1.
Al-Muzdawaj
Il sole delle brevi giornate invernali piegava calmo e lento verso il luogo del suo occultamento quotidiano. Era come restio a immergersi nella sua sede nascosta, intorno alla quale si ammassavano spesse nuvole dalla pancia nerastra. L’appressarsi del tramonto e il venir meno della luce calavano sullo spazio circostante buie cortine intrise di inquietudine e mistero, moltiplicando le fantasie notturne colme di quei timori oscuri e nascosti che producono paura e terrore, mentre avanzava la logorante percezione che il pericolo fosse vicino alle mura.
In queste regioni brulle e selvatiche non c’è altro, a perdita d’occhio, che la fortezza di Fardaqan rannicchiata qui da tempi antichi. Gli anni le son passati addosso al punto che a guardarla pare una vecchia senza più figli, accovacciata in silenzio. A chi la osserva da lontano sembra solitaria. Non c’è nulla intorno a lei, a parte una terra desolata, senza costruzioni, alberi o verde, e un vento freddo, le cui raffiche fischiano sulle cime di rade colline, e i cui brontolii imperversano fra le spianate e i burroni rivestiti di ruvida sabbia e sassi grandi e piccoli. Perfino gli uccelli evitano di abitare o sorvolare questo luogo sterile, i cui anfratti sono simili a un deserto.
Il sole, la cui luce era stata insidiata per tutta la giornata dal velo delle nuvole, fu inghiottito dal tramonto, e mentre l’impero delle ombre si preparava a dominare ogni cosa, il freddo si faceva sempre più rigido.
Nonostante ciò il comandante Mansur al-Muzdawaj, signore del castello e capo dei suoi soldati, era rimasto fin da mezzogiorno seduto al suo posto a guardare fisso, senza muoversi dal suo grande scranno e dal lussuoso tavolo al centro dell’ampia piattaforma che si estendeva fra le due torri frontali.
Il castello aveva un grande portone d’ingresso ormai chiuso per sempre, poiché la parte inferiore era sepolta da tempo immemorabile. Il portone era spesso quanto le mura di cinta e i muri interni del castello, e la sua superficie era rivestita di metallo e teste di grossi chiodi arrugginiti che scoraggiavano chiunque solo a guardarli. Sul lato meridionale, il castello aveva una porta laterale, rivestita anch’essa di una lega di rame e ferro, che si chiudeva dall’interno tramite un enorme lucchetto. Questa porta si apriva sulla corte anteriore del castello, e a quel tempo era utilizzata per entrare e uscire. Accanto a questa, nel muro di un colore indeterminato, c’era una porticina che si apriva su stanze di varia grandezza, addossate alle mura esterne del castello. Erano le stanze chiamate col vezzeggiativo di dolat kochek, che significa “piccolo regno”.
A chi osservava la rocca nella luce opaca dell’aurora o del crepuscolo, le due torri apparivano sbiadite, mentre sotto la luce delle stelle, contro il nero della notte, erano come le corna di un diavolo. Le torri posteriori invece erano meno elevate e sporgevano dal bordo delle mura sui lati sud e nord della rocca che si ergeva su una collina dai contorni aspri: a chi provenisse da lontano sembrava in tal modo ancora più alta, maestosa, oscura e spaventosa di quanto non fosse.
Sul lato nord del castello non c’era via d’accesso, quindi le mura poggiavano direttamente sul pendio scosceso della collina, che precipitava a picco verso il burrone circostante. Sul lato meridionale invece si trovava una striscia di terra battuta larga abbastanza per quattro uomini a piedi o due a cavallo affiancati, costeggiata da un muro di un colore indeterminato che nascondeva all’ampio spiazzo tutto quanto c’era nelle stanze del “piccolo regno” che sporgevano dal muro meridionale del castello. Lì il comandante Mansur al-Muzdawaj passava gran parte delle sue notti con le due mogli e le tre figlie. Quel suo “piccolo regno”, piccolo ma fiero, era delimitato all’interno sulla sinistra dalle pareti del castello e sulla destra dall’asperità del dirupo. Non fosse stato per quel breve muro che al-Muzdawaj aveva fatto tirar su sul bordo del pendio, un pericolo mortale avrebbe circondato le sue tre figlie che giocavano sotto le mura del castello per tutto il giorno, o anche le sentinelle, i notabili e gli informatori che di solito andavano da lui nel cuore della notte per riferirgli in segreto di quel che succedeva in giro e nelle regioni vicine e lontane.
Pian piano la tenebra si diffuse, impedendogli di vedere lontano. Al-Muzdawaj rimase immobile e taciturno al suo posto a fissare dall’alto la strada stretta e contorta che portava al castello isolato. Nella sua testa si agitavano pensieri e presentimenti… Con una certa apprensione uno dei servitori che aveva alle spalle si fece umilmente avanti e accese una grande torcia, poi si accostò ad al-Muzdawaj e farfugliando gli domandò in un sussurro se voleva una coperta o una bevanda appropriata per affrontare il gelo imminente, o anche la cena. Lui non rispose e si limitò a scansarlo col dorso della mano sinistra; il servitore ritornò sommessamente al suo posto, disperando di poter scendere dalla terrazza per andare a scaldarsi. Il suo dolore si unì all’afflizione dei suoi due compagni che rimasero tutti quanti a osservare al-Muzdawaj, tremando dietro di lui nei loro abiti leggeri, mentre il freddo cominciava a farsi intenso. Rimasero così finché al-Muzdawaj all’improvviso non si levò e con voce stentorea lanciò un grido alla sentinella sulla torre, chiedendole se vedesse qualcuno arrivare all’orizzonte. La sentinella rispose subito: «Non c’è nessuno sulla strada, mio signore».
«Ma non c’è in lontananza la luce di una qualche torcia o il balenio di una fiamma come richiesta di soccorso?»
«Nossignore, non c’è altro che tenebra».
Al-Muzdawaj scosse la sua grossa testa sorpreso e smarrito. In quell’istante salì sul terrazzo Safawan al-Barjundi, il capo dei guardiani del portone, noto fra i soldati del castello col soprannome di “Strillo” per la sua voce acuta e il suo frequente urlare. Dietro di lui due soldati e un servitore che portava una fiaccola luminosa. Mostrandosi molto gentile e garbato, voleva rassicurarsi sul suo comandante, seduto da ore ad aspettare l’arrivo di qualcuno. Ma al-Muzdawaj non si mostrò altrettanto cortese e non gli rispose davanti ai soldati e alla servitù; si mosse invece con passo pesante verso la stretta scala che dal terrazzo del castello scendeva nella corte anteriore.
Strillo procedette rispettosamente dietro ad al-Muzdawaj finché non entrarono nell’ampia sala che si affacciava sul cortile interno attraverso due finestroni con quattro imponenti imposte, incrinate perché fabbricate con legno scadente. Nell’angolo sinistro della sala c’era un seggio largo quanto un letto, con sopra un tappeto di lana grezza e una coperta spiegazzata; nell’angolo destro era allineata una fila di grandi sedie, sufficienti per dieci persone corpulente; al centro un tavolo circondato da tre lunghe panche e una grande sedia. Al-Muzdawaj si sedette al suo posto corrucciato, immerso nei suoi pensieri, mentre Strillo congedò soldati e servitori, dopo aver ordinato loro di appendere le fiaccole ai chiodi conficcati nel muro e di ravvivare il fuoco con i ciocchi di legno che stavano nel vecchio secchio di rame. Una volta rimasti soli nella stanza, Strillo domandò di nuovo con molta delicatezza al suo signore perché si preoccupasse tanto per la sorte del prigioniero di cui era atteso l’arrivo. «Non è un prigioniero, Safawan» gli rispose al-Muzdawaj in tono infastidito. «Quello che sta arrivando è un uomo di rango illustre, rinomato come eccezionale sapiente, occupa un posto di gran riguardo fra la gente, ma è stato arrestato su ordine del principe per un periodo imprecisato. Non è stato condannato, né sappiamo quanto resterà qui, o quando arriverà. Mi avevano informato che l’orario del suo arrivo era fissato per il mezzogiorno di oggi, ma come vedi non è ancora arrivato, e di certo non arriverà di notte».
