIENZA.
Ve la ricordate, la post-esperienza? La versione intelligente del multitasking. Quel modo di usare la superficialità come terreno del senso. Quella tecnica di danzare sulle punte degli iceberg. Ci siamo?
Bene. Le nuove élite si riconoscono facilmente da questo: sono quelli capaci di post-esperienza. Si muovono bene nel Game, usano la superficialità come forza propulsiva, trovano forza nelle strutture impermanenti generate dal loro movimento. È gente capace di far reagire chimicamente materiali che nel Game sono sparsi ovunque: ne derivano materiali sconosciuti con cui costruiscono le nuove dimore del senso. Usano i device in maniera organica, per cosí dire biologica: sono quasi delle protesi, ormai. In loro qualsiasi linea di demarcazione fra mondo e oltremondo si è sciolta, e il loro andare è quello di un animale anfibio perfettamente adattato a un sistema di realtà a doppia forza motrice. Sono velocissimi nel movimento intellettuale, e sono di rado capaci di comprendere cose che sono ferme: non le vedono. Non patiscono i tratti destabilizzanti della post-esperienza perché spesso non hanno mai conosciuto la stabilità, e riconoscono nel Game un habitat che trasforma in tecnica di conoscenza il loro andare smarriti. Incarnano una forma di intelligenza che nel ’900 sarebbe risultata avanguardistica e che ora è destinata a diventare l’intelligenza di massa: quella piú diffusa, perfino banale. Come tutte le élite possono essere sublimi o grotteschi: spesso sono le due cose simultaneamente. Ma vorrei essere chiaro: sono loro che finiranno per decidere le leggi del Game, quelle invisibili, quindi quelle decisive: cosa è bello, cosa è giusto, cosa è vivo, cosa è morto. Se qualcuno ha sperato che l’insurrezione digitale avrebbe restituito un mondo di uguali, in cui ognuno si sarebbe reso direttamente creatore del proprio sistema di valori, si faccia una ragione: tutte le rivoluzioni partoriscono élite, e da quelle attendono di sapere cosa cavolo hanno combinato.
Già oggi, quelli della post-esperienza son usciti dal gruppo e stanno là davanti, chiaramente visibili in una luce tutta particolare. Da poco, ma in un modo senza ritorno, sono diventati dei modelli, dei punti a tendere, in qualche modo già degli eroi. Non lo sono diventati per pochi saggisti particolarmente acuti: lo sono diventati per il grande popolo del Game. Mentre sto scrivendo queste righe, a Roma, alla Stazione Termini, dove passa di tutto, dai piú brillanti abitanti del Game a quelli che ci stanno attaccati con le unghie e coi denti, fino a quelli che non ci sono mai saliti veramente, be’, lí alla Stazione Termini, una totemica sequenza di enormi foto pubblicitarie – tutti ritratti di giovani modelli – corona attualmente l’accesso ai binari, con una solennità che mi ha ricordato la processione di metope nel fregio del Partenone. Quella sequenza di ritratti – tecnicamente impeccabili, doverosamente belli – è uno dei migliori saggi sulla post-esperienza che io abbia mai letto. Di fatto è la pubblicità di un famoso stilista, e quello che vende sono gli abiti che i modelli indossano. Ma quasi non riesco a vederli, gli abiti, perché quello che vedo, e che in fondo mi stanno genialmente vendendo, è la definizione precisa di un certo modo di stare al mondo, quello delle élite del Game. Per ogni foto, per ogni personaggio, c’è una breve didascalia. Me le son segnate tutte.
Ha il passaporto di due paesi diversi. Non vive in nessuno dei due.
Ha recitato nel suo primo cortometraggio, ma non se ne vanta.
Ama fare yoga all’alba, preferisce dormire fino a tardi.
Si intende di titoli e azioni, vorrebbe intendersi piú di arte.
Vegetariana convinta, quasi sempre.
Ama New York. Ha nostalgia di casa.
Ha fondato un’agenzia pubblicitaria di successo, ha sempre tempo per un amico.
Non le piace essere definita influencer. Le piace influenzare la gente.
Dipinge nudi che sembrano paesaggi, non possiede uno smartphone.
Designer di interni a San Paolo, scala montagne a nord di Rio.
Possiede auto e spazzolini elettrici, lava i piatti a mano.
Dà indicazioni sbagliate ai turisti. Poi gli dispiace.
Usciva tutti i weekend, adesso li passa nella sua casa di campagna.
Si ripromette di andare a letto presto. Dall’anno prossimo.
Ha ereditato l’attività di suo padre. Non il guardaroba.
Ha lasciato il lavoro in banca per fare il panettiere. Non si è mai pentito.
Non crede negli oroscopi, è il tipico Sagittario.
Commercialista di giorno, ballerino di tango la notte.
A volte lo scambiano per un attore, preferisce star dietro le quinte.
Lavora nell’editoria digitale. Legge ancora i libri.
Inutile dire che sono tutti giovani e bellissimi. Inutile dire che sono di tutte le etnie. Inutile dire che sono vestiti da dio. Inutile dire che sono l’incarnazione dell’individualismo. Inutile dire che non sembrano avere padroni. Inutile dire che uno li manderebbe tutti a cagare, e che il fatto che siano lí, esposti in quel modo in una stazione in cui pendolari ad Alta Velocità e abbonati ai regionali cercano in qualche modo di mettere insieme i pezzi di un’esistenza appena decente, grida vendetta e spinge a chiedersi dove cavolo sia finita la vergogna. Ma anche – vi prego di capire – è inutile far notare come tutta quella galleria di ritratti colga nel segno, e con una precisione che solo chi produce Moda può avere: decifra e inchioda quello che tutti sentiamo emergere come un’élite: quelli che hanno imparato dall’habitat digitale una serie di movimenti e capacità che poi sono stati capaci di riversare sui loro comportamenti che col digitale hanno poco a che fare: nella loro vita analogica. Sono caricature, perché sono pubblicità, ma caricature delle persone giuste: gente imprendibile che saetta nel Game, reinventa figure coerenti che fino a ieri erano ossimori, si è costruita una propria costellazione di senso mettendo insieme pezzi e mondi distantissimi, usa le tecnologie senza esserne schiava, passa sul mondo pacifica e leggera, e tutto fa portandosi dietro il passato [le panetterie!], domando il presente [hanno tutti un lavoro, cazzo!] e inaugurando il futuro [l’auto? Elettrica]. Non sono nerd, badate bene, non sono ingegneri, non sono programmatori, non sono miliardari del Web: sono un’élite intellettuale di nuova specie, vagamente umanista, dove alla disciplina dello studio si è sostituita la capacità di collegare punti, il privilegio del sapere si è sciolto in quello del fare e lo sforzo di pensare profondo si è rovesciato nel piacere di pensare veloce.
