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Una decina di anni fa ho scritto un libro che
si intitolava I barbari. A quei tempi
accadeva a molte persone normali, e a quasi tutte quelle che
avevano studiato, di ritrovarsi a denunciare un fatto sconcertante:
alcuni dei gesti piú alti, belli e dotati di senso che gli umani
avessero messo a punto in secoli di applicazione stavano perdendo
ciò che avevano di piú prezioso, scivolando apparentemente verso un
fare disattento e semplicistico. Che si trattasse di mangiare,
studiare, divertirsi, viaggiare o scopare, cambiava poco: gli umani
sembravano aver disimparato a fare tutte quelle cose in bel modo,
con la dovuta attenzione e con la cura sapiente che avevano
imparato dai loro padri. Si sarebbe detto che preferissero tirarle
via velocemente e in modo superficiale.
Un particolare sconcerto
era dettato dalla quotidiana osservazione dei figli: li si scorgeva
preda di un’inspiegabile retromarcia genetica a causa della quale
invece che migliorare la specie sembravano con tutta evidenza
perpetrarne una misteriosa involuzione. Incapaci di concentrarsi,
dispersi in uno sterile multitasking, sempre attaccati a qualche
computer, vagavano sulla crosta delle cose senza scopo apparente
che non fosse quello di limitare l’eventualità di una pena. Nel
loro illeggibile andare per il mondo si intuiva l’annuncio di una
qualche crisi e si credeva di scorgere l’imminenza di una
apocalisse culturale.
Fu un periodo seccante.
L’esercizio dell’intelligenza parve per un attimo risolversi
completamente nell’abilità a denunciare il declino di questo e di
quello. Si passava il tempo a difendere cose che stavano franando.
Gente assennata poteva trovarsi a firmare, senza alcun senso del
ridicolo, manifesti in difesa delle vecchie latterie o del
congiuntivo. Ci si sentiva migliori ogni volta che si riusciva a
difendere qualcosa e a evitare che il vento del tempo lo portasse
via. Dall’obbligo del futuro, i piú si sentivano legittimamente
sollevati: c’era l’urgenza di salvare il passato.
Devo aggiungere che uno
straccio di spiegazione, a tutto quel franare di civiltà, si
credeva di averlo: la faccenda non era chiarissima, ma sicuramente
ci dovevano entrare la rivoluzione digitale (tutti quei computer) e
la globalizzazione (tutti quei mercanti). Nell’incubatrice di
quelle due forze irresistibili, era evidentemente maturata una
tipologia di umani di cui non si capivano le ambizioni, si ignorava
la lingua, non si condividevano i gusti e si deprecavano i
modi: barbari, per usare un termine che già altre volte, nella nostra
storia di dominatori del pianeta, ci era servito per riassumere la
diversità seccante di gente che non riuscivamo a capire né a
domare.
L’istinto era quello di
fermarli. Il pregiudizio, diffuso, quello che fossero dei
distruttori punto e basta.
Mah,
pensavo.
E infatti, poi, scrissi quel libro, e lo feci
per chiarire a me stesso e agli altri il fatto che con ogni
probabilità quella a cui stavamo assistendo non era un’invasione di
barbari che stavano spazzando via la nostra raffinata civiltà, ma
una mutazione che riguardava tutti e che avrebbe generato in tempi
brevi una civiltà nuova, in qualche modo migliore di quella in cui
eravamo cresciuti. Ero convinto che non si trattasse di
un’invasione rovinosa, ma di un’astuta mutazione. Una conversione
collettiva a nuove tecniche di sopravvivenza. Una virata strategica
geniale. Pensavo a quelle virate spettacolari a cui abbiamo dato
nomi come Umanesimo, Illuminismo, Romanticismo, ed ero convinto che
stavamo vivendo un analogo, formidabile, cambio di paradigma.
