4.
Mahyar
Dopo che sulla panca di pietra al-Muzdawaj, ignaro, aveva raccontato ad Avicenna di aver visto Rawan, se lo ritrovò di colpo in piedi, come investito da un turbinio di tempesta, il cuore schiacciato da una morsa di ferro vecchio e arrugginito. Al-Muzdawaj fu sorpreso per quanto accadeva al Grande Maestro, la cui solita calma composta si era dissolta così all’improvviso. Rimase seduto in silenzio finché Avicenna non tornò in sé dopo lo smarrimento, e si rimise seduto accanto a lui sforzandosi di controllare parole e sentimenti e tentando di ridare ordine alle tante domande che tutte insieme si erano accalcate nella sua testa. «Scusami, fratello Mansur» disse Avicenna, «non prendere male la mia reazione. Ma quando hai menzionato quel nome sono stato colto di sorpresa, perché… cioè io… dov’è che hai visto Rawan?»
«Vicino al portone del castello».
«E quando? È stato forse due anni fa, forse verso la metà dell’estate?»
«No, dottore, era l’inizio dell’inverno. Ti racconterò come sono andate le cose».
Al-Muzdawaj raccontò che all’inizio dell’inverno dell’anno 1019 c’erano state tempeste gelide di pioggia fitta mista a grandine. La bufera era durata due giorni, dopo i quali la neve aveva sommerso tutta la regione. In quel frangente, verso mezzogiorno Strillo aveva annunciato ad al-Muzdawaj che era arrivato un soldato bravo a maneggiare la lancia che chiedeva di lavorare per il castello. Strillo gli comunicò di aver visto che effettivamente era molto bravo nel combattere e nell’uso della lancia, per questo suggeriva di arruolarlo nel contingente del castello: poteva tornare utile. Strillo disse che il soldato si chiamava Haydar, curdo di origine, ma cresciuto fra le tribù turche che vivevano nelle montagne dell’Azerbaijan. Con sé aveva anche una schiava, cui avrebbe potuto far prestare servizio al castello in cambio di un piccolo compenso. Strillo aveva concluso il suo discorso dicendo ad al-Muzdawaj: «L’uomo si trova all’addiaccio davanti al portone del castello. Lo facciamo entrare da te, mio signore, così lo vedi e ci dici che decisione dobbiamo prendere su di lui?»
«No, Safawan, potrebbe essere una spia arrivata per sondare il terreno. Uscirò io per vederlo».
Davanti al portone del castello al-Muzdawaj aveva osservato il volto della donna pallida, e aveva capito che in quelle condizioni di deperimento non avrebbe avuto la forza per fare alcun servizio. Quindi si era rivolto all’uomo che era arrivato con lei, e presolo da parte gli aveva detto con volto imbronciato e tenendo la mano sull’impugnatura della spada: «Vedo che sei una brutta persona, e presso di me non intercederà la tua destrezza con la lancia. Dimmi come stanno realmente le cose e qual è la storia di questa donna. Se mi menti con una sola parola ti taglierò la gola all’istante, senza esitazione».
Il vigliacco si era messo a tremare e farfugliando aveva detto di essere di origine circassa, ma che non conosceva i suoi genitori perché era stato rapito quando era piccolo. Era stato lui a scegliersi il nome di Haydar. Voleva prestare servizio al castello e vivere lì perché non aveva altro asilo. «Questa donna si chiama Rawan» aveva detto, «è il mio bottino di un’incursione contro un covo di predoni dalle parti di Dastgerd. Gli abitanti del villaggio ci avevano assoldato per liberarli dalla calamità dei predoni. Adesso è pallida e ingiallita perché è incinta di mio figlio, ma la sua gravidanza non è ancora visibile perché è solo al terzo mese».
Al-Muzdawaj aveva avuto la sensazione che l’uomo stesse mentendo, ma non ne aveva le prove… E siccome in quel momento c’era penuria di uomini – dieci di loro avevano lasciato il castello perché le paghe erano in ritardo a causa dei disordini che c’erano stati a Hamadhan a metà estate – al-Muzdawaj aveva detto all’uomo e alla sua donna: «Nessun problema, ti concedo di stare qui per uno o due mesi, in prova. Ma stai attento a non fare alcunché che mi faccia arrabbiare. Quanto alla donna che sta con te, per lei qui non c’è posto, puoi sistemarla in uno dei vicini villaggi del Contado, che dista un paio d’ore di cammino da qui».