Prendete questa specie di catalogo di eroi, togliete l’assunto commerciale, spolverate via il glamour inutile, aggiungete una quota di rispetto per i viventi, applicate questo tipo di sintesi a gente che si occupa del senso vero delle cose e non dei cardigan, e vi ritroverete la nuova élite che padroneggia la post-esperienza: quelli che hanno liquidato il ’900 dopo avergli però svaligiato i magazzini, i migliori nativi del Game, quelli che stanno traducendo ogni nostro sapere in un sapere diverso, fondato sulla superficie, sull’individualità di massa, sul movimento e sulla leggerezza. Okay, non è il caso di esibire troppo entusiasmo: lo so, molti di loro girano chiaramente a vuoto. Solcano a velocità ammirevoli la superficie del Game senza riuscire a rigarne minimamente la superficie. Nel loro andare tristemente narcisista la post-esperienza diventa una buona copertura per gente incapace di produrre idee o inadeguata a portare il peso dell’onestà intellettuale. A me ricordano certi eruditi che ebbero molta fortuna ai tempi delle élite novecentesche: lí era il sapere a sostituire le idee, e a coprire la pochezza di pensiero, qui è piuttosto la velocità, una certa apparente brillantezza, una bella forma di intensità. E tuttavia, mi resta la convinzione che, come le élite novecentesche produssero intelligenze straordinarie, spettacolari e salvifiche, cosí anche l’élite del Game si sta formando intorno a singoli casi, sempre piú frequenti, di intelligenza profetica, solida e utilissima. Gente che non ha disegnato il Game, ma in compenso ci sa giocare, e che quindi gli dà un senso. Sono per l’insurrezione digitale quello che Federer è per il tennis. Non solo tengono la pallina in campo ma fanno colpi che non esistono: quei colpi sono scrittura, nel senso piú alto del termine. Sono le pitture runiche in cui fra diecimila anni riconosceranno la nostra civiltà.
EPISODICHE SCORRERIE POLITICHE
L’interessante anomalia dei 5 Stelle
C’è poi questo singolare fossile, inaspettato: tracce di un assalto degli insorti al palazzo del potere politico. Piccole tracce, va detto: per adesso si registra un solo caso circoscritto, in Italia, e quindi in fondo in un paese piccolo e abbastanza periferico. Volendo, anche un Paese poco adatto a un esperimento del genere: al limite erano cose che ci si poteva aspettare dai popoli del nord Europa, dove una certa tradizione di democrazia diretta e la vocazione per il business che c’entrano con l’innovazione digitale avrebbero reso la cosa piú naturale. Invece no. I 5 Stelle nascono e vincono in Italia, paese poco digitale, con un’idea di potere piuttosto barocca, e una vocazione molto piú umanistica che tecnico-scientifica. Va’ a capire.
Ma comunque. È accaduto, e adesso una cosa, dal successo dei 5 Stelle, possiamo impararla da subito: il partito novecentesco, massiccio, profilato, chiuso, stabile, elefantiaco, permanente è inadatto alle regole del Game. È ovviamente un rimasuglio di una civiltà precedente. Può continuare ad avere il suo senso fino a quando la politica resta una di quelle fortezze in cui il Game non mette il naso: ma se solo la politica diventa un gioco aperto anche ad altri player (non necessariamente ai nativi digitali, possono anche essere i populismi xenofobi, o i movimenti che aggregano cittadini su singole cause) il partito novecentesco appare come una specie di linea Maginot destinata al fallimento. Volendo è una cosa che insegnano anche fenomeni come Podemos o neo-partiti su misura come quello di Macron. La visionarietà dei 5 Stelle è stata quella di capire questa inerzia, di crederci e di cavalcarla con indubbia ostinazione ed effettiva audacia. Sinceramente non saprei dare un parere utile sulla democrazia digitale e le votazioni a colpi di click, non è neanche un tema che mi appassiona tanto: ma lí dietro, comunque, crepita l’intuizione che se oggi non hai un’alternativa al partito novecentesco, se non hai la capacità di manovrare masse mobili, cangianti, mai ferme, o catalizzare correnti fluide che non ti devi neanche sognare di arrestare in un tesseramento – se non sai fare tutto questo non vincerai mai piú.
In un certo senso questo precetto andrebbe allargato anche alle altre istituzioni per adesso lasciate tranquille dall’insurrezione digitale e quindi rimaste placide nel loro letargo: prima fra tutte la scuola. È pensabile che anche lí il problema sia la fissità, le strutture permanenti, la scansione novecentesca dei tempi, degli spazi e delle persone. Magari andrà avanti cosí ancora per decenni: ma certo che il giorno in cui a qualcuno verrà in mente di rinnovare un po’ i locali, le prime cose che andranno al macero, dritte dritte, saranno la classe, la materia, l’insegnante di una materia, l’anno scolastico, l’esame. Strutture monolitiche che vanno contro ogni inclinazione del Game. Fidatevi, andrà tutto al macero.
Un’altra cosa si può capire dall’esperienza italiana e dal fenomeno dei 5 Stelle. Non è particolarmente piacevole e viene dal tipo di programma che il Movimento ha proposto agli elettori. Contro ogni previsione logica, è un programma in molti passaggi novecentesco, in cui si fa fatica a riconoscere i cavalli di battaglia dell’insurrezione digitale. Per dire, sono anti-europeisti, e non escludono un’uscita dall’Euro. Hanno simpatizzato con la Brexit e sono per il lavoro fisso. Che c’entra con l’idea di un campo da gioco aperto, con il culto del movimento, con l’idea vagamente hippie di un mondo condiviso? Boh. Come c’entra poco la loro posizione sul problema dell’immigrazione: è gente che sta attenta a tenere chiuso il cancello del giardino, e lo fa all’occorrenza con molta durezza. Anche un certo richiamo rapido alla decrescita felice suona vagamente stonato, provenendo da gente che dovrebbe avere nel DNA l’ambizione feroce dei pionieri del digitale. È tutto strano. È come se fossero digitali senza esserlo. Se volete, il sintomo piú evidente di questa anomalia lo offre quello che sta succedendo in questi giorni, mentre scrivo queste righe: incredibilmente i 5 Stelle si sono alleati con la Lega, un partito populista, xenofobo, un tempo si sarebbe detto di destra, legato alla piccola imprenditoria del nord, gente che lavora sodo, non ama la poesia, è piuttosto pragmatica ed elementare nei suoi ragionamenti, crede nella tradizione, ha fiducia nel passato, non si lascia incantare dal futuro: una solidità di tipo antico, mi verrebbe da dire. Cos’ha da spartire una forza che nasce dall’insurrezione digitale con quell’Italia lí? Sulla carta, una bella fava di niente. Dovrebbero essere inconciliabili già a livello antropologico, culturale, molto prima di esserlo a livello politico. E invece eccoli lí, al governo insieme. Si capiscono, condividono degli obiettivi. Incredibile. Cos’è che non capisco, lí dentro?
Be’, ovviamente si tratta di politica, quindi le ragioni possono essere tante, e sovente anche di livello infimissimo. D’accordo. Ma l’anomalia resta, e in un libro come questo, qualcosa deve pur insegnare, fatta la tara delle beghe di cortile, delle logiche di politica spicciola, e delle battaglie di potere. Dunque, provo a guardare la cosa molto piú dall’alto, perfino dimenticandomi che si tratta del mio Paese, e qualcosa alla fine riesco a vedere.
Vedo almeno due punti in cui effettivamente insurrezione digitale e populismo di destra possono incontrarsi, riconoscersi, convivere. Uno è l’odio viscerale per le élite. L’altro è l’istintiva inclinazione verso un egoismo di massa.