Stavamo facendo ruotare i nostri principî di centottanta gradi,
come avevamo fatto in quelle circostanze storiche poi diventate
memorabili. Non bisognava aver paura, sarebbe andato tutto bene.
Per quanto potesse parere sorprendente, avremmo presto trovato una
buona ragione per rinunciare serenamente alle vecchie latterie e,
al limite, al congiuntivo.
Non era sciocco
ottimismo, come piú volte ho cercato di spiegare: per me era
realismo puro e semplice. Quando la gente crede di intravedere il
degrado culturale in un sedicenne che non usa piú il congiuntivo,
senza però registrare che in compenso quel ragazzo ha visto trenta
volte i film che alla stessa età aveva visto suo padre, non sono io
l’ottimista, sono loro che sono distratti. Quando il radar degli
intellettuali inquadra la stupidità senza scampo del libro finito
primo in classifica e ne deduce una catastrofe culturale, io cerco
di attenermi ai fatti e quindi finisco per ricordarmi che chi ha
portato quel libro là sopra è un tipo di pubblico che, solo
sessanta anni prima, non solo non comprava libri ma era
analfabeta: il
passo in avanti è evidente. In un paesaggio del genere, non è
facile stabilire con chiarezza chi sta raccontando favole: se io,
col mio pignolo realismo, o loro, con quella poetica propensione al
fantasy catastrofista.
Mentre perdevamo tempo a
discuterne, altri umani, per lo piú dislocati in California, e per
lo piú appartenenti a un’élite abbastanza inappariscente, molto
pragmatica e dotata di un certo istinto al business, stavano
cambiando il mondo, e lo facevano TECNICAMENTE, senza spiegare
che progetto di umanità avessero in mente, e forse senza sapere
quali conseguenze tutto ciò avrebbe avuto sui nostri cervelli e i
nostri sentimenti. Sulle latterie e il congiuntivo non nutrivano
alcuna opinione: dalla difesa del passato, infatti, si sentivano
legittimamente sollevati. C’era l’urgenza di inventare il
futuro.
Mi è accaduto di
comprendere, poi, con inspiegabile ritardo, che il paradigma del
declino rappresenta per moltissimi umani uno scenario confortevole,
un campo da gioco gradito. Non parlo delle tragedie, né delle
catastrofi – che sono, al contrario, l’habitat preferito di certe
minoranze composte da gente insolitamente smart. Parlo di qualcosa
di piú sfumato: per quanto possa sembrare assurdo, siamo per lo piú
animali che depongono le uova là dove possono contare su
UN QUALCHE ELEGANTE E LENTO
DECLINO. D’altronde va considerato che
il piano inclinato di una moderata sventura sembra particolarmente
congeniale al tipo piú diffuso di intelligenza: quella capace di
sofferenza, ostinata nel passo, paziente piú che fantasiosa,
sostanzialmente conservativa. Poiché le riesce piú facile percepire
il mondo quando il mondo procede a un velocità misurata, lo
rallenta; poiché in generale le è piú congeniale il gioco di
difesa, dà il meglio in presenza di nemici e catastrofi incombenti;
poiché in generale non ha predisposizione per il gioco d’attacco,
teme il futuro.
Cosí, potendo, gli umani
tendono a evitare un’esposizione troppo prolungata al campo aperto
dell’invenzione, riportando le loro tribú, tutte le volte che
possono, alla partita piú adatta alle loro capacità, cioè la
salvaguardia della memoria. Al riparo delle cose da salvare, ci
riposiamo, deponiamo le uova, e alleviamo i tempi futuri,
rimandando piú possibile il prossimo attacco di fame che ci
spingerà fuori dalle tane.
In ogni caso alla fine ho deciso di scrivere
quel libro, e di fatto l’ho scritto, a puntate, su un quotidiano:
un modo che mi sembrava splendidamente barbaro. Pensavo di
intitolarlo La mutazione. Ma il
direttore del quotidiano – un genio, nel suo genere – stette a
lungo ad osservare quel titolo e poi disse semplicemente «No. È
molto meglio I barbari».
