5.
Mahtab
La sua presenza possedeva un fulgore che rapiva i cuori e confondeva la mente ai sapienti… Avicenna aveva sentito dire che Mahtab era bella, ma la distanza fra realtà e sentito dire si rivelò enorme. Quando la vide entrare preceduta dal suo profumo ammaliante capì che “bella” era un aggettivo volgare, una definizione insufficiente, non arrivava a esprimere ciò che vedeva davanti a sé. Fu attraversato da un’idea sconcertante, il cui senso era che quella donna graziosa e leggiadra e dagli occhi magici non fosse di questo mondo. Aveva conosciuto innumerevoli belle donne. Alla corte dei governanti e nei palazzi dei ricchi aveva visto donne piacenti e brillanti, fra cui molte greche, persiane, turche, turcomanne, curde… fanciulle, adolescenti, sia nel fiore dell’età sia mature… schiave e principesse… Ma non aveva mai visto una donna la cui bellezza si avvicinasse a quella di Mahtab, nemmeno da lontano.
Avicenna fu talmente sorpreso quando Mahtab apparve in tutto il suo splendore da esserne quasi rapito, tuttavia riuscì a distogliere lo sguardo da lei e a dire con cuore tremante: «Salve, kheili khosh amadid, tafaddali ya banu…» Ossia: “Salve, sei la benvenuta, accomodati, signora…”, in persiano.
«Lei parla bene l’arabo, mio signore» disse Mahyar, che si alzò per chiudere la porta della stanza dall’interno e accendere una seconda fiaccola – come se la stanza avesse bisogno di altra luce, oltre quello splendore… Quando Mahtab lasciò cadere dalle spalle il velo nero e si tolse il turbante e la mantella, i suoi capelli ondulati di un intenso colore nocciola dorato fuso con nubi invernali le ricaddero sulle spalle. Come volute scintillanti di seta le ciocche scesero a incorniciarle il viso e il collo illuminandone il biancore, e le punte arrivarono a sfiorare il corpetto del vestito di un azzurro lucente, dai bordi ornati di merletto, simile a un chador. Era una mantella di seta aperta sul davanti, sotto il quale c’era un vestito aderente e seducente, e da sotto quest’ultimo traspariva il garbo delle mani, del lungo collo e del viso ammaliante come la mattina. Le sue ampie e lunghe sopracciglia disegnavano, anche da lontano due micidiali stiletti, mentre nei suoi occhi c’era quel luccichio che intenerisce chi guarda.
Nella testa di Avicenna i pensieri turbinavano rapidi, lacerati dalla tempesta che gli proveniva da dentro e dalla brezza che l’incantava dall’esterno… D’improvviso sprofondò in un assordante tumulto di interrogativi e sollecitazioni: la descrizione di questa bellezza avrebbe bisogno di vocaboli diversi da quelli conosciuti? Questa donna perfetta potrebbe forse avere inclinazione verso le altre donne? Chissà se mai s’interesserà ai miei capricci? E poi tu qui sei un detenuto… Lei non ha fatto niente e non è giusto da parte tua osservarla con questo cipiglio. Parla, di’ una cosa qualunque, interrompi questo silenzio, lei ti sta guardando, e anche suo fratello… Che cosa potrei dire? Se resto muto non udrò mai la sua voce… Manterrò il controllo. E dirò: «Tuo fratello mi ha riferito che vorresti avere chiarimenti su questioni che riguardano trattamenti medici e terapie. È così?»
«E a me ha riferito che tu, o Signore dei Medici, vorresti dettarmi il tuo libro, e quel che vuole il professore viene prima di quel che vuole l’allievo».
«Il tuo arabo è forbito, dove l’hai studiato?»
«Io e Mahyar abbiamo studiato aramaico e arabo da Aharun l’Ebreo, che vive a Shiraz».
«Il rabbino Aharun?»
«Sì, il Gaon36… Posso sedermi al tavolo accanto a te, così che tu non sia costretto ad alzare la voce mentre mi detti?»
«Certo, certo, accomodati. Ecco qua le penne, il calamaio e i fogli di carta… Ma aspetta. Ho detto a Mahyar della dettatura giorni fa, e in realtà nel frattempo ho terminato il libro. L’ho scritto tutto di mio pugno».
«Potrei vederlo, mio signore?»
«Sì… No, due giorni fa l’ho inviato a mio fratello ‘Ali che ieri è partito per Isfahan».
«E tutti questi fogli cosa sono, mio signore?»
«Appunti per i miei libri La guarigione e La regola».
«E non potresti dettarmi qualcuna delle loro sezioni? Mi piacerebbe avere questo onore».
«Prego… Cioè, ti ringrazio… Bene, ti detterò qualche parte del libro La regola della medicina. Poi parleremo delle domande che volevi farmi».
Sebbene la sua vita fosse stata piena di situazioni fastidiose e imbarazzanti, le volte in cui Avicenna si era sentito davvero a disagio erano state limitate, ed era sempre riuscito a mantenere il controllo. Avrebbe voluto che Mahtab distogliesse il suo sguardo da lui, così da potere osservarla, ma lei non lo fece. Quando palesò il suo desiderio di scrivere sotto la sua dettatura ne fu contento, proprio perché lei le stava vicino sul divano, molto vicina, eppure lontana…
Si spostò a sinistra liberandole una parte del tavolo, lei si sedette nell’angolo a destra poi si chinò col capo sui fogli e intingendo la penna nel calamaio disse: «Prego…»
Il suo profumo allietava lo spirito, la sua vicinanza portava gioia al cuore triste facendogli dimenticare le disgrazie, quelle passate e quelle venture. La presenza della bellezza è nota solo a chi vi si accosta: in essa si congiungono i sensi esteriori e interiori, l’immaginazione si sovrappone all’udito, alla vista e alla facoltà di pensare e cogliere l’universale, nonostante la sottigliezza e la raffinatezza della sensazione… Avicenna ricordò gli appunti del libro La guarigione che lui stesso aveva scritto di suo pugno, la sezione sulla teologia in cui diceva che le facoltà teoretiche dell’anima umana si fondano sull’astrazione delle immagini dalla loro materialità, fino ad annullare qualsiasi legame materiale. Con questo ragionamento si spiegano le questioni metafisiche, come l’ispirazione, la rivelazione, l’ispirazione divina, le visioni, i sogni e quella bellezza totale.
«Prego, mio signore…»
Quando Mahtab ripeté il suo invito a dare inizio alla dettatura, Avicenna si riscosse dal suo fantasticare in cieli lontani, quindi raccolse le briciole dei suoi pensieri e le disse che il libro intitolato La regola della medicina avrebbe riunito le regole universali e particolari in due sezioni, una teorica e una pratica. Avicenna guardò i suoi appunti e sembrò che gli si fosse presentata un’idea, quindi disse a Mahtab: «Nel terzo capitolo del libro ci sono paragrafi e articoli sulla medicina estetica, ti piacerebbe se te ne dettassi qualcuno?»
«Mi piacerebbe».
Con voce sommessa, come se parlasse a se stesso, Avicenna parlava e Mahtab scriveva: «Settima branca: sulla medicina estetica; include quattro articoli. Articolo primo: la salute dei capelli. Paragrafo sulla natura profonda dei capelli…»
Inaspettatamente Avicenna scoprì che i suoi pensieri scorrevano fluidi e le frasi si componevano armoniose e ininterrotte sulla sua lingua. Mahtab era intenta a scrivere e sul suo viso si avvicendavano fantasmi di sorrisi.
Avicenna continuò a dettare finché non apparve il barlume della luce del nuovo giorno. Nel frattempo Mahyar, sdraiatosi sul divano, si era ormai addormentato. La sorella lo svegliò perché dovevano andarsene, dopo aver detto ad Avicenna: «Mio signore, si avvicina l’alba e dobbiamo fermarci qui; tornerò domani dopo il tramonto e continueremo quel che abbiamo iniziato». Lui non fece in tempo a dirle: «Non c’è problema, ti aspetterò fin d’ora!», che lei incalzò: «Non avrei mai pensato che le idee potessero fluire dalla mente umana con quella energia. Sei veramente un raro esempio, mio signore».
Stava quasi per ringraziarla per quel complimento, ma lei gli lanciò uno sguardo ammaliante che gli fece dimenticare le parole. Mentre Mahtab si alzava per svegliare il fratello, Avicenna rimase muto e sorridente, con lo sguardo fisso.
Poco prima che lei scomparisse alla sua vista, Avicenna notò che il bianco lucente dei suoi grandi occhi si era appena velato di un leggero rossore che le dava ulteriore bellezza e fascino: la fatica aveva steso su di lei i segni della sonnolenza, che la rendevano ancor più attraente. Eppure si mantenne composto, perché il suo aspetto non mostrasse la passione che si nascondeva dentro di lui… Dopo che se ne fu andata, rimase seduto al suo posto, ammutolito. Poi si alzò per prendere la bottiglia del vino, se ne versò un bicchiere quindi tornò al divano per sorseggiarlo con calma. E riflettere.