Due giorni dopo, l’uomo che si faceva chiamare Haydar tornò da solo, sostenendo di aver venduto la donna che era con lui a un mercante di passaggio per il Contado diretto a Samarcanda. Al-Muzdawaj l’aveva convocato per chiedergli come aveva fatto, se lei era incinta. Lui aveva detto che era stato costretto a venderla a un prezzo irrisorio: lei non era più in grado di prestare servizio perché troppo debole, ma al tempo stesso lui non poteva sprecare risorse per lei perché era povero in canna. Si era messo a piagnucolare, quindi al-Muzdawaj se n’era andato via disgustato da quella persona.
Avicenna era confuso da quanto aveva udito, le carte si erano mescolate, quindi rivolse ad al-Muzdawaj una fitta serie di domande. L’ultima fu: «Posso vedere quell’uomo?»
«In un’altra vita…» rispose al-Muzdawaj. «Dopo una tua lunga vita, dottore. Quell’uomo è defunto».
«Defunto… Come?»
«L’ho ucciso io con questa mano, perché aveva rubato dieci dinar…»
«Hai ucciso un uomo per dieci dinar?»
«È una lunga storia, te la racconterò durante il pranzo».
Al-Muzdawaj uscì insieme ad Avicenna dalla porta della corte posteriore, seguito dal servitore che stava in piedi vicino alla porta con le idee confuse. Attraversarono il corridoio che passava sopra le segrete fino alla corte anteriore, dove nella stanza di al-Muzdawaj li attendevano le pietanze del pranzo. Lì gli raccontò il resto della storia.
Gli disse che un soldato si era lamentato della mancanza di dieci dinar che aveva messo da parte, senza però accusare nessuno del furto. Tempo dopo, il corriere che veniva a portare vettovaglie e olio aveva già scaricato il suo carico e stava uscendo dal castello, ma sembrava appesantito in maniera insolita. Insospettiti, i soldati lo perquisirono minuziosamente e intorno alla pancia gli trovarono una cintura di lino dentro la quale erano nascosti i dieci dinar, dalla cui scomparsa erano passati già due mesi. Il corriere, spaventato, ammise di essersi messo d’accordo con quell’Haydar per fare uscire la somma dal castello e farsela riconsegnare dopo due giorni nel Contado, in cambio di due dinar. Sfortunatamente Strillo aveva saputo della cosa per primo, quindi si era messo a urlare agitandosi, perciò la notizia si era diffusa fra tutti quanti. Il ladro aveva confessato il suo crimine, e la sua punizione non poteva che essere pubblica, perché l’ordine non deve mai vacillare né la regola essere infranta.
«Se avessi appreso della faccenda prima che si fosse diffusa e propagata» disse al-Muzdawaj, «avrei punito io quel bastardo, duramente, ma poi l’avrei cacciato dal castello. Ma dal momento che tutti qui avevano saputo cosa era accaduto, era necessario applicare la punizione per il tradimento, cioè la morte, altrimenti gli altri avrebbero preso alla leggera la cosa e ai loro occhi il timore per la regola sarebbe venuto meno». Poi aggiunse: «Non si poteva non punirlo con fermezza, perché la forma esteriore che qui preserva tutto, dottore, è il timore reverenziale per l’autorità; la regola qui è ciò che mantiene il controllo su ogni questione…»
Qualche sera dopo Avicenna, essendosi un poco ripreso dalla crisi, tornò sul discorso con al-Muzdawaj. Si era soffermato sulla parola “regola” riflettendo sul suo significato originario, e la trovò appropriata per diventare il titolo del suo grande libro di medicina di cui aveva già scritto molti appunti senza dargli ancora un titolo. Gli sembrava infatti che l’equilibrio fosse la regola indispensabile per governare le condizioni del corpo, così come era necessaria per governare le questioni sociali nei borghi e nelle città.