Alle volte ho un buon
carattere: lo intitolai I
barbari.
Aggiunsi un
sottotitolo: Saggio sulla
mutazione.
E via.
La prima cosa che successe, mi prese di
sorpresa: facevo un sacco di fatica a convincere la gente che non
era un libro CONTRO i barbari. Avevano
talmente voglia di sentirsi dire in modo convincente e brillante
che tutto stava franando e la colpa era di QUELLI LÀ, che appena vedevano quel titolo si
mettevano in una certa modalità mentale per cui, qualsiasi cosa
leggessero, leggevano che tutto stava franando e la colpa era di
QUELLI LÀ.
Giuro.
Avevo un bel ripetere
che i barbari, come spiegava il libro, non esistono, siamo noi,
tutti, che stiamo cambiando, e in modo spettacolare: venivano a
ringraziarmi perché avevo denunciato lo scempio che
QUELLI LÀ stavano perpetrando. Probabilmente avrei dovuto scegliere
come titolo Viva i
barbari, ma non è neanche detto che
sarebbe bastato. Se uno sta deponendo le sue uova bello tranquillo
nella tana delle sue cose da salvare, al riparo sotto la coltre
tiepida di un bel declino, non è che riesci facilmente a portarlo
via da lí. L’inerzia collettiva piegava verso la compiaciuta
denuncia di una qualche apocalisse in arrivo, destinata a soffocare
l’anima bella del mondo: e invertire il corso di quei pensieri era
tremendamente difficile, a volte impossibile.
Da allora è passata una
decina d’anni ed ecco che sono in grado di citare una cosa che nel
frattempo mi ha piuttosto rasserenato: la narrazione collettiva è
cambiata, la tribú è uscita dalle tane, e oggi sono rimasti in
pochi a spiegarsi quel che sta accadendo con la favola di alcuni
barbari che stanno mettendo a fuoco le nostre fortezze galvanizzati
da un manipolo di mercanti che mirano al bottino. Oggi la
maggioranza degli umani occidentali ha accettato il fatto che sta
vivendo una sorta di rivoluzione – sicuramente tecnologica, forse
mentale – che è destinata a cambiare quasi tutti i suoi gesti, e
probabilmente anche le sue priorità, e in definitiva l’idea stessa
di cosa debba essere l’esperienza. Forse ne teme le conseguenze,
forse la capisce poco, ma ha ormai pochi dubbi sul fatto che sia
una rivoluzione necessaria e irreversibile, e che sia stata
intrapresa nel tentativo di correggere degli errori che ci erano
costati cari. Cosí l’ha assunta come un compito, come una sfida.
Non di rado crede che ci condurrà a un mondo migliore. Al riparo,
sotto l’ombrello della narrazione del declino, stanno ancora in
molti, ma, come in una sorta di clessidra, tendono a scivolare uno
a uno nella strettoia delle loro paure e a raggiungere gli altri
dall’altra parte del tempo.
Cos’è successo, qualcuno
si chiederà, per farci cambiare idea in cosí pochi anni, e portarci
ad accettare l’idea di una rivoluzione su cui ci stiamo giocando
tutto?
Non ho una risposta
precisa, ma ho una breve lista di cose che vent’anni fa non
esistevano e adesso sí:
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WIKIPEDIA |
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SKYPE |
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YOUTUBE |
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SPOTIFY |
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NETFLIX |
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YOUPORN |
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AIRBNB |
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IPHONE |
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UBER |
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TINDER |
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TRIPADVISOR |
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Se non avete di meglio da fare, mettete una di
fianco a quelle a cui, ogni giorno, dedicate una parte non
insignificante del vostro tempo.
Tantine, eh? C’è da
chiedersi come diavolo facevamo a occupare le nostre giornate,
prima.
Facevamo puzzle delle
Alpi svizzere?