«Forse arriverà domattina, mio signore. Forse il principe Sama’ al-Daula o il generale del suo esercito Taj al-Mulk hanno cambiato idea sul suo arresto. Smettila di agitarti. Quanti prigionieri e detenuti sono stati trattenuti qui? E le cose sono sempre andate come volevi tu. Cosa c’è di diverso questa volta? O ti preoccupi di lui perché è stato ministro?»
«A un ministro non si attribuisce alcun riguardo o considerazione dopo che è stato spogliato del suo incarico. Quello che mi preoccupa è che quest’uomo ha un legame con il governatore di Isfahan, il principe ‘Ala’ al-Daula ibn al-Kakwayh. Lo hanno arrestato a Hamadhan all’alba di tre giorni fa e spedito qui sotto scorta. E se Ibn al-Kakwayh avesse mandato un contingente ad assalire il convoglio di Hamadhan lungo la strada per liberare Avicenna?»
«Non penso, mio signore. Ibn al-Kakwayh si sta preparando alla guerra contro Sama’ al-Daula e Taj al-Mulk. Non avrà certo pensato a un’azione del genere. Mi è giunta voce che lo scontro fra i due eserciti potrebbe essere imminente…»
«Di recente ti sono giunte molte voci, Safawan!»
«Mio signore, la gente intorno a me parla. Io ascolto e apprendo».
«Non fare il saccente con me. Sappi che certe voci, una volta rese note, svaniscono. Per ora l’importante è che devi aumentare le guardie al portone principale e mettere più sentinelle sulle torri. Io passerò la notte qui, se ci sono novità riferiscimele».
«Agli ordini, mio signore».
La quiete si propagò lungo i corridoi del castello colando nelle stanze, mentre nelle celle s’insinuò un silenzio totale, come se tutto il mondo stesse dormendo. Intorno al castello calò una spessa tenebra che il freddo pungente rendeva ancor più buia. Così è il desolato Settentrione della Persia nelle notti d’inverno. E quanto più ci si spinge verso nord, nelle regioni di Rayy, Qazvin, Zanjan, Tabriz, Ardabil, tanto più le notti invernali diventano aspre e gelide, al punto che a volte ai viaggiatori che non trovano riparo o da scaldarsi cadono braccia e gambe.
Di colpo, poco prima di mezzanotte, dalla torre più alta del castello risuonò il grido della guardia che annunciava l’avvicinarsi delle torce della truppa di Hamadhan. Al-Muzdawaj indossò di corsa la giubba e la corazza militare, si avvolse il turbante sulla testa che faceva apparire il suo fisico ancor più voluminoso di quanto già non fosse, e uscì verso la corte anteriore preparandosi ad accogliere i nuovi venuti.
Strillo aveva già mandato una decina di portatori di torce fuori dalle mura del castello per accompagnare le sette guardie che scortavano l’eminente prigioniero, e insieme entrarono nella corte anteriore. Tutti arrivarono su stalloni, tranne il detenuto, Avicenna, che montava una mula decrepita schiacciata dal suo peso e dalla bisaccia che portava sul di dietro. Lui aveva il turbante sciolto, il capo scoperto, l’animo affranto, lo sguardo spento, e si vergognava del proprio aspetto e delle catene rugginose che gli imprigionavano mani e piedi.
Come di consueto, dopo la consegna del prigioniero e dei messaggi le guardie se ne andarono nelle stanze per gli ospiti addossate alla parete interna del castello. Ma diversamente dal solito al-Muzdawaj si fece avanti per dare il benvenuto al detenuto, sul volto l’ombra di un sorriso. Poi si voltò e fece un cenno a Strillo, che avendo inteso al volo si allontanò di corsa. Lui invece si mosse a passo lento verso la sua sala e si sedette appagato sul suo grande seggio a capotavola. Qualche minuto dopo arrivò Strillo seguito dal detenuto, ormai liberato dalle manette. Al-Muzdawaj gli offrì del brodo caldo e del pane e rimase a osservarlo a lungo mentre quello mangiava lentamente. Poi, per lasciarlo finire di mangiare in pace, uscì dalla sala, dopo aver ordinato a Strillo di fare più luce con altre fiaccole dallo stoppino più grosso. Dopo pochi minuti al-Muzdawaj ritornò. Avicenna aveva terminato il suo pasto e con aria scoraggiata osservava meglio quel che aveva intorno. Intanto al-Muzdawaj congedava Strillo e i servitori per sedersi di fronte al detenuto e, mentre si toglieva la corazza di metallo e la giubba, cominciò a parlargli con una certa prudenza, in persiano, dicendo quel che si può tradurre così: «Il capitano delle guardie del principe mi ha informato che il vostro viaggio è stato duro e che siete stati costretti a procedere su sentieri non battuti per evitare una banda di predoni. E anche che ieri siete stati esposti all’attacco di lupi affamati che non vi hanno dato tregua se non dopo che ne avete uccisi tre. Come vedi, ero molto preoccupato per questo tuo viaggio».
«Il viaggio è solo una parte della pena. Tu cosa proveresti a viaggiare da detenuto, ammanettato, in catene?»
«Non ci pensare. Adesso siete arrivati sani e salvi, e forse capirai che se il principe Sama’ al-Daula e il suo ministro Taj al-Mulk avessero voluto la tua fine avrebbero ordinato di ucciderti a Hamadhan, piuttosto che spedirti in prigione qui per un po’ e farti uscire dopo, quando verrà il momento giusto».
«“Come vedi, sicura è la mia entrata / i dubbi sono tutti sull’uscita”»1.
«Io non padroneggio bene la lingua araba, quindi lasciamo stare per ora le poesie e rimandiamo i discorsi a domattina. Soggiornerai nella camera attigua a questa mia, uno del tuo rango non può stare rinchiuso nelle celle delle segrete. Safawan! Porta il Grande Maestro nella sua stanza e lasciagli questa bottiglia di passito». Avicenna sorrise timidamente quando udì il corpulento comandante del castello definirlo con l’appellativo di “Grande Maestro”, e capì che quell’uomo lo diceva seriamente e sapeva molte cose. Quello era l’appellativo che gli tributavano i suoi allievi più stretti, circolava soltanto fra di loro ed era noto solo a loro. Lo stesso valeva per la sua passione per il bere. Mentre si congedava da lui, Avicenna lanciò ad al-Muzdawaj uno sguardo pieno di scoramento, saggezza, riconoscenza, misti a un senso di umiliazione. C’era anche rassegnazione, a causa di tutto ciò che aveva portato la sua condizione fino a quel punto…
Al-Muzdawaj abbassò lo sguardo, fingendo di ignorare ciò che significava quello sguardo, ma dentro di sé sorrise.
Strillo e le due guardie condussero Avicenna nella stanza attigua, che era fredda e dalle cui pareti umide esalava un odore putrido. C’era soltanto un letto sul quale avevano posato la sacca con i libri e dei fogli che il prigioniero aveva con sé, poi un piccolo tavolo sul quale avevano lasciato la bottiglia di vino. Urlando senza motivo, Strillo diede degli ordini alle due guardie: una scattò e portò un vecchio catino con del carbone che diffuse un po’ di tepore, mentre l’altra s’affrettò ad andare a prendere una fiaccola accesa e l’appese a un gancio sulla parete.
Quando lo lasciarono solo chiudendo la porta dall’esterno, la stanza apparve migliore. Avicenna prese la sua bisaccia, ne tirò fuori il contenuto disponendolo sul tavolo, ma fu urtato dallo scoprire che la boccetta dell’inchiostro si era crepata e il contenuto era colato rovinando i bordi dei fogli… Osservò affranto il disastro, le sue palpebre ebbero un fremito, al punto che quasi gli lacrimavano gli occhi per il grande dispiacere. Tuttavia mantenne il controllo, e si sedette sul lettino accostando la schiena alla parete. Non sapeva che al-Muzdawaj in quel medesimo istante sedeva al centro del suo grande letto con la schiena appoggiata dall’altra parte dello stesso muro.