Al-Muzdawaj gli raccontò che il condannato a morte Haydar aveva cominciato a chiedere clemenza. Nel torrente dei suoi strepiti e lamentazioni aveva detto di sapere molte cose che nessun altro sapeva. Al-Muzdawaj gli aveva chiesto di dire apertamente quel che sapeva, forse avrebbe potuto intercedere per lui. Haydar aveva detto che sapeva che Mahmud il Ghaznavide si stava preparando per invadere quelle nostre regioni. I soldati erano scoppiati a ridere perché era una cosa che tutti sapevano. «Vi dirò altre cose!» aveva detto, ma Strillo lo aveva colpito con un bastone e gli aveva urlato: «Piantala con questi sotterfugi, bugiardo!»
A causa dei pensieri che gli si affollavano dentro, Avicenna si disinteressò del pranzo e rimase ad ascoltare con tristezza quel che al-Muzdawaj gli stava raccontando. E quando quest’ultimo insistette perché prendesse qualcosa da mangiare, il Maestro si scusò ribadendo che voleva soltanto sentire il resto della storia. Al-Muzdawaj quindi completò il racconto, impressionato dalla pena che vedeva negli occhi di Avicenna.
«Allora quel cane confessò qualcosa che mi fece arrabbiare ancor di più. Ci raccontò infatti che Sharwas, il centurione di Hamadhan, si era accordato con lui in segreto per sobillare i soldati contro il ministro Avicenna, e poi aveva attaccato e depredato la sua casa. La donna che era con lui e che aveva venduto al mercante di Samarcanda l’aveva presa nella casa del ministro, poi era fuggito con lei e con una somma di denaro sottratta il giorno della rivolta dal forziere a muro con un’imposta in legno nella camera da letto del ministro… Confessò anche che il suo vero nome era Taz e che a Hamadhan si faceva chiamare Shirfan…»
Al-Muzdawaj bevve d’un sorso quel che restava nel suo bicchiere poi aggiunse: «Quel miserabile senza speranza pensava che l’avrei lasciato vivere e che l’avrei usato contro Sharwas, col quale tutti sapevano che avevo dei disaccordi. Ma le sue parole provocarono la mia ira, quindi estrassi la spada e lo colpii al collo davanti a tutti… Insomma, dottore, ti ho vendicato prima ancora di incontrarti».
«Io non cercavo vendetta, Mansur, volevo e voglio ancora soltanto salvare la poveretta dal suo sinistro destino… Troverò un modo?… Quando sarò scarcerato da qui andrò a cercarla, e forse…»
«Calma, dottore. I soldati mi hanno informato che quel miserabile aveva davvero venduto la tua amata a un mercante di Samarcanda, e tu sai che Samarcanda oggi è caduta nelle mani del Ghaznavide e che i suoi emissari perlustrano ogni angolo della regione. Tutti sanno che lui desidera prendersi una rivalsa su di te, per vendicarsi e fare di te un esempio, perché tu l’avevi offeso contravvenendo al suo ordine e alla sua volontà di inviare gli scienziati a Ghaznin. Anzi, avevi fatto dell’ironia su di lui. Quello è un uomo rude, senza pietà, non rispetta scienziati e sapienti: non consegnarti nelle sue mani».
Avicenna si guardò intorno confuso e cercò di alzarsi, senza sapere dove andare. Il suo commensale se ne accorse e con cortesia gli disse: «O Capitano dei Sapienti, Dio sa quanto io ti stimi e ti esalti, ma sono davvero sorpreso da certe tue posizioni. Per esempio: che cosa ti ha spinto ad accettare un secondo mandato di ministro dal principe Shams al-Din e poi rifiutare un terzo mandato dopo la sua scomparsa, quando il suo successore Sama’ al-Daula e il suo generale Taj al-Mulk te lo avevano proposto? E come mai su di te si sono diffuse voci sulla tua passione per le donne, nonostante io veda ora che aspiri a liberarti dal loro ricordo?»