Dei movimenti populisti non voglio occuparmi qui. Restiamo concentrati sul Game e su quello che un fenomeno come i 5 Stelle può insegnare. Quel che insegna è che il Game srotola con una certa solidità architetture sociali, mentali, tecniche che in qualche modo risvegliano alcune pulsioni piuttosto basiche e dirompenti. Ad esempio, c’era questa idea di sfumare il ruolo delle élite, di liberarsi del potere immotivato di chi aveva il privilegio del sapere, e di restituire a tutti il diritto ad avere una presa diretta sul reale e il dovere di scegliere e prendere decisioni. Veniva dai disastri che le élite avevano generato nel ’900. Come idea non era affatto male, mi sentirei di dire. Ma naturalmente può anche accadere questo: che in una successiva semplificazione tutto si riduca a un’astiosa resa dei conti, a una sorta di caccia all’uomo, non particolarmente violenta ma fastidiosamente cieca, in cui l’unico obiettivo apparente è un castigo per le élite che hanno fallito e ingiustamente occupano ancora posti di responsabilità. In genere gli abitanti del Game non sembrano fanaticamente attratti da una simile semplificazione: gli stessi 5 Stelle, per dire, hanno tra le loro fila molti cittadini per i quali provare a mettersi in gioco nel governo del Paese è un’attrattiva ben maggiore di quella di fare il culo ai politici e a tutti quelli che comandano. E tuttavia la stessa esperienza dei 5 Stelle ci ricorda che esistono situazioni in cui quella semplificazione scatta, irresistibile, e in modo massiccio, e la politica è una di quelle: dove regna l’emotività, certe architetture mentali vengono travolte dalla pura corrente di una pulsione collettiva. Cosí può accadere che un approccio digitale al mondo si assottigli, in determinati passaggi, fino a ridursi a poco piú che un istinto, un gesto di insofferenza, un vaffanculo. È in quell’istante che si trova di fianco il populismo di destra, e parte l’abbraccio. Di per sé non significa nulla, non è neanche cosí importante: ma per noi che studiamo il Game dice qualcosa: dice che il Game ha anche una pancia, e ogni tanto comanda lei, e in quel momento qualsiasi sbandamento è possibile, anche quello che ti porta indietro di anni, o altrove in rabbie obsolete. O a danzare coi populismi di destra.
Analogamente, se per anni coltivi l’individualismo di massa, per anni sei a un passo da generare un effetto indesiderato: l’egoismo di massa. Cioè l’incapacità, ripetuta per milioni di individui, di prevedere le prossime venti mosse del gioco invece che dedicarti ciecamente solo alla prossima: che è sempre quella che difende te, proprio te, solo te. Non credo ci fosse ombra di questo egoismo nei padri dell’insurrezione digitale: c’era molto individualismo, forse troppo, ma egoismo, quello no, non si potrebbe dirlo. C’era un visione lunga, uno sguardo che guardava lontano, c’era un modo di ragionare comunque in termini di comunità, c’era l’istinto a non lasciarsi indietro nessuno. E tuttavia, se sviluppi umanità aumentata, fertilizzi l’ego degli individui e arrivi a generare una sorta di individualismo di massa, il rischio di scivolare in una forma di egoismo di massa lo corri, in ogni istante, per anni: basta una situazione di difficoltà, basta un refolo di paura, basta una folata di emotività, bastano masse di migranti che bussano alla porta, e sei fatto. È in quell’istante che ti trovi di fianco il populismo di destra, e parte l’abbraccio. Di per sé non significa nulla, non è neanche importante: ma per noi che studiamo il Game dice qualcosa: dice che il Game ha anche una pancia, e ogni tanto comanda lei, e in quel momento qualsiasi sbandamento è possibile, anche quello che ti porta indietro di anni, o altrove in rabbie obsolete. O a danzare coi populismi di destra. [Sí, lo so, l’ho già scritto, era per sottolineare la simmetria…]
Riassunto: si è affacciato, il Game, nella vita politica, seppur in un angolino neanche troppo importante. Ma l’ha fatto. Insegnandoci due cose. Che i partiti novecenteschi sono destinati a perdere contro qualsiasi soggetto politico piú fluido. Che il Game ha anche una pancia, una sezione gastrica, una pozza irrazionale: non è solo tecnica, razionalità, efficienza.
Prendiamo i due fossili [con cura, sono preziosi], e mettiamoli da parte.
LA RISCOPERTA DEL TUTTO
Come si sa, quando Brin e Page andarono dal loro professore, a Stanford, a proporre il progetto di ricerca che sarebbe poi confluito in Google, la prima obiezione che l’amabile accademico fece loro fu: già, bravi, ma dovreste scaricare tutte le pagine del Web. Gli dovette sembrare un’obiezione definitiva: allora le pagine Web erano circa 2 milioni e mezzo. Solo che i due non fecero una piega. Dove sta il problema?, risposero: e in quel momento inaugurarono un modo di pensare che sarà poi comune a tutti gli organismi nati dall’insurrezione digitale: considerare IL TUTTO una misura ragionevole, un sensato campo da gioco, anzi l’unico campo da gioco su cui valesse la pena giocare. Amazon si propose fin da subito come la libreria piú grande del mondo perché era in grado, in effetti, di procurare tutti i libri del mondo (o almeno, quelli in lingua inglese: gli americani fanno fatica a ricordarsi che non esistono solo loro). eBay potenzialmente metteva in contatto tutti gli umani del mondo: la stessa cosa che, potenzialmente, facevano le mail. Il punto che dovette sembrare immediatamente chiaro è che una volta disciolti i dati del mondo in un formato agilissimo e immateriale, i confini estremi di qualsiasi territorio erano tornati a vedersi a occhio nudo, e l’idea di raggiungerli aveva cessato di essere un’epica visione da pioniere per diventare un normale gesto di pazienza e di dedizione: se volevi scaricare tutte le pagine del Web affittavi un garage, lo riempivi di computer e lo facevi. Fine. Analogamente, se potevi trasferire in formato digitale della musica, ottenendo di ascoltarla nel tuo computer in pochi secondi e standotene sdraiato a letto, limitarsi a farlo solo con musica classica, o occitana, o degli anni ’60 aveva tutta l’aria di essere un errore: facciamo che digitalizzo tutta la musica del mondo e poi quando ho voglia scelgo, va’. Cosí mi piace di piú.
Riassumo: una volta IL TUTTO era il nome che davamo a una grandezza ipotetica; dall’inizio dell’insurrezione digitale non solo è diventato il nome di una quantità misurabile e possedibile, ma alla lunga il nome dell’unica quantità presente sul mercato: l’unica unità di misura significativa. Se una cosa non misura UN TUTTO ha proporzioni talmente minime che sostanzialmente non esiste. Esempio: Spotify, cioè tutta la musica del mondo. La cosa rivelativa, in quella vertebra, non è tanto che contenga in effetti (quasi) tutta la musica del mondo: è IL MODO CON CUI SI PAGA. Non si paga un pezzo di musica, si paga l’accesso a tutta la musica del mondo. Nel modo piú chiaro, lí, c’è una sola cosa che ha un prezzo: IL TUTTO. Il tutto diventa merce. L’unica. Non vorrei che sottovalutaste un passaggio del genere. È rivoluzione pura, dalle enormi conseguenze.