Per un po’ rifletté sul suo libro, poi rifletté a lungo su Mahtab. Rimase fermo al suo posto, dentro di lui si mescolavano una letizia dimenticata e sentimenti contrastanti, la sensazione di riposo che riempie il cuore dell’amato quando ha nostalgia dell’amante. In quella condizione di felicità fu preso dal torpore, e senza spostarsi nel letto fece un lungo sonno. Si sentì molto rinfrancato quando chinò la testa sul cuscino dove si era seduta lei, impregnato del suo profumo che gli avvolse lo spirito fino ad accompagnarlo nel sonno, dove i sogni e le speranze cullano il sopore.
La mattina dopo Avicenna guardò quel che aveva scritto Mahtab e fu piacevolmente sorpreso dalla sua grafia precisa ed elegante, e dal fatto che i fogli erano privi di errori. Si mise a contemplare il flusso delle righe, finché a mezzogiorno non arrivò Mahyar che lo aiutò a preparare alcuni colliri e medicamenti per gli occhi. Il tempo passò lentamente prima che il sole tramontasse e sorgesse Mahtab con in viso un sorriso che ne aumentava il fulgore. Nel momento in cui lei entrò, Mahyar stava domandando ad Avicenna della confusione avvenuta nelle menti dei filosofi musulmani e arabi che avevano mischiato le opinioni di Aristotele e Platone. Avicenna sorrise, diversamente dal solito quando parlava di filosofia, dicendo che era una domanda interessante. A voce bassa e con molta grazia Mahtab disse, come se fosse un canto: «Sì, mio signore, è una domanda interessante e mio zio Abu al-Hasan al-Qadi diceva: “Abu ‘Ali è stato eccezionale perché ha estratto la dottrina di Aristotele dal miscuglio che avevano fatto prima, e non so come abbia fatto”».
«Al-Qadi è tuo zio?»
«Sì, mio signore, è il giudice di Shiraz, cugino del mio defunto padre. Ti menzionava spesso nelle sue lezioni, con parole d’elogio. Vi scrivevate».
«Naturalmente lo conosco, ma non ci siamo mai incontrati. Mi scrisse una volta alcune domande su particolari questioni di logica».
«Sì, mio signore» disse Mahyar inserendosi entusiasta nel dialogo. «Questa storia è famosa fra noi a Shiraz. Le interrogazioni di mio zio ti giunsero al tramonto e tu gli rispondesti in cinque pagine spedendo le risposte la mattina dopo, con lo stesso corriere che aveva recapitato le domande. Non dormisti un istante quella notte!»
Quei ricordi leggeri allietarono il cuore di Avicenna, il quale sorridendo disse che quel commerciante d’olio l’aveva informato che, secondo le istruzioni ricevute a Shiraz, doveva rimanere a Hamadhan finché non gli avesse consegnato la risposta, per cui non aveva voluto far perdere tempo a quel pover’uomo…
«Mio signore» disse Mahtab con una delicatezza disarmante, «era a Gorgan, non a Hamadhan».
«Giusto, me ne ero dimenticato. “E già stringemmo da prima un patto con Adamo, ma lui lo dimenticò e non trovammo in lui determinazione”37. E Dio il Supremo dice il vero».
«Tu sei la determinazione in persona, mio signore, altrimenti non saresti stato così determinato a portare a termine le tue missive…» disse Mahtab sorridendo, mentre già prendeva posto accanto al fratello come il giorno prima e intingeva la penna nel calamaio. Poi gli lesse le ultime due righe come per predisporlo e invitarlo a parlare, quindi Avicenna iniziò. Dopo un’ora Mahyar chiese loro il permesso di andare in camera sua; appena se ne fu andato la sorella chiuse la porta e tornò al suo posto, chinandosi nuovamente sui fogli con la penna in mano. I suoi lineamenti erano seri… strano come a volte bellezza e serietà s’incontrino.
Avicenna voleva che Mahtab gli rivolgesse lo sguardo, così invece di dettare le domandò: «Mi è stato detto che tu curi le donne. Che cosa hai scoperto durante le cure?»
«Mio signore» rispose lei con un sorriso, perché aveva capito che Avicenna voleva dialogare, «ho scoperto quello che hai scoperto tu quando curi gli uomini. Il fisico degli esseri umani e le malattie non sono molto differenti nel maschio e nella donna. Tranne che negli organi preposti alla riproduzione».
«Certo, Mahtab, ma il corpo degli uomini è più solido e robusto, mentre quello delle donne è più morbido perché sono necessariamente più deboli».
«Necessariamente… E quale sarebbe la necessità, mio signore? Il fisico dell’uomo potrebbe sopportare la presenza di due pulsazioni cardiache in un sol corpo come avviene nelle donne incinte? Non riuscirebbe, naturalmente. Lo stesso vale per alcune malattie alle quali il fisico delle donne resiste più di quanto non resista il fisico degli uomini».
«Per esempio quali?»
«Le donne sono meno soggette degli uomini all’artrosi».
«Sì, questo è giusto, è una delle affermazioni di Ibn Zakaria al-Razi».
«Mio signore, è un’affermazione della natura».
«Certo, hai ragione… Il tuo discorso è pregevole».
«Grazie. Continuiamo la dettatura?»
Avicenna si alzò e prese a misurare la stanza andando avanti e indietro, cominciando a dettare fluidamente il paragrafo sui mezzi per migliorare il colore della carnagione facendo affluire il sangue e gli umori verso la pelle per farne risplendere il colorito; Mahtab lo seguiva a malapena nella scrittura. Dopo un’ora lui si arrestò di colpo e le domandò se voleva riposarsi un poco.
«Se posso…» rispose lei con gentilezza. In quell’istante Avicenna provò imbarazzo e si vergognò di se stesso per esser stato brusco senza volerlo. Per nascondere la sua vergogna si mise a sistemare le carte, e Mahtab si alzò in piedi accanto a lui per aiutarlo. Il suo profumo era ammaliante. Mahtab si ritrovò fra le mani un foglio – sembrava la minuta di un breve proemio per il libro La regola – in cui era scritto: «Siano a Dio le lodi che merita per la Sua alta posizione e la Sua copiosa benevolenza. Il medico-pratico ‘Ali al-Hasan Avicenna dice: alcuni dei miei più sinceri fratelli mi han domandato di compilare un libro esaustivo sulla medicina…»
Dopo aver letto quelle frasi, Mahtab si voltò verso di lui ridendo di nascosto, e il bianco dei suoi denti illuminò il cuore di Avicenna, che le domandò il motivo di quel riso. Scuotendo la testa lei rispose: «Niente, niente…» Lui inclinò il capo verso di lei con uno sguardo di stupore, e con ostentata cortesia disse: «Dev’esserci di sicuro qualcosa che ti fa ridere».
«Ti arrabbieresti con me se te lo spiegassi, e non voglio che tu ti arrabbi».
«Non potrei mai arrabbiarmi con te, la rabbia non s’incontra con la tua bellezza. A proposito, la tua ottima scrittura di ieri mi ha reso felice. Ma a partire da domani sera ci riserveremo un’ora o due per approfondire le questioni che tu vorrai pormi. Non passeremo tutto il tempo nella dettatura».
«Grazie».
«Prego. E ora spiegami cos’è che ti fa ridere».
Mahtab cercò di essere il più delicata possibile e scelse le parole più garbate per comunicare al Grande Maestro che lui si era definito “medico-pratico” in segno di modestia. Eppure non era rinomato per la modestia, anzi era famoso per l’orgoglio, e la gente raccontava di lui svariati aneddoti che dimostravano la grande stima che aveva di se stesso, nonché la scarsa considerazione che aveva per gli altri…
«Aneddoti di che tipo?» domandò lui sorpreso.
Mahtab sorrise mentre, con voce a metà fra il sussurro e la melodia, spiegava: «Per esempio, quel che facesti all’esimio filosofo Miskawayh38 a Jurjaniyya: facesti rotolare una noce verso di lui e, sminuendo ironicamente la sua opera di etica, gli dicesti che l’ampiezza della sua conoscenza era pari alla superficie di quella noce. Non tenesti conto, Signore dei Medici, che Miskawayh aveva cinquant’anni più di te e che prima che tu prendessi in mano una penna lui aveva già scritto in arabo il suo bel libro La finezza dell’etica, e in persiano il Jawidan kharad, cioè “La sapienza eterna”. E poi non c’è niente di male nel fatto che le sue opere si limitino all’etica. Infatti lui ti rispose dicendo: “La tua condotta morale ha più bisogno di essere migliorata di quanto non ne abbia l’estensione della mia conoscenza”».