Con un sospiro Avicenna scosse la testa, e sul suo viso apparve una sfumatura di malinconia mentre replicava ad al-Muzdawaj: «Dio sa che tu sei un uomo di buon cuore e che vuoi intrattenermi con le conversazioni serali per non abbandonarmi ai miei pensieri. E questo è prova della tua nobile indole. Ma in ogni caso ti spiegherò tutto. Quanto al secondo mandato di ministro, lo accettai per due ragioni: perché non si dicesse che io avevo lasciato Hamadhan come defenestrato o depredato, e, più importante, perché non avrei avuto mezzo migliore e più rapido per ritrovare Rawan. Quanto al terzo mandato, l’ho rifiutato perché allora non avevo più energie per restare a Hamadhan. La mia intenzione era di partire per Isfahan, dopo che, in seguito alla morte del principe, la città era diventata angusta e io disperavo definitivamente di arrivare a Rawan».
«Potente Iddio! Ciò significa che per questa schiava hai una passione travolgente. Ma come si concilia con la tua brama per le donne per cui sei rinomato? Nei giorni del tuo secondo ministero a Hamadhan girava voce che in casa tua c’erano bellissime schiave e molte ancelle, e si diceva che tu ti davi a frequenti amplessi…»
«Sì, questo è vero, fu il principe a regalarmene alcune, mentre altre le avevo comprate. All’inizio la cosa mi stuzzicava, ma poi mi prendeva uno stato di depressione; non facevo che aumentare gli amplessi con loro, ma questo mi faceva sprofondare nell’umor nero… Forse cercavo di esaurire ogni energia e sopire ogni sussulto che ruggiva dentro di me… Non so, forse in loro cercavo lei, o forse con loro tentavo di dimenticarla, oppure andavo in cerca di una donna che fosse come lei».
«E l’hai trovata?»
«No. Non esiste una donna come Rawan».
«Come può questo esser vero, mio dottore! Io l’ho vista, e in lei non c’era nulla che attirasse il mio sguardo!»
«Fratello caro, tu hai visto una prigioniera che il suo rapitore aveva portato in giro fra varie città per mesi. Tu non hai visto lei, o meglio, non l’hai vista o osservata come facevo io… E poi non… Mi permetti di tornare nella mia stanza?»
«Certamente, certamente, come tu desideri, dottore».
«Dottore prigioniero…»
Non appena si chiuse la porta alle sue spalle Avicenna si gettò sul letto lasciando vagare la fantasia fra pensieri e miraggi, finché non udì la voce molesta di Strillo che lo chiamava da dietro la porta.
«Dottore, sono arrivati dei visitatori. Il comandante Mansur ha concesso loro di venire da te…»
Scosso dal suo assopimento Avicenna aprì in fretta la porta: alle spalle di Strillo c’era suo fratello ‘Ali, affiancato al suo allievo e compagno Abu ‘Ubaid al-Juzjani. Si intrattenne con loro per un’ora, durante la quale lo informarono su come erano cambiate le cose a Hamadhan dal giorno del tumulto e del caos; gli dissero che avevano intenzione di restare da quelle parti, andando ad abitare con le loro mogli e i loro figli nel Contado finché lui non fosse stato rilasciato da quella prigione, lodando il Signore del Contado Abu Zuhair che era stato generoso con loro.
«È davvero un’eccellente persona…»
Avicenna tacque un istante puntando lo sguardo lontano, poi replicò in tono calmo e deciso che non riteneva giusto che loro due restassero con le loro famiglie nel Contado. Nessuno sapeva quando il periodo di detenzione sarebbe finito, né se sarebbe mai finito! I villaggi del Contado, poi, erano pascolo per le spie del Ghaznavide e una stazione per gente di passaggio di ogni parte: per suo fratello ‘Ali non era sicuro restare lì una volta che si fosse saputo che era un agente della propaganda isma‘ilita…
«Quella, caro fratello, è la confessione dei monoteisti» disse ‘Ali Avicenna al fratello Husain Avicenna, «la stessa a cui ci spinse nostro padre. Io sto camminando sulla sua strada».