Questa lista insegna molte cose, ma una è
quella da registrare qui: in vent’anni la rivoluzione è andata ad
annidarsi nella normalità – nei gesti semplici, nella vita
quotidiana, nella nostra gestione di desideri e paure. A quel
livello di penetrazione, negarne l’esistenza è da idioti ma anche
presentarla come una metamorfosi imposta dall’alto e dalle forze
del male inizia a diventare piuttosto arduo. Di fatto, ci rendiamo
conto che nelle consuetudini piú elementari del nostro vivere
quotidiano ci muoviamo con mosse fisiche e mentali che solo
vent’anni fa avremmo a mala pena accettato in nuove generazioni di
cui non capivamo il senso e denunciavamo il degrado. Cosa è
successo? Siamo stati conquistati? Qualcuno ci ha imposto un
modello di vita che non ci appartiene?
Sarebbe scorretto
rispondere di sí. Qualcuno ce l’ha PROPOSTO, se mai, e noi ogni
giorno torniamo ad accettare quell’invito, imprimendo al nostro
stare al mondo una precisa torsione rispetto al passato: in virtú
di essa abbiamo acquisito una postura mentale che vent’anni fa
poteva ancora sembrarci grottesca, deforme e barbarica, e che ora
è, stando ai fatti, il nostro modo di stare comodi, vivi e
perfino eleganti nella corrente della vita quotidiana. L’impressione di
essere stati invasi si è dissolta, e ora prevale la sensazione di
esserci sporti al di là del mondo conosciuto, e di aver iniziato a
colonizzare zone di noi stessi che non avevamo mai esplorato e in
parte neanche ancora generato. L’idea di UN’UMANITÀ AUMENTATA ha
iniziato a farsi strada e l’idea di farne parte è risultata piú
avvincente di quanto paurosa non fosse, in partenza, l’eventualità
di esservi deportati. Cosí abbiamo finito per concederci a una
mutazione di cui per un certo tempo abbiamo apertamente negato
l’esistenza – abbiamo destinato la nostra intelligenza a usarla
piuttosto che a boicottarla. Annoto che la cosa ci ha portato, tra
l’altro, a considerare la chiusura delle vecchie latterie nulla piú
che un inevitabile effetto collaterale. In un tempo molto veloce ci
siamo messi ad aprire locali che sono citazioni di vecchie latterie: è il nostro modo di dire addio al passato,
metabolizzandolo.
Non si dica che non
siamo tipi geniali.
Dunque abbiamo messo a fuoco la faccenda, e
corretto alcuni svarioni della prima ora. Adesso sappiamo che è una
rivoluzione, e siamo disposti a credere che sia il frutto di una
creazione collettiva – addirittura di una RIVENDICAZIONE collettiva – e non una
degenerazione imprevista del sistema o il piano diabolico di
qualche genio del male. Stiamo vivendo un futuro che abbiamo
estorto al passato, che ci spetta, e che abbiamo fortemente voluto.
Questo mondo nuovo è il nostro – è nostra questa rivoluzione.
Bene.
Ora occorre concentrarsi
su un punto quanto meno interessante: È UN MONDO CHE NON SAPREMMO SPIEGARE, È UNA RIVOLUZIONE DI CUI
NON CONOSCIAMO CON PRECISIONE NÉ L’ORIGINE, NÉ LO
SCOPO.
Oddio, magari qualcuno
una sua idea ce l’ha. Ma nel complesso, quel che sappiamo della
mutazione che stiamo realizzando è davvero poco. I nostri gesti già
sono cambiati, con una velocità sconcertante, ma i pensieri
sembrano essere rimasti indietro nel compito di nominare quello che
creiamo a ogni istante. Non sono già piú uguali lo spazio e il
tempo, da un po’: sta succedendo la stessa cosa a luoghi mentali
che per lungo tempo abbiamo chiamato passato, anima, esperienza,
individuo, libertà. Tutto
e Nulla
hanno un significato che solo cinque anni fa
ci sarebbe sembrato inesatto, e quelle che per secoli abbiamo
chiamato opere d’arte sono rimaste senza nome. Sappiamo con
certezza che ci orienteremo con mappe che ancora non esistono,
avremo un’idea di bellezza che non sappiamo prevedere, e chiameremo
verità una rete di figure che in passato avremmo denunciato come
menzogne. Ci diciamo che tutto quello che sta accadendo ha
sicuramente un’origine e una meta, ma ignoriamo quali siano. Tra
secoli ci ricorderanno come i conquistadores di una terra
in cui noi oggi a stento saremmo in grado di trovare la via di
casa.
Non è
fantastico?
Lo è, io credo, e questa
è la ragione per cui sto scrivendo questo libro: mi attira andare
ad abitare per un po’ là dove la rivoluzione che stiamo facendo
sbianca, ammutolisce, si inabissa. Dove non capiamo i suoi
movimenti, dove nasconde il senso delle sue mosse, dove nega
l’accesso alle radici di quel che fa. Dove ci appare come una
frontiera misteriosa. Praterie sconfinate, non un camino che fuma,
all’orizzonte. Nessuna indicazione. Giusto il racconto di qualche
pioniere.
Non vorrei dare l’errata
sensazione che io abbia delle risposte e che sia qui per
spiegare.
Ma delle mappe le ho,
sí. Certo, fino a quando non mi metto in viaggio non posso sapere
se sono affidabili, precise, utili.
Scrivo questo libro, per
fare questo viaggio.
Per non perdermi troppo, userò una bussola che
non mi ha mai deluso: la paura. Segui le orme della paura e
troverai casa: quella tua e quella degli altri. In questo caso è
abbastanza facile perché di paure ce ne sono parecchie, in giro, e
alcune sono tutt’altro che sceme.
Ad esempio. Ce n’è una
che dice cosí: STIAMO ANDANDO AVANTI A
FARI SPENTI. È piuttosto vero. Non
sappiamo bene da cosa è nata questa rivoluzione e ancora meno quale
sia il suo scopo. Ne ignoriamo gli obiettivi e non saremmo in
grado, in effetti, di pronunciarne con decente precisione i valori
e i principî: sappiamo quelli dell’Illuminismo, per dire, e non i
nostri. Non con la stessa chiarezza. Cosí, se nostro figlio ci
chiede dove stiamo andando tendiamo a rifugiarci in risposte
evasive [«Dimmelo tu» è attualmente la migliore: si evince
l’urgenza che qualcuno scriva questo libro, al limite qualcuno che
non sono io].
UN’ALTRA SUONA
COSÍ: siamo sicuri che non sia una
rivoluzione tecnologica che, ciecamente, detta una metamorfosi
antropologica senza controllo? Abbiamo scelto degli strumenti, e ci
piacciono: ma qualcuno ha badato a calcolare, preventivamente, le
conseguenze che il loro uso avrà sul nostro modo di stare al mondo,
forse sulla nostra intelligenza, in casi estremi sulla nostra idea
del bene e del male? C’è un progetto di umanità dietro ai vari
Gates, Jobs, Bezos, Zuckerberg, Brin, Page, o ci sono solo
brillanti idee di business che producono, involontariamente, e un
po’ a casaccio, una certa, nuova umanità?
POI CE
N’È
UN’ALTRA
CHE MI PIACE PARTICOLARMENTE: stiamo
generando una civiltà molto brillante, perfino piacevole, ma che
non sembra in grado di reggere l’onda d’urto del reale. È una
civiltà festiva, ma il mondo e la Storia non lo sono: smantellare
la nostra capacità di pazienza, fatica, lentezza non finirà per
produrre generazioni incapaci di resistere ai rovesci della sorte o
anche solo alla violenza inevitabile di qualsiasi sorte? A furia di
allenare skill leggere – si inizia a pensare – stiamo perdendo la
forza muscolare necessaria al corpo a corpo col reale: da qui una
certa tendenza a sfumarlo, il reale, a evitarlo, a sostituirlo con
rappresentazioni leggere che ne adattano i contenuti rendendoli
compatibili con i nostri device e con il tipo di intelligenza che
si è sviluppata nelle loro logiche. Siamo sicuri che non sia una
tattica suicida?