La prima è di carattere culturale, forse mentale: se elevi IL TUTTO a unità di misura, a epico obiettivo di qualsiasi impresa e a merce perfetta, fai una vittima illustre: LINFINITO. Se puoi arrivare al fondo del TUTTO, l’infinito non esiste. Ora, è bene ricordare che, guarda caso, l’infinito era uno dei piloni su cui si appoggiava la sensibilità romantica, cioè l’humus culturale che diede vita al ’900: e torniamo cosí alla faida da cui tutto è iniziato. Ogni tanto l’insurrezione digitale sfoggia una mira che lascia incantati. Volevano tirare giú quel pilone e l’hanno fatto. Non era un’idea sbagliata, perché proprio in un certo culto poetico dell’infinito il ’900 aveva lasciato maturare una forma di irrazionalismo, per non dire di misticismo, che non sarebbe poi stata estranea alla sua follia. In un certo senso c’era da entrare in quei territori, bonificarli e convertirli a colture meno rischiose. Migliaia di App stanno facendo proprio questo: annientare l’infinito, ridurre al minimo i margini incontrollati del mondo. È un esempio minuscolo, ma quando hai un’App che ti dice i testi di tutte le canzoni che esistono, quello che cessa di esistere è il confine tra le parole che sai cantare e l’infinito di quelle che non sai: sparisce un’esitazione, una latenza, un vuoto, un’ombra – la percezione di un infinito che non sei in grado di abitare. Considerato che cliccando sull’icona di fianco entri in una App che sospende le barriere linguistiche traducendoti quel che vuoi, da qualsiasi lingua, solo fotografando il testo, la percezione fisica di un mondo di cui posso costantemente raggiungere i confini piú estremi inizia a farsi insistente. Se ti piace, hai solo da continuare a cliccare: da Google a Wikipedia passando per YouPorn, troverai solo mondi conclusi, in cui l’immane è la regola, e IL TUTTO è una misura ragionevole a cui inizi ad abituarti. Moltiplicate quella sensazione per decine di volte al giorno, per giorni, per anni, e iniziate a capire che nel Game l’infinito è una specie di categoria in disuso: sopravvive come articolo vagamente kitsch, utile tutt’al piú a intrattenere un pubblico un po’ cheap. Ovunque, altrove, domina una razionalità tecnica che ha immense capacità di calcolo e che dunque inclina a immaginare che reali bordi del mondo irraggiungibili non ce ne siano. Anche qui, il modello sembra essere quello dei videogame: pochi li finiscono, ma si sa che al fondo ci sono bordi raggiungibili, e non un infinto incontrollabile. Analogamente, le serie tv potrebbero sembrare infinite, ma non lo sono, semplicemente non hanno un finale: se all’inizio gli autori ti dicessero apertamente che non hanno la minima idea di come far quadrare le cose, non è che proprio la prenderesti bene. Poi magari per strada ti stufi, ma quando parti hai bisogno di sapere che c’è una meta, che qualcuno la conosce. Si afferma cosí, a poco a poco, di tool in tool, questa singolare strategia formale, che è forse uno dei piloni portanti del Game, una delle forze che lo tiene insieme: immagazzinare tutto il mondo in locali immensi che eliminano l’incognita dell’infinito; quindi andare a vivere lí, protetti da muri che non si raggiungeranno mai, ma che si sanno reali.
Ovviamente la cosa toglie un po’ di fascino al creato, e infatti è probabile che nasca anche da lí quell’effetto di fissità, di non risonanza, di mancanza di vibrazione che abbiamo notato pagine fa nei prodotti della cultura digitale. Senza il riverbero di qualche infinito, qualsiasi realtà suona un po’ sorda. Sempre in quelle pagine, tuttavia, abbiamo registrato il fatto che grazie alla tecnica della post-esperienza il Game riesce a reinserire nel sistema la vibrazione desiderata, una certa quota di mistero, e perfino una significativa estensione di infinito. Ciò che sembra blindato in quei TUTTO autosufficienti, si rimette in movimento se tu metti in comunicazione quei vari magazzini e li usi come sistemi passanti di un viaggio che a quel punto può essere davvero infinito: la post-esperienza. In quel viaggio, allora, qualcosa effettivamente succede, il mondo si riapre, smette di essere concluso.
Cosí, quello che abbiamo sotto gli occhi adesso, è un vero, articolato, modello strategico, ed è importante che lo fissiamo con chiarezza perché, come ho detto, è uno dei piloni su cui si fonda il Game. È un modello in cinque passaggi:
  1. Archiviare tutto il mondo in magazzini immensi che eliminano l’incognita dell’infinito.
  2. Andare a vivere lí, protetti da muri che non si raggiungeranno mai, ma che si sanno reali.
  3. Recuperare l’infinito collegando tutti i magazzini.
  4. Darne le chiavi a tutti.
  5. Vivere ovunque.
Mettete in sequenza queste cinque mosse: sono l’apertura classica del Game.
Capire questa strategia di gioco aiuta a comprendere la seconda conseguenza che la riscoperta del TUTTO ha impresso al nostro modo di stare al mondo: è importante perché riguarda il mondo del business, e, soprattutto, una certa idea di concorrenza e di pluralismo. Vediamo.
Come già è documentabile da quel preziosissimo reperto archeologico che è Google, un certo istinto a lavorare sul TUTTO come unica quantità vera e propria inclina i protagonisti dell’insurrezione digitale a un istinto singolare: quello di ESSERE, a loro volta, IL TUTTO. Voglio dire che Google non è un motore di ricerca, è IL MOTORE di ricerca; non ha significativi competitor (almeno in Occidente) e nessuno in fondo si aspetta che ce li abbia. In questa istintiva e inesorabile occupazione dello spazio – di tutto lo spazio – si intravede un modello di business che è facile riconoscere in molte delle vertebre dell’insurrezione digitale: UN BUON BUSINESS È UN BUSINESS IN CUI CÈ UN UNICO PLAYER, TU. Non credo che Henry Ford avrebbe mai pensato a una cosa del genere [e si trattava di un mitomane mica male], ma neanche la Disney [per rimanere ai paranoici del controllo del mercato]. In epoca digitale, invece, quel modello suona abbastanza ragionevole, tanto che nessuno si chiede veramente come mai Amazon o Facebook o Twitter non abbiano poi quel gran numero di competitor diretti mentre invece la Volkswagen e la Nestlé sí. Qualcosa è cambiato, e se cerco di spiegare cosa, devo ricorrere a una metafora, quella delle carte da gioco: in passato fare business consisteva nell’inventare giochi fattibili con un certo mazzo di carte preesistente: vinceva quello che inventava il gioco migliore. Adesso fare business coincide con l’inventare un mazzo di carte che prima non esisteva e su cui si può fare un solo gioco: quello che hai inventato tu. Fine.
Non sempre riesce, se no non avremmo Apple e Samsung a scannarsi per venderci telefonini, né Safari e Google Chrome a contendersi il dominio del Web. Di tablet ce ne sono parecchi e la sfida tra Microsoft e Apple non è mai finita. Ma WhatsApp non ha l’aria di essere un’App che deve vedersela con tante altre: è ormai il nome di un certo gesto, e la stessa cosa si può dire di Twitter, Google, Spotify, Facebook. Tutto ciò ci rivela qualcosa di molto importante a proposito della civiltà che ha generato un mondo cosí: non amava il pluralismo nel senso novecentesco del termine (la convivenza di diversi soggetti all’interno dello stesso campo da gioco), anzi lo trovava un principio destinato a complicare inutilmente le cose, a generare caos e a disperdere energie. Piuttosto che logorarsi a gestire la coesistenza di tanti soggetti in un unico campo da gioco, preferiva utilizzare le sue energie a moltiplicare il numero dei campi da gioco. La sua idea di efficienza era un solo player per gioco, e un numero enorme di giochi. In questo schema trovava il suo sistema di difesa dai monopoli, dalle concentrazioni di potere, dall’orrore di un pensiero unico, da qualsiasi pericolo orwelliano. Lo so, fa effetto dirlo, adesso, pensando a giganti come Google o Facebook, ma almeno ai suoi albori, l’insurrezione digitale ha creduto che per avere un cittadino veramente libero si dovesse dargli molti tavoli da gioco, e non un solo tavolo pieno di player. Non era gente che avrebbe perso tempo ad assicurarsi che al telegiornale si sentisse il parere di tutti i partiti: facevano prima a creare le condizioni per cui ogni partito avesse il suo telegiornale. La televisione digitale, coi suoi innumerevoli canali, è, almeno sulla carta, quello: e bisogna ammettere che, almeno sulla carta, funziona.