«Il tempo è cambiato, caro ‘Ali, ma lascia stare queste polemiche, attieniti a quel che ti ho detto».
«Ti prego, non ti arrabbiare. Dimmi cosa ritieni giusto e io mi atterrò a quello».
«Tu e Abu ‘Ubaid andrete a Isfahan, è quello il posto più sicuro per voi, ora. Lì lavorerete come insegnanti di logica e teologia, ma lungi da voi dall’entrare in discussioni dottrinarie o dogmatiche».
«Ma io… Nessuno mi conosce lì, e non ho un solo libro su cui impartire lezioni… Come potrei…»
«Compilerò io per te un libro adatto all’insegnamento, un compendio generale. Lasciami qualche giorno per portarlo a termine, poi partirai. E tu, Abu ‘Ubaid, potrai insegnare con quel libro, Le ricerche, nel quale Bahmanyar ha raccolto tutto quanto detto nei nostri seminari. E che Dio vi guidi fin là».
Prima del tramonto i due visitatori uscirono per tornare al Contado. Al-Muzdawaj mandò con loro tre dei suoi soldati che andavano in licenza al Villaggio dei Fiori.
La grande stanza era silenziosa, ma i pensieri nella testa di Avicenna facevano un gran frastuono e pervadevano il buio che lo circondava fuori e dentro. Infine si assopì seduto sulla poltrona. Per un certo tempo rimase incosciente, poi si alzò scrollandosi di dosso tutti i tristi affanni, la penosa rassegnazione per la perdita di Rawan, l’ansia per il destino di suo fratello e del suo allievo, l’attesa per il giorno, sconosciuto, della sua liberazione dalla prigionia.
Nel buio Avicenna si mosse a tastoni fino alla candela e la lampada che stavano sul tavolo, quindi le accese e mise via gli appunti del Trattato sulla colite che non aveva ancora terminato e che non avrebbe mai concluso. Quindi iniziò a scrivere il suo compendio a cui aveva dato il titolo La guida. Dopo la basmala25 compose la lode a Dio e il proemio, che vergò in questo modo:
Lode al Signore dell’Universo; preghi Iddio per il Profeta della clemenza, Muhammad l’eletto, e per i puri della sua famiglia e i suoi nobili compagni. Caro fratello ‘Ali, che Dio ti renda felice, garantendoti guida e protezione, disponga per te ogni beneficio, illumini il tuo cuore con la lungimiranza e tenga lontano da te le malattie del tempo e gli incidenti del destino con la Sua generosità e la Sua grande misericordia.
Ordunque mi accingo a raccogliere per te in queste memorie l’insieme delle scienze sapienziali nella migliore delle esposizioni e con le espressioni più chiare, affinché, una volta che ti saranno ben evidenti e pienamente comprensibili, il compito ti sia più leggero e il vantaggio più sostanzioso. Chiedo aiuto a Dio, perché Lui guida sulla retta via chi è sincero nel chiederGli aiuto…
Verso l’alba il calamaio era prosciugato e Avicenna non poté far altro che andare a dormire. Quando si alzò avvertì un doloroso torpore alle gambe, quindi fece una preghiera di due rak‘a26 e poi si rifugiò sul divano, facendone il suo letto. Si addormentò come un bambino, dopo tutte le ore passate a scrivere: aveva riempito trenta fogli, includendo le prime sezioni del primo capitolo sulla logica, che andava dagli enunciati ai significati fino alle dieci categorie, le proposizioni e i vari tipi di giudizi… Avrebbe voluto completare la quarta sezione sul sillogismo, se non gli fossero venuti meno l’inchiostro e l’energia…
La mattina Avicenna chiese soccorso per l’inchiostro ad al-Muzdawaj, il quale gliene fece portare una grande boccetta insieme a una risma di carta di pregio, quindi si dedicò alla scrittura da mattina avanzata fino a mezzanotte. Aveva scritto di suo pugno un totale di quarantasette fogli, che includevano le rimanenti sezioni della logica: il sillogismo, la dimostrazione, l’argomentazione, la retorica, la poetica, la sofistica. Poi iniziò la stesura della prima sezione del capitolo sulle scienze naturali, che includeva la definizione delle scienze fisiche, i princìpi e generi delle alterazioni che si verificano negli esseri fisici, quali movimento, esistenza, corruzione; la natura dello spazio e del tempo… Alle prime luci del giorno lo concluse con un paragrafo d’insieme sul Motore Primo – l’Onnipotente – e sul procedere del mondo, stabilendo chiaramente che il mondo non è primigenio in sé, come pensano i miscredenti, né è un essere in divenire di per sé come sostengono gli atei, bensì è un essere che compare dal nulla per effetto della creazione… Su quel foglio fece molte cancellature, e volendo essere più preciso tornò a riscriverlo più volte finché il testo non assunse questa forma finale:
Il Motore Primo, sferico, è creato e lo ha creato Dio. Lui lo precede di per sé, senza che vi sia necessità di un tempo che sia precedente a Esso. Il mondo invece non ha esistenza in sé e per sé, giacché la sua esistenza proviene da altri che esso; l’esistenza del mondo avviene in un tempo successivo alla sua non esistenza, e questo è il suo divenire; ciò da cui proviene la sua esistenza è ciò che crea la sua esistenza.