ANCHE PIÚ SOTTILE È
UN’ALTRA
PAURA, piuttosto diffusa, e che non
saprei riassumere se non con queste parole qualunque: ogni giorno
che passa, gli umani stanno perdendo qualcosa della loro umanità,
preferendo una qualche artificialità piú performante e meno
fallibile. Quando possono delegano scelte e decisioni e opinioni a
macchine, algoritmi, statistiche, rank. Il risultato è un mondo su
cui si intravede sempre meno la mano del vasaio, per usare
un’espressione cara a Walter Benjamin: sembra uscito piú da un
processo industriale che da un gesto artigianale. È cosí che
vogliamo il mondo? Esatto, smerigliato e freddo?
PER NON PARLARE
DELL’INCUBO DELLA SUPERFICIALITÀ,
quello è micidiale. Questo ostinato sospetto che la percezione del
mondo dettata dalle nuove tecnologie si perda tutta una parte della
realtà, probabilmente la migliore: quella che pulsa sotto la
superficie delle cose, là dove solo un cammino paziente, faticoso e
raffinato può condurre. È un luogo per cui abbiamo coniato, in
passato, una parola poi divenuta totemica: PROFONDITÀ. Dava forma alla
convinzione che le cose avessero, seppure nascosto in luoghi quasi
inaccessibili, un senso. Indicava un luogo: come negare il fatto
che le nostre nuove tecniche di lettura del mondo sembrano fatte
apposta per rendere impossibile la discesa in quel luogo, e quasi
obbligatorio un veloce movimento inesausto sulla superficie delle
cose? Cosa sarà di un’umanità che non sa piú scendere alle radici
né risalire alle sorgenti? A cosa servirà la perizia con cui
saltella tra i rami e naviga seguendo la velocità della corrente?
Stiamo evaporando in un festivo nulla che sarà la nostra ultima
recita?
Erano anni che non
scrivevo cosí tanti punti interrogativi tutti in una
volta.
Quel che penso di quelle paure, e di paure
come quelle, ora lo scrivo qui: averle, oggi, non è da deficienti,
come in effetti alcune frange piú elitarie della rivoluzione
vorrebbero far credere, ma è il risultato di una somma di indizi
che sarebbe se mai deficiente ignorare. Ma anche:
▶ | dentro ognuna di quelle paure abbiamo cucito la definizione di una mossa che stiamo facendo, e grazie alla quale stiamo diventando migliori. Cosí, se fossimo capaci di rispondere a ciascuno di quei punti interrogativi, ci troveremmo nelle mani l’indice della nostra rivoluzione. Perché la mappa di ciò che stiamo combinando è disegnata nel rovescio delle nostre paure. In questo modo attraversiamo il confine verso una nuova civiltà, senza dare nell’occhio, nascondendo nel doppio fondo dei nostri dubbi la certezza clandestina di una qualche, geniale, Terra Promessa.◀ |
È un viaggio piuttosto
avvincente, tanto che non di rado mi è accaduto di attardarmi a
osservarlo, col risultato di rimanere indietro, e perdere il passo
di chi davvero lo sta compiendo. Da questa prospettiva strana, di
cartografo ritardatario e sapiente disinformato, continuo a
collezionare appunti e schizzi in cui azzardo nomi e luoghi. Sogno,
nei momenti di piú lucido ottimismo, la precisione di una mappa, e
il comporsi di ogni intuizione nella bellezza di un mappamondo.
Sono rari: non volendoli sprecare, mi è parso inevitabile scrivere
il libro che state leggendo – cosa che farò con tutta la cura di
cui sono capace.