Diversamente dal solito, Avicenna rise a voce alta, e si rimise a sedere al suo posto prima di dire: «Piano, Mahtab, quel fatto avvenne durante un incontro pubblico, ma fu solo una scherzosa presa in giro perché lui stava dando poca importanza alla matematica. E come potevo io prendermi gioco di un sapiente come Miskawayh, che allora era mio professore e aveva già superato i settant’anni, se non gli ottanta… che Dio gli prolunghi la vita? Quanto alla scienza etica, o Mahtab, è una delle scienze più importanti, non potrei sminuirla. Anzi, proprio l’etica è stata argomento di un libro dal titolo L’innocenza e il peccato, che ho scritto quando avevo vent’anni».
«Sì, ho sentito parlare di quel libro: veniva citato a Shiraz, ma dicevano che era andato perduto».
«Ed è vero, purtroppo. L’avevo scritto a Bukhara e donato al giurista e mistico Abu Bakr al-Baraqi, insieme a un altro grande volume, Ciò che è disponibile e ciò che è valido. Lui conservò i due libri, ma non volle che nessuno li copiasse. Quando Mahmud il Ghaznavide si impadronì di Bukhara, il suo esercito attaccò e depredò la città distruggendo le biblioteche. In quel caos i due libri sono andati perduti».
Volendolo distogliere da quegli amari ricordi, con un sorriso lei gli domandò la ragione che l’aveva spinto a scrivere del “peccato” quando era ancora un ragazzo molto giovane… Avicenna fu colto di sorpresa da quella domanda, e tacque per qualche istante, facendo vagare lo sguardo come se vedesse un passato ormai trascorso, ma le cui tracce non erano svanite.
Mentre si alzava per congedarsi, visto che la notte si appressava a scomparire, Mahtab disse: «Di sicuro c’entra una donna, ma comunque non c’è problema. Arrivederci a domani sera».
Senza sapere perché lo stesse facendo, Avicenna si alzò e si avvicinò alla porta. Forse per far vedere a Mahtab che si alzava per salutarla e che quindi non era arrabbiato con lei. Forse perché voleva che lei gli passasse accanto avvolgendolo nel suo profumo che rallegrava lo spirito. Forse perché supponeva che lei l’avrebbe salutato con una stretta di mano prima di andarsene, e quindi avvicinandosi di più si sarebbe gettata nel suo abbraccio… Ma sapeva che lui era l’illustre e geniale dottore e che Mahtab non era una di quelle donne che si gettano fra le braccia di un uomo, nemmeno in quelle del Grande Maestro.
Quando Mahtab aprì la serratura della porta lui le era accanto, e lei con le dita della mano sinistra gli sfiorò delicatamente la spalla e gli disse con tono confidenziale: «Ci vediamo domani».
Grazie al suo istinto, Mahtab aveva già capito che l’attrazione di Avicenna nei suoi confronti era forte e aveva già raggiunto il massimo, ma il momento dell’unione non era ancora arrivato. E sarebbe potuto anche non arrivare mai. Non c’era motivo di affrettare i tempi, perché i frutti sono per lo più aspri quando vengono raccolti prima che siano maturi. Questo è quel che lesse nello sguardo di lei: qualcosa che gli fece sperare quel che non osava sperare, ma che lo costringeva ad avere pazienza.
La osservò affettuosamente mettersi la mantella nera sulle spalle e il velo sul capo e poi volgere gli occhi verso di lui con civetteria.
Essendo lui molto vicino alla porta, mentre lei usciva sfiorò il suo petto con la spalla destra, con un tocco leggero ma bruciante. Lui percepì che la donna era come una pietra focaia che all’attrito accende. E nel suo cuore si accese un fuoco dalla fiamma placida. Una volta che se ne fu andata si mise a guardar fisso le spesse pareti del castello che si frapponevano fra loro due, per mandare la fantasia oltre il muro, attraverso di esso, dentro la stanza dove lei era sdraiata nel suo letto. Con la forza dell’immaginazione quasi la vedeva con i suoi occhi, ne sentiva il respiro, la toccava. Chiuse gli occhi e tornò al suo letto per dormire, affidandosi ai sogni e alle aspirazioni.
Il giorno dopo, senza preavviso, Strillo bussò alla sua porta in tarda mattinata. Avicenna gli aprì e tornò a sedersi sul tappeto per terminare la sua preghiera. Strillo entrò con discrezione, in faccia un sorriso pallido, privo di allegria. La sua viscida presenza spazzò via la quiete che albergava dentro Avicenna. Quando lo guardò stranito con un muto interrogativo sul motivo della sua visita, Strillo gli sussurrò con voce sibilante: «Mio signore, il sultano Ibn al-Kakwayh avanza col suo esercito verso Hamadhan e le milizie di Hamadhan non potranno mai resistergli. S’impossesserà della città e della regione circostante e anche di questa fortezza. Se gli scrivessi una lettera per ricordargli di te e fargli sapere che sei detenuto qui, lui prenderebbe in mano la situazione. Sai bene, mio signore, che se Ibn al-Kakwayh inviasse qui venti, non di più, dei suoi più forti soldati insieme a una catapulta lanciafuoco, Mansur al-Muzdawaj gli consegnerebbe subito il castello. Non è fortificato e non è in grado di resistere a un attacco simile. Quindi ti lascerebbero uscire dalla tua prigione sano e salvo. Scrivigli, io mi farò carico di recapitare il tuo messaggio a modo mio. Non riferirò la cosa a nessuno. Non voglio da te una ricompensa, finché la tua situazione non si stabilizzerà nel palazzo di Ibn al-Kakwayh. Allora, al momento opportuno, ti ricorderai di me con benevolenza».
«Quello che mi suggerisci non mi riguarda, non scriverò nessuna lettera a nessuno. Ho promesso ad al-Muzdawaj che non l’avrei tradito e mi atterrò alla mia promessa».
«Nessun problema, signore, come desideri. Ma se cambiassi idea e volessi fare la cosa giusta, fammi un cenno riservato quando mi vedi. Verrò subito da te in segreto perché tu possa affidarmi il messaggio senza che occhi indiscreti ci vedano».
Dopo che Strillo se ne fu andato, Avicenna avvertì un fastidio e un’impazienza inattesi. Sperava che la giornata passasse in fretta per poter godere della compagnia serale della sua magica commensale. Si sedette in silenzio sulla soglia della stanza, disegnando sul pavimento tronchi di cono e cerchi con un legnetto, pensando a lungo ai moti delle volte celesti.
Mahyar arrivò nel primo pomeriggio per convocare i pazienti che avevano bisogno di un cambio di terapia medica, visto che il loro fisico non aveva reagito bene alle medicine che avevano assunto. In quel mentre passò al-Muzdawaj, e comunicò ad Avicenna con aria preoccupata che il Signore del Contado gli aveva chiesto informazioni sul momento più adatto per venire in visita. Sarebbe venuto con un ospite che voleva incontrare il Grande Maestro…
«Sono entrambi benvenuti in qualsiasi momento» disse Avicenna sorpreso, senza sapere ciò che da una manciata di giorni impensieriva al-Muzdawaj.
Una volta terminate le questioni terapeutiche, Mahyar si sedette di fronte ad Avicenna e gli annunciò che Mahtab quel giorno si era alzata molto presto e si era messa a scrivere le principali questioni che quella sera avrebbe sottoposto al Grande Maestro, suddividendole fra questioni di filosofia e richieste di spiegazioni mediche e terapeutiche. Poi sorridendo aggiunse: «Le ho chiesto se potevo essere presente a quelle discussioni, e lei mi ha risposto: “Chiedi il permesso al Signore dei Medici”».
«Permesso accordato, Mahyar, naturalmente».
«E mi daresti anche il permesso, di grazia, di leggere gli appunti del libro che le stai dettando?»
«Nessun impedimento, dopo che li avrò revisionati, durante la notte».
«Mio signore, non penso che questa notte Mahtab ti lascerà spazio per far altro… Sono tante le domande che ha scritto».
«Nessun problema, vedremo quel che sarà».