Avicenna volle poi aggiungere: «Colui che pone in essere il mondo ne è il Creatore primigenio, per cui il mondo diventa un essere la cui esistenza è posta in essere dall’altro da sé, e di conseguenza il procedere della sua esistenza è primigenio…» Poi preferì essere conciso e cancellò via la frase perché suo fratello ‘Ali non si ritrovasse impacciato nello spiegarla e per non mettere in difficoltà la mente degli studenti che non avessero studiato a fondo la classificazione delle esistenze in essere necessariamente esistente e sussistente in sé – cioè Dio – ed essere la cui esistenza dipende dall’altro da sé, ovvero essere in potenza.
Quel giorno, quando al tramonto il servitore entrò per portare la cena, trovò che Avicenna non aveva ancora consumato il pranzo, e gli domandò se quella pietanza l’avesse disgustato. «No» rispose lui, «ma ero impegnatissimo e mi son dimenticato di mangiare. Adesso più che di mangiare avrei bisogno di muovermi, mi si sono addormentate le gambe per tutto il tempo che sono stato seduto…»
Quindi si alzò per la preghiera, poi uscì nel cortile su cui si apriva la stanza e con calma fece un paio di giri, dopodiché tornò per continuare a scrivere… Il servitore lo osservava con occhio stupito.
La mattina del giorno seguente, sul presto, dal Contado arrivò Mahyar, in abiti raffinati e un elegante turbante. Dietro di lui un servitore seguito da quattro muli che portavano farmaci e prodotti di ogni tipo, tutto il contenuto della bottega dello speziale. Le bestie furono scaricate nella corte posteriore, quindi Avicenna prese subito a esaminarne il carico, manifestando stupore per la sua qualità. Verso il pomeriggio tutto era stato messo al suo posto sugli scaffali. A quel punto la fatica prese il sopravvento su Avicenna, Mahyar e il servitore. Arrivò al-Muzdawaj, visibilmente allegro, che sorridendo domandò al Grande Maestro di cominciare, nelle sue preparazioni galeniche, da quella per lui. Quegli rispose che gliela avrebbe data per l’ora del tramonto e puntualmente a quell’ora gli diede dei confetti a forma di ceci, ciascuno del peso di poco più di un dirharm, composti con semi di carota di terra, semi di cetriolo, anice, sedano di montagna e cannella. Gli prescrisse di prenderne dieci disciolte in poca acqua calda. Gli consigliò inoltre di bere infuso di orzo, il più possibile, perché favoriva la diuresi.
Dopo tre giorni di quella terapia ad al-Muzdawaj si ridistribuirono le urine e in un paio di giorni cominciò ad espellere i sedimenti in cui vi erano frammenti di calcoli, e con quelli si allontanò anche il bruciante dolore, che durò ancora per poco tempo. In quei giorni il Grande Maestro lo curò con polvere di piombo calda, semi di melone e papavero, insieme a una piccola dose di oppio e hashish, per attenuare la percezione dei dolori. Nel giro di una settimana al-Muzdawaj cominciò a intravedere la guarigione dopo tante sofferenze: sembrava un miracolo scaturito dalle mani del Grande Maestro, che sorridendo ribadì: «Le tue forze sono state pronte a reagire ai farmaci anche perché il tuo corpo è in salute».
