Stelle comete
Quel che resta della verità
Nel campo aperto del Game, molte cose sembrano
diventate imprendibili, e una è la verità.
Oddio,
la verità:
diciamo un profilo certo delle cose, una versione verificabile dei
fatti, una definizione attendibile di quel che accade. Sarebbe già
qualcosa poter contare su questa forma, minore, di
verità.
Ma non è cosí. Nel Game
qualcosa sembra rendere la verità dei fatti ancora piú sfuggente di
quanto sia stata in passato. D’altronde se scegli un tavolo da
gioco in cui la prima regola è il movimento non sarà poi cosí
facile poter disporre dei fatti in quello stato di fermezza che
sembra necessario a fissarli in una definizione certa. Se accetti
di aprire il gioco a un gran numero di player, il ritratto
quotidiano del mondo sarà la composizione di cosí tanti angoli di
visuale che la nettezza dell’immagine, alla fine, ne risentirà
pesantemente. Se vai per il mondo con l’andatura lampo della
post-esperienza, ci metterai poco a capire che, per te, la verità è
una sequenza di fotogrammi in cui qualsiasi fotogramma, preso di
per sé, non è né vero né falso.
Provo a dirlo in termini
piú semplici possibili: il Game è troppo instabile, dinamico e
aperto per essere un habitat gradito a un animale sedentario, lento
e solenne come la verità.
Forse un esempio può
aiutare. Ne scelgo uno che mi fa abbastanza ridere e che non
scomoda cose troppo importanti. Un piccolo fatterello accaduto
qualche anno fa, in piena epoca del Game.
Era l’inizio del 2014 e
una rivista francese svelò, con tanto di fotografie, che il
presidente François Hollande aveva un’amante, giovane e carina. Al
tempo, la compagna ufficiale di Hollande era Valérie Trierweiler,
una giornalista: non la prese affatto bene. Troncò bruscamente la
relazione col presidente e poi si mise a scrivere. Un libro. Un
libro per vendicarsi, intendo dire. Un impietoso, feroce e
dettagliato resoconto di cosa poteva essere la vita quotidiana con
François Hollande. La pubblicazione del libro fu annunciata per il
4 settembre dello stesso anno. Trattandosi di una storia che aveva
intrattenuto per mesi la curiosità di qualsiasi cittadino francese,
l’attesa era altissima. Alcune anticipazioni avevano fatto capire
che Trierweiler c’era andata giú dura. Il titolo era sarcastico, e
recitava: Merci pour ce
moment, «Grazie per questo momento».
Tutti sapevano che sarebbe stato un libro spazzatura.
Alla fine, il famoso 4
settembre arrivò, e proprio quel giorno il gestore di una bella
libreria indipendente di Lorient (Bretagna), attaccò in vetrina un
cartello con su scritto: «Non abbiamo il libro di Trierweiler…»
Aggiunse una sorta di emoticon, una faccina sorridente. Attraverso
le carsiche correnti dei social, il cartello divenne virale, e in
pochissimo tempo nelle vetrine di altre librerie indipendenti
francesi apparvero cartelli tipo questo: «Non abbiamo il libro di
Trierweiler. In compenso abbiamo Balzac, Maupassant, Proust…»
Oppure questo: «Siamo librai, abbiamo 11 mila libri, e non ci piace
essere la spazzatura di Trierweiler e Hollande». Ci crediate o no,
in pochissime ore un massiccio movimento di opinione si addensò
intorno a quel rifiuto di vendere quel libro. L’ironica parola
d’ordine che lo univa era: No grazie
per questo momento. Tempo qualche ora
e arrivarono le prime attestazioni di solidarietà dall’estero. Il
Game è velocissimo, in questo genere di cose.
Per capire bene la
faccenda bisogna ricordarsi che le librerie indipendenti stavano
ormai da anni combattendo una durissima battaglia contro Amazon, la
grande distribuzione, e le catene dei megastore: messe nell’angolo,
chiudevano una dopo l’altra, vittime in qualche modo del Game. Con
loro sembrava morire una certa idea di libreria, una certa cultura
del libro, una certa civiltà. Questo spiega come mai una battaglia
in fondo cosí periferica come quella contro un inelegante libro di
gossip potesse assumere al tempo quella incredibile rilevanza
simbolica. Insomma, erano incazzati neri, e come spesso succede
bastò un piccolo incidente per far scoppiare la
rivoluzione.
Mentre tutto questo
accadeva, il quotidiano locale della Bretagna («Ouest-France») fece
quello che un quotidiano locale della Bretagna doveva fare: mandò
un giornalista a intervistare il libraio di Lorient. L’uomo che
aveva scatenato la sommossa. Immagino che avessero in mente di
farne un personaggio, se non addirittura un eroe. Si chiamava
Damjan Petrovic. L’inviato gli chiese come gli era venuta in testa
l’idea di attaccare quel cartello. Ed ecco lui cosa
rispose:
«Il fatto è che il libro
di Trierweiler non mi era ancora arrivato. Era tutta la mattina che
entrava gente a chiederlo, e cosí a un certo punto mi sono stufato
di rispondere e ho messo quel cartello in vetrina».
Posso immaginare la
faccia del giornalista. In un estremo e commovente tentativo di
recuperare la storia per cui era stato mandato lí, chiese a
Petrovic se lui il libro di Trierweiler l’avrebbe venduto, il
giorno che gli fosse arrivato.
«Certo, perché no?»,
rispose serafico Petrovic.
Mentre questo accadeva,
e perfino nei giorni successivi alla pubblicazione di questa
intervista, il movimento No grazie per
questo momento continuò a crescere
rigoglioso, restituendo a molti librai la fierezza di un’identità e
probabilmente la forza di tenere duro. Per un lungo attimo, tutti
si sentirono gli eroi che in effetti, per molti versi, erano. Il
fatto che tutto fosse nato da un equivoco apparve ai piú uno
spiritoso dettaglio.
Dato che il Game
conserva memoria di tutto, adesso siamo in grado di sapere in che
istante preciso quello spiritoso dettaglio si mise in moto. È una
foto postata su Twitter quel 4 settembre. C’è la foto del famoso
cartello. E poi c’è un commento di cinque parole.
Un vrai libraire à Lorient. «Un vero libraio a Lorient». Il tweet è di una persona
qualunque, uno che passava da lí.
Ciò che questo grazioso aneddoto insegna è che
il Game è, di per sé, un terreno scivoloso su cui i fatti pattinano
alla grande, non sempre prendendo direzioni prevedibili. Non c’è
neppure bisogno che intervenga la mano di qualche player potente a
deviare la verità, o addirittura a inventarsela: i fatti possono
anche partire da soli, spinti da correnti sotterranee o minuscoli
impulsi anonimi, e da lí in poi è difficile prevedere le loro
traiettorie e quasi impossibile modificarle. Alla fine, l’idea che
uno si fa è che il Game sia costruito con uno strano materiale
a bassa densità che rende facile e
veloce il formarsi di verità e il loro movimento. In passato, per
allestire una verità o anche solo spostarne qualche parte, era
necessaria per cosí dire una forza muscolare o una secolare
perizia: era infatti uno sport per lo piú riservato a un club di
player speciali. Nel Game, invece, proprio a causa di quella bassa
densità, spostare la verità sembra essere alla portata di chiunque,
e produrla un giochetto da ragazzi.
La cosa ci sta mettendo
– com’è noto – in difficoltà.
Da un po’ di tempo,
tanto per avere l’illusione di gestire la faccenda, usiamo una
categoria che ci dà grande soddisfazione: la post-verità. La frase
da dire è: ormai viviamo nell’epoca
della post-verità. Traduco. Ci siamo
convinti che il Game abbia originato un mondo in cui la verità dei
fatti non sia poi cosí decisiva per formarsi delle opinioni o
prendere delle decisioni: apparentemente, siamo andati oltre,
abbiamo sorpassato i fatti, ci muoviamo sulla base di improvvisate
convinzioni fondate sul nulla, se non su notizie palesemente false.
La forza di penetrazione di simili convinzioni è data dal fatto che
si presentano molto semplici ed elementari, compatte come quelle
che Cartesio chiamava «idee chiare e distinte». Molte volte la loro
forza è data anche da una confezione impeccabile e astutissima. In
particolare – si dice – fioriscono là dove si è radicato il
risentimento per le élite, per gli esperti, per quelli del club in
cui in tempi passati si
costruiva la verità. Non dar peso alla
verità dei fatti finisce per essere un modo di metterli fuori
gioco: probabilmente è la coda di una ribellione partita molto
tempo prima.
Ora, la domanda da farsi
sarebbe: è una teoria valida? Questa della post-verità, dico, è una
teoria utile a capire le cose?
Dopo aver studiato per
pagine e pagine il Game, una cosa possiamo dirla con tranquillità:
è una teoria troppo elementare per spiegare quello che sta
succedendo. Il Game non è cosí semplice né infantile. Nel Game non
ci sono quelli intelligenti che hanno rispetto dei fatti e i
cattivi che sono capaci solo di ragionamenti gastrointestinali.
L’idea che una parte dell’umanità sia decollata grazie alla
rivoluzione digitale verso un irrazionalismo ignorante e
oscurantista, facilmente manovrabile, è inadatta a spiegare che
cosa è successo alla verità, ai fatti, e alla nostra elaborazione
di essi: provate a fare del sushi con un’accetta e avrete maggiore
successo. Per spiegarmi bene, devo fare un passo indietro e
ripartire da due storie che sicuramente conoscete.
Come si sa, il 5
febbraio 2003 (in piena epoca della colonizzazione del Game) Colin
Powell, allora segretario di Stato americano, esibí davanti alle
Nazioni Unite le prove che in Iraq il regime di Saddam possedeva e
stava sviluppando armi di distruzione di massa. Fece anche un bel
numero teatrale, con una fialetta di antrace: fu molto convincente.
Un mese e mezzo dopo, gli Usa, forti delle prove che inchiodavano
Saddam, invadevano l’Iraq: iniziava una guerra che avrebbe avuto
incalcolabili conseguenze nello scenario geopolitico del Medio
Oriente: per essere piú chiari, avrebbe avuto immani conseguenze
sulla vita e la morte di moltissimi umani. Purtroppo oggi sappiamo
con certezza che le prove esibite quel giorno da Colin Powell erano
false, e lo erano in modo piuttosto ridicolo. Soli due anni dopo
quella bella recita all’Onu, lo stesso Colin Powell ammise che quel
discorso sarebbe rimasto come una macchia sulla sua carriera
politica. Sostenne che lui era in buona fede, e accusò la Cia di
aver costruito deliberatamente quella bufala. Quelli della Cia lo
presero come un complimento.
Se vogliamo passare ad
argomenti piú frivoli, un ciclista di nome Lance Armstrong vinse,
tra il 1999 e il 2005, sette edizioni del Tour de France, impresa
mai riuscita a nessuno nella storia del ciclismo. In precedenza
Armstrong era stato colpito da un cancro, e il fatto che dopo
averlo sconfitto fosse tornato alle corse diventando il piú grande
ciclista di tutti i tempi rappresentò per molti anni una favola
irresistibile: insegnava una forza e una fede nella vita che
sicuramente aiutarono innumerevoli umani a svegliarsi al mattino,
qualunque fosse la generosità della loro sorte. Va aggiunto che
Armstrong stesso si impegnò a fondo per diventare testimonial della
lotta contro il cancro, e in un certo senso, in termini piú
generali, un eroe che aveva schiacciato, a nome di tutti, il male e
la paura del male. Malauguratamente oggi sappiamo con certezza che
Armstrong vinse i suoi sette Tour perché si dopava, si dopava da
matti, e lo faceva con determinata e abilissima ostinazione.
Naturalmente in quegli anni gli accadde innumerevoli volte di
negare, pur conoscendo la verità, qualsiasi accusa. Con una faccia
di bronzo che desta perfino ammirazione, non smise un attimo di
portare avanti la sua carriera di eroe. Confessò poi tutto, quando
le prove divennero schiaccianti, nel salotto televisivo di Oprah
Winfrey.
La cosa interessante è che di fronte a due
enormità come quelle appena ricordate NON CI
È VENUTO IN MENTE DI PARLARE DI POST-VERITÀ. L’espressione esisteva, qualcuno l’aveva
già coniata, ma evidentemente ai piú non era sembrata utile per
capire le cose. Era lí, a disposizione, ma non sapevamo cosa
farcene. Quelle di Bush e di Armstrong le chiamavamo menzogne, e
non c’erano sembrate poi cosí differenti da ciò che succedeva da
secoli. Quindi l’espressione post-verità se n’è rimasta in qualche
piega nascosta del linguaggio collettivo. Lí ha sonnecchiato fino a
quando, anni dopo, è letteralmente esplosa, spinta in superficie da
due eventi curiosi: la Brexit e l’elezione di Trump. In entrambi i
casi, l’opinione pubblica piú allineata alla narrazione dominante,
e l’élite che aveva forgiato quella narrazione e grazie ad essa
governava, divennero improvvisamente sensibili alla quantità di
palle che giravano intorno a quelle due consultazioni politiche e
alla difficoltà enorme che avevano incontrato a riportare
l’attenzione della gente sui fatti, o almeno SU QUELLI CHE LORO RITENEVANO ESSERE FATTI: non
riuscivano a credere che la gente avesse votato in quel modo ed
erano cosí convinti di aver ragione che molto velocemente
annunciarono l’avvento di un mondo in cui i fatti contavano ormai
poco e le leggende stavano prendendo il sopravvento. Stranamente,
non li sfiorò nemmeno l’idea che la cosa si potesse anche vedere
alla rovescia: per un sostenitore della Brexit, ad esempio,
I FATTI probabilmente erano la vita di
merda che si trovava a fare, e un’irrazionale scelta di pancia il
fidarsi di un’entità lontana e illeggibile come l’Europa. Ma no, i
piú non ebbero modo di vederla in questo modo: risultò piú efficace
predicare l’avvento di un passaggio epocale, la fine di una certa
civiltà. «Adesso che viviamo nell’epoca della post-verità…»
Riassumo: quando
credevamo alle menzogne di Bush e Armstrong era tutto piú o meno
regolare; quando qualcuno ha iniziato a dire che Obama era nato in
Kenya e non negli Usa, siamo scivolati nell’era del disprezzo dei
fatti e delle scelte fatte con la pancia.
A essere brutali, la si
potrebbe dire cosí: POST-VERITÀ è il nome che noi
élite diamo alle menzogne quando a raccontarle non siamo noi ma gli
altri. In altri tempi le chiamavamo ERESIE.
Ma non c’è bisogno di
esserlo, cosí brutali, e quindi ripiego su un’enunciazione piú
pacata: chiaramente la teoria della post-verità è il prodotto di
un’élite intellettuale impaurita, conscia di non controllare piú la
quotidiana produzione di verità. Rivela una lucida intelligenza là
dove registra un certo brusco scollamento tra desiderio di verità e
conoscenza dei fatti: ma poi lo attribuisce alla deriva
irrazionalista generata dal Game, e lí rinuncia a capire. In certo
modo rincorre ancora un’idea novecentesca, statica, di
VERITÀ DEI FATTI, senza capire che IL GAME È
TROPPO FLUIDO PER POTERSELA PERMETTERE E TROPPO AVANZATO PER
POTERSENE ACCONTENTARE. Tanto che in
tempi abbastanza veloci SI È PRODOTTO
UN SUO PROPRIO MODELLO DI VERITÀ. Uno
adatto alle proprie regole. L’ha fatto intervenendo su un punto
preciso, che adesso non mi viene da definire in altro modo che in
questo: è intervenuto sul design. Mi verrebbe da dire
che il Game HA MODIFICATO IL DESIGN
DELLA VERITÀ. Non l’ha dispersa, non
ne ha cambiato la funzione, non l’ha spostata dal posto in cui era,
cioè al centro del mondo: quel che ha fatto è darle un diverso
design. Non dovete pensare a un dettaglio estetico, prendete il
termine design nella sua accezione piú alta. Il Game ha toccato il
disegno interno, logico, funzionale della verità. Ha fatto alla
verità quello che Jobs ha fatto al telefono, per cosí
dire.
E per provare a
convincervi, devo risalire a un oggetto che pensavo fosse sparito
per sempre. E invece no.
LO STRANO CASO
ISTRUTTIVO DELLE VENDITE DEL VINILE
Il vinile è un disco in PVC che per anni (dal dopoguerra agli anni
Settanta) ha rappresentato il modo piú diffuso di ascoltare musica
in casa. Ce n’erano due formati: il 33 giri e il 45 giri. Negli
anni Settanta iniziò a perdere colpi per l’avvento di un piccolo
oggetto che ai tempi sembrò rivoluzionario: la musicassetta. Non
era penoso solo il nome: anche l’oggetto non scherzava. Tuttavia
costava meno, lo si teneva in tasca, e ci si poteva registrare le
canzoni che ci piacevano, un po’ come fare oggi una playlist su
Spotify o iTunes. [Apro parentesi: nelle scuole bisognerebbe
organizzare questa prova: da una parte c’è uno che si fa una
musicassetta con le sue canzoni preferite e dall’altra uno che si
fa una playlist su Spotify. Al temine del confronto, il primo che
ancora si permette di fare il difficile sulla rivoluzione digitale
sarà punito in modo molto fermo]. Dicevo. Nei tardi anni ’80 arrivò
il CD e mise d’accordo tutti:
digitale, preciso, veloce, bellino. Aveva un difetto: costava
troppo. Infatti lo si sopportò giusto il tempo di inventare
qualcosa di meglio. Nella circostanza facemmo le cose alla grande,
inventando il formato MP3: la musica
veniva stoccata in formato digitale dentro contenitori che potremmo
chiamare file compressi: ancora piú
immateriali, volatili, invisibili di quelli che usava il
CD. Peso minimo, velocità massima. Era
dai tempi delle fate che non si vedeva qualcosa del genere. Non
occupando nessuno spazio, e essendo convocabili in un tempo minimo
in qualsiasi nostro device, sono diventati il nostro modo di
ascoltare musica. Hanno un difetto, cioè la qualità del suono è
minore di quella che la musica stoccata analogicamente offriva: ma
non gliene frega niente a nessuno. Siamo d’altronde un mondo che se
deve rinunciare a un po’ di qualità o poesia per guadagnare una
certa velocità, lo fa volentieri. Siamo tutti figli della pentola a
pressione.
Dov’ero rimasto? Ah sí.
Il vinile. Ovviamente, con l’arrivo dell’MP3, il vinile era
spacciato. Smisero proprio di farlo. Rimase qualche piccolo
artigiano, a tenere duro nella sua bottega: come quelli che fanno
le scarpe a mano. Ci sono, per carità. Ma la verità è che il vinile
era morto. Amen.
Poi, a un certo punto,
esce questa notizia: IL FATTURATO DEL
VINILE, NEL 2016,
HA SUPERATO QUELLO DELLA MUSICA
DIGITALE.
Bum.
È uscita per davvero,
eh?, la notizia, c’erano titoli sui giornali. Probabilmente ve la
ricordate anche voi, se ne parlava perfino nei bar, ogni tanto, o
alle cene...
Capite che davanti a una
notizia del genere uno come me stacca il telefono, lascia i figli
ai vicini, tira fuori le birre dal frigo e si mette a studiare. A
me fa l’effetto che a voi fa la nuova stagione della vostra serie
televisiva preferita. [Non so chi stia peggio,
francamente].
Cosí mi son messo a
studiare, ho spacchettato la notizia ed ecco alcune cosette che ci
ho trovato dentro.
Che si sappia, solo per
una settimana (sotto Natale), e solo nel Regno Unito, e solo nel
2016, il fatturato del vinile ha superato effettivamente quello del
download digitale. Negli Stati Uniti, l’anno prima, era successo
qualcosa di vagamente simile ma non paragonabile: il fatturato del
vinile aveva superato quello dei servizi gratuiti di download che
guadagnano solo dalla pubblicità (per dire: YouTube, o Spotify
base). Ma se calcoliamo anche i download che si pagano (poco, ma si
pagano), la storia cambia: i soldi che sposta il vinile sono un
decimo di quelli. Può essere utile una visione d’assieme: stando ai
fatti, e rimanendo al mercato degli Stati Uniti nel 2016, se si
considerano tutti i soldi spesi per l’ascolto di musica riprodotta,
la quota del vinile sfiora il 6%, quella dei download digitali è
sopra il 60%. Siamo lontanissimi da un eventuale
sorpasso.
E fin qui stiamo
parlando solo di soldi. Dato che i click per sentire un intero
album su Spotify costano cifre ridicole e un LP in vinile va sui quindici
euro, si capisce che, se contassimo le ore di ascolto, quindi
l’effettiva presenza del vinile nella vita della gente, il fenomeno
sfumerebbe ulteriormente. Si aggiunga questa deliziosa statistica,
gentilmente offertaci dalla BBC
(gente che si alza al mattino per studiare
come gira il denaro, pace all’anima loro): la metà di quelli che
comprano un vinile poi va a casa e non lo sente. Torni un mese dopo
e non l’hanno ancora sentito. Belle creature (il 7% di loro non ha
neanche il giradischi).
Detto questo, va
comunque registrato che il fenomeno resta, reale e sorprendente.
Sono dieci anni che il numero di vinili venduti nel mondo aumenta
ogni anno: quest’anno si prevede che se ne venderanno, sul pianeta
terra, 40 milioni. È un numero che fa impressione, considerato che
un vinile è caro, pesante, lungo da mettere su, si sporca, si
rovina, occupa spazio e ogni trenta minuti va girato. Ma
naturalmente anche quello è un numero che va spacchettato e letto
bene: 40 milioni era il numero di vinili che si vendettero nel
1991, piú o meno l’anno in cui si decise che era tutto finito e che
per continuare a fare vinili bisognava essere pazzi. Quando il
vinile vendeva veramente
(prendiamo il 1981, un anno prima di Pablito
Rossi e del Mundial) di dischi in PVC se ne vendevano
UN MILIARDO.
40 milioni. 1
miliardo.
Voilà.
E ora torniamo alla
notizia da cui siamo partiti. IL
FATTURATO DEL VINILE,
NEL 2016,
HA SUPERATO QUELLO DELLA MUSICA
DIGITALE. Adesso non fate l’errore di sogghignare, con aria di
superiorità, liquidandola come una tipica bufala
(fake new), e invocando l’era della post-verità. Non è cosí
semplice, per fortuna. Si tratta, in realtà, di quella che
chiameremo una VERITÀ-VELOCE: una macchinetta
comunicativa molto sofisticata e molto diffusa, dall’incomparabile
efficacia. Una luminosa creazione del Game. Posso spiegare com’è
fatta?
LA GENIALE MACCHINETTA
DELLA VERITÀ-VELOCE
La verità-veloce è una verità che per salire
alla superficie del mondo – cioè per diventare comprensibile ai piú
e per essere rilevata dall’attenzione della gente – si ridisegna in
modo aerodinamico perdendo per strada esattezza e precisione e
guadagnando però in sintesi e velocità. Diciamo che continua a
perdere in esattezza e precisione fino a quando non giudica di aver
ottenuto la sintesi e la velocità sufficienti per raggiungere la
superficie del mondo: quando le ha ottenute, si ferma: non
butterebbe mai via un solo grammo di esattezza piú del necessario.
In un certo senso va immaginata come un animale che gareggia con
molti altri per la sopravvivenza: ogni mattino si svegliano molte
verità e tutte hanno il solo obiettivo di sopravvivere, cioè di
essere conosciute, di raggiungere la superficie del mondo: a
sopravvivere non sarà la verità piú esatta e precisa, ma quella che
viaggia piú veloce, che raggiunge per prima la superficie del
mondo.
Prendiamo l’esempio del
vinile. IL FATTURATO DEL
VINILE, NEL 2016,
HA SUPERATO QUELLO DELLA MUSICA
DIGITALE. Assumete questa frase come
il prodotto finale di un viaggio molto lungo e cercate di risalire
al punto dove quel viaggio si è messo in moto. Se lo fate, trovate
una cosa vera: contro ogni logica si sono vendute negli ultimi
anni, sul pianeta Terra, decine di milioni di dischi in vinile. È
una verità curiosa e ha tutta l’aria di insegnare qualcosa di
utile. Si sveglia al mattino e inizia a correre. Per un certo tempo
non trova la scorciatoia per salire in superficie, e quindi nessuno
la percepisce (è dieci anni che il vinile aumenta regolarmente le
vendite, ma non se n’era mai parlato). Poi d’improvviso trova un
varco: una piccola settimana in cui in Inghilterra è successo che
il vinile facesse piú fatturato dei download. L’animaletto ci si
butta. L’accelerazione è data dal fatto che qui la verità da cui si
è partiti trova un assetto aerodinamico fantastico, si mette per
cosí dire in posizione a uovo: assume la forma di un duello, vinile
contro download, analogico contro digitale, vecchio mondo contro
nuovo mondo. I duelli attirano sempre l’attenzione, semplificano le
cose e sono veloci da capire. Ciò che può essere riassunto in
duello avrà vita facile nella quotidiana lotta per la vita.
«Achille contro Ettore» non perde da millenni.
Perfetto.
Ma non basta. Quante
probabilità ha di sopravvivere la notizia che per una settimana,
nel Regno Unito, il vinile ha stecchito in duello i download
gratuiti delle piattaforme di musica digitale? Scarse. Per
diventare memorabile, un duello non deve solo avere i protagonisti
giusti (due eroi), ma anche svolgersi nel luogo giusto
(main street) e celebrarsi all’ora in cui tutti li possono vedere.
Quindi è purtroppo necessario ancora un piccolo lavoro di
restyling, bisogna rassegnarsi a buttare a mare qualcosa, a perdere
una piccola quota di esattezza: tocca far cadere quel «per una
settimana» e se ancora non basta quel «nel Regno Unito». Fatelo,
non discutete. Temo che ci sia ancora da sorvolare un attimo sulla
genericità del termine «musica digitale». Sorvolate. Bene. Ottimo
lavoro.
IL FATTURATO DEL
VINILE, NEL 2016,
HA SUPERATO QUELLO DELLA MUSICA
DIGITALE.
Voilà. Notizia in
pagina, missione compiuta.
Chiedersi a questo punto
se la notizia sia vera o falsa non è magari scemo ma certo non è
urgente, né cosí decisivo. Perché quella notizia ha comunque in
pancia una verità, e proprio grazie alla sua imprecisione ha
portato sulla superficie del mondo qualcosa di molto importante: la
registrazione di uno strano contromovimento che riga il nostro
rettilineo andare verso il futuro. Come un apparente e
imprevedibile rigurgito di passato. Non è esattamente un fenomeno
da nulla, e l’averlo registrato arricchisce sicuramente la nostra
lettura del mondo. Che a generarlo sia stata una notizia imprecisa
è poi cosí importante? Non ho una risposta sicura, ma, mentre la
cerco, inizio a rendermi conto che quella notizia (inesatta) non
solo ha disseppellito una verità degna di nota, ma ne ha liberato
altre, piú piccole, che non avrebbero mai avuto accesso alla mia
attenzione e che solo adesso, nella luce di quella verità-veloce,
assumono visibilità e significato: scopro che non solo aumentano da
anni regolarmente le vendite del vinile, ma anche delle penne
stilografiche, delle macchine da scrivere e, ben piú importante,
del libro cartaceo [fra un po’, mi sa, torneranno in auge la carta
copiativa e le pantofole]: in pancia, quella notizia ha quelle
verità, e finalmente le rende visibili, se le trascina dietro fino
alla superficie del mondo portandole sotto i riflettori della
nostra attenzione. Mi accorgo allora che si sta formando una sorta
di agglomerato di fatti, una costellazione, che riconduce tutti
quei fenomeni a una figura piú generale, ora facilmente
riconoscibile, che chiamerei «Vendita di tecnologie obsolete ma
vagamente poetiche»: la sua insorgenza spinge ancora piú gente a
entrare in un’orbita di curiosità per quel segmento particolare del
mercato (che con ogni probabilità aveva in precedenza dimenticato)
e ad approssimarsi al pensiero di un acquisto, il che
immancabilmente genererà un rinnovato interesse delle aziende
produttrici le quali aumenteranno la produzione, moltiplicando
l’offerta e stimolando la richiesta. Soldi, lavoro, fatti. Ciò che
non era veramente vero, ha qualche possibilità di diventarlo in
futuro.
Impressionante come
un’inesattezza possa generare tanto senso e tanta realtà: ma lo
fa.
Se foste tentati di
scuotere il capo e pensare dove siamo finiti, o ancor peggio di
attribuire alla nostra nuova civiltà questa perversione di generare
realtà a partire da verità imprecise, devo richiamarvi ai fatti e
ricordarvi che la verità-veloce non è un’invenzione dell’era
digitale, e nemmeno della modernità. È un marchingegno molto
antico, che già moltissimo tempo fa era costruito e manovrato con
grande abilità. Faccio un esempio: Achille. Quello
dell’Iliade. Era tramandato come un semidio: suo padre era un uomo e
sua madre una dea.
Verità-veloce.
È difficile dire adesso
se i Greci dell’VIII
secolo a. C. credessero veramente che Achille fosse
nato da un amplesso tra un uomo e una dea, ma è ragionevole
azzardare che non si ponessero piú di tanto il problema perché
nell’espressione, imprecisa, semidio, tramandavano
qualcosa che per loro era assolutamente vero, e cioè che in Achille
era registrabile una forza, una violenza, una follia e
un’invulnerabilità che loro non sapevano spiegare, che non
ritrovavano nel destino degli umani, e in cui intravedevano
l’inquietante mistero di una disumanità possibile e
invincibile.
Si dirà che quelle erano
leggende, miti, poesia. Ma non è cosí corretto: al tempo, quella
era la forma dell’informazione, i media erano i poemi Omerici,
l’Iliade era un’enciclopedia che sintetizzava tutto il sapere dei
Greci. Era il loro modo di tramandare la verità. In ogni caso, la
formula del semidio la ritrovate senza fatica quando ai miti e alle
leggende si sostituí definitivamente la Storia: da Alessandro Magno
in poi, qualsiasi aspirante padrone del mondo ha dovuto presentarsi
come discendente, se non figlio, di un dio. Giulio Cesare non era
il personaggio di una fiction né la visione di un poeta: tuttavia
discendeva da Venere, e ci teneva a ricordarlo. Nessuno l’avrebbe
messo in discussione. Erano tutti scemi? No, usavano la
verità-veloce per leggere il mondo.
Cosí padroneggiamo la
tecnica della verità-veloce da millenni e se mi chiedete perché
allora essa appare invece cosí congeniale alla nostra epoca,
sembrando quasi una sua creatura, fate una domanda affascinante la
cui risposta, se avete letto questo libro, già conoscete: perché il
Game è in effetti l’habitat ideale per una simile idea di verità e
quindi in esso quell’idea è decollata dopo millenni di sonnolenza.
Esisteva da sempre, ma era costretta a manovrare in sistemi ad alta
densità, dove le notizie circolavano con lentezza, maneggiate da
pochi addetti ai lavori. Correva, ma al ralenti. Nel Game ha trovato
improvvisamente il proprio campo da gara perfetto. Bassa densità,
infiniti player, attrito ridotto al minimo, tempi di reazione
velocissimi, sterminato numero di percorsi. Una pacchia. E infatti
la verità-veloce si è presa il centro del campo ed è, essa stessa,
lievitata, nelle sua forza, nelle sue potenzialità, nella sua
statura. Se per tutto il ’900 era sembrata per lo piú una
caricatura pericolosa della verità vera – quella fondata sulla
permanenza, sulla fissità, sulla definizione – nel Game si è presa
la rivincita dimostrando che nel suo andare un po’ pazzo che viene
dal nulla e non finisce mai, finiva per pescare a strascico un
sacco di mondo. AVEVA UN DESIGN ADATTO
A CATTURARE E PRODURRE AMPIE SEZIONI DI MONDO. Questa va capita bene,
questa cosa della forza della verità-veloce: datemi qualche minuto
di concentrazione e tornate con me a quella storia del
vinile.
Eravamo arrivati al
punto in cui una sorta di verità inesatta (il vinile vende piú
della musica digitale) ne esprimeva una esatta (c’è un ritorno
curioso, massiccio e crescente a tecnologie obsolete ma portatrici
di qualche poesia). Bene: non prendetelo per un punto d’arrivo,
perché non lo è. Ha già fatto un sacco di strada, quella
verità-veloce, ma non è mica finita lí. Il meglio deve ancora
arrivare, e arriva quando quella verità-veloce imbocca la discesa
delle interpretazioni. È un momento bellissimo, è pura ebrezza
della velocità. Quel che accade è che, data quella verità-veloce,
almeno due sono i modi di leggerla:
- gli umani si stanno ribellando alla tecnologia e stanno tornando indietro al passato;
- gli umani sono ormai cosí felicemente avanti nella loro svolta tecnologica che si possono permettere il lusso di recuperare reperti del passato e giocherellarci, perché non sono piú il nemico: è come tenere un pitone addomesticato in casa, è ormai un animale inoffensivo.
Quel che accade allora è
che la nostra piccola verità-veloce – che tanta strada aveva già
fatto – si divide in due e infila due discese opposte che la
porteranno, la prima, nelle riviste in cui si parla di ceramica o
di passeggiate in montagna o di yoga, e la seconda su «Wired». In
entrambi gli ecosistemi essa continuerà a rotolare, grazie al magma
a bassa densità del Game, entrando in risonanza con altre
verità-veloci approdate lí e formando con loro una sorta di inerzia
pesante che alla lunga produrrà una rete verificabile di fatti:
mentre da una parte renderà sensato aprire un caseificio che fa
solo formaggi come una volta, dall’altro genererà il tipo di
imprenditore capace di aprire negozi che sono citazioni di vecchie
latterie e in cui si paga solo con carte prepagate.
Cosí, se adesso voi
tornate indietro a quella innocente settimana natalizia londinese
da cui tutto è partito, e risalite il viaggio della nostra
verità-veloce fino alla latteria hi-tech (o al formaggio di fossa),
un’idea ve la fate di quanto mondo sia in grado di
creare/abitare/definire un simile modello di verità. E iniziate a
rispettarlo, e a studiarlo. Immediatamente riconoscerete in lui un
design caratteristico: è un viaggio e non un punto, una figura che
si dispiega nel tempo e non un geroglifico stabile, una sequenza in
cui ogni passaggio è fragile ma il disegno complessivo forte. In
questo tipo di design ritroverete i lineamenti di altre mille cose
che vi circondano, e forse addirittura del vostro andare
quotidiano. La stessa post-esperienza, ha quel design. Il nostro
andare nel Web, ha quel design. C’è il marchio del Game, in quel
design.
Vi chinerete, allora,
con rinnovata curiosità e cresciuto rispetto, su quella macchinetta
sofisticata: e di certo non mancherete di notare come vi affascini,
in un simile modello di verità, il fatto che inizi con una
imprecisione, con una mezza verità. Vi colpisce la sua abilità a
convertire quella perdita iniziale in un vantaggio strategico: il
sacrificio della precisione genera leggerezza, velocità, agilità,
efficacia, volendo perfino bellezza. Movimento, diffusione,
esistenza. Rischioso, penserete, spaventandovi. Certo. Ma lo
penserete mentre simultaneamente vi starete rendendo conto che voi
quello schema lo conoscete, è quello che governa tutti i tool
digitali, è la storia dell’MP3, meno suoni ma piú
trasportabili, è la storia del passaggio al digitale, un filo di
imprecisione in piú in cambio di un’immensa agilità. È la storia
della superficialità al posto della profondità. È la forma del
Game.
Cosí, passo dopo passo,
arriverete ad ammettere che sotto agli occhi avete una macchinetta
molto sofisticata, estremamente coerente con il vostro modo di
stare al mondo, e fantasticamente adatta all’ecosistema del Game.
Pericolosa, certo. In gran parte ancora da capire. Ma degna di
essere presa sul serio. In quel momento, vi giuro, l’idea che tutto
sia andato in vacca, che i fatti non contino piú nulla e che
viviamo ormai nell’epoca della post-verità vi sembrerà un tantino
rozza. Per quel che ne capisco io è una tipica verità-veloce: parte
da un’imprecisione, da una semplificazione brutale, e poi si muove
magnificamente nel Game, dragando inerzie e correnti sotterranee,
dando un nome articolato a una convinzione gastrointestinale e
traducendola in pensiero corretto. Un lavoro ben fatto. Chapeau. Se
non ti convince hai solo da provare a costruire verità-veloci
ancora piú veloci.
È giusto quel che sto
facendo, adesso che ci penso.
FINALE DEDICATO ALLO
STORYTELLING
Una verità-veloce vince se riesce a salire in
superficie prima e meglio delle altre. Come abbiamo visto, non
conta nemmeno tanto la saldezza del suo punto d’appoggio sui fatti:
è il suo assetto aerodinamico che decide del suo destino. Dunque,
se davvero volessimo sapere in che mondo viviamo, si tratterebbe di
mettersi a studiarlo per bene. COS’È CHE RENDE UNA VERITÀ
AERODINAMICA ADATTA A PRENDERE VELOCITÀ NEL GAME? Argomento
molto affascinante.
Non credo di averne
capito abbastanza per dare lezioni, ma su un aspetto di quella
faccenda sí, ho le idee chiare, ci ho speso molto tempo a
studiarlo, so cosa dico. Quindi lo dico: quali che siano i tratti
che rendono una verità aerodinamica, e quindi vincente, uno prevale
sugli altri e ha un nome preciso: STORYTELLING.
Ma guarda chi si rivede.
Lo storytelling, un altro fenomeno resuscitato dal Game. Esiste da
millenni, ma da un po’ ce lo ritroviamo dovunque. Perché? Perché il
Game, per come è fatto, gli ha dato un campo da gioco
perfetto.
Per capire, occorre
intanto mettersi d’accordo sul termine. Storytelling. In generale la
gente ha un pregiudizio, sullo storytelling, che fa solo perdere
tempo: pensa che ci sia la realtà e poi, di fianco, la tecnica con
cui la si racconta, spesso riassumibile nella capacità di allestire
delle palle colossali, e di farlo molto bene.
Sbagliato.
Lo storytelling non è
una cosa che confeziona, o traveste, o trucca la realtà: è una cosa
che FA PARTE della realtà, è una parte di tutte le cose che sono
reali. Volete una formuletta che vi aiuti a metabolizzare questo
concetto? Eccola: SFILATE VIA DALLA
REALTÀ I FATTI E QUEL CHE RESTA È STORYTELLING.
Alle volte ha un aspetto
schiettamente narrativo, ma moltissime altre no. Guardate come
siete vestiti in questo momento: be’, quello è storytelling. Eppure
non ha la forma di una storia. Ha la forma di un vestito: è
storytelling perché dà a quel che siete un assetto aerodinamico che
vi permette di entrare in movimento: di connettervi con altri punti
del pianeta, di essere un po’ piú leggibili, di comparire
nell’indice del reale. Voi SIETE quel vestito? No. Ma
siete qualcosa di completamente estraneo a quel vestito? Nemmeno.
Fa parte di voi, della realtà che siete, è un pezzo del vostro
essere reali.
Piú o meno
capito?
Lo storytelling è una
parte della realtà e non sempre è il racconto di una
storia.
Bene. Torniamo alla
verità-veloce. Vi ricordate cos’ha messo in movimento, con
un’accelerazione pazzesca, il fatto di per sé trascurabile che un
libraio bretone appendesse un cartello nella sua vetrina? Lo
storytelling. Cioè una foto e una frase. «Un vero libraio a
Lorient». C’è un fatto, e fino a quando non trova uno storytelling
resta un fatto muto, fermo. Parte solo nel momento in cui qualcosa
gli dà uno storytelling e lo fa diventare realtà. Nel caso
specifico, la parte di storytelling è particolarmente aerodinamica,
lo si capisce bene, è talmente efficace da strappare il fatto dalle
sue origini e farlo diventare realtà molto al di là delle sue
intenzioni. A volte, il propellente dello storytelling può essere
esplosivo. Il tessuto a bassa densità del Game fa il resto (nel
’900, il libraio di Lorient neanche si sarebbero accorti che
esisteva).
E il caso del vinile? Vi
ricordate in che momento quel fatto che non riusciva a risalire in
superficie si è trovato sparato sotto i riflettori dell’attenzione
collettiva? Quando per una volta si è assemblato con un design
capace dello storytelling giusto: il duello analogico contro
digitale, passato contro futuro. Come buttare un fiammifero acceso
in una pozzanghera di benzina.
Cosa impariamo?
Impariamo che l’andatura di una verità-veloce è sicuramente
condizionata da mille fattori, tipo il comportamento degli altri
concorrenti o le asperità ogni giorno mutevoli del terreno: ma la
sua aerodinamica, quella è quasi integralmente riconducibile al
tratto di storytelling che compone la sua realtà. Oserei dire di
piú: STORYTELLING È IL NOME CHE DIAMO
A QUALSIASI DESIGN CAPACE DI DARE A UN FATTO IL PROFILO
AERODINAMICO NECESSARIO PER METTERSI IN
MOVIMENTO.
Ora capite perché ce lo
troviamo ovunque, questo storytelling. Se c’è qualcosa che si
muove, c’è lui. Vale da sempre: ma certo in un ecosistema come
quello del Game, in cui l’immobilità è la morte, capite che vale
anche di piú. Nel Game, dove sparisce lo storytelling, niente
sopravvive.
È una notizia che suona
rovinosa solo se rimanete abbarbicati a quell’idea inutile che lo
storytelling è la collezione di palle che elaboriamo per indorare
la realtà. Ma se invece, per favore, venite via da lí, e prendete
lo storytelling per quello che è – una parte della realtà – la
notizia ha il suo fascino. Ci dice che c’è una capacità, al mondo,
ed è quella di vedere e disegnare la parte della realtà meno
evidente, piú nascosta, spesso immateriale, quasi sempre
imprendibile: il suo fattore aerodinamico, il suo modo di fendere
l’aria, di contrastare la corrente, di resistere agli impatti, di
reggere a velocità fulminanti. Quella capacità, nell’epoca del
Game, salva la vita.
La salva, occorre dirlo,
a idee e fatti che ci piacciono ma anche a idee e fatti che
detestiamo. Il design, di per sé, non è buono né cattivo: è
efficace, e alle volte bello, fine. Quel che possiamo notare è che,
effettivamente, nel Game stanno prevalendo quelli che lo sanno
usare: ma si possono chiamare Obama come Trump. Quelli bravi lo
sanno usare a livelli tali che talvolta, da fuori, si finisce per
vedere solo quella abilità, nell’apparente assenza totale di fatti
verosimili o di idee con una certa statura. Ma è sempre
un’illusione ottica. Un fatto senza storytelling non esiste, ma è
vero anche il contrario: uno storytelling senza fatti non è niente.
Se vi piace cullarvi nell’idea che ci sia gente, nel Game, che
vince grazie allo storytelling e nel vuoto assoluto di fatti o
idee, accomodatevi pure, io non vi seguo. Anche qui, credetemi, la
faccenda è piú sottile.
Quel che di sicuro è
accaduto nel Game, a causa della sua bassa densità, è che la
dinamicità delle verità è diventata piú importante della loro
esattezza. In termini elementari: vale di piú una verità inesatta
ma con un design adatto ad attraversare il Game, che una verità
esatta ma lenta nel muoversi e incapace di schiodarsi dal punto in
cui è nata. Questo verdetto può spaventare, ma se invece lo si
accoglie con una certa lucidità, traccia un campo da gioco
affascinante e vorrei dire abbastanza geniale. Dice che se io ci
tengo alle mie idee, e ai miei fatti, devo essere capace di dar
loro un profilo aerodinamico, devo lavorare duro fino a quando non
hanno un profilo che penetra nell’aria della sensibilità
collettiva, devo continuare a capirle meglio fino a quando non
riesco a ricondurle a una figura capace di rotolare nel Game.
D’altronde, se qualcuno è riuscito a riportare quintalate di
complessità alla semplicità aerodinamica della prima schermata
dell’iPhone, dell’algoritmo di Google, della struttura del Web, chi
siamo noi per essere esentati da una prodezza del genere? Possibile
che le verità siano cosí acute, complesse, geniali, sofisticate da
non permettere quella aerodinamicità? Perfino Cartesio, ai suoi
tempi, quando c’era da sganciare un libro che avrebbe cambiato il
cammino del pensiero umano (Il
discorso sul metodo), lo scrisse
corto, in francese (la lingua degli eruditi era il latino) e lo
iniziò raccontando le sue peripezie da giovane: cercava
aerodinamicità, nient’altro. E non c’era neanche il Game. Era il
’600, cazzo! Possibile che noi siamo cosí piú raffinati da sfuggire
a una regola che perfino lui aveva accettato?
Una volta, in una mia
rapida e inutile escursione nella vita politica, mi è accaduto di
assistere a questa scena. C’era un problema da risolvere, e c’erano
sul tavolo diverse soluzioni. Bisognava sceglierne una. Il politico
di turno [non era Renzi, rilassatevi] le guarda e chiede: Qual è
quella che riusciremmo a raccontare meglio? Badate bene: non chiede
quale potrebbe FUNZIONARE
meglio. Chiede: qual è quella che ha doti
aerodinamiche migliori, che porta in pancia uno storytelling
efficace, che è in grado di rotolare nel Game? In una frase del
genere potete riconoscere se volete un’odiosa forma di cinismo:
cosa me ne frega del bene del Paese, conta solo fare quello che mi
porta piú voti. Ma anche, se avete un attimo di pazienza, ci potete
vedere, magari mescolata al cinismo, un’intuizione che spesso noi
non abbiamo, estremamente acuta, a suo modo profetica: una volta
che ho individuato delle soluzioni che piú o meno mi piacciono e
quadrano con il mio sistema di valori, devo avere la freddezza di
scegliere non quella che sulla carta dà migliori risultati, ma
quella che la gente può capire, fare sua, metabolizzare, incarnare
e realizzare ogni mattina che esce di casa. Rinuncio alla soluzione
piú giusta se tanto non riesco a farla rotolare nel Game. Scelgo
l’imprecisione se mi assicura movimento. Sacrifico il cavallo, se
questo mi porta a raggiungere il centro della scacchiera. Perché
una soluzione perfetta che non riesco a spiegare alla gente è
destinata a fallire. Peggio: è destinata a perdere contro soluzioni
assai piú scadenti ma dotate di forte aerodinamicità: spesso sono
quelle scelte dai tuoi avversari.
Per inciso, è questo il
problema, oggi, della sinistra, nel mondo. Ammesso che abbia delle
soluzioni ai problemi della gente, non sa comunque formularle in
modo aerodinamico: sono tutte ferme, quindi morte. Non c’è una sola
convinzione di sinistra su temi come l’Europa, l’immigrazione, la
sicurezza o la giustizia sociale che abbia un minimo di
aerodinamicità. Che presunzione pazzesca. Gli altri, i populisti in
testa, sono invece bravissimi, nel design. Non sto qui a giudicare
se le loro siano soluzioni piú efficaci o disastrose: ma certo le
disegnano in un modo per cui sfrecciano nel Game che è un piacere.
E non è solo questione di tweet o di slogan facili:
l’aerodinamicità nasce altrove, molto prima. Ad esempio
nell’abbandonare il guscio del partito novecentesco e scegliersi
una forma piú leggera di struttura, piú adatta al Game. Oppure nel
capire che non si fa politica, nel Game, se non con un leader che
riassuma in sé, anche in modo molto forte, perfino drammatico,
tutta la complessità di una posizione politica, che deve sparire.
Spesso lo chiamiamo populismo, un design del genere: ma facciamo un
po’ di confusione. In realtà nasce dalla schermata iniziale
dell’iPhone, dalla prima pagina di Google, ecc. ecc.: la
complessità nascosta sotto, e sopra un’icona semplice da cliccare.
Un leader. Non è che per Obama fosse diverso: in lui l’intuizione
di questo schema mentale era folgorante. Tutti gli altri, Trump
compreso, hanno solo imparato. Ma la sinistra, per lo piú, non
gradisce quel design: non ha leader di talento, e quando li ha li
divora. Fai fatica, poi, a trovare una aerodinamicità decente
quando inizi a costruire in un modo cosí inadatto. Correre ai
ripari dopo, cercando un buon storytelling o ingaggiando bravi spin
doctor è abbastanza penoso. Le idee devono NASCERE aerodinamiche, o non
lo saranno mai.
Dov’ero rimasto? [C’è questa cosa, della
politica, che odio: ti distrae sempre dalle cose che sono veramente
importanti]. Ah, sí. L’aveva capito Cartesio, che una verità senza
movimento è inutile, e non siamo in grado di capirlo noi, allenati
come siamo dai device digitali? Improbabile. E infatti poi, nella
vita, lavoriamo costantemente su verità-veloci, siamo diventati
maestri di storytelling, usiamo la bassa densità del Game invece
che rifiutarla. Praticamente tutti sappiamo che è un sistema
pericoloso, che porta in sé la possibilità reale di costruire
efficaci Verità-veloci fondate sul quasi nulla, o su fatti
inventati. Ma stiamo imparando a controllare il fenomeno, stiamo
lavorando duro per inventare vaccini e antidoti. Praticamente tutti
ci rendiamo conto che abbiamo scelto un sistema molto instabile, e
che ci siamo costretti a vivere con verità friabili, sempre in
movimento, condannate a un terreno sdrucciolevole. Patiamo la cosa,
spesso, ma anche, in qualche modo, e in qualche parte istintiva
della nostra mente, ci ricordiamo che troppa saldezza delle verità
e fermezza dei fatti hanno generato un disastro da cui siamo
scappati: per cui non molliamo. Mollano ogni tanto i meno
attrezzati, o i troppo raffinati. Ma il corpo centrale del Game non
si ferma, e macina giorni alla luce di stelle comete che chiama
verità. Lo sa fare, riesce a farlo. Ancora lo farà, con
l’ostinazione ottusa e geniale che certi uccelli insegnano, nel
loro migrare verso una buona terra.