Nonostante le fatiche della lunga giornata, entrambi rimasero insonni, persi a guardare lo stoppino del lume appeso senza vederlo davvero. E prima che entrambi si arrendessero al sonno passò un lungo tempo, durante il quale fissarono il vuoto con lo sguardo assente e la mente sgombra, persi nel dedalo dei ricordi. Nella testa di al-Muzdawaj giravano le scene dimenticate del suo primo viaggio con il padre e la madre, quand’era bambino. Ricordò la traversata di vette e montagne quando erano partiti alla ventura da Diyar Bakir verso i confini di Mossul e come, non appena arrivati là, suo padre era morto fra i tremori e il fortissimo delirio della febbre. L’immagine dell’uomo mingherlino che poi aveva sposato sua madre gli attraversò la mente, così come i suoi sguardi cattivi e severi, i giorni amari in cui la madre si era ammalata e lui non riusciva a trovare qualcuno che le prescrivesse delle medicine. Lei morì che lui aveva appena compiuto quattordici anni, ma ne dimostrava venti per il fisico sviluppato.
Avicenna rifletteva sulla sua disperata situazione attuale, poi pian piano i suoi pensieri partirono errabondi verso orizzonti lontani, e dopo un lungo girare in circolo approdarono ai suoi giorni felici a Bukhara. La sua mente fu attraversata dall’immagine di Sundus spogliata di ogni abito e inibizione. Rievocò tutto quel che aveva vissuto con lei e per lei, e la cosa resuscitò le emozioni e il senso di imbarazzo che provava ogni volta che ripercorreva quei ricordi lontani, che portavano con sé insonnia e agitazione.
Ciascuno dei due uomini era chiuso in se stesso e isolato dall’altro e dagli altri. Erano distanti, nonostante fra loro vi fosse solo lo spessore della parete ai due lati della quale erano entrambi appoggiati. Dopo un lungo girare in tondo, in un attimo improvviso di lucidità, sorprendentemente sincronizzato, ognuno dei due scoprì che cosa realmente gli stava accadendo. Prigioniero e carceriere si trovavano in un unico, identico tempo.
Il giorno seguente, verso mezzogiorno, due guardiani bussarono alla porta di Avicenna ed entrarono portando acqua calda per lavarsi e dei vestiti, quindi gli comunicarono che il loro signore al-Muzdawaj lo attendeva dopo un’ora. Avendo recuperato un po’ del senso di sé che aveva perso grazie all’acqua dalla quale ha origine ogni essere vivente e grazie a una mantella pulita, Avicenna si avviò verso l’adiacente sala di al-Muzdawaj seguito dalle due guardie. Entrambe le stanze erano rialzate dal terreno e si raggiungevano salendo due gradini di pietra consumata. Nei pochi passi fra le due stanze Avicenna ebbe l’occasione di girare lo sguardo su quel che aveva intorno, e fu preso dallo sgomento pensando che era la seconda volta che entrava in una fortezza, ma che rispetto alla prima volta la situazione era molto diversa! Era stato vent’anni addietro, quando Avicenna era un ragazzo e ricopriva una posizione insigne a Bukhara, ed era molto stimato fra gli accoliti del suo governatore Mansur ibn Nuh il Samanide. A quei tempi Babak, il comandante del castello di Paikend nella provincia di Bukhara, lo aveva invitato a fargli visita e a passare qualche notte come suo ospite. Avicenna era uscito di casa all’alba, insieme a tre suoi schiavi, in groppa a destrieri equipaggiati per il viaggio. Avevano percorso la strada che correva per dieci parasanghe fra Bukhara e Paikend arrivando prima della fine della giornata. Il più appetitoso dei pasti attendeva Avicenna sul terrazzo del castello splendidamente illuminato, e per tutta la notte nella casa di Babak era risuonata la musica e le odalische avevano cantato bellissime poesie. L’animo di Avicenna si era rinfrancato di gioia. Quella notte gli era stata donata Bibi, fascinosa schiava azera di fulgida leggiadria, dai lineamenti splendidi e dal portamento perfetto. Nonostante ciò, Avicenna non aveva accettato il dono perché quel che aveva vissuto con Sundus lo aveva devastato, facendogli rifuggire la compagnia delle donne.
Sulla soglia della stanza di al-Muzdawaj, Avicenna si riscosse dai ricordi e dal doloroso paragone. Entrò e trovò al-Muzdawaj seduto nello stesso posto della notte precedente. Accanto a lui Strillo con due assistenti, sul tavolo c’erano vassoi con cibo caldo e verdure fresche.
Al-Muzdawaj gli sorrise e invitò tutti quanti a mangiare, dopo aver detto ad Avicenna in tono amichevole di aver richiesto che sulla mensa vi fosse dell’indivia, perché sapeva che il Principe dei Sapienti Abu ‘Ali aveva scritto un trattato sulle proprietà di quella verdura. Avicenna sorrise con compostezza a quella cortesia, e cordialmente gli disse: «È evidente che tu sai molte cose…»
Dopo il pranzo silenzioso al-Muzdawaj congedò i suoi assistenti e invitò Avicenna a sedersi su una delle comode poltrone collocate nell’angolo della sala, per lasciare il campo ai servitori venuti a portar via i vassoi e per sorseggiare un paio di bicchieri. Era evidente che al-Muzdawaj intendeva discutere alcune faccende col suo prigioniero, tuttavia si dilungò con le premesse, divagando. Si rivolgeva ad Avicenna a volte con l’appellativo di Illustre Ministro, altre con quello di Grande Maestro. Continuò a condurre la conversazione su svariati argomenti, finché Avicenna non lo sorprese dicendo in maniera diretta: «Egregio fratello, è da ieri notte che cerchi di farmi capire che tu sai molte cose sul mio conto, e che mi sommergi di favori… È evidente che vuoi qualcosa da me. Se mi facessi la gentilezza di spiegare chiaramente cosa, ti prometto che non tarderò a fare tutto quello che posso, in cambio degli onori e i benefici che tu mi hai riservato».
«Ah ah ah, sei proprio bravo e intelligente, Abu ‘Ali, lo giuro! Sì, c’è qualcosa che voglio da te e confido che non tarderai ad accontentarmi, ma non volevo certo farti credere di essere a conoscenza dei tuoi segreti! Il tuo articolo sull’indivia è famoso fra la gente, i librai ne fanno circolare copie nei villaggi e nelle città. Quanto al tuo soprannome, che tu ritieni esclusiva dei tuoi allievi, è invece diffuso su molte bocche e se lo scambiano in tanti, fra scienziati e sapienti, in virtù del tuo talento, fin da quando eri un giovanotto. Ma in effetti io so di te dei segreti nascosti ai più che mi hanno riferito informatori e spie. Comunque, fidati, dottore: tu non sei un prigioniero qui, sei soltanto al confino per un certo tempo. Non avrai alcuna restrizione o limitazione, a condizione che tu mi prometta di non pensare di fuggire».
«Te lo prometto, ma suppongo che la tua richiesta sia un’altra».
«Ogni cosa a suo tempo, dottore, ah ah ah, non mettermi fretta».
Avvicinandosi l’ora del tramonto, Avicenna chiese ad al-Muzdawaj il permesso di tornare nella sua stanza per riposarsi dagli stenti del viaggio del giorno prima, nonché dall’insonnia di quella notte causata dal cambio di letto. Nella sua stanza andò a caccia di un po’ di sonno finché non riuscì a goderne a sprazzi. La cosa andò avanti così per le notti successive.
Nella prima settimana il peso delle giornate noiose non si alleggeriva mai se non durante gli incontri con al-Muzdawaj nella sala in fondo, in particolare all’ora del pranzo. In quelle sedute i cavalli della conversazione correvano su ogni pista, e fra loro la cortina della circospezione si levò progressivamente, finché non arrivarono a chiacchierare come vecchi compagni di serate conviviali.
Forse proprio per tranquillizzarlo, al-Muzdawaj raccontò ad Avicenna della sua terra natia, Diyar Bakir, e di quando da bambino si era trasferito con la sua famiglia a Mossul, dove suo padre era morto quasi subito, seguito cinque anni dopo da sua madre. E poi della sua successiva partenza da Mossul, da solo, quando aveva appena quindici anni. Naturalmente non fece menzione del fatto di esser fuggito da Mossul la notte stessa in cui aveva ammazzato lo spregevole marito di sua madre. Questi, infatti, dopo la morte della madre avrebbe voluto trastullarsi con lui per farne il suo efebo, ma lui gli aveva fatto passare quella turpe voglia strangolandolo. Invece di rivangare una simile tragedia, al-Muzdawaj raccontò i particolari del suo peregrinare, le cose viste in paesi lontani, mentre Avicenna ascoltava con simpatia sia perché non era mai stato in quelle regioni occidentali e conosceva molto poco dei particolari della vita reale di lì, sia per lo stile del racconto di al-Muzdawaj, avvincente e divertente, in cui si mescolavano battute e aneddoti spassosi, e anche per il suo curioso lessico, un singolare miscuglio che univa arabo, persiano e turco. Raccontò ad Avicenna che era andato a Baghdad per lavorare nelle costruzioni, e grazie alla sua forza e al suo fisico possente riusciva a compiere in un giorno il lavoro di due o tre uomini, e mangiava anche per due! Fu così che lì lo chiamavano muzdawaj, cioè “il duplice”, perché era un uomo che valeva per due. Non gli dispiaceva risiedere nella zona sud di Baghdad, governata dai Buwayhidi, e gli sembrava che avrebbe potuto trascorrere lì il resto della vita. Ma poi volle fare il soldato professionista, perché era un’arte più adatta a un uomo grosso e possente come lui, quindi lasciò Baghdad. Naturalmente al-Muzdawaj non disse ad Avicenna che aveva lasciato Baghdad perché lì qualcuno lo aveva riconosciuto e aveva raccontato ad altri dell’omicidio che aveva commesso a Mossul.
Nessuno racconta mai ogni cosa.
Da Baghdad al-Muzdawaj si era spostato nella città settentrionale di Tilfis, ma non avendo trovato lì ciò che voleva, scese a sud verso Tabriz e le regioni della Persia dove, ormai diciannovenne, si unì a una compagnia di soldati e mamelucchi che operavano al servizio di baroni e prìncipi. Divenne ben presto noto col nome arabo di Mansur detto al-Muzdawaj rifiutandosi di persianizzarlo in al-Mathnavi (cioè “doppio” o “distico”), perché pensava che l’espressione araba avesse un suono più potente, più in sintonia con la sua indole, nonché più misterioso per l’illetterato volgo dei Persiani.
Quando Avicenna gli chiese che cosa l’avesse spinto alla fine a stabilirsi in quel castello isolato, al-Muzdawaj rispose che aveva preso parte a una piccola battaglia e a molte missioni importanti, poi però gli erano venuti a nausea gli spargimenti di sangue, il clima di tradimento e di complotti. E, stanco di viaggiare, si era quindi rintanato in quel castello e aveva lavorato per parecchi anni per il principe precedente. Quando quello era morto, lui ne aveva preso il posto… Avicenna gli chiese ancora se la sua mole imponente venisse da suo padre o da sua madre; al-Muzdawaj rispose con una risata che l’aveva ereditata da entrambi, tutti e due erano corpulenti, infatti sua madre e suo padre erano cugini da parte di padre. Sorridendo aggiunse che se fosse stato per lui avrebbe sposato anche lui una cugina, così avrebbero generato dei figli giganti! Ah ah… Dopo il suo arrivo a Fardaqan, essendo lui un uomo che valeva per due, aveva sposato due donne: siccome la prima brava moglie di origini curde non aveva generato che figlie femmine, si augurava che la moglie più giovane gli desse solo figli maschi. Suggellò le sue parole e le risate dicendo che era rintanato lì ormai da otto anni, pago del suo incarico di responsabile della fortezza e delle attività di informatori e spie che gli portavano notizie da luoghi lontani e dalle regioni circostanti. «A oggi ci sono circa centocinquanta uomini ai miei ordini, e fra loro ci sono molti malati, ma qui non c’è un medico che possa visitarli e curare le malattie che li affliggono, specialmente coliti e dissenteria. Se tu, che sei un dottore eccezionale, ti occupassi di questo durante il tuo soggiorno qui, mi faresti un grande favore, e ne saresti ben ricompensato nell’Aldilà».
«Questa è una richiesta dalla quale non posso sfuggire, né ho facoltà di non esaudirla. Però avrò bisogno di farmaci, erbe, medicamenti…»
«Non sarà difficile procurarseli: chiederò soccorso a Shaikh al-Rustaq, il Signore del Contado, che non esiterà ad aiutarci».
«E chi è il Signore del Contado?»
«Questo è il distretto rurale più vicino al castello, sul fronte nord-occidentale. Come gli altri distretti è costituito da una catena di piccoli villaggi contigui, sparsi qua e là sui monti e sulle alte colline. Oggi si contano quattordici villaggi. Il Signore del Contado è come un emiro incaricato della gestione del distretto. In altre parole, è il sindaco e portavoce dei villaggi. È un uomo saggio e colto, legge libri. Si chiama Abu al-Zuhair. Domani gli manderò un messaggio per invitarlo a farci visita e a portarci le medicine. Di solito risponde in qualsiasi situazione, e si preoccupa di compiacerci. Per condividere e intrecciare gli interessi che abbiamo in comune».
«Speriamo per il meglio, allora. Non so se mi è permesso presentare un’altra richiesta importante: io sto continuando a scrivere, ma avrei bisogno di fogli di carta. Carta di Samarcanda, se possibile. E di una lampada per scrivere sotto la sua luce in queste lunghe notti che Dio solo sa quando finiranno».
«Avevo previsto questa tua richiesta, e quel che chiedi sarà pronto fra oggi e domani. L’altro ieri avevo già mandato qualcuno a prenderlo. Avevo valutato le tue esigenze, perché so che ami scrivere e so anche che mentre eri nascosto in casa di Abu Ghalib al-‘Attar a Hamadhan stavi scrivendo un libro importante che non hai ancora completato».
«Come fai a saperlo? Non sarai stato tu a indicare il mio nascondiglio?»
«No, dottore, in quel caso sono stati dei delatori. A me nessuno ha chiesto di parlare, ma se il principe Sama’ al-Daula o il generale Taj al-Mulk mi avessero chiesto il luogo del tuo nascondiglio, io glielo avrei detto. È il mio lavoro. Però non me l’hanno chiesto, e io non ho fretta di riferire informazioni. Comunque tu, dottore, non sei stato impeccabile nell’evitare gli sguardi, eh eh… I tuoi allievi hanno preso a frequentarti e a riunirsi con te in quella sede in cui pensavi di essere al sicuro… Quello che mi ha stupito invece è il titolo del libro che, le spie mi hanno riferito, stavi componendo lì: è davvero La guarigione nella sapienza e nella teologia?»
«Sì, e c’è anche un altro libro di medicina, molto importante, che non ho ancora terminato».
«Sei davvero geniale, dottore, a chiamare il tuo libro di teologia e sapienza La guarigione. E chissà quale sarà il titolo che darai al grande libro sulla medicina!»
«Il titolo non l’ho ancora deciso. Ma non ci vedo nulla di strano nel titolo La guarigione: la sapienza, la teologia e la filosofia per le anime sono guarigione».
Il cuore di Avicenna s’illuminò e il suo spirito si distese con gioia quando, tornato nella sua stanza dopo il pranzo con al-Muzdawaj, vi trovò al centro del tavolino un grande calamaio, una risma di fogli, delle penne e una candela nuova con accanto un recipiente in rame antico in cui c’era una focaccia di Bukhara e un pezzo di formaggio. La gioia e la luce nel suo cuore aumentarono quando saggiò la carta: era carta di Samarcanda fresca di fabbrica. Ne sollevò un foglio e ne scrutò in trasparenza la qualità. Poi provò l’inchiostro: era inchiostro vegetale, ottimo perché resta nero a lungo e rovina la carta come avviene con gli inchiostri minerali. In quel momento Avicenna si sentì rilassato e percepì un senso di libertà. Stava quasi per ringraziare Dio in cuor suo, ma la guardia lo fece ripiombare nella realtà della prigionia dicendo: «Ti porterò altre due fiaccole prima di chiudere la porta, affinché tu non rimanga chiuso al buio. Così ha ordinato il comandante Mansur».
La guardia gli aveva parlato con un’ombra di pena e compassione e Avicenna gli fece un cenno di assenso rassegnato; quello entrò e accese lo stoppino del lume appeso al muro, poi dell’altro più grande sul tavolo e uscì. Quando la porta fu chiusa dall’esterno, il cigolio metallico della serratura diffuse un brivido nel corpo di Avicenna, che si consolò dicendosi: «Che gliene viene ad accerchiarmi così, se comunque non ho via di fuga? Non ho intenzione di scappare, e poi, come potrei scappare da qui? E dove potrei andare, dovendo attraversare i deserti disabitati che si estendono per centinaia di parasanghe? Potrei anche immaginare di non essere prigioniero qui, fintanto che ho degli strumenti per scrivere. Però in fin dei conti sono un recluso, che io lo ammetta o meno, e al momento non ho altro che la pazienza per cercare di spogliarmi da questa angustia… I Tuoi destini confondono, o Creatore del creato! Perché mi hai creato in quest’epoca di cattiveria? Perché tormenti ciò che hai creato riversandogli addosso le Tue azioni? L’hai creato nella Tua saggezza, l’hai plasmato nella Tua mano e gli hai infuso dentro il Tuo spirito, ma poi l’hai abbandonato in queste condizioni abiette e spaventose… Perché?»
Per alcuni istanti Avicenna rimase seduto immobile, poi si alzò pesantemente per recitare la preghiera, ma non ci riuscì. Si buttò invece sul letto: forse nel sonno avrebbe trovato scampo dai pensieri e il torpore lo avrebbe liberato dai flutti di afflizione e pena che si abbattevano sulle sue disperate visioni. In poco tempo cadde in un sonno profondo che, al contrario del solito, durò a lungo. Non si destò né abbandonò il suo giaciglio se non quando nelle sue orecchie s’insinuò la voce cavernosa del muezzin che chiamava alla preghiera dell’alba. Fece l’abluzione con una quantità minima d’acqua e si affrettò a compiere la preghiera. Poi si fermò sorpreso di fronte alla stretta finestrella fissando l’oscurità che si ritirava dal cielo nuvoloso, e rimase in piedi immobile come faceva negli anni della sua infanzia a Bukhara, con i pensieri che gli giravano vorticosamente nella testa e facevano scaturire frasi che gli veniva voglia di scrivere…
Rimase a lungo così fermo, finché i rumori nella corte del castello non si moltiplicarono e vennero poi annullati dalla voce di Strillo che non smetteva di dare ordini, di ingiuriare i servi e di insultare i militari. Allora Avicenna si sedette al tavolo e si accinse a scrivere.
Tuttavia quella mattina non scrisse nulla, perché la sua mente troppo affollata e i suoi pensieri troppo stipati lo facevano oscillare fra diverse idee: scrivere un poema, sulla stessa rima di quello che aveva scritto sull’anima, intitolato Le preoccupazioni del prigioniero; oppure comporre una poesiola su medicina e medicine in rima, nella quale, confidando solo nella sua memoria, avrebbe potuto esordire con questi due versi:
Di chieder aiuto a Dio mai smetterà / il questuante Avicenna, che ti dirà:
tu che dei corpi chiedi sanità, / ascolta della medicina le verità…
O ancora completare gli appunti del libro La guarigione scrivendo un capitolo sulla logica.
Quando verso mezzogiorno la guardia bussò alla sua porta e aprì per posare il pranzo sul tavolo, la mente di Avicenna vagava come rapita, pensieri tempestosi continuavano a girargli in testa, e la testa gli girava come se avesse bevuto molti bicchieri di una bevanda invecchiata. I suoi sguardi confusi continuarono a esplorare la stanza, finché la guardia non uscì e chiuse la porta. A quel punto Avicenna guardò il cibo, ma gli occhi erano puntati oltre. Poi d’improvviso si sedette, scostò con gentilezza e attenzione i vassoi, immerse la penna nel calamaio, scelse un foglio di carta e scrisse il primo rigo: «Era molto facile per me, quando risiedevo nel paese di…»
«Signor ministro, il comandante Mansur vuole vederti. Avanti, dobbiamo andare da lui…»
Strillo urlò questa frase da dietro la porta mentre bussava, e nella testa di Avicenna i fili dei pensieri si spezzarono; smise di scrivere e si preparò a uscire. Nel percorso dalla panca alla porta che gli si stava aprendo davanti, sfiorò con la punta delle dita la parete ruvida e umida e pensò al curioso comandante, che sapeva tante cose e che non aveva ancora rivelato tutto ciò che sapeva…
Nella corte del castello, nell’abbacinante luce del mezzogiorno e nell’aria fredda pungente, al-Muzdawaj stava ritto come una torre; era affiancato da due soldati ben più bassi di lui, e alle spalle aveva tre servitori. Quando vide Avicenna venirgli incontro s’affrettò a salutarlo sorridendo, poi lo scortò nella stanza vuota che stava dirimpetto alla camera della sua detenzione. Gli spiegò che non appena procurate le medicine sarebbe stato quello il posto dove ricevere i malati del castello, soldati e servi. A bassa voce aggiunse che quella stanza non si chiudeva dall’esterno. Poi scoppiò a ridere e disse come per ammonire Avicenna: «Ma non pensare di scappare da qui, dottore, perché le regioni intorno alla rocca sono desolate e i cani da caccia che abbiamo sono selvatici come lupi, ah ah ah! E Dio sa bene che io non voglio che ti accada nulla di spiacevole…»
«Non farò niente che possa nuocerti. E siccome l’unica ricompensa per il far del bene è far del bene, hai già messo avanti la tua benevolenza e i tuoi favori».
«Grandioso! Grandioso! Ora siedi qui e rilassati, manderò a chiamare quelli che hanno bisogno di cure e terapie mediche così ne diagnosticherai le malattie, mentre ci procuriamo le medicine».
Avicenna immaginava che per esaminare i malati di tutto il castello sarebbero bastati un paio di giorni al massimo, invece gliene occorsero più di dieci. Non appena portata a termine quella faticosa e noiosa incombenza, mandò un servitore a informare il comandante del castello che voleva incontrarlo. Essendo al-Muzdawaj un uomo di natura generosa, si affrettò ad andare, chiedendo a uno dei suoi assistenti di portar loro il pranzo non appena terminata la preghiera del mezzogiorno. Quando al-Muzdawaj entrò, Avicenna gli diede un caloroso benvenuto, felice che fosse accorso subito. «È il meno che possa fare» gli rispose, «dopo tutto il lavoro faticoso che ti ho visto svolgere in questi giorni. Ed è sorprendente quanto poco tu dorma di notte, visto che scrivi…»
Sorpreso, Avicenna gli domandò: «E come lo sai, se la porta era chiusa? C’è forse qualcuno che mi spia?»
«L’ho capito dal filo di luce visibile da sotto la porta. Qui nessuno ti spia, dottore…»
Era quello il quindicesimo giorno di detenzione del Grande Maestro Avicenna, a cui l’esercizio della professione medica aveva fatto dimenticare di essere detenuto in quella rocca. Totalmente impegnato a esaminare corpi di giorno, e di notte a stendere bozze e poi copiare in bella il Trattatello sulle coliche.
«Raccontami» gli chiese al-Muzdawaj, «in che condizioni hai trovato gli uomini?»
Avicenna prese un foglio dal tavolo e guardandolo rispose: «In totale ho esaminato centoventiquattro uomini, e mi hanno detto che ce ne sono altri trenta che però non ho visto, perché non lamentano nulla, o forse non amano i dottori… Fra quelli che ho visitato, settantotto non necessitano di cure mediche, ma solo di regole generali che andrebbero rispettate per preservarne la salute. Per esempio fare il bagno di frequente, esporre il giaciglio al sole, variare l’alimentazione. Ne ho trovato cinque che soffrono di malattie acute, ai quali bisogna assolutamente somministrare delle cure, perché trascurarli sarebbe letale per loro. Fra essi c’è un servo anziano che si chiama Mahmud al-Nahawandi: in lui si sono unite due malattie, difficili da curare. I farmaci che ho trovato nel magazzino delle scorte sono andati a male, la cattiva conservazione li ha rovinati al punto che non è più sicuro utilizzarli per le terapie».
«Presto ti arriveranno farmaci e medicine: Abu al-Zuhair è rientrato ieri a casa nel Contado, ha ricevuto il mio messaggio e ha promesso di esaudire la mia richiesta, e lui è un uomo che mantiene le promesse. Se non si fosse dovuto assentare per qualche giorno per un funerale a Nishapur, quel che volevamo sarebbe già stato pronto qui da giorni. Il mio messo mi ha informato che Abu al-Zuhair ci teneva a vederti di persona, e a consegnarti un regalo che ti sarebbe piaciuto».
«Un funerale? È morto qualcuno di importante a Nishapur?»
«Sì, Abu ‘Abd al-Rahman al-Sulami, il mistico recitatore di Corano. Lo conoscevi?»
«Di fama… che la clemenza e la soddisfazione del Creatore si posino su di lui… Ho visto delle dispense del suo commentario al Corano intitolato Le verità e ho letto il suo libro sulle vite dei mistici… Ma lui non abitava nella città di Bassora, nel Sud dell’Iraq?»
«Sì, infatti lì è morto e lì è stato seppellito. Ma la sua famiglia e la sua gente hanno tenuto un secondo funerale nella sua casa d’origine, per commemorarne la vita e celebrarne con la popolazione la bontà e la sapienza. Ma, piuttosto, come stanno gli altri uomini?»
Avicenna consultò quanto aveva scritto sul foglio, poi completò il discorso ricordando ad al-Muzdawaj che fra gli uomini aveva trovato un gruppo, per lo più servitori, colpiti da pustole da miliaria, eruzioni cutanee, sfoghi e vesciche. Bisognava provvedere al più presto a eliminare il tutto attraverso dei salassi, e completare poi con una terapia di incisioni, non appena fossero arrivate le erbe medicinali indispensabili per preparare disinfettanti, tinture e unguenti. Aveva trovato anche due uomini colpiti da un rigonfiamento delle ghiandole che stanno dietro le orecchie, quello che i medici chiamano fujithla; per il momento aveva prescritto loro lo stesso trattamento, finché non si fosse procurato i farmaci adatti. Un gruppo numeroso soffriva di colite fredda, con conseguenti dissenteria, costipazione e brontolio di pancia.
Al-Muzdawaj interruppe il resoconto di Avicenna domandandogli come mai così tanti erano colpiti da quella dolorosa malattia, di cui soffriva anche lui.
«Perché questa terribile malattia, Dio la stramaledica, ci perseguita?» chiese con un sospiro. Ma in quell’istante arrivarono i servi con il cibo per il pranzo che posarono sul tavolo davanti a loro. Avicenna sorrise, e indicando i tre vassoi e le pietanze che contenevano disse: «Eccoti qua la risposta, appena servita».
Al-Muzdawaj lo scrutò stranito e replicò: «Ma come! Questi sono i cibi più buoni che si trovano da queste parti, giuro. Quale sarebbe il loro difetto?»
Gentilmente Avicenna gli spiegò che i dolci e i pasticci o le pietanze stufate in tegame, così come gran parte degli alimenti troppo grassi, come quelle isfidhibaja2 e le verdure cucinate che aveva dentro, erano tutte cose difficili da digerire e aumentavano il gonfiore al colon e all’intestino tenue. Poi con molta calma aggiunse: «Anche quelle salse con aceto piccante e panna acida, con tutta la carne grassa e il latte che hanno dentro, sono cose molto nocive per l’intestino e il colon, e quindi per chi soffre di colite sono una vera disgrazia».
Al-Muzdawaj ascoltava Avicenna e annuiva con la testa, ma intanto mangiava a grossi bocconi con appetito invernale, come se le parole del Grande Maestro fossero un sussurro proveniente dal fondo di un pozzo senza fondo. E pur intuendo, con la sua intelligenza istintiva, cosa frullasse nella testa di Avicenna, con una risata disse: «O Dottore di Tutti i Tempi, adesso rispondiamo all’invito di questo pranzo appetitoso, e alle cure daremo inizio dopo, quando arriveranno le medicine, ah ah ah! Ogni male ha il suo rimedio. Prego, favorisci: questa isfidhibaja di legumi ha un gusto squisitissimo, serviti…»
Con la calma che conviene a un medico che soffre anche lui di colite, Avicenna mangiò lentamente dei piccoli bocconi fino a essere quasi sazio, per evitare le conseguenze che ben conosceva, ma assecondando il suo vorace ospite che invece divorava tutto quel che aveva davanti come se il giorno dopo dovesse andare su un campo di battaglia. Una volta terminato, al-Muzdawaj si alzò e si stiracchiò, poi aprì la porta della stanza e si sporse con la testa per urlare ai servitori di affrettarsi a portare il faludhaj3 e gli altri dolci alla frutta che avevano preparato. «E anche una bottiglia di liquore» aggiunse.
L’aria della stanza era satura dell’odore delle pietanze di cui varie porzioni erano avanzate nei vassoi, circondati dalle briciole di pane sparse dalle dita di al-Muzdawaj. Avicenna non amava quell’odore, anzi, fin da piccolo gli dava la nausea. Ma non lo diede a vedere e si augurò che i servitori si sbrigassero a portare da bere e la frutta e a sparecchiare quel che era rimasto sulla tavola, o anche che al-Muzdawaj lo invitasse a uscire in cortile, dove l’aria era pura… Viaggiò per qualche istante col pensiero, riandando ai tempi della sua infanzia. Ricordò il fastidio per l’odore del riso di Bukhara, eccessivamente unto, che sua madre cucinava in continuazione, insieme a carne di pecora e verdure fresche. Quell’odore era accettabile quando aveva fame, prima di mangiare, ma dopo, una volta sazio, era insopportabile, perché gli dava una sensazione di forte fastidio, quasi di soffocamento. L’aveva fatto presente alla madre, ma lei non gli dava peso, prendendolo come un capriccio. Il padre invece rideva di quel suo senso di disgusto e gli ripeteva sempre lo stesso discorso: questa è la prova che gli odori assumono forme diverse in base alla condizione di chi li annusa. Suo padre era un afghano magro e dal profilo affilato, ma era buono di cuore e acuto di mente, amante della lettura. Aveva studiato fin da piccolo, acquisendo conoscenze giuridiche tradizionali e qualcosa di scienze razionali, ed era molto orgoglioso di sé e della sua confessione ismailita4. Appena ventenne era partito da Balkh, la sua città natale, in cerca di fortuna con la speranza di trovare un impiego amministrativo che gli garantisse un buon flusso di entrate, e lo trovò in un grande borgo vicino a Bukhara chiamato Kharmathin. Lì divenne uno dei funzionari alle dipendenze dell’amministrazione del sultano Nuh II, figlio di Mansur il Samanide, che mantenne la regione stabilmente sotto la sua autorità fino alla sua morte. Ma il figlio Mansur ibn Nuh il Samanide non riuscì a preservare il regno di suo padre e di suo nonno e perse la loro eredità quando i militari gli si rivoltarono contro; allora chiese soccorso al suo ex schiavo Sebük Tejin, che a quel tempo era diventato governatore della regione afghana di Ghaznin, che oggi tutti chiamano Ghazna. Invece di soccorrere colui che gli aveva chiesto protezione, il figlio di Sebük Tejin, Mahmud, salì al potere e mise fine alla dinastia Samanide prendendone il posto e assumendo il titolo di sultano di Bukhara, Nishapur e Chorasmia. Poi si diresse in India per compiere delle razzie e si fece chiamare “Campione della Sunna e Repressore dell’Innovazione”.
Nel periodo in cui la dinastia Samanide era stabile ‘Abdallah Avicenna era responsabile del computo e registrazione sui registri delle eredità e della contabilità fiscale per i musulmani, e delle imposte personali su cristiani, sabei ed ebrei. Questo suo lavoro lo portava a volte a girare per i piccoli villaggi nei dintorni di Bukhara. In uno di questi, Afshana, vide una ragazza orfana, chiamata Sitara (una parola persiana che significa “stella”), la sposò e lei gli diede due figli maschi. Lui impose loro nomi che richiamassero da lontano le sue convinzioni sciite ismailite: li chiamò Husain e ‘Ali, ispirandosi rispettivamente al nipote del Profeta, figlio di sua figlia Fatima, e a suo padre l’imam ‘Ali. Al tempo dei Samanidi questo era permesso e nessuno vi avrebbe trovato alcunché di disdicevole o rischioso, come invece avvenne dopo che Mahmud il Ghaznavide prese il potere su quelle regioni.
Quanto a Sitara, la madre del Grande Maestro, era una donna della Chorasmia, di costituzione robusta come gran parte delle donne di campagna, ma aveva un bel profilo e lineamenti forti. Da lei lui aveva ereditato i grandi occhi, le sopracciglia ampie e sorprendentemente alte, i capelli neri e spessi, il cuore gentile e compassionevole verso i poveri. Da suo padre invece aveva preso il naso aquilino, la tenacia e la pazienza davanti alle avversità. E la passione per i libri. Sua madre non leggeva, il mondo che aveva intorno lo capiva col cuore. Il cuore le si strinse quando tutta la famiglia si trasferì dal suo tranquillo villaggio alla città di Bukhara, capitale e metropoli della regione, dal momento che lì suo marito poteva evitare di ricorrere alla doverosa pratica della taqiya, “dissimulazione”, e professare palesemente la sua dottrina sciita. Fece addirittura amicizia con un attivista ismailita che spesso invitava nella casa in cui abitavano a Bukhara. Suo padre sperava di diventare uno di quei missionari sciiti ismailiti che erano riusciti ad andare al governo in Egitto quando al-Mu‘izz li-Din Allah vi era entrato assumendo il titolo di califfo nel 969, otto anni prima che Avicenna nascesse.
Così come il padre di Avicenna, anche suo fratello ‘Ali sarebbe diventato fervente ismailita. Quanto a sua madre, come la maggioranza della popolazione di Bukhara e dei dintorni, era di confessione sunnita. Nel diritto seguivano il rito shafi‘ita o hanafita5, mentre nei fondamenti della religione e della teologia erano o mu‘taziliti o ash‘ariti6. Ma questa brava donna non conosceva le idee della dottrina, del diritto o della teologia; il marito le parlava spesso di quelle questioni che per lui erano molto importanti, ma lei non vi dava gran peso, anzi quei discorsi la annoiavano e lei vi metteva fine con la sua solita frase: «L’importante è che siamo tutti musulmani, Dio sia lodato…» Quando la dinastia dei Samanidi, tollerante dal punto di vista confessionale, cadde sotto la spada del figlio di Sebük Tejin che prese il potere nella regione, la situazione si complicò, anzi, si capovolse, e la famiglia di Avicenna non ebbe più la posizione che aveva prima. Suo padre morì quando lui aveva dodici anni, nel 1002, lo stesso anno in cui Mahmud figlio di Sebük Tejin partì per la conquista dell’India.
«Ti vedo distratto, dottore!»
«Oh, sì, scusami, fratello Mansur, forse questo tuo cibo appetitoso mi ha ricordato il riso di Bukhara che mia madre mi cucinava quando ero un ragazzo, le cose simili si richiamano fra loro…»
«Allora il nostro pranzo domani sarà riso di Bukhara e…»
«No, aspetta, da domani dobbiamo cominciare a regolare la tua alimentazione, cibi e bevande sono metà della cura».
«Ah ah ah, ma io ti ho sentito dire, mentre visitavi, che individuare e conoscere la malattia è metà della cura. Quindi, se il cibo è l’altra metà, non abbiamo bisogno di medicine! Ah ah ah… Dov’è il faludhaj?»
Due servitori entrarono, rimossero dalla tavola i vassoi olezzanti e al posto loro posero due scodelle di porcellana dai bordi decorati in cui c’era il faludhaj sfavillante di gocce di miele e aromatizzato con acqua di rose. Al centro della tavola poggiarono un grande vassoio con dolci melograni e grossi lucidi grappoli d’uva di colore scarlatto. Da dove venivano quelle prelibatezze?
I due servitori uscirono in silenzio per poi tornare e mettere sul tavolo una bottiglia con due coppe. Nella sua infanzia da campagnolo Avicenna aveva sentito parlare del faludhaj, ma non l’aveva mai visto. Quando in gioventù si era trasferito insieme alla famiglia dal villaggio di Afshana alla popolosa città di Bukhara, insieme a suo padre era andato a dei banchetti nuziali e lì l’aveva assaggiato e gustato. Al tempo del suo primo ministero, nella sua casa di Hamadhan c’era uno schiavo che lo sapeva preparare benissimo e lo faceva abitualmente ogni settimana, quindi lui dopo il pasto ne prendeva sempre un po’. Ma negli ultimi anni aveva cominciato a stare attento, perché nonostante la sua sontuosa dolcezza e i suoi vantaggi per lo spirito, era difficile da digerire e avrebbe potuto risvegliare i dolori della colite.
Al-Muzdawaj scorse lo sguardo di Avicenna puntato sulle due scodelle e vi lesse sia la golosità sia la cautela. Quindi, per incoraggiarlo a prendere il faludhaj gli disse: «Questa è una porzione piccola e salutare, devi mangiarla adesso prima di bere questo liquore al caramello, perché dopo non va bene».
«Sì, hai detto giusto» disse Avicenna prendendo con la mano sinistra la scodella e immergendoci con la destra il cucchiaino che poi, deliziato, si infilò in bocca. Al-Muzdawaj rideva, e scherzando disse che una volta un rozzo arabo beduino che assaggiò per la prima volta il faludhaj rimase talmente colpito dal suo squisito sapore che voleva divorarne un vassoio intero; lo misero in guardia dal farlo dicendo che l’affamato, se volesse saziarsi di faludhaj, morirebbe! Quello esitò un istante, poi si accostò al vassoio con ingordigia e disse: «Allora vi lascio in eredità il bene dei miei figli…» Dopo aver trangugiato tutto quello che c’era, si rallegrò. Quelli gli dissero: «Ti avevamo avvertito!», e lui rispose: «Ma mi avevate mentito! Quando dal deserto sono emigrato in città ho vissuto per anni vicino al cimitero, e non ho mai sentito di qualcuno morto ammazzato dal faludhaj».
I due servitori tornarono portando dei carboni ardenti in un braciere di rame antico: nella stanza si diffuse il tepore, e nei cuori dei due commensali e compagni di conversazione, cui la confidenza aveva fatto dimenticare di essere carceriere e carcerato, si diffuse la soddisfazione. Dal giorno del suo arresto era la prima volta che Avicenna si sentiva bene e appagato nell’animo.
Durante quel convivio chiacchierarono amabilmente finché verso la mezzanotte la testa di al-Muzdawaj si fece pesante e i suoi occhi arrossati. Fra gli argomenti di cui parlarono, vi fu una domanda che Avicenna pose su quell’uomo chiamato Signore del Contado: da dove avrebbe preso i farmaci che gli aveva chiesto? Al-Muzdawaj rispose che per quell’uomo nulla era impossibile e che era sicuramente un’ottima persona. Voleva bene a tutti e non odiava né rimproverava nessuno, ed era beneamato dalla gente dei villaggi che era contenta di averlo come portavoce. Anche i governanti erano contenti di lui e gli avevano dato l’incarico di sciogliere le controversie che si accendevano fra gli abitanti dei villaggi, eccetto per fatti di sangue, che comunque accadevano raramente. Faceva da intermediario fra gli esattori delle imposte e la gente per questioni di dazi, tributi e imposte; anticipava il dovuto senza pretendere interessi. Era fortunato, ed era considerato fra le persone più ricche: possedeva orti, frutteti e anche vivaci attività commerciali…
Avicenna gli chiese quanti anni avesse, e al-Muzdawaj rispose: «È anziano, ha ampiamente superato i settant’anni, ma ha un fisico in salute ed è arzillo come un giovanotto. E di sicuro sarà annoverato fra i più longevi, visto che suo padre venne a mancare, ancora in salute, avendo già oltrepassato i novant’anni. E si dice che suo nonno morì dopo aver superato i cento! La durata della vita non ha regole, dottore, non è così?»
«Certamente, ma la salute invece ne ha molte. E fra queste c’è il non eccedere nel mangiare, specialmente ciò che contiene troppi grassi. E anche non eccedere nel bere».
«Ah ah ah, sei davvero uno dei dottori più sopraffini, giuro, e i tuoi consigli sono tutti molto acuti. Vedo anche che ti preoccupi per me, dacché ti ho detto che soffro i dolori della colite».
«È vero. So quanto possano essere molesti quei dolori, perché di recente ho cominciato a soffrirne anch’io».
«Che Dio la maledica, questa è davvero una malattia impudente se ha la faccia tosta di colpire anche il caposcuola dei medici. Raccontami, o Abu ‘Ali, il segreto di questa miserabile malattia, da dove viene e come la si cura? Ha qualche nesso col fatto che io sono un ingordo fortemente attratto dai cibi appetitosi?»
Con le parole più semplici e garbate, Avicenna gli spiegò che non c’era alcuna pecca in quel suo grande appetito, vista la mole del suo fisico. Il corpo ha bisogno di mangiare e bere in proporzione al suo volume e in modo sufficiente ad accumulare delle scorte. Quindi per un corpo enorme il grande appetito non è un problema, tranne nel caso di quel disturbo patologico che in greco si chiama boulemia…
«Bulomia figlia di Tolomio!» lo interruppe al-Muzdawaj con una battuta scherzosa.
Avicenna non lo assecondò nello scherzo e proseguì il suo discorso, serio come se stesse impartendo una lezione ai suoi allievi in un seminario: «È una malattia che la gran parte dei medici chiama “fame canina”» spiegò, «e che altri chiamano “fame bovina”. È quando il malato assume più di quanto il suo corpo riesca a digerire e quindi è costretto a vomitare di continuo. Così la voglia di cibo si annulla e viene meno, in ragione della falsa sensazione di sazietà che avverte lo stomaco, mentre nelle membra restano fame abbondante e insufficiente nutrimento; tutto questo porta il malato a svenimenti e perdita di coscienza. La colite invece, caro Mansur, è un dolore intestinale che rende difficile far uscire i residui che devono uscire, per cui il malato soffre di costipazione. Se la sua origine è nell’intestino tenue, la malattia è nota ai medici come “ileite”, mentre se è nel colon, cioè l’intestino crasso, viene detta “colite”. È una delle malattie più diffuse in queste nostre regioni e fra le varie cause c’è il clima freddo, l’eccesso di legumi nei cibi, il bere smodato…»
Di nuovo al-Muzdawaj lo interruppe con una risata da bambino gigante: «Ma, dottore, stai descrivendo esattamente la nostra situazione e il cibo che abbiamo mangiato!»
«Domani vedremo la realtà della situazione, quando ti visiterò per bene e accerteremo la natura esatta del tuo malessere. Comunque non ti preoccupare, sono esperto di questa malattia e proprio l’altroieri ho iniziato a scrivere un trattato sulla colite, le sue tipologie e le sue terapie».
«Sarebbe bello se tu mi dedicassi questo libro, nell’introduzione o nel titolo: il mio nome diverrebbe famoso fra tutta la gente! Ah ah! Mettigli un titolo come: “L’intrepido Mansur contro la colite” oppure: “Trattato per al-Muzdawaj sulla colite” o anche: “La colite di Fardaqan”, facendo riferimento a questo triste castello…»
«Fratello carissimo, non è bello accostare nei titoli una persona a una malattia. Quando dedichiamo un libro a una persona deve essere un libro di una scienza importante, non una malattia, così il dedicatario può farsene lustro. La cosa curiosa però è che io ho una lunga poesia intitolata Al-Muzdawaja, cioè “La raddoppiata”».
«Come mia moglie!»
«No, è un componimento didascalico sulla logica».
«Componimento, logica… ringraziamo Dio per la nostra poca cultura, la poca scienza e la mente libera!»
Avicenna, improvvisamente sopraffatto dalla sua indole di docente, gli spiegò con gentilezza che la sua poesia era di natura didattica, volta a facilitarne la memorizzazione agli allievi, e quei suoi poemi erano detti componimenti didattici, perché tutte le poesie avevano una composizione metrica. Fra quei componimenti didattici, ogni emistichio in essi contenuto aveva un’unica rima, e questo in persiano si chiamava mathnavi e in arabo muzdawaj, ossia “raddoppiato” o “distico”. La logica invece era lo strumento della conoscenza, ciò che regolava il pensiero. In modo infantile e giocoso, che mal si accordava alla sua mole e ai suoi lineamenti decisi, ma che esprimeva la sua bontà di cuore, al-Muzdawaj gridò: «Allora da oggi quello sarà il mio poema!»
Avicenna sorrise raccontandogli di aver scritto quel poema anni prima a Jurjaniyya di Chorasmia, ossia Gurganj, e l’aveva dedicata a un uomo illustre di quel luogo, il ministro Abu al-Hasan Sahl ibn Muhammad al-Suhli. Dopodiché lo guardò esitante e gli domandò se voleva ascoltarne qualche verso. «Naturalmente, naturalmente…» rispose subito al-Muzdawaj, avendo percepito il desiderio di Avicenna di parlare di scienza.
«Bene, dopo i versi introduttivi di lode a Dio, io dicevo: “Natura umana non è sufficiente / a verità ottener apertamente, // se non è sostenuta da strumento / che al ragionar precluda sviamento. // La scienza logica è quello strumento / che all’acme del sapere dà innalzamento».
«Non ci ho capito niente!»
Avicenna rise di cuore, poi, per cambiare discorso, domandò ad al-Muzdawaj: «Che cosa ti ha fatto capire che la tua malattia era la colite?»
«Me lo hanno detto coloro con i quali mi lamentavo dei miei disturbi».
«E fra loro c’erano dei medici?»
«No, erano tutti degli zotici… Però, dottore, perché aspettare domani? Potresti individuare la mia malattia adesso: la miglior medicina è la tempestività».
Avicenna esitò un istante, poi chiese ad al-Muzdawaj di sdraiarsi sul letto e dopo avergli tastato il polso gli domandò quanti anni avesse. Al-Muzdawaj rispose che era sulla soglia dei cinquanta. Quindi il medico si fece indicare il punto preciso in cui sentiva dolore, e lui disse che partiva da dietro e poi scendeva in basso ed era sempre preceduto da difficoltà nell’orinare e a volte da incontinenza o perdite… Avicenna conosceva bene quei sintomi che però erano in contrasto con i casi di colite, e volendo appurare la cosa premette con la punta delle dita sul rene sinistro; al-Muzdawaj tollerò bene la pressione. Ma quando premette sul lato destro, quello lanciò un urlo e si sollevò di scatto dalla posizione sdraiata, poi si piegò sul fianco destro dolorante. Il Grande Maestro gli disse: «La mia supposizione era corretta: questo non è un tipo di colite, bensì di calcoli ai reni, nei pressi dell’uretere. Il dolore che senti ora è molto forte?»
«Sì, fortissimo. In effetti sarebbe stato meglio rimandare la cosa a domani».
«Non ti preoccupare, rilassati. Il dolore si calmerà piano piano. La tua terapia consisterà in farmaci diuretici che sciolgano i calcoli».
Una volta calmatosi il dolore al-Muzdawaj se ne andò chiudendo la porta della stanza di Avicenna. Questi si coricò sul letto e si mise a fissare il buio fino ad affondare pian piano nell’abisso remoto che separa la veglia dal sonno, dove le palpebre si fanno pesanti e si vedono immagini scomposte e intrichi di sogni… Vide sua madre affaccendata davanti al grande forno che stava sul terrazzo della loro vecchia casa di Bukhara, mentre preparava il pane in cialde sottili insaporite con burro dal profumo pungente e poi le infilava dentro il forno… Vide se stesso ragazzo scrutare meravigliato le stelle in una notte d’estate, quando il cielo gli appariva vicinissimo alla terra… Udì dei suoni soffusi, come gemiti, provenire da un luogo lontano, dopodiché si levò lo strepito di tozzi soldati che s’impadronivano di una città persiana che poco prima del loro arrivo stava dormendo… All’improvviso il mondo tacque e si spense. Cos’era quel buio totale? E cosa sono quelle flebili luci che spuntano in lontananza? E chi sono quegli uomini? E io chi sono?…