Quando il sole scomparve e ogni moto si fermò col calar delle tenebre, apparve la luce di Mahtab che entrò nel pieno del suo splendore, indossando quello che Avicenna ritenne il più sontuoso degli abiti, perché non ne aveva mai visto uno come quello. Nell’istante in cui lei entrò, Avicenna stava pensando a cosa scrivere sulla prima pagina del suo trattato sull’etica, dove diceva che la castità si trova al vertice dell’anima rispetto all’inclinazione verso le passioni. Ma quando scorse Mahtab, la sua mente fu attraversata dall’idea che l’uomo è debole, e che il suo cuore non può obbedire all’intelletto. Sotto il chador la donna indossava una veste di un giallo vivace, che metteva allegria a chi la guardava, profilata sui bordi delle maniche e della scollatura da ricami e delicati ornamenti tessuti in filo d’oro e nero. Quell’abito sottolineava ancor di più la sua bellezza, che non ne aveva certo bisogno. Dopo un attimo di abbaglio, Avicenna le rivolse la parola in tono scherzoso: «Tuo fratello ha spettegolato su di te e mi ha riferito che oggi hai scritto molte domande, classificandole fra le filosofiche e le mediche».
A quelle parole Mahtab diede col pugno della sua mano perfetta un colpetto sulla spalla del fratello, e con un leggero sorriso disse con la sua voce armoniosa, capace di sciogliere il cuore di chiunque l’ascoltasse: «Mio signore, ho messo in ordine i miei pensieri e i miei interrogativi, così come fai tu quando butti giù gli appunti per i tuoi libri e poi con calma li rimetti in bella copia».
Volendo farle capire al meglio quanto era interessato alle sue parole, Avicenna disse risoluto: «Ma prima di espormi le domande, parlami della tua intenzione di conciliare in un libro le opinioni di Ippocrate e Galeno, come mi ha riferito Mahyar…»
«Non ho scritto ancora niente» disse «e sarà forse un breve trattato, non un libro, perché a me non piace dilungarmi ed essere prolissa».
«Allora, senza dilungarti ed essere prolissa, raccontami cosa, secondo te, unisce le opinioni dei due grandi medici».
«Gli alessandrini…»
Avicenna, che stava seduto con la schiena appoggiata al muro, si mise ritto e si sedette a gambe incrociate nella posizione che era solito assumere in passato durante i seminari con Abu Sahl al-Masihi.
«Sii più precisa!» le disse.
Lei scoppiò a ridere con un’eleganza regale, angelica, prima di rispondere che gli illustri Ippocrate e Galeno avevano scritto degli appunti sparsi e slegati su diversi argomenti di medicina, e avevano lasciato molti scritti non sistematici. Nel tempo la situazione era rimasta la stessa, perciò la loro eredità sarebbe quasi andata perduta, non fosse stato per i medici alessandrini che si dedicarono a quei fondamenti sparpagliati e ne selezionarono dodici libri per Ippocrate e sedici per Galeno. Quindi, grazie all’opera degli alessandrini, i due medici furono riuniti e noi li abbiamo conosciuti secondo il modello alessandrino. Se lo sfortunato dottore Husain ibn Ishaq ci avesse tradotto i fondamenti dei libri lasciati da Ippocrate e Galeno, invece che le selezioni degli alessandrini, noi oggi avremmo delle opere ben diverse da quelle che conosciamo.
Avicenna la fissava con sguardo sorpreso, sbalordito. Quando lei rimase in silenzio per un instante, lui si riebbe e disse: «Quindi, ciò che verrebbe messo insieme sarebbe il testo dei due, e non le loro opinioni!»
Ma come per stupirlo ancor di più lei rispose di getto: «Mio signore, il significato etimologico della parola “opinione” è quello di “concetto espresso dall’osservatore dopo aver esaminato il cuore della questione”; nell’uso comune attuale, per la maggioranza e anche per gli scienziati, la parola “opinione” significa pensiero, convinzione, concetto, per questo diciamo “l’opinione del tale è che…” oppure “l’opinione dell’altro tale è…”, per dire quel che ha detto o ha scritto».
Avicenna rifletté a lungo sulle sue parole passando le dita sul bordo del bicchiere. I suoi occhi scintillavano più del solito, sembrava che stesse richiamando alla mente molte cose. Poi disse: «Il tuo discorso è giusto, sia la scuola degli alessandrini sia la traduzione araba hanno fatto una compilazione di quei libri come se fossero univoci e simmetrici. Io non ho visto i frammenti originali greci, però propendo ad accettare il tuo discorso sul fatto che fossero diversi da quel che possediamo oggi. Il lasso di tempo che separa Ippocrate e Galeno è piuttosto ampio, e la lingua cambia col passare del tempo. Inoltre ci sono fra i due delle differenze nel modo di vedere le cose: Ippocrate si interessava dell’osservazione clinica dei pazienti e delle esperienze pregresse nella farmacopea, mentre Galeno tendeva a filosofeggiare, a fare discorsi teorici sulle cause delle malattie e delle terapie. In base a ciò, è inverosimile che i due parlassero con lo stesso stile… Sei proprio brava, Mahtab, questo è certo…»
«Sono studiosa, mio signore».
«Ah ah ah, naturalmente… Studiosa e molto bella».
Avicenna avvertì quella gioia che provava ai tempi delle sue prime conversazioni scientifiche con Abu Sahl al-Masihi, e in quel momento ricordò la serenità delle serate trascorse a Jurjaniyya, impegnato in discussioni che dal tramonto si protraevano a volte fino all’alba. Quando Mahtab vide i segni del compiacimento sul volto di Avicenna, gli fece la domanda che aveva udito anni addietro dal giudice di Shiraz: come ha fatto Avicenna a districarsi dalla commistione fra Platone e Aristotele esistente nella filosofia islamica?
«Anche questa commistione è opera dei tuoi amici alessandrini» rispose lui, «Abu Nasr al-Farabi non se ne rese conto, per cui scrisse il libro intitolato La conciliazione fra le opinioni dei due filosofi, che tu volevi prendere a modello. Dopo aver ponderato bene ho visto che il libro della Teologia, erroneamente attribuito ad Aristù, e il Libro della mela, che si presume di Socrate, hanno avuto una grande influenza sul verificarsi di questa commistione. Quindi ho scartato queste due opere e ho estrapolato quel che diceva Aristù dai libri la cui attribuzione era consolidata e fuori di dubbio. Una volta stabilito questo, nella mia mente ho separato le sue parole da quelle del suo professore, Platone…»
«Immagino, mio signore» disse Mahtab, «che in questo ti sia avvalso degli scritti di Temistio e Alessandro di Afrodisia e dei loro commentari alle opere di Aristù…»
«Quando hai appreso tutte queste cose, e dove?» la interruppe Avicenna sorpreso.
«A Shiraz, quando ero un’adolescente…» rispose lei con una semplicità innocente e scaltra a un tempo. Mahyar s’inserì nel loro dialogo confermando che la sorella lasciava senza fiato i suoi professori di Shiraz per l’estro intuitivo e l’insaziabile voglia di acquisire scienza e conoscenza. Sorridendo e muovendo la punta delle dita nell’aria, Avicenna replicò: «È davvero sorprendente… E io che pensavo di essere l’unico ad aver lasciato senza fiato i propri professori…»
Nel profondo degli occhi di Mahtab apparve l’esultanza del trionfo. Tuttavia replicò alle parole di Avicenna con pacata compostezza: «Ma noi impariamo da te, o Signore dei Medici».
Avicenna si versò un bicchiere e bevve due rapidi sorsi, poi lanciò a Mahyar uno sguardo confuso e meravigliato per quel che aveva visto in sua sorella. Quindi riportò la sua attenzione su di lei, domandandole come mai si fosse rivolta a lui con l’appellativo di “Signore dei Medici”.
Lei tacque per un istante ed esitò prima di dire: «Perché in questo momento tu sei il signore dei medici!»
«E per quanto riguarda la filosofia e la logica?»
«Sarai il “signore dei filosofi e dei logici” quando scriverai la tua filosofia orientale e smetterai di reiterare le cose che ha detto Aristù. E spero che la mia sincerità non ti abbia irritato».
«No, questo non è il luogo né l’occasione per irritarsi. Ma questa è una faccenda complessa, necessita chiarimenti e spiegazioni».
«Mio signore, magari tu ci onorassi con tali chiarimenti…»
Naturalmente Avicenna esaudì il suo desiderio e si prodigò a spiegare la sua posizione, dicendo che la ragione del suo massimo interesse verso Aristotele era la logica, fin da quando da ragazzo si trovava a Bukhara e vedeva la gente dividersi, anzi, combattersi, per questioni di fanatismo dottrinario e religioso. «Come vediamo oggi» disse, «in ogni paese gli avventurieri, quelli che cercano il potere, i sanguinari, tutti questi traggono profitto dal settarismo e ne fomentano i punti di vista, agitandone la fiamma al servizio delle loro ambizioni. Sollevano le picche e sguainano le spade col pretesto di diffondere la “dottrina della verità”, ma ogni scuola sostiene di essere la dottrina della verità. Tutte le volte che cresce il fanatismo, il raziocinio che l’uomo dovrebbe coltivare per migliorare la situazione regredisce. Per questo non si può fare a meno di interessarsi alla logica, per far fronte al fanatismo, all’ignoranza e alla violenza. Aristù è il fondatore della logica. Ed è di questo che la gente ha bisogno in questa nostra epoca contrastata e incendiata. Quanto alla filosofia orientale, avendo a che fare con argomenti spirituali, è una questione riservata ai sapienti, non alle masse…» Tacque per un istante, per poi chiarire meglio aggiungendo che non aveva trascurato la filosofia orientale in generale, anzi aveva scritto sull’argomento alcune epistole e racconti allegorici, e forse avrebbe scritto un grande libro intitolato Le indicazioni e gli avvertimenti.
Mahyar, che al pari del suo primo professore Abu al-Rayhan non era incline alla filosofia, reclinò il capo sulla spalla sinistra combattendo con il sonno. Avicenna invitò Mahtab a sedergli accanto sul divano per lasciare al fratello l’altro divano dove potesse stendersi a dormire e riposarsi… e poi, sedendogli accanto, avrebbe dato ristoro anche a lui…
«Mahyar… Mahyar…» Mahtab svegliò il fratello dal suo breve assopimento. Lui si riebbe e aprì i suoi occhi arrossati come colto di soprassalto, quindi disse ad Avicenna: «Perdonami, mio signore, non ho la forza di star sveglio come ce l’avete voi, così come non mi appassionano i discorsi sulla filosofia. Ti chiedo il permesso di andare nella mia stanza. Permetterai a Mahtab di portarmi gli appunti del libro La regola? Te li restituirò domani mattina».
«Prendili con te ora, questa notte non li guarderò».
Mahyar se ne andò con i fogli e Mahtab chiuse la porta dietro di lui, ma invece di tornare al suo posto si sedette all’estremità dello stesso divano, come sperava Avicenna. Da quella posizione più prossima gli disse: «Continua il tuo discorso, mio signore, anzi, dilungati! Quando ragioni diventi più bello e splendente».
Avicenna non aveva previsto che lei si comportasse in modo così compiacente, con quelle sue maniere ammalianti e quello sguardo che rendeva vano ogni tentativo di darsi un contegno, ma si sforzò di non mostrare la sua felicità versando un bicchiere di vino, che poi spinse con la mano verso Mahtab. Lei sorrise e gli lanciò uno sguardo di blando rimprovero, informandolo che lei non beveva alcolici…
«Questo è passito, e molti ritengono lecito berlo… E poi solo un poco ritempra, non fa ubriacare»39.
Lei rise con una delicatezza simile a un volo di farfalla e disse: «Però molti dicono che quello che in gran quantità fa ubriacare, in piccole quantità è proibito. Ma lasciando da parte questi e quelli, a me non piace l’ebbrezza né ciò che la provoca».
Avicenna assunse una posa da professore, e in tono composto, come se stesse impartendo una lezione, disse: «Naturalmente, l’ebbrezza frequente è molto dannosa, perché deteriora l’umore del fegato e del cervello, indebolisce i nervi e causa apoplessia e morte improvvisa. Però alcuni pensano che l’ebbrezza, nella frequenza di una o due volte al mese, sia utile e sciolga le scorie, in particolare le scorie delle viscere. Però il danno provocato dal bere sta nel cervello, e per non indebolire il cervello bisogna bere solo un poco, mischiandolo con acqua. Tu hai cervello forte, una bevanda aromatica come questa, che manda via le preoccupazioni e attira ilarità e colorito sano, non produrrà in esso alcuna reazione».
«Tu mi tenti… Va bene, versami mezzo bicchiere. Ma per me è importante che completi il tuo discorso, più importante di tutte le bevande inebrianti».
«Ah, sei molto intelligente! Non penso che fra le donne ce ne sia una come te!»
«Ma, mio signore, per quante donne tu abbia conosciuto, non le conosci tutte».
Avicenna non volle soffermarsi su quell’ultima frase, quindi troncò il discorso offrendole il mezzo bicchiere che aveva chiesto. Mentre glielo porgeva disse che suo fratello gli aveva riferito che lei amava molto gli scritti di Abu al-Rayhan al-Biruni e che seguiva le notizie su di lui. Lei confermò annuendo e lo ribadì anche a parole: «Naturalmente, lui è il Professore…»
Avicenna si irritò per quell’entusiasmo e per lo scintillio dei suoi occhi al sentire il nome del suo vecchio compagno, ma si sforzò di non rivelare quel che aveva dentro. Fissando il fondo del bicchiere e contemplando serenamente il colore della bevanda, le chiese: «Perché non sei andata da lui per essere sua allieva, come ha fatto tuo fratello?»
«E da quando questo sarebbe permesso alle donne?» replicò lei. «Io aspiravo a qualcos’altro, cioè che Mahyar lo convincesse a lasciare Jurjaniyya per un posto più sicuro, come il Contado, dove sarebbe stato più facile per me incontrarlo. Ma le cose sono successe troppo in fretta: il Ghaznavide l’ha imprigionato e l’ha spedito in Khorasan. Poi l’ha portato in India, con tutti quegli spargimenti di sangue. E quella era una situazione che io non avrei potuto sopportare».
«Vale a dire che se fosse andato a Shiraz o si fosse rifugiato nel Contado, tu saresti corsa da lui?»
«Certamente, l’avrei seguito per imparare da lui e l’avrei servito affinché fosse contento di restare vicino a me e non pensasse più a ripartire».
«E se lui ti avesse voluto in moglie, tu avresti dato il tuo consenso?»
«Può darsi».
«Ma come? Tu sei una ragazza giovane, e lui un vecchio!»
«Non sono più tanto giovane, fra un mese compirò ventotto anni… Ci sono donne che a quest’età sono nonne. E poi lui non è vecchio, ha appena cinquant’anni, e le donne dicono: il cinquantenne può esser fidanzato».
Fu come se il cuore di Avicenna fosse stato toccato dall’acqua calda, anzi bollente, e sul suo volto apparve quel che cercava di nascondere. Indispettito le chiese: «Ho capito, ma che cosa ti piace di lui, per esserne così follemente innamorata?»
Mahtab capì che con quel discorso aveva raggiunto il suo scopo e aveva smosso la montagna, quindi si ritrasse e bevve un paio di sorsi dal bicchiere. Poi scelse le parole più sottili e disse che non si trattava di amore folle, perché di al-Biruni stimava l’ingegno, la conoscenza, l’aver superato le avversità del suo tempo, l’aver sopportato il dolore causato dalla gente che lo prendeva in giro per il suo naso lungo chiamandolo Birunlì40, ma lui non se n’era curato. Lo insultavano perché la sua origine era ignota, non si conosceva l’avo da cui aveva preso il suo cognome, ma lui in una famosa poesia aveva detto:
Tu su di me fai rime di poesia
ma ignoro, giuro, la mia genealogia!
Io non ho conoscenza di mio nonno,
come potrei, se pur mio padre ignoro?
Conosceva a memoria le poesie di Abu al-Rayhan!… L’irritazione in Avicenna raggiunse il culmine. Posò il bicchiere sul tavolo e accingendosi ad alzarsi disse, ancor più indispettito: «Questi due versi appartengono a una poesia mediocre, sgradevole nelle parole e nei significati, non adatti a un poeta o un sapiente. Tu sei libera di farti piacere chi vuoi, ma io non ho niente a che fare con ciò…»
Si alzò in piedi senza motivo, e anche lei si alzò in piedi di fronte a lui, nel pieno del suo femminile splendore. Nei suoi occhi brillava un seducente luccichio mentre, col sorriso di un angelo, o di un diavolo, o di un’antica divinità, disse con evidente simpatia: «Tu sei geloso…»
«Io cosa?… Che vai dicendo? Non sono geloso! Con la mia domanda intendevo dire cosa ti piace dei suoi scritti, non della sua persona! Quali delle sue opere hai letto?»
«Ho letto Antichità sopravvissute dei secoli andati, la Spiegazione, e anche le epistole che vi siete scambiati voi due».
«Quelle risalgono ad anni fa, ormai ho dimenticato cosa c’era in quella corrispondenza, né voglio ricordarmelo ora».
«Tu non dimentichi mai niente, e non è giusto che tu sia geloso, perché tu…»
«Perché io cosa?»
«Perché tu sei il Grande Maestro, l’eccellente giovanotto, il sapiente più eminente di tutti gli uomini».
«Ah… perché… voglio dire…»
Con una dolcezza che sgorgava dalla sua bocca come il miele che cola dai fichi maturi, con uno sguardo oltre il quale non si poteva distinguere il giorno dalla notte, lei sussurrò: «Hai perso le parole, o signore della parola?»
«Vedo che ti burli di me».
«Non oserei mai! Non ci si prende burla delle gemme preziose, e tu per me sei la più rara e più preziosa delle gemme. E questo il cielo lo sa».
«Qual cielo?»
«Il mio cielo, o Signore dei Medici».
Quanto estrema è questa pena, e dolce… Perché il Grande Maestro non riusciva a frenare con la forza della sua penetrante personalità quella ragazza di luminosa sagacia, perspicace, seducente, divina, scaltra, eccelsa, celestiale, alta, dagli occhi ammalianti, dal sorriso seducente, dalle labbra invitanti… Non poteva restare fermo e glaciale, ma non poteva nemmeno abbracciarla!
Mahtab intuì che le briglie di Avicenna stavano per sciogliersi, che in lui la nostalgia bruciava e che si era acceso un desiderio che gli torceva il petto e le braccia. Ma decise che il momento non era ancora arrivato, quindi abbassò la testa e prese la sua mano sinistra fra i palmi, spingendola verso di lui, e gli lasciò un rapido bacio sul capo. Poi tornò al suo posto all’estremità del divano. Il rossore che le apparve sulle guance la rese ancor più attraente…
Avicenna si sentì colto da una febbre di cui i medici non avevano mai sentito parlare, i cui attacchi arrivavano di minuto in minuto navigando su tiepidi aliti di vento. Era come se si trovasse in un inferno di ghiaccio. Le lanciò uno sguardo smarrito mentre con tono infantile privo di ogni sottinteso le disse: «Cosa sono questa attrazione e repulsione? E perché?»
«Ma perché tanta fretta? Ho atteso sette anni prima di incontrarti e sono stati tutti anni di magra… e tu non puoi aspettare sette giorni? Sono qui con te ora, e chissà, forse tu distoglierai da me il tuo sguardo quando domani ti giungerà in dono una bella donna chiamata Farah che ti farà dimenticare ciò che hai dentro, ti farà felice, per una notte scalderà il tuo letto e il tuo intimo, avrà confidenza con la tua intimità. Avrà un seno prosperoso, un bel visino e la docilità che agli uomini piace tanto».
«Ma cosa… Io no so nulla di quel che stai dicendo».
«Mio zio Abu Zuhair ti donerà una delle sue schiave. Mansur, il comandante del castello, gli ha chiesto di comprare una schiava per te, perché vuol farti una gentilezza come suo dono personale, quindi ti regalerà quella ragazza, Farah, nata nella sua casa».
«No, questo non succederà. Mansur al-Muzdawaj me l’ha proposto, ma ho gentilmente rifiutato».
«Strano rifiuto, non me l’aspettavo da te».
Avicenna si sfregò il volto e la leggera barba con entrambe le mani. Percepiva che il sangue gli scorreva rapido, pulsandogli nella testa, quindi disse: «Devo sciacquarmi la faccia con un po’ d’acqua…»
Senza lasciarlo alzare dal suo posto Mahtab, con la sua veste di un giallo lucido e di una seduttività devastante, si affrettò verso la brocca dell’acqua fresca che stava vicino alla porta e inumidì uno strofinaccio. Poi gli si accostò fin quasi a sfiorarlo e prese a frizionargli il viso. Lui ne fu rapito. Il seno di Mahtab si trovava vicino alla sua fronte, che avrebbe voluto reclinarvisi sopra per trovare riposo; la lucentezza dell’abito giallo gli riempiva gli occhi, che avrebbero voluto chiudersi; i lembi della sua veste arabescata gli sfioravano la punta delle dita e i polpastrelli, che avrebbero voluto aggrapparvisi. Povero e fortunato Avicenna: generazioni di uomini avevano vissuto ed erano morte senza aver mai vissuto un momento magico come quello e senza aver mai colto la forza di quella femminilità.
Mentre tornava a sedersi al suo posto all’estremità del divano, molto lontano da lui, Mahtab spense lo stoppino di una delle due fiaccole con un soffio in cui c’era una sottile ma consumata civetteria: voleva che Avicenna perdesse il suo autocontrollo, quindi, seduta al suo posto dall’altra parte del mondo, gli domandò se volesse altro vino. Lui la guardò confuso. Lei si chinò sul tavolo e gli versò un quarto di bicchiere. Quando lei si chinò, lui si concesse di guardare per un attimo alla congiunzione dei suoi seni: erano come due lune piene che si sfiorano nel cielo, morbide e vicine, attaccate così come vi rimasero attaccati gli sguardi di quell’orgoglioso innamorato. Mentre prendeva il bicchiere raccolse le forze per riuscire a parlarle. Le chiese delle questioni che voleva sottoporre ad approfondimento.
«Sono tante e di diversa natura» rispose lei, «ma non ho portato con me i fogli degli appunti per non intralciare la tua dettatura… Però fra quelle c’è una domanda che mi lascia perplessa più delle altre, se mi permetti di portela».
«Te lo permetto, naturalmente».
«Tu pensi che il maschio abbia una complessione umorale specifica, diversa per natura da quella della femmina, oppure che siano le regole consuetudinarie dominanti a spingere entrambi a ciò che devono fare?»
«È una domanda molto precisa… La mia opinione è che entrambi abbiano una complessione umorale specifica per natura, e che se si mescolano si hanno alcuni generi di malattie psichiche».
«E come avverrebbe questo mescolamento, e come si manifesta?»
«Si manifesta nelle donne virago e negli uomini effeminati».
«Questa effeminatezza è strana, non la capisco».
«Ho scritto qualcosa in questi appunti da inserire nel mio grande libro sulla medicina, La regola… Aspetta, ti trovo quel che ho scritto».
Avicenna frugò nel cumulo di fogli che era sopra il tavolo e ne tirò fuori uno che diede a Mahtab. Lei lesse in silenzio ciò che vi era scritto in una grafia minuta: «Le malattie psichiche; l’effeminatezza: è una malattia che si verifica in chi è solito avere rapporti sessuali con gli uomini, e con l’abitudine arriva a desiderarli. Nel complesso è dovuta alla degenerazione dell’anima, alla cattiva natura, alle pessime abitudini e al prevalere dell’umore femminile; quanto viene detto diverso da questo è falso; la gente ignorante è quella che vuole curarla con una qualche terapia, ma la loro malattia è immaginativa e mentale, non fisica né corporea».
Mahtab rimise il foglio al suo posto senza commentare.
Avicenna voleva portare la loro conversazione su altri argomenti, più piacevoli, così le chiese di raccontargli dei suoi giorni a Shiraz e del segreto dei sentimenti delicati che hanno gli abitanti di quella città, in cui ci sono tanti poeti.
«Che cosa vuoi sapere?» chiese lei.
«Qualunque cosa ti venga in mente. Ti voglio ascoltare perché quando parli la tua voce è magica, allieta lo spirito».
«Ti piacerebbe se cantassi qualcosa?»
«Magari!»
«Bene, ma canterò piano, perché la mia voce non esca dalla stanza e sia udita da qualcuno».
Avicenna sorrise, felice come un bambino, mentre Mahtab gli si avvicinava e chinava la testa su di lui per accostare le labbra al suo orecchio. Cantò sussurrando una bellissima canzone persiana le cui parole dicevano quel che in arabo si può tradurre così:
Del mio amato la lontananza mi tormenta
e mi tormenta la sua vicinanza.
Ma quel che trovo fra i due tormenti
è una felicità che nessuno assaporò prima di me,
né mai dopo di me conoscerà.
Le consonanti fluivano smorzate ma melodiose dalla sua bella bocca, così come la notte fluisce via dal giorno o la luce emana da sottili candele, e il canto si faceva assorbire dall’orecchio di Avicenna riversandosi al suo interno, per guarire tutte le tristezze nascoste e sanare le ferite. Il canto lo rapì, anzi, lo trascinò finché il suo spirito raggiunse le vette dei cieli e i meandri delle dieci anime superiori. Mentre cantava si sentiva un lattante fra le braccia della madre. Quando lei si fermò, lui aprì gli occhi e aggrottò la fronte: era un bimbo che non trova più sua mamma. Ruppe il silenzio domandandole: «Quando, Mahtab?»
«Quando verrà il momento» disse lei.
«E quando verrà quel momento?»
«Quando mi conoscerai meglio e non vedrai altri che me».
«E se io già ora non vedessi altri che te?»
«Dovrai vedermi cheora e dopo, e il tormento per te dovrà essere piacevole. Questa è la condizione della passione e dell’amore più folle. E ama pazzamente solo chi ha piacere quando si scotta».
«O Mahtab, questa è una frase molto poetica che aggiunge confusione allo smarrimento. Spiegati senza ambiguità».
«Non sarò tua finché tu non sarai mio, totalmente, con tutto quel che è stato della tua vita e quel che sarà».
«E qual è la strada per arrivare a questo?»
«Mi svelerai tutti i tuoi segreti: mi racconterai della donna che ti ha fatto scrivere del peccato e mi prometterai di scrivere della filosofia orientale… La terza condizione invece non te la svelerò».
«Le tue condizioni sono sconcertanti e impossibili, non lasciano scampo…»
«Ma cos’è che desideri adesso?»
«Il tuo canto… Magari tu mi facessi sentire un’altra canzone…»
Lei non tardò a esaudire la sua richiesta e intonò a mezza voce una canzone dalla perfetta eloquenza e dalle seducenti parole. Di nuovo Avicenna serrò gli occhi e reclinò la testa all’indietro, scomparendo, immergendosi nell’incoscienza fino a esser vinto dal torpore. Non si accorse di essersi addormentato, né che lei lo stesse coprendo, né avvertì il suo bacio sulla spalla destra. Mahtab lo coprì con la coperta che stava sul letto lì accanto e uscì dalla stanza lasciandolo dormire sul divano. Scomparve così, come i sogni vengono e poi svaniscono…
Al contrario di quanto Avicenna prevedeva e si augurava, il mattino seguente si presentò concitato e pieno di agitazione. Infatti al-Muzdawaj aveva svegliato Mahyar poco dopo l’alba per convocarlo urgentemente nella corte anteriore perché il salahdar del castello, cioè il responsabile delle armi e delle vettovaglie, all’alba aveva addentato un dolcetto talmente secco da sembrare pietra, per cui gli si era rotto un pezzo di un molare e quello aveva cominciato a strillare per il forte dolore. Pur con la sua scarsa esperienza e la mancanza di strumenti adatti, Mahyar si era applicato cercando di estrarre il molare parzialmente frantumato, pensando che questo avrebbe fatto passare il dolore. Il dolore, al contrario, era aumentato, e quello era svenuto. Chi gli stava intorno era convinto che sarebbe deperito fino a morire. Al-Muzdawaj aveva capito che la faccenda andava al di là delle capacità e delle conoscenze di Mahyar, e aveva dato a due soldati l’ordine di portarlo da Avicenna.
Il sole inviava ad Avicenna i suoi teneri raggi mattutini attraverso le fessure della porta e gli interstizi delle due finestre, ma non fu questo a destarlo dal suo felice assopimento sul divano. A svegliarlo, e bruscamente, furono invece le grida di quelli che arrivarono da lui portando l’uomo svenuto. Si distolse dai suoi sogni gioiosi per l’insistente bussare alla porta, poi si stropicciò gli occhi con i pugni per guardare il moribondo e disse: «Portatelo dentro».
Al-Muzdawaj gli raccontò l’accaduto. Avicenna guardò nella bocca dell’uomo incosciente, poi lanciò a Mahyar uno sguardo di rimprovero e a quelli che gli stavano intorno disse: «Non agitatevi, piuttosto lasciategli spazio per non farlo soffocare…»
«Si riprenderà dallo svenimento o morirà?»
«Per ora non morirà, ma non voglio che si riprenda prima di aver preparato i tranquillanti necessari».
Avicenna andò di corsa nella stanza accanto dove c’erano i farmaci e i preparati. Mahyar lo seguì e lui gli disse: «Come hai potuto pensare di estrargli un molare avendo visto che la gengiva era visibilmente infiammata?»
Mahyar si vergognò di se stesso e rimase zitto, limitandosi a guardare Avicenna che prendeva delle dosi di hashish, oppio, galbano ed altri narcotici. Poi chiese al timido Mahyar di mischiarle nel mortaio e farne un impasto con un condensato di succo d’uva. Dopodiché prese una dose di una resina chiamata “mastice”, vi aggiunse chiodi di garofano e assafetida e ne fece una piombatura per il molare di quell’uomo. Dopo aver messo i tranquillanti intorno al molare rotto, vi spinse dentro un po’ dell’impasto per l’otturazione per proteggere il nervo scoperto. Dopo un’ora l’uomo riprese coscienza e il deliquio svanì, quindi il suo battito cardiaco si rinvigorì grazie a preparati tonificanti per il cuore, come la menta. Verso mezzogiorno il dolore si placò e Avicenna poté mettere delicatamente sul molare il resto dell’otturazione. Infine ordinò al paziente di sopportare la fame per il resto del giorno e di mangiare per pranzo solo frutta passata al setaccio.
«Ti chiedo scusa, mio signore» disse Mahyar ad Avicenna, che scosse pacatamente la testa e gli disse che doveva scusarsi con l’uomo del molare rotto, e che anzi doveva seguirne attentamente lo stato di salute e somministrargli degli analgesici ogni qualvolta ce ne fosse stato bisogno… Dopo che Mahyar se ne fu andato, Avicenna si lavò le mani e si strofinò la faccia e i capelli con acqua pulita e un panno. Mentre la porta si chiudeva, sorrise fra sé. Per un attimo fu indeciso se coricarsi sul letto e dormire per un’ora o sedersi alla scrivania per scrivere qualche appunto, poi risolse di prendere della carta di pregio e scrivere sul primo foglio: «Settima sezione del libro della Regola della medicina: sulle condizioni dell’uomo; in quattro articoli. Abbiamo precedentemente parlato dei denti, della loro anatomia e dei loro vantaggi; bisogna ora considerare quanto sia stato detto, perché si sappia che i denti appartengono al sistema delle ossa che hanno una sensibilità, in ragione del nervo cerebro-mandibolare che vi arriva, e infatti i denti avvertono il dolore più che…»
Dopo un’ora di immersione totale – quando Avicenna registrò nei suoi appunti il seguente testo: «Se dunque il dolore è nei nervi, allora forse cessa con l’estrazione, ma forse no, ne cessa soltanto la causa…» – giunse un’allarmata richiesta d’aiuto.
Udì la voce di al-Muzdawaj chiedergli soccorso da dietro la porta: «Accorri, Grande Sapiente!» Con un sussulto andò ad aprire e trovò al-Mudzawaj ansimante, sudato, sussultante, fuori di sé.
«Tutto bene, Mansur?»
«Salvami, dottore, vieni, ti prego. La mia moglie più giovane si sta dissanguando, il sangue le esce da sotto come dal collo di una bestia sgozzata, si contorce dal dolore. Corri da lei, ti prego!»
Avicenna si avvolse il turbante sulla testa e senza chiudere la porta della stanza seguì al-Muzdawaj che gli barcollava davanti ansimando, fronte e camicia inzuppati di sudore. Che giornata tragica! Non appena varcarono la stretta porta nelle mura, involontariamente Avicenna alzò la testa verso l’alto e vide il cielo sopra il “piccolo regno” come se non fosse lo stesso cielo che vedeva dall’interno della sua camera di detenzione nel castello: l’aria sembrava diversa… La stretta porta separava due mondi, perché quel muro era enorme come ciò che separa il corpo dallo spirito, la prigionia dalla libertà. E che differenza fra le due!
Al-Muzdawaj deviò verso destra seguito da Avicenna, quindi passò oltre due camere davanti alle quali zampettavano oche, galline e polli e due bimbette atterrite dal suono delle grida provenienti dalla stanza successiva, dove la moglie più anziana di al-Muzdawaj stava accovacciata a terra lanciando alte imprecazioni, mentre la più giovane sussultava sdraiata su un letto imbrattato di sangue: era evidente che ne aveva perso molto. Seduta sul bordo del letto c’era Mahtab, che si era già rimboccata le maniche per dare una mano; gemendo carezzava penosamente i capelli della ragazza, con un’espressione smarrita e impotente.
Avicenna chiese ad al-Muzdawaj di portare la sua prima moglie fuori dalla stanza, e si rivolse direttamente alla donna pregandola di smettere di imprecare. Poi chiese a Mahtab di chiudere la porta e di togliere alla sposa giovane il lembo imbrattato della veste. Guardò la paziente, e questa gli restituì uno sguardo da moribonda. A quel punto Avicenna alzò le mani, e muovendole gentilmente le sussurrò: «Calmati, figliola, andrà tutto bene».
Si sedette ai piedi della paziente e con lo sguardo rivolto lontano dal suo corpo allungò la mano verso la parte alta delle sue cosce. Con la punta delle dita sfiorò quel che da lei usciva, poi strofinò il sangue sulla mano osservandolo con molta attenzione. Il colore tendente al nero gli fece capire che era una perdita forte, poteva essere causata da un fibroma all’utero oppure da ulcere alle pareti della vagina. Capì anche che il terrore che aveva invaso la poveretta aveva aumentato la circolazione degli umori umidi nel suo corpo e quindi per effetto della paura l’emorragia era diventata più copiosa.
Con viso calmo guardò verso di lei per tranquillizzarla, mentre le afferrava il polso destro per tastare le pulsazioni. Lei fremette, ma lui sorridente le disse con compassione che l’emorragia si era fermata, e che si trattava di una ritenzione di sangue: era un bene che fosse uscito. Poi in tono esperto le disse: «Non temere, starai bene, col permesso di Dio starai bene…»
Dopo qualche istante le tastò nuovamente il polso e trovò che non era debole come supponeva, anzi, era regolare. Avicenna si allontanò lentamente dalla sua paziente e fece un cenno a Mahtab affinché lo seguisse fuori dalla camera che emanava l’odore delle stanze vecchie. Nello spazio davanti alla porta c’era Mahyar in piedi che guardava fisso, accanto a lui una bimba con lo sguardo smarrito. Fra i due al-Muzdawaj appariva estremamente triste, come chi è sul punto di crollare. Avicenna si allontanò da loro con Mahtab per non farsi sentire, e le sussurrò: «Strofinale la faccia con un panno umido di acqua di rose o con qualche sostanza profumata, poi lavala di sotto con acqua pulita e tiepida e cambiale i vestiti. Quando si sarà calmata, delicatamente guardale la vulva con uno specchietto e poi riferiscimi se ha delle ulcere o dei fibromi».
«Io non so cosa sono i fibromi… Che forma hanno?»
«Sono delle bollicine che appaiono sulla pelle. Ce ne sono di rigonfie o incavate. Ne sono note di tre forme, simili ad acini d’uva, o a fragole, o a verruche».
«Ho capito, grazie».
Mentre Mahtab tornava dalla malata, Avicenna chiese a Mahyar di portare alcuni preparati erboristici, quindi si sedette a fianco di al-Muzdawaj dicendogli: «Starà bene, non lasciare che le tue lacrime scorrano davanti ai tuoi soldati, che ci stanno osservando da lontano».
Poco dopo arrivò Mahyar con quanto richiesto, quindi anche Mahtab uscì dalla stanza e di nascosto fece un cenno ad Avicenna, che andò verso di lei. Ansimando gli riferì che nella vulva c’erano delle ulcere, non dei fibromi, e che erano molto arrossate a causa dell’infiammazione.
«Questa cosa è già più facile. Ti manderò con Mahyar dei medicinali per far contrarre l’utero e per rinforzarlo, un tampone medico adatto alla vulva che tu le inserirai delicatamente. Poi le farai bere degli sciroppi aromatici e le prescriverai tuorli d’uovo a mezza cottura, e altri alimenti leggeri e digeribili. Migliorerà nel giro di tre giorni, forse meno. Ecco qua, caro Mansur!» disse poi Avicenna ad al-Muzdawaj, entrando nel castello, seguito da Mahyar, mentre il sole volgeva al tramonto. Mahtab invece tornò dalla paziente per far quello che doveva.
Nella sua camera di detenzione, Avicenna preparò per la moglie di al-Muzdawaj i medicinali e i tamponi, che gli diede perché li portasse a Mahtab e tranquillizzasse la moglie. Al-Muzdawaj andò, ma tornò subito a sedersi di fronte ad Avicenna, indeciso su cosa dire per ringraziarlo. In quel momento Avicenna si stava lavando le mani e faceva l’abluzione per la preghiera; una volta terminato il saluto agli angeli ripetendo la formula perché pregassero insieme a lui, guardò al-Muzdawaj sorridendo e gli disse: «Allora sei davvero innamorato!»
«No, ma lei… giuro, poverina… è buona e bella… e triste… Sì, dottore, sono innamorato di lei, non lo nego».
«Non hai bisogno di negare nulla, Mansur, lei è tua moglie e la passione per la moglie è paradiso. Però non potrai avvicinarti a lei per qualche giorno, finché la sua vulva non sarà guarita dall’infiammazione. Mahtab farà sapere a lei quando sarà guarita, e lei lo riferirà a te. Non dovrai aver fretta, altrimenti le recheresti un danno».
«Non avrò fretta. Ma dimmi, per Dio, cosa le è successo? Ha forse avuto un aborto?»
«No, non era incinta. Semplicemente ha trattenuto il mestruo e le si è ulcerato l’utero, per cui le si è gonfiata la pancia e si è interrotto il ciclo. Dopodiché ha avuto un’emorragia, lei si è spaventata e ha perso le forze. Tu, caro Mansur, dovrai essere molto garbato con lei quando sarà guarita. Ha un fisico delicato e tu sei un omone! Per voi due c’è bisogno di lubrificazione, devi aver pazienza con lei durante i rapporti, finché non aumenta la sua acqua».
«Va bene, lo farò. Dio sia lodato, ora lei sarà più tranquilla. Naturalmente ti ringrazio. Ho già chiesto a banu Mahtab di restare con lei stanotte. Ha acconsentito e per questo la ringrazio. Davvero non so come posso ripagarvi entrambi per questo favore».
«Non tenere la tua mente occupata per questo, caro Mansur».
Avicenna nascose il proprio dispiacere per essere privato della compagnia di Mahtab e, fingendosi indifferente alla cosa, si alzò per accendere il lume. Poi domandò notizie sulla guerra imminente. Al-Muzdawaj gli riferì che quanto stava accadendo non era comprensibile. Contrariamente al previsto, il principe Ibn al-Kakwayh avanzava col suo esercito di Isfahan verso Hamadhan molto lentamente, mentre il principe di Hamadhan aveva lasciato il comando a Taj al-Mulk, il generale del suo esercito, il quale però fino a quel momento non si era preparato alla guerra: non aveva rafforzato le guarnigioni intorno alla città, né era partito per andare allo scontro con Ibn al-Kakwayh. E questo era strano. La cosa più grave era che Mahmud il Ghaznavide aveva rinviato la sua solita incursione dalle parti dell’India e pareva che gli fosse venuta l’acquolina in bocca per i tre principati Buwayhidi, Rayy, Isfahan e Hamadhan. Ma nessuno conosceva le sue intenzioni…
«Benvenuta, banu Mahtab, come sta ora?»
Mahtab era venuta a chiedere ad Avicenna se poteva essere utile alla paziente somministrarle dei sonniferi.
«Non c’è problema, il sonno le gioverà. Aspetta che ti do qualcosa di adatto…»
Andò nell’altra stanza seguito da Mahyar, e dopo un attimo ne uscì con in mano un farmaco. Mahtab lo stava aspettando fra le due porte. Mentre prendeva quello che lui le porgeva gli sussurrò: «Non ti vedrò questa notte, resterò con lei, ma domani mi racconterai della donna che ti ha indotto a scrivere del peccato. Promettimelo».
Avicenna mosse la testa in segno di rassegnato assenso, quindi andò con lei fino alla porta della sua camera. Mahtab proseguì verso il “piccolo regno”, mentre lui entrò, ma i pensieri del Grande Maestro e la nostalgia del suo animo seguivano lei.
Dopo che anche al-Muzdawaj se ne fu andato a ispezionare le condizioni del suo castello e le faccende del suo “piccolo regno”, il mondo intorno a lui fu quieto. Mahyar si alzò per andare a dormire e Avicenna rimase solo con se stesso. Si sedette al tavolo, di fronte a lui fogli bianchi e intonsi sui quali non sapeva cosa scrivere… Rimase immobile finché, tormentato dalla noia, cominciò a esaminare e rimettere in ordine le pagine che aveva scritto in precedenza.
Quelle con la grafia delicata ed elegante di Mahtab avevano un tratto sottile e pochissimi errori. I pensieri di Avicenna andavano dalle pagine scritte, alle linee, alla scrittura. La sua fantasia richiamava alla mente l’immagine di Mahtab seduta vicino a lui nel suo pieno splendore… La sua presenza era prepotente, la sua assenza bruciava le ali dello spirito. Chissà se un giorno sarà mia! Lei meriterebbe di essere compagna, moglie e madre di figli. Oh, no, il matrimonio e la gravidanza di questi tempi sono rischiosi, le conseguenze non sono sicure. Come vi arriverai, o Mahtab? Sei forse apparsa adesso per esser sollievo a questo mio triste momento, o vuoi piuttosto farmi soffrire? Forse le tue parole sono giuste e io devo mettere per iscritto la filosofia orientale in un libro di sintesi, quei trattati slegati sono dispersivi e potrebbero andare perduti. Sì, sarà bene che dopo aver terminato La guarigione e La regola mi dedichi a mettere per iscritto un grande libro intitolato Il giudizio imparziale sulla filosofia orientale. Sì, se ne avrò il tempo lo farò. Ma il problema adesso è: dopo ciò che le ho promesso, come farò a raccontarle della donna a causa della quale ho conosciuto il senso del peccato? Come?
Così ad Avicenna tornarono in mente i ricordi dei primi tempi, a Bukhara.