Se posso risalire a un’esperienza personale, io sono cresciuto, negli anni ’60, con un solo telegiornale: lo si sentiva durante la cena, non in silenzio religioso ma comunque con un certo rispetto. Altri canali non c’erano. In casa entrava un solo quotidiano, sempre lo stesso, proprietà dell’uomo piú ricco della mia città (e di Italia, credo). Avevo quell’età in cui non si mette in conto che gli adulti possano mentirti, e a tavola, tra una minestrina e una cotoletta, ascoltavo un annunciatore, che per me poteva anche essere dio, dare notizie di una guerra di cui non capivo un tubo e che era lontanissima: si chiamava Guerra del Vietnam. Ora: avevo io la minima possibilità di sapere la verità, o anche solo una semi-verità, su quella guerra? Nessuna. Per me gli americani erano buoni, alti e coi denti sani. I Vietcong erano cattivi, piccoli e coi denti marci. Fine. C’era qualcosa, nel sistema di informazione in cui sono cresciuto, che poteva affrancarmi da una simile, medioevale, cecità? Nulla. Si pensò allora di apportare una correzione al sistema: nel mio Paese aprirono altri due canali che erano emanazione di altre due componenti politiche oltre a quella che governava. Cosí gli annunciatori si moltiplicarono per tre – tre divinità – e il mondo iniziò ad apparire in tre formati: la guerra in Vietnam era praticamente finita, ma se ci fosse ancora stata, nel primo avrebbero vinto gli americani, nel secondo era un grande casino e nel terzo i Vietcong avevano già vinto da anni. Abbastanza grottesco, come potete capire. C’era una sola soluzione a quel gran pasticcio: creare un sistema in cui le notizie ti arrivassero da tutte le parti, su tanti device diversi, all’interno di habitat diversi, nessuna sacralizzata, tutte da prendere con le molle, possibilmente prodotte da autorità del tutto diverse, non necessariamente dalle élite deputate a dare notizie e pagate dai potenti del pianeta.
Bene. È esattamente quello che abbiamo fatto.
Mio figlio ha ora gli anni che avevo io quando Ho Chi Minh faceva un culo cosí agli americani senza che io lo potessi sapere: possono rigirarmela in qualsiasi modo, ma non trovo nessuna ragione al mondo per pensare che far tornare quel ragazzino a un sistema con tre telegiornali e un quotidiano (dell’uomo piú ricco della città) potrebbe essere piú educativo per lui di quello che lo attende tutti i giorni nel Game. Capisco i rischi, condivido i dubbi, rispetto ogni vigilanza critica, ma resto dell’idea che a lui il sistema conceda molte piú chance di diventare un cittadino avvertito, consapevole e maturo di quante ne abbia concesse a me, cinquant’anni fa. È alla luce di convinzioni come questa che mi sento di suggerire una certa prudenza nell’accostarsi, oggi, alla questione dei grandi monopoli. Mi spingo a pensare che ci sia il rischio di sopravvalutare il problema a causa di un riflesso ancora novecentesco, che non tiene conto dell’attuale campo da gioco: è come uscire da casa col terrore di essere travolti da un carrozza a cavalli. Ho il sospetto che sia una paura un tantino obsoleta. Lo diventa nel momento in cui il monopolio che temi si trova in ogni caso ad accadere in un mondo in cui il movimento è idolatrato, la moltiplicazione degli habitat è elevata a religione, i movimenti trasversali sono l’andatura ufficiale dei viventi e qualsiasi edificio non viene abitato se non è un sistema passante. Cerco di dirlo nel modo piú essenziale e fastidioso possibile: in un mondo in cui c’è Google, il monopolio di Google non è cosí pericoloso. In un mondo in cui c’è Facebook, che Facebook sia ovunque non è poi cosí preoccupante. In un mondo che scarica ogni minuto 400 ore di video su YouTube, il fatto che YouTube esista e sia sostanzialmente un monopolio è una cosa singolare, non tragica.
Google. Facebook. YouTube. Provate a immaginare nel ’900, ai tempi del nazismo, o in Unione Sovietica: tragedie.
Ma ho una notizia: il ’900 è finito.
La domanda da porsi è: l’ecosistema del Game, che ha una certa tolleranza per i monopoli, anzi in qualche modo ne ha bisogno, ha sviluppato nel frattempo degli anticorpi che gli evitino la degenerazione a campo da gioco bloccato, controllato da quattro o cinque player?
Bella domanda.
Tutto quello che so sulla risposta lo scriverò nell’ultimo capitolo di questo libro, che intitolerò, con un’espressione regalatami da due miei allievi, Contemporary Humanities.
LA SECONDA GUERRA DI RESISTENZA
C’è poi questa traccia ineludibile, chiarissima: è proprio nell’epoca del trionfo del Game che si scatena una Seconda guerra di resistenza. La prima, se vi ricordate, era scattata negli anni Novanta, e non aveva avuto quel gran successo, finendo per ripiegare in una sorta di clandestinità. Ma a partire dal 2015, direi, qualcosa si rimette in moto, trovando probabilmente un volano favorevole nelle vittorie della Brexit, in Inghilterra, e di Trump, in America: strani segnali che aprono gli occhi su imprevedibili deviazioni del Game. Una cosa interessante, di questa seconda resistenza, è che a combatterla non sono solamente i reduci dalla prima, ancora ostinatamente novecenteschi, ma spesso gente figlia del Game, alle volte perfino fuoriusciti dalle nuove élite, individui che l’insurrezione digitale l’avevano fatta, non odiata. Ciò che li porta alla ribellione è il fatto di registrare una sorta di degenerazione del sistema: combattono non tanto contro il Game, ma in nome del Game, dei valori per cui era stato fondato.
È un contromovimento affascinante, e cosí mi sono dato da fare per capirlo bene, e questo è il risultato: so piú o meno cos’è che non va giú a quella gente. Quello che li fa saltare in aria. Provo a sintetizzarlo in pochi punti belli chiari.
  1. Nato come un campo aperto capace di redistribuire il potere, il Game è diventato preda di pochissimi player che praticamente ingoiano tutto, sovente addirittura alleandosi. Stiamo parlando di Google, Facebook, Amazon, Microsoft, Apple. Quelli lí.
  2. Piú diventano ricchi, piú questi player sono in grado di comprarsi tutto, in un circolo vizioso che è destinato a farne delle potenze smisurate. La cosa piú rischiosa è che si stanno comprando tutta l’innovazione, cioè il futuro: fanno incetta di brevetti e sono gli unici che hanno le risorse finanziarie enormi che servono per investire sull’intelligenza artificiale.
  3. Parte di questi profitti sono originati da un uso disinvolto e forse astutamente consapevole dei dati che noi lasciamo in rete: la violazione della privacy pare sistematica, e sembra essere il prezzo da pagare per i servizi che quei player ci mettono a disposizione gratuitamente. A quanto pare la regola è questa: quando è gratis, quello che stanno veramente vendendo sei tu.