«Però, Abu ‘Ali, di recente ho avuto un calo nelle questioni di… sesso».
«Non ti preoccupare, è un effetto della cura. Pian piano le tue forze ti assisteranno nel coito. Dovresti soprattutto mangiare cipolla, polvere di bacche di rughetta e semi di canapa. E anche di sesamo, che favorisce la produzione di sperma».
«Che Dio ti benedica e ti favorisca, dottore di tutti i tempi».
Qualche giorno dopo al-Muzdawaj recuperò le capacità che sembravano scomparse e ne fu felice; quindi si mise a pensare a un modo per ricambiare il Grande Maestro. Alla fine gli venne un’idea brillante… Sebbene i tre giorni trascorsi dall’arrivo degli articoli medici fossero stati faticosi, di notte Avicenna non smetteva di scrivere. La cosa sorprese molto Mahyar, sbalordito dalla resistenza del Grande Maestro e dalla sua pazienza, nonostante le fatiche e l’attività frenetica. Di giorno visitava le frotte dei malati del castello – e Avicenna era solito esaminare ciascun paziente con calma e perizia – poi forniva loro i medicamenti necessari per guarirli. Di sera, fino a metà della notte, si dedicava con zelo a preparare vari tipi di farmaci: impacchi, tinture, unguenti, confetti, iniezioni, colliri, essenze, teriache, digestivi, composti galenici. Dopo tutto questo continuava a scrivere il suo libro, La guida, sulla logica, la fisica e la teologia.
In quei frangenti frenetici Mahyar aiutava Avicenna come poteva, ma non essendo in grado di stargli dietro in tutto, gli chiese il permesso di andare a dormire per qualche oretta e prima di mezzanotte venne sopraffatto dal sonno. Per questo fu colto da meraviglia quando venne a sapere che il Grande Maestro si svegliava ogni giorno all’alba per pregare due rak‘a, poi si sedeva a scrivere finché il sole non era sorto annunciando l’inizio della giornata per cominciare a visitare i pazienti… Alla fine del primo giorno, Mahyar gli disse: «Signor dottore, ma non riposi mai?»
«Riposo solo quando quel che devo fare è terminato».
«Pensavo che il “Professore” fosse la persona più robusta e che sopportasse meglio la fatica dello scrivere, ma è proprio vero quel che si dice: tu prodighi ogni sforzo con maggiore pazienza».
«Mi racconterai di Abu Rayhan in un altro momento, quando te lo chiederò. Adesso dovresti medicare le palpebre di quest’uomo che soffre di scabbia con una farina di lenticchie decorticate e bucce di melagrana cotte in aceto. Fallo molto delicatamente. Tu invece, brav’uomo, torna da me per completare la terapia, quando saranno cadute le croste khashkarisha».
L’uomo gli domandò il significato di “khashkarisha” e Avicenna gli spiegò con molta gentilezza che erano uno strato di aspetto solido che assomiglia al sangue raggrumato su una ferita. Le sue palpebre ne sarebbero state rivestite a causa della medicazione, ma poi sarebbe guarito. Tutto ciò glielo disse molto rapidamente e intanto già chiamava il paziente successivo, che lamentava fitte alle orecchie. Il Grande Maestro introdusse nel suo orecchio gocce di olio di mandorle amare selvatiche e gliene diede un po’ da mettere prima di andare a letto, dicendogli di continuare in quel modo per migliorare l’udito. Se il problema fosse perdurato, doveva tornare da lui per eliminare la parte di carne eccessiva nel cavo dell’orecchio… E stava già chiamando il paziente successivo.
Poco prima della mezzanotte del terzo giorno di terapie e scrittura, Avicenna stava preparando delle dosi del lassativo conosciuto col nome di ayraj fiqra, cioè “essenza vertebrale”, e alcuni antidoti mitridatici per curare chi soffriva di colite intestinale e coliche; in quel mentre notò che la sonnolenza cerchiava gli occhi di Mahyar, appesantendogli le palpebre, quindi impietosito gli chiese di andare a riposarsi. Mahyar lo ringraziò ma rimandò per sbrigare le faccende fino a quando non fosse arrivata la guardia loro preposta dal ripostiglio perché gli aprisse la porta.
«Quale porta?» domandò stupito Avicenna.
«La porta del castello, mio signore… La porticina che sta accanto a questa stanza».
«Non passi la notte in una camera del castello?»
«No, mio signore, ho preso in affitto da Mansur al-Muzdawaj due delle camere che stanno oltre le mura per passare la notte lì».
«Strano, non lo sapevo. E perché due camere? Una non ti basta?»
«A me ne basta una, dottore, ma l’altra è per mia sorella e la sua ancella».
«Tua sorella? E come mai è venuta con te?»
«Vorrebbe imparare da te: lei cura le donne, con buoni risultati, e vorrebbe chiederti molte cose approfittando delle tue vaste conoscenze».
«E perché non me l’hai detto prima?»
«È stata lei a dirmi: “Chiediglielo soltanto quando il momento sarà opportuno, così non rifiuterà”».
«E tu pensi che sia questo il momento opportuno? Va’ a dormire, ragazzo, questo è il rumore dei passi della guardia che sta venendo da noi…»
«E a proposito di mia sorella, signore? Ti prego, non rifiutare…»
Avicenna non rispose, quindi Mahyar si ritirò lentamente insieme alla guardia verso il “piccolo regno”, lasciandolo al suo impegno nella preparazione dei farmaci. Avicenna ebbe la sensazione di esser stato sgarbato con Mahyar, e questo non era giusto, visto l’aiuto che quel giovane gli aveva dato con le forniture del Signore del Contado… Il giorno dopo, in un momento di calma della giornata, Avicenna disse a Mahyar che non aveva nessuna obiezione per quanto riguardava sua sorella, ma era meglio lasciar passare due o tre giorni, quando avrebbe terminato con i medicamenti e le preparazioni e avrebbe avuto la mente sgombra per questioni di medicina teorica.
La mattina dopo Mahyar gli riferì che la sorella era molto contenta per il suo consenso a incontrarla e per esprimergli la sua gratitudine aveva preparato dei kalija, ossia quei pasticcini dolci che in arabo si chiamano ma‘mul. Aggiunse poi sorridendo che al-Muzdawaj gli aveva lasciato una chiave della porta sul retro da usare quando voleva. Avicenna non rispose, aveva la mente altrove. Era impegnato con le dimostrazioni dell’eternità dell’anima umana con cui avrebbe chiuso il suo discorso sulle scienze fisiche e quasi ultimato il libro La guida, che avrebbe poi concluso col terzo e ultimo capitolo sulla teologia e tutto quel che concerneva la Causa Prima, l’essere del necessariamente esistente e il legame fra il mondo superiore e il mondo terreno…
Qualche minuto dopo iniziò a visitare i malati, guardie e servitori che Strillo, prodigandosi nello sforzo non richiesto di tenerli seduti in riga presso il muro, faceva entrare da Avicenna nella stanza adibita ad ambulatorio. Come al solito gridava con la sua voce fastidiosa, strillando senza motivo, quindi Avicenna gli si avvicinò con in mano un sacchettino, lo afferrò per un braccio e lo prese in disparte per domandargli a bassa voce se avesse qualche dolore di cui si lamentasse e che lui poteva curare.
«No, signore» rispose quello con voce impastata, «voglio solo essere d’aiuto…»
«Sarai più d’aiuto se adesso torni al tuo lavoro. Prendi questo sacchetto di medicinali e assumine un cucchiaio mischiato col miele ogni mattina».
«Perché?»
«Farà sparire quel giallo che hai in faccia, e non ti farà venire l’itterizia».
«E dove lo vado a prendere il miele?»
«Non saprei, chiedi al cuciniere del castello, di certo nei villaggi vicini ci saranