Altri oltremondo
Quel che resta dell’arte
Come ho raccontato un po’ di pagine fa, a un certo punto mi son messo a studiare i social, e per farlo ho passato del tempo con due molto piú giovani di me, due che in quel mondo ci lavorano. Come ho ricordato, è parlando con loro che ho capito come quel grande affannarsi sui social non era sempre un penoso riflesso nervoso da dipendenza digitale: mi spiegarono in modo convincente che spesso era un modo di elaborare la realtà, di estorcerle quel che lei era avara a concedere, di condividerla con altri e quindi, in un certo senso, di farne un evento teatrale. Dunque bisognava stare attenti a liquidare quella massiccia slavina verso Facebook o Twitter come un fenomeno di rincitrullimento collettivo perché alte erano le possibilità che, al contrario, nascondesse un istinto quanto meno interessante: prolungare la creazione, grazie alle tecnologie digitali, in modo che la vita non si fermasse lí dove si fermava, ma si allungasse fino a dove le nostre ambizioni la aspettavano.
Forse non l’avevo mai pensata prima, quella cosa, o almeno, nessuno me l’aveva raccontata con la convinzione che avevano quei due. Non so, era come se mi si fosse aperta davanti una porticina e quindi, mentre loro cercavano di farmi capire la genialità delle GIF, me ne rimasi lí a far finta di sentire mentre in realtà stavo varcando quella piccola porta e vedendo dove diavolo mi portava.
Mi portò in un posto in cui c’era una domanda, piuttosto perfida: ma se è cosí, perché allora io odio stare sui social? Voglio dire, se è un modo di elaborare la realtà, di cercare la post-esperienza, e in definitiva di essere vivi, perché io non lo uso? Peggio ancora: io mi faccio fare i social da altri, giuro. Non truffo nessuno, non faccio finta di essere io, è una cosa trasparente, ma certo sono arrivato all’assurdo (come altri, peraltro) di pagare gente che porta la mia personalità nell’oltremondo. Ma perché? Ero lí, mentre i due parlavano, e stavo chiedendomi: Ma perché?
Perché sono maledettamente snob. Okay.
Perché sono nato nel 1958. Okay.
Perché ho un certo culto della privacy. Okay.
Ma con questo arriviamo a un venti per cento scarso della spiegazione, fidatevi. La vera ragione, ho scoperto in quel momento, mentre i due mi spiegavano il successo dei Meme, è un’altra, e quando mi è venuta in mente la trovai cosí istruttiva che mi sarei immediatamente alzato per andare di là a scrivere al piú presto quello che stavo capendo.
Va be’, c’erano quei due, e quindi in effetti non mi sono alzato lasciandoli lí. Mi piacerebbe essere uno che fa cose simili, ma in effetti no, non lo sono. Per cui quella sera non mi misi a scrivere quello che avevo capito. Ho accatastato tutto in un ripostiglio della mente aspettando un momento migliore.
Eccolo qua, il momento migliore.
Io non sto sui social perché di mestiere scrivo libri, faccio spettacoli, insegno, parlo, una volta ho perfino girato un film, piú volte ne ho scritti: un’enorme parte della mia vita è occupata dal gesto di elaborare la realtà e spedirla in raffinati oltremondo dove quello che io sono si disfa e si ricompone in oggetti che se ne vanno a galleggiare sulle correnti del dialogo collettivo. Da sempre vivo in un sistema di realtà a due forze motrici, solo usando un modello piú vecchio, lento e macchinoso di quello digitale. Quindi non posto foto su Facebook, faccio fatica a raccontare storie su Instagram, non sento l’urgenza di pronunciarmi con un tweet per la semplice ragione che non faccio altro che postare, raccontare e pronunciare me stesso da anni, praticamente ogni giorno, davanti a tutti, senza vergogna, usando app antiche e oltremondo che c’erano già prima dell’insurrezione digitale: romanzi, saggi, testi teatrali, sceneggiature, lezioni, articoli. Immagino che sia un privilegio, una forma di fortuna, ma comunque adesso il punto non è capire quanto culo ho io, il punto è capire che ALLORA LOLTREMONDO DIGITALE È SOLO LULTIMO DI UNA LUNGA SERIE DI OLTREMONDO, MOLTI DEI QUALI SONO ANCORA MASSICCIAMENTE ABITATI. Lo sapevo benissimo, anche prima, ma l’ho saputo VERAMENTE solo quando mi sono infilato in quella domanda sui social: qualsiasi oltremondo digitale, dall’ambiente di Facebook a Call of Duty, c’entra in qualche modo col gesto che per secoli abbiamo usato per scrivere libri, fabbricare storie, dipingere quadri, scolpire blocchi di pietra e comporre musica. Cosa cercavamo, facendolo? Cercavamo di completare la creazione duplicando il mondo e traducendolo in un linguaggio coniato da noi. Cercavamo un modo di mettere in rete quello che avevamo capito della vita, in una sorta di webing ante-litteram. Ottenevamo cosí di spalancare il tavolo da gioco spingendo il reale a girare in un sistema sanguigno a due cuori: mondo e oltremondo. Piú volte, e neanche poi cosí a torto, abbiamo finito addirittura per pensare che la verità piú segreta del mondo dimorasse negli oltremondo che eravamo noi a generare. «La vera vita, la vita finalmente scoperta e tratta alla luce, la sola vita realmente vissuta, è la letteratura»: Proust. Ma non è che un esempio tra i tanti. Sono millenni che crediamo nella misteriosa prossimità di bellezza e verità, di arte e senso della vita. È una delle nostre illusioni piú preziose.
Riassumo: come suggerisce in modo microscopico ma significativo la mia allergia per i social, dovuta a una overdose di presenza nei vecchi oltremondo in cui lavoro, ci dev’essere una qualche continuità logica tra gli oltremondo che per lungo tempo abbiamo chiamato ARTE e quello che possiamo chiamare oltremondo digitale. Diciamo che probabilmente sono il frutto dello stesso movimento mentale, della stessa mossa strategica: fare copie del mondo scritte in linguaggi coniati da noi. Adesso si tratterebbe di capire cosa è successo nel passaggio dagli oltremondo tradizionali a quello digitale, e qui la storia si fa decisamente interessante perché in quel passaggio sono iscritti in modo molto leggibile alcuni dei tratti piú discutibili del Game. Insomma vale la pena di girarci un po’ intorno.
Proviamoci.
Come abbiamo fatto con Space Invaders, si tratta di tornare a studiare bene i giochi che c’erano prima. Quindi torniamo a tre oltremondo che hanno avuto in passato un enorme successo: il teatro, i quadri, i romanzi. Erano copie del mondo scritte in linguaggi generati dall’uomo: in quel formato, il mondo si dava piú accessibile, piú comprensibile, piú comunicabile, piú utilizzabile, forse addirittura piú vero. Non si chiamava formato digitale, e nemmeno analogico. Si chiamava ARTE.
Il teatro, i quadri, i romanzi. Proviamo a guardarli come se nel frattempo fossero estinti, scomparsi insieme alla civiltà che li usava, spariti dai bar come i flipper. Proviamo a guardarli come in lontananza, dalle alture del Game. Tecnicamente avevano, per cosí dire, un design comune che un millennial potrebbe capire cosí:
Lo schermo era il palcoscenico, o la cornice, o la pagina del libro (ogni volta diverso? Ma è pratico?)
La tastiera non esisteva (incredibile: cioè io dovrei stare fermo a guardare senza fare nulla fino a quando quelli non hanno finito???)
I contenuti erano prodotti da persone che facevano quello nella vita e avevano un’abilità particolare: dei sacerdoti. D’altronde l’adesione a quegli oltremondo assumeva spesso tratti che venivano dalla prassi religiosa: templi, riti, liturgie, testi sacri, martiri, santi, esegeti. (Ohggesú…)
Si aprivano di rado e uno per uno: andavi a teatro e vedevi uno spettacolo; aprivi un libro e leggevi un romanzo. Erano quindi oltremondo che si srotolavano lentamente, per sovrapposizione di esperienze vissute una per volta e spesso con grande distanza temporale una dall’altra. Erano d’altronde fisicamente in posti diversi. Il teatro in piazza, il quadro in casa (in epoca tarda nei musei), il libro in mano. (Ma quanto tempo avevano? Cioè, non avevano proprio nulla da fare?)
Erano oltremondo riservati a pochi, anzi a pochissimi. Ancora alla fine del ’900, prevedevano comunque una certa disponibilità di soldi, di tempo e di educazione: tanto che, spesso, venivano usati proprio come esercizio di identità di certe élite: un gesto per confermare l’appartenenza a un particolare club. (Ah, complimenti…)
Erano oltremondo in cui non entravi senza una certa fatica, o applicazione, o addirittura in alcuni casi con degli studi veri e propri. Non sempre erano nati cosí, ma l’ultima civiltà che li ha adottati, quella romantica e poi novecentesca, aveva quella piramide rovesciata da rispettare e dunque aveva la tendenza a tradurre tutto quello che valeva la pena in un abissarsi laborioso sotto la pelle del mondo. Gli oltremondo che chiamavano arte non facevano eccezione. (Cioè, dovrei studiare? Ma siete pazzi?)
Fine.
Riassumo: erano oltremondo cari, riservati a pochi privilegiati, lenti nello srotolarsi, macchinosi nell’aprirsi, difficili da raggiungere, inesorabilmente legati al talento di alcuni sacerdoti, quasi mai interattivi, di rado comunicanti uno con l’altro. Un vero millennial probabilmente sintetizzerebbe cosí: chiaramente non funzionavano. O avevano problemi di batteria.
Infatti, lui fa largo uso di altri oltremondo, costruiti meglio: ci entra quando vuole e facilmente, gli costano poco o nulla, sono modificabili o addirittura generabili da lui tramite una tastiera o una consolle, li raggiunge tutti attraverso un unico strumento che si può portare in giro, comunicano quasi tutti uno con l’altro, li può condividere con persone che possono anche essere a mille chilometri di distanza, e non prevedono dei sacerdoti che sappiano fare quello che lui non sa fare (se si escludono i programmatori, certo, che però stanno nell’ombra e non disturbano). Capite che, se l’habitat logico-mentale e filosofico in cui viviamo è quello del Game, sono queste le caratteristiche di un oltremondo che funziona. Viene da chiedersi come i vecchi oltremondo siano sopravvissuti.
Infatti proviamo a chiedercelo. Si tratterebbe di capire cosa è successo ai vecchi oltremondo quando il Game è dilagato dalle loro parti, ingoiandosi il loro quartiere come tanti altri: sono finiti sott’acqua, hanno resistito, hanno resistito solo i piú forti, si sono adattati al nuovo habitat, li ha salvati l’intervento dei vigili del fuoco?
Rispondere è difficile, ma è possibile isolare, in quell’immane impatto, singoli fenomeni che riusciamo a circoscrivere e capire.
1.
Una cosa che è successa è che si sono formate delle zone di confine, per cosí dire bilingue, in cui i vecchi oltremondo e i nuovi convivono insieme: gli e-book, Netflix e i suoi film da vedersi a casa, i concerti di Benedetti Michelangeli su Spotify, lo streaming di eventi teatrali, le visite virtuali ai musei: zone di confine. Spesso nell’intreccio si perde di qualità, ovvio, ma si guadagna un sacco di altra roba. Assistere a un concerto dei Wiener al Musikverein non è la stessa cosa che vederlo on line, ma per la maggior parte degli umani si tratta di scegliere tra il niente e qualcosa di non male: non è una scelta difficile.
Dunque, zone di confine. Strategicamente potevano sembrare un rischio per i vecchi oltremondo: il pericolo era quello che proprio smilitarizzando quelle zone del fronte, e abbassando le difese verso il Game, ci si esponesse a un’invasione catastrofica. Per dire, gli e-book potevano fare fuori i libri cartacei. Ma in realtà, come ormai si è capito, l’invenzione di quelle regioni cuscinetto si è dimostrata perfetta per raffreddare gli animi. Al Musikverein di Vienna i concerti continuano a farli, si fa fatica a trovare un posto e non hanno perso proprio nulla della qualità di un tempo, anzi, probabile che nel Game abbiano trovato stimoli, strumenti e spinte per fare meglio. Analogamente continuiamo a scrivere bei romanzi, alla Scala continuano a cantare da dio, si fa la fila per vedere Madonne del ’400 e i cinema non sono ancora spariti.
2.
Anche grazie a quelle zone di confine bilingue, un bel numero di abitanti del Game ha finito per accedere a oltremondi in cui non aveva mai messo piede. In teoria erano anni che la politica statale inseguiva un risultato del genere, nel pio intento di spezzare gli steccati che riservavano quei raffinati oltremondo a gente che se li poteva permettere, culturalmente ed economicamente. Ma i risultati erano stati piuttosto modesti. A modo suo il Game si è dimostrato molto piú efficace: allargando tutte le porte, ha allargato anche quelle dei teatri, dei musei, delle librerie. Una quantità significativa di facce nuove ha iniziato a girare in posti dove non si erano mai fatte vedere. Va detto che spesso non entravano chiedendo permesso e in modo remissivo: entravano e basta, facendo pesare i loro numeri e dilagare i loro gusti. Poiché venivano in genere da culture altre, o addirittura da nessuna cultura, gli organismi raffinatissimi che erano i vecchi oltremondo hanno iniziato a subire un processo chimico di contaminazione, talvolta di avvelenamento: alcuni sono entrati in sofferenza (i concerti di musica da camera, per dire), altri hanno sviluppato velocemente formidabili anticorpi, pervenendo a un upgrade genetico capace di renderli compatibili al Game (i film d’animazione, per dire). Difficile, alla fine, fare un bilancio: ma certo quelli che erano dei parchi naturali dove tutto era tramandato con misura e maniacalmente protetto, si sono ritrovati ad accogliere folle di visitatori venuti ad ammirare il paesaggio. Finalmente tutta quella bellezza diventava un patrimonio diffuso: ma certo che l’incremento delle cartacce lasciate in giro è stato seccante.
3.
Nel frattempo qualche vecchio oltremondo ha iniziato a figliare organismi piú adatti a sopravvivere nel Game: il passaggio dal cinema alle serie tv è l’esempio piú chiaro. È un passaggio generazionale: le serie tv sono una sorta di cinema nativo digitale: un animale nuovo, geneticamente compatibile al Game. Intanto non bisogna uscire per vederle. Poi le si vede quando si vuole e come si vuole, per lo piú usando un device che può fare mille altre cose (una sala cinematografica ne fa una sola). A livello mentale, la serie è un movimento (tipico da Game), un film è un gesto (tipico da ’900). La serie non si chiude, non ha finale, ha il baricentro all’inizio e non alla fine, esattamente come la post-esperienza. Inoltre ha chiaramente la struttura di un videogame, quella che ci siamo annotati ai tempi in cui studiavamo l’iPhone. Insomma, tutto perfetto. Tanto perfetto da rendere non illogico temere per le sorti del cinema: non sarebbe la prima volta che un figlio, per crescere, ammazza il padre.
4.
Un’altra caratteristica che sulla carta rende i vecchi oltremondo inadatti al Game è il fatto che siano per lo piú legati alla figura quasi sacerdotale dell’artista. Il creativo, l’autore, il genio, quella cosa lí. Il Game, come sappiamo, tollera poco i sacerdoti, polverizza il potere redistribuendolo a pioggia, e alleva milioni di individualisti che sono praticamente invitati a diventare degli autori. Lo vedete il problemino? Prendiamo la scrittura, che è un campo che conosco meglio di altri. C’è stato un momento che ricordo molto bene: si moltiplicavano i blog, nasceva il selfpublishing, l’e-book sembrava un prodotto alla portata di tutti, i social e la rete producevano scriventi che erano a un pelo dal considerarsi scrittori, e la crisi di autorevolezza delle élite si stava trascinando dietro il carisma di librerie, critici e case editrici. Alla fine ti guardavi attorno e potevi anche pensare: qui crolla tutto. Be’, ho una notizia curiosa: siamo ancora qui. Il campo da gioco si è fatto piú difficile, certo, ma quello dei libri è ancora un mondo in cui l’eccezionalità di alcuni singoli è riconosciuta, coltivata, supportata e amata. È un mondo in cui c’è molto piú traffico di una volta, molta piú vitalità, ci son un sacco di cartacce, la mediocrità sfreccia in corsie che non c’erano mai state prima, spesso è un vero casino, ma gli scrittori veri sono ancora lí, vivono in determinati quartieri (e non sono i peggiori), sono liberi di scrivere libri belli e libri brutti, dipende solo da loro. Potremmo dire lo stesso della musica, o del cinema, o del teatro? Forse a rispondere dovrebbero essere altri, ma ho il sospetto che alla fine anche lí la situazione non sia poi cosí diversa. La riassumerei cosí: per ragioni che per adesso mi sono precluse, gli artisti non sono stati fatti fuori, e pur essendo un’élite ancora piú esclusiva e arrogante di altre, sono considerati un bene comune. Qualunque deficiente li può insultare comodamente con un post nei social o in rete. Ma nel complesso il Game ama aver bisogno di loro.
5.
Gli oltremondo si sono moltiplicati e adesso tocca sgomitare per farsi scegliere. Mi permetto di ritornare ancora una volta sul mio mestiere: tanto tempo fa potevi pensare che il tuo competitor fosse un altro scrittore; poi il tuo competitor è diventato il cinema; poi la televisione. Adesso neanche ci fai piú caso, a quanti competitor hai, tu con il tuo oltremondo vecchia maniera: sono ovunque. Perfino Zuckerberg è un mio competitor, anche se lui probabilmente non lo ammetterebbe. [E io sono ancora fortunato: aprire un libro è perfino piú veloce che accendere i device in cui Zuckerberg vende la sua merce. Ma quelli ad esempio che fanno teatro? Devi uscire da casa, per andare a teatro! Devi parcheggiare!] La cosa spinge ovviamente a performare in modo estremo. Se hai molta concorrenza ti ritrovi a strillare, o a strafare, o a svendere. L’effetto è quello di una civiltà in cui il volume sta di due tacche troppo alto. È uno dei tratti fastidiosi del Game. Sembra una civiltà di sordi. O babbei. O dopati. Con tutto che non lo è, credo.
Ecco. Ce ne saranno anche altre, ma queste sono cose che abbiamo visto accadere nell’impatto tra i vecchi oltremondo e il Game. Su queste sono sicuro, sono veramente accadute. Disegnano uno scenario chiaro, coerente, leggibile? Mica tanto. Si intravedono alcune dinamiche, ma bisognerebbe studiare a lungo per prevederne gli sviluppi e capirne la natura. Per quanto mi riguarda, mi sento di poter dire due sole cose che, distintamente, leggo in quello scenario. Su di loro, non coltivo alcun dubbio.
1.
I vecchi oltremondo hanno dimostrato una resistenza coriacea, al di là di qualsiasi aspettativa. Benché in teoria siano completamente inadatti al Game, tuttavia lo abitano stabilmente, e mica tanto in periferia. Una cosa che potremmo dire è che si è combattuto duramente per loro: moltissime risorse collettive sono state convogliate a irrobustire le loro linee di difesa. Ma la sensazione è che comunque non sarebbe bastato a salvarli se il Game non avesse avuto, di suo, delle buone ragioni per adottarli invece che distruggerli. La principale buona ragione, credo, è che i vecchi oltremondo assicurano agli abitanti del Game la trasmissione della memoria, cosí come i riti religiosi conservavano, nei popoli perseguitati ed esuli, il ricordo vivo della patria perduta. Benché il Game sia ormai una città stabile e trionfale, resta comunque una città fondata da gente che veniva da una fuga e da un esilio. I vecchi oltremondo assicurano la continuità tra la realtà di oggi e i sogni di ieri, tra il benessere di oggi e l’audacia di ieri, tra l’intelligenza di oggi e il sapere di ieri, tra la patria di oggi e quella di ieri. In certo modo danno un passato a una civiltà che non lo ha. La cosa è tanto piú preziosa se ci si ricorda che il trionfo del Game riposa su quello che molti continuano a percepire come un peccato originale: la decisione di mettere la vita della gente nelle mani delle macchine. Per una civiltà del genere, poter dimostrare di discendere direttamente da umani che erano integralmente umani è un punto irrinunciabile. Diversi alberi genealogici sono stati mantenuti in vita proprio perché capaci di dimostrare quella discendenza, e uno dei principali è quello rappresentato dai vecchi oltremondo. Non ci perderemo mai veramente fino a quando terremo dei libri in mano. Non tanto per quello che raccontano. No. Per come sono fatti. Non hanno link. Sono lenti. Sono silenziosi. Sono lineari, procedono da sinistra a destra, dall’alto in basso. Non danno un punteggio. Iniziano e finiscono. Finché sapremo usarli, saremo umani ancora. Per questo il Game li mette in mano ai bambini. Cioè: aspetta che posino la Play Station, e glieli mette in mano, ecco.
2.
I vecchi oltremondo sono sopravvissuti abbastanza bene, ma la stessa cosa non si può dire delle élite che ne avevano il controllo. Si sono salvati gli autori – che restano animali selvatici, pronti ad adattarsi a qualsiasi ecosistema – ma tutta la filiera di intelligenze e competenze che stava intorno a loro si è dimostrata cosí inadatta al Game da scivolare inesorabilmente in zone vagamente crepuscolari. Sarebbe facile citare la critica (letteraria, musicale, teatrale, cinematografica, vale tutto), ma in realtà è un fenomeno che riguarda, in identica misura, la classe dirigente dell’industria culturale o le autorità accademiche che ne custodiscono il sapere e la memoria. Avevano una centralità, nel ’900, ma non l’hanno piú, nel Game. Sulla questione si potrebbe invocare la piú generica battaglia del Game contro le élite e spiegarsi tutto con quella metodica aggressione. Ma non credo, francamente, che sia tutto lí. Credo che mentre i vecchi oltremondo entravano nel Game, la loro gente si è rifiutata di farlo. Cosí, oggi, la maggior parte delle cose preziose che chiamavamo ARTE vive nel Game senza reale protezione. Il patrimonio di sapere e intelligenza che per secoli l’aveva scortata giace troppo spesso immobile ai margini del sistema, non tradotto nella lingua del presente, incompatibile con le piú elementari abitudini della gente, troppo lento per muoversi nel Game, e quindi troppo statico per essere registrato dai radar del mondo. Una specie di orgoglioso fatalismo sembra impedirgli di mettersi in funzione, e un’inerzia desolante lo sta risucchiando nella dimenticanza. Fra un po’ non ci ricorderemo piú che esiste. Cosí, vive sono le opere, ma spesso muto il racconto che facciamo di loro. Assai desiderata è la bellezza lasciataci dai padri, ma quasi introvabile, a causa di mappe diventate illeggibili. Una singolare idea di protezione tiene il meraviglioso raccolto del passato sotto chiave, per evitare che qualcosa lo consumi. Cervellotici regolamenti vietano ai sacerdoti di fare miracoli, e sacche di fedeli ottusi tengono in ostaggio liturgie che non producono piú mistero. Tutt’intorno, aspetta il Game, con i suoi oltremondo appena nati, brillantissimi ma bambini. Gli farebbe comodo la sapienza antica dei vecchi oltremondo: purtroppo la procedura per averli non è scritta nella sua lingua.
Quanto pagheremo questa raffinata forma di stoltezza?