  4. Un’altra parte di questi profitti è data da un semplicissimo meccanismo: quelli non pagano le tasse. O almeno: non tutte quelle che dovrebbero.
  5. C’è un traffico di idee, di notizie e di verità che è diventato un mercato vero e proprio, e che nel Game patisce il monopolio di pochi player particolari: il sospetto è che se volessero orientare le nostre convinzioni non avrebbero poi cosí tanti problemi. Probabilmente già lo fanno.
  6. Qualunque fosse l’intenzione originaria, quel che poi il Game ha prodotto è un’immensa frattura tra adatti e meno adatti, ricchi e poveri, forti e deboli. Forse neanche il capitalismo classico, nella sua epoca d’oro, aveva distribuito ricchezza in modo cosí asimmetrico, ingiusto e insostenibile.
  7. A furia di distribuire contenuti a prezzi irrisori, se non gratuitamente, il Game finisce per realizzare un genocidio degli autori, dei talenti, perfino delle professioni: il lavoro di un giornalista, di un musicista, di uno scrittore, diventa merce che vaga nel Game producendo profitti che però non tornano indietro all’autore, ma spariscono per strada. Chi guadagna non è chi crea, ma chi distribuisce. Fallo per un bel po’ di anni, e per trovare un creativo dovrai andare a cercarlo in capo al mondo.
  8. A furia di perfezionarsi nel confezionare giochi che risolvono problemi, c’è da chiedersi se non si sia generato un vago effetto narcotico, con cui il Game tiene buoni soprattutto i piú deboli, instupidendoli quel tanto che basta per non fargli registrare la loro condizione sostanzialmente servile.
Come vedete, non si scherza. Sono obiezioni durissime. E sono tante.
A me sembra importante restare lucidi, tornare a fare gli archeologi, e annotare tre cose.
La prima è che nessuna di quelle obiezioni avrebbe potuto sensatamente insorgere negli anni ’90: sono davvero conseguenze dell’epoca del Game, sintomi di un malessere generato dagli ultimi sviluppi dell’insurrezione digitale: non sono un rigurgito della cultura novecentesca, sono un portato della cultura del Game. La seconda cosa da notare è che quelle obiezioni non mettono tanto in discussione il Game, ma ipotizzano una sua stortura, un suo sviluppo perverso che non era preventivato: come spesso succede nella fase avanzata delle rivoluzioni, l’accusa che serpeggia è quella di aver tradito gli ideali della rivoluzione. La terza cosa da notare è fondamentale e fastidiosa: la componente irrazionale, in quasi tutte le obiezioni, è piuttosto alta: si lavora sui si dice, sui probabilmente, sui forse. Credetemi, sono tutte obiezioni molto credibili ma se vi mettete lí con cura, senza pregiudizi e con una vera vocazione a guardare lucidamente i fatti, vi renderete conto che le cose non sono cosí semplici o chiare. La vostra voglia di incazzarvi è molto maggiore degli argomenti che avete per farlo. Il fatto è che a partire da un certo momento è nato nei confronti del Game un bisogno di smarcarsi o di puntare i piedi che non dipende nemmeno piú tanto dai fatti: sembra essere l’inarrestabile movimento con cui una civiltà sta cercando di recuperare una forma di equilibrio dopo essersi sorpresa troppo sporta verso il futuro. È come se quegli umani avessero bisogno di trovare la falla del sistema, per potergli imporre un passo piú lento, per poterlo fermare ad aspettarli. Dirò di piú: sembrano avere un bisogno spasmodico di trovare un cattivo, in questa storia, forse per togliersi il dubbio latente di esserlo tutti. L’astio che provano per i grandi player sembra aver ridotto a zero la possibilità di ricordarsi che abitano volentieri in un mondo che loro hanno contribuito ad allestire: gente che regolarmente usa Google odia Google, gente che non può fare a meno di WhatsApp vede in Zuckerberg il demonio, gente che ha l’iPhone pensa che l’iPhone instupidisca la gente. Il giornale on line che sono solito leggere fustiga i grandi player quasi regolarmente e poi mi sforna, guarda caso, e dopo la terza notizia, la pubblicità di un rarissimo aspirapolvere su cui mi sono informato quindici giorni prima in un motore di ricerca. Gente avveduta reputa una calamità il fatto che se hai simpatie neonaziste YouTube ti metta nella colonnina di destra dei materiali atti a moltiplicare questa tua singolare attitudine: cosa dovrebbe fare, mettere discorsi di Martin Luther King? Se mettesse a noi dei deliranti monologhi sulla supremazia della razza bianca lo troveremmo un segno di civiltà e di meritoria obiettività di YouTube? Il fatto che la Rete bene o male ti faccia arrivare solo le notizie che vuoi leggere, e che ti rafforzano nelle tue convinzioni, è un cosa che può davvero temere gente che ha conosciuto le parrocchie, le sezioni di partito, il Rotary, il telegiornale di quando non c’era la Rete e i giornali degli anni ’60? Dico tutto questo – vi prego di capire – non per negare che quelle otto obiezioni siano legittime e perfino fondate, ma per spiegarvi che l’adesione a quelle obiezioni è spesso cieca, sproporzionata, istintiva, irrazionale, e quindi tremendamente reale, fisica, animale. È un sintomo importante: svela che nell’epoca avanzata del Game si sono andate formando, simultaneamente, una dipendenza quasi patologica ai tool del Game e un rifiuto urgente, quasi fisico, della filosofia del Game. Una sorta di schizofrenia controllata. Il Game c’è, funziona, ma a giocarlo è gente che inizia ad odiarlo. Tecnicamente allineata, e mentalmente dissidente.
Mentre tutto ciò accade – devo aggiungere, per complicare le cose – un’altra forza scuote il tessuto del Game: non è un movimento di resistenza, è un altro fenomeno: assomiglia piuttosto a un ammutinamento. È il massiccio organizzarsi di quelli che dal Game sono stati cacciati ai margini, o sconfitti, o non riconosciuti, o illusi, o sfruttati. Niente a che vedere con le élite del Game che si ribellano per il tradimento agli ideali delle origini. Qui si tratta delle retrovie del Game: la novità è che si sono fermate, hanno puntato i piedi. Lo hanno fatto in un modo singolare, e se adesso cerco di descriverlo non mi viene in mente niente di piú adatto che Trump, e quello che lui rappresenta. Fateci caso, c’è nel suo modo di muoversi, di nuovo, una sorta di schizofrenia: da una parte twitta con i leader del mondo invece che rifarsi al galateo politico novecentesco; c’è persino la possibilità che abbia goduto dell’aiuto, magari non richiesto, di hacker, cioè di guerriglieri del Game. Ma simultaneamente tira su dazi commerciali e sogna di costruire muri al confine col Messico. Che razza di modo di muoversi è? Difficile capirlo, ma è molto facile capire che è un movimento che in questi anni compiono in moltissimi. Lo hanno eletto presidente degli Stati Uniti, quell’uomo. Il suo modo di stare nel Game incarna quello di un sacco di gente. Ammutinati, verrebbe da dire. Usano la nave, ma cambiano la rotta e tornano indietro. Usano il Game, ma lo convertono a ideali per cui non era nato. Scollano la rivoluzione mentale da quella tecnologica. Entrano nella sala giochi, prendono quello che gli interessa e poi danno fuoco a tutto.
Abbastanza inquietante.
Cosí, lo scenario che possiamo dedurre dallo studio di quelle rovine archeologiche – quelle del Game nell’epoca del suo trionfo – è lo scenario di un conflitto durissimo, in cui il Game, preso a tenaglia tra resistenti e ammutinati, ha tutta l’aria di essere un regime a un passo dal crollo.
Ma lo è, veramente?
Questa è una cosa che mi affascina molto: perché la risposta è no, non lo è. Il Game trema, è attraversato da sommosse di tutti i tipi, partorisce paradossi che non sappiamo come gestire, ma adesso chiedetevi se veramente c’è, nel mondo, una sensata, consapevole e intelligente volontà di mandare tutto all’aria e di uscire dal Game.
Nessuna.
La marea di tool aumenta, la capacità nell’usarli si moltiplica, la vigilanza contro i loro rischi si alza, le tecniche per ammortizzare certi loro effetti collaterali si raffinano: non si muoverebbe cosí un civiltà che volesse dare il giro al tavolo. Si muove cosí un civiltà che ha deciso di andare diritto e non mollare.
E allora cos’è quel travaglio, cosa cova la pancia del Game, perché questo suo contorcersi doloroso, a che scopo questo suo spaccare in due la coscienza della gente?
Che nome dare a tutto questo, sulle nostre mappe?
MAPPA MUNDI 3
Dunque continuarono per la loro strada e, terminato l’esodo dal ’900, si fermarono in una sorta di terra promessa, là dove il Game diventò qualcosa di piú di una tecnica, di un’ipotesi, di un trucco per gente smart: divenne una civiltà, una patria per tutti.
Alcuni anni passarono in aggiustamenti apparentemente minori, ma non privi di conseguenze significative. La postura uomo-tastiera-schermo si arrotondò ulteriormente, tramutandosi in una sorta di POSTURA ZERO in cui i device finivano per diventare quasi protesi organiche del corpo umano. Quando iniziarono a moltiplicarsi vertiginosamente le App e si affermò la spiritosa idea di trasferire dati su nuvole quasi fiabesche, finí per sciogliersi definitivamente qualsiasi confine pesante tra mondo e oltremondo. Ormai la tecnologia permetteva di andare e tornare da uno all’altro a un tale ritmo che davvero la realtà divenne un sistema a due forze motrici, come l’insurrezione aveva immaginato ai suoi albori. L’idea di una vita vera, distinta da quella artificiale contenuta nei device, si sciolse nella comune percezione di un unico grande tavolo da gioco, aperto e accessibile a tutti.
Il miglior modo di rendere produttivo questo scenario, si rivelò essere una particolare capacità di solcarlo in velocità, raccogliendo il senso delle cose che tendeva a risalire in superficie e generando traiettorie che sapevano diventare figure: concetti, idee, opere, prodotti. Era un gesto inedito, si chiamava post-esperienza, ed era, si scoprí, un esercizio difficile. Per questo, sordamente ma inesorabilmente, si formò una sorta di élite completamente nuova, che c’entrava poco con quella novecentesca, non ne replicava affatto le abilità, ma si imponeva per un talento tutto suo: era gente che eseguiva quell’esercizio a meraviglia, gente che si muoveva da dio nel regno della post-esperienza. Forse il Game era stato immaginato come un mondo privo di élite, ma non andò cosí: abbastanza rapidamente, si formò un gruppo di particolarmente adatti che iniziò a fissare modelli, accatastare ricchezze, imporre gusti e stabilire regole. Dai reperti archeologici che abbiamo potuto studiare è difficile capire a che livello di dominio possa arrivare una casta del genere. Ma è là, si sta solidificando, ed è facile riconoscerla nelle nervature della terra del Game. Testimonia di un effetto imprevisto, forse indesiderato, certo non perseguito.
Non è l’unico, peraltro. Le rovine che abbiamo studiato sono piene di fossili in cui si legge tutta una serie di scomodi effetti collaterali che il Game non aveva immaginato. Il piú evidente è che il pio desiderio di mettere un computer sulla scrivania di tutti gli umani, spingendo interi blocchi di periferia sociale a defluire verso il centro del Game e travolgendo antiche barriere di censo e di cultura, ha ottenuto l’elettrizzante risultato di restituire diritti e dignità a un sacco di gente, ma anche il dubbio privilegio di scoprire che non sempre lo scheletro del Game era in grado di reggere quella sorta di sovrappiú muscolare. Cosí, ad esempio, la diffusione di una sorta di umanità aumentata, resa disponibile dalla diffusione di device dal prezzo ragionevole, ha portato in effetti a seminare capillarmente nel tessuto sociale una rinnovata consapevolezza di sé, col singolare risultato, però, di produrre un vero e proprio individualismo di massa: un fenomeno che già nel suo nome tradisce l’accadere di un paradosso non facilissimo da governare. In ogni caso incarna un’onda d’urto che il Game non si aspettava, o non immaginava cosí, o non aveva ancora gli strumenti per affrontare.
In modo analogo, una strapotenza di calcolo, generata per sfamare device sempre piú esigenti, ha portato a diffusione la vaga impressione che il Tutto sia una quantità abituale, e in un certo senso l’unica merce che valga la pena comprare e che sia profittevole vendere. Ne è derivata, come abbiamo visto, la crescita di giganteschi monopoli, o di giochi a un solo giocatore (solitari), o di business monoposto, vagamente inquietanti. Il fatto che non crescano in un pianeta piombato come quello novecentesco rende precipitoso l’interpretarli come un pericolo mortale: ma che il loro convivere sulle scivolose piste da ballo del Game rappresenti uno scenario senza rischi è un’ipotesi ancora tutta da dimostrare.
Alla fine, volendo essere fedeli a quello che l’osservazione delle rovine archeologiche rivela, bisogna arrendersi a un’evidenza abbastanza sorprendente: proprio nell’età del suo trionfo, il Game inizia a mostrare crepe, dissesti, crolli sotterranei. Con una certa chiarezza lo vediamo addirittura, da un certo punto in poi, sotto assedio per la contemporanea aggressione di tre forze che in teoria avrebbero poco a che fare una con l’altra. I reduci del ’900, non ancora rassegnati, i puristi del Game, che rivendicano la vocazione libertaria delle origini, e gli esclusi dal Game, i riottosi, i tagliati fuori, quelli che non hanno vinto mai. La cosa curiosa, che non mancheremo di annotare sulla mappa, è che tutte e tre queste forze, novecenteschi compresi, attaccano il Game dall’interno, armati di tool digitali, e perfino dipendenti da loro. Non sembra nemmeno sfiorarli l’idea di tornare a una civiltà predigitale. In almeno due casi (i novecenteschi e i giocatori non vincenti) quello che vogliono, si direbbe, è addirittura portarsi via i tool e abbandonare il Game. Approfittare della rivoluzione tecnologica, ma disinnescarne le conseguenze mentali e sociali. Una quadratura del cerchio, probabilmente.
Sornione, il Game lascia fare, forse consapevole delle proprie crepe, ma sicuro che siano dettagli destinati a essere travolti dall’inesorabile progredire del suo modello. A stento si ricorda ormai di essere nato per distruggere un passato che era stato rovinoso. Da tempo si propone come una civiltà che ha in sé le sue ragioni, e dentro di sé i propri obiettivi. Per molti degli umani non è il nemico, è il mondo che sono orgogliosi di avere costruito. Per quanto gli oppositori siano rumorosi, piú decisiva sembra essere la sorda determinazione con cui milioni di umani escono ogni giorno di casa per costruire la loro piccola parte di Game, nella convinzione che sia la loro patria. Già covano il prossimo passaggio, senza nasconderlo: l’intelligenza artificiale farà scivolare in pochi anni la seconda guerra di resistenza a sommossa obsoleta: ben altri saranno i temi che si discuteranno, e ben piú radicali gli scenari per i quali ci si batterà. Abbiamo imparato per altro che nulla di tutto quello che accadrà, accadrà per caso, ma tutto perché era stato già seminato, anni prima, nei campi del Game. Qualsiasi cosa nascerà dall’intelligenza artificiale, gli umani hanno iniziato a costruirla anni fa, quando hanno accettato il patto con le macchine, scelto la postura zero, digitalizzato il mondo per poterlo fare elaborare da immense potenze di calcolo, prediletto i tool alle teorie, lasciato agli ingegneri il timone della loro liberazione, salpato per i mari dell’oltremondo, accolto la promessa di un’umanità aumentata, ripudiato le élite che gli avevano insegnato a morire, accettato il rischio del campo aperto, scelto la pace, e dimenticato l’infinito. Hanno seminato, stanno raccogliendo, ancora raccoglieranno. Nella ricompensa di frutti che spesso non hanno mai visto prima, mitigano l’insidia della nostalgia e l’eterno ritorno della paura.
Ecco. Molte pagine fa ho iniziato a collezionare le orme di quegli umani, nell’idea che mi sarebbe riuscito di ricostruire il loro cammino, e misurare la loro distanza dalla felicità e dalla paura. Pensavo a delle mappe, ed eccomi qui, ora, a sfogliarle, guardarle, toccarle. Rileggo i nomi, ripercorro con lo sguardo certi bordi, la linea bella di certi confini. Conto gli spazi bianchi da cui non è giunta notizia alcuna. Ritocco certe quote, aggiungo dettagli. Come ogni cartografo, so di aver fatto con tutta l’esattezza possibile un lavoro necessariamente inesatto. Perché ovviamente il mondo non è tutto lí: se disegni continenti non puoi rendere conto dei colori di un fiore o di ciò che la gente ha nel cuore davanti a un tramonto. Ogni mappa è una lettura possibile del reale, una delle tante. Quella a cui ho lavorato registra praticamente una cosa sola, nell’andare recente degli umani: la loro svolta digitale. Ma volendo capirli veramente, quegli umani, potrebbe essere altrettanto utile fare la storia dei farmaci, o degli sport, o del modo di mangiare. Perfino io, che ho dedicato un numero sorprendente di ore a cercare di capire l’importanza del Web nelle nostre vite, so che non meno importante sarebbe stato studiare il Prozac, o Slow Food, o la teologia di Papa Wojtyła, i Simpson, Pulp Fiction, l’Erasmus, l’avvento delle sneakers, la sparizione del tinello, l’avvento del sushi, Amnesty, MTV, Dubai, il Bitcoin, il riscaldamento del pianeta e la carriera di Madonna. Perfino l’eliminazione del retropassaggio al portiere nel calcio (1992) dice qualcosa di noi. Evidentemente bisognerebbe essere capaci di studiare tutto, di fare tutte le mappe, e poi di sovrapporle, e alle fine godersi i risultati. Direi che è una tipica acrobazia da post-esperienza, da élite del Game. Sapranno compierlo, forse, persone che oggi vanno alle medie e passano i pomeriggi a giocare a Far Cry. Nutro grandi speranze in loro.
In ogni caso, un certo lavoro l’abbiamo fatto. Se tornate ai primi due capitoli e li rileggete vi sembreranno quasi preistorici [be’, non fatelo veramente, che palle, fidatevi di me]. Perché da lí molta strada abbiamo fatto, e per quanti errori possiamo aver collezionato, un sentiero è diventato visibile, una coerenza si è ricomposta sotto i nostri occhi, una genealogia è salita in superficie, e il profilo di una civiltà si è mostrato uscendo dalla penombra. È già molto, credetemi. Forse mi sopravvaluto, ma oggi se mio figlio mi chiedesse dove stiamo andando, lo so. Da dove veniamo, lo so. Perché facciamo tutto questo, lo so. Duecento pagine fa dovevo chiederlo io a lui, se vi ricordate.
Quindi bene. Fatto.
Potrei fermarmi qui, potete fermarvi qui. Tuttavia, è vero, come potete facilmente verificare, c’è ancora un pezzo di libro, a seguire. Non è che lo dovete proprio leggere. Ma io dovevo scriverlo: è una faccenda fra me e me, una specie di sfida con me stesso. Il fatto è che sei hai disegnato delle mappe poi la voglia di usarle e andare a navigare un po’ ti viene. Io, in particolare, custodivo il desiderio di usarle per navigare in due regioni che mi affascinano molto: quella della verità, e quella delle opere d’arte. È che si dicono un sacco di sciocchezze, oggi, a proposito di quelle regioni, e la cosa mi dà un fastidio tremendo. Insomma mi andava di provare a mettere un po’ d’ordine, approfittando delle mappe che nel frattempo avevo disegnato. Come progetto vi potrà sembrare vagamente presuntuoso, se non arrogante. Sí, in effetti lo è.
E poi c’è un ultimo capitolo, che si intitola Contemporary Humanities. Devo aver già detto che è un’espressione non mia, viene fuori da ore spese con gente della Scuola Holden per capire bene cosa insegniamo, cosa vogliamo insegnare, cosa riusciamo veramente a insegnare. Non ne venivamo fuori, fino a quando un paio di noi, ovviamente piú giovani di me, se ne sono usciti con quel Contemporary Humanities. Quando l’ho sentito, ho capito che non diceva semplicemente cosa insegniamo alla Holden, ma era un’espressione che c’entrava col Game, e anzi nominava con insolita precisione una zona del Game, strategicamente centrale e attualmente semideserta. Ho scoperto, solo in quel momento, come si chiamava il quartiere in cui vivo io.
Per cui, quell’espressione ve la trovate come titolo dell’ultimo capitolo. È il capitolo in cui dico cosa penso di tutto questo, del Game, dell’insurrezione digitale, di Steve Jobs, di Zuckerberg, e perfino dei colori di fondo scelti da WhatsApp. Come avrete notato è una cosa che, per tutto il libro, ho cercato di non fare. Dare un giudizio. Non è che sono timido, o vile, non è questo. È che quando studio una cosa mi confonde perdere troppo tempo a capire se mi piace o no, a dare un giudizio di valore. Se voglio studiare le armonie di Debussy non mi aiuta un granché chiedermi se mi piace la sua musica. E se cerco di capire i miei figli, sono sicuro di prendere meno cantonate se riesco a dimenticarmi come stupidamente li adoro. È una metodologia. Mi aiuta. Mi fido di lei. Quindi, per strada, mentre parlavo del Web o di Facebook, ho cercato di limitare al minimo le sventagliate di entusiasmo o le lamate di disprezzo. Insomma, mi importava capire, non giudicare. Non era quello il momento di farlo.
Ma alla fine, perché no. Mi piacerà scrivere cosa ne penso. Prendeteli come dei titoli di coda, se ci arrivate. Lo sono, in qualche modo.
Ah, dimenticavo. I 5 Stelle hanno finito per mettere su un governo alleandosi con la Lega, il partito populista e xenofobo di cui vi dicevo. No, lo dico perché l’avevo promesso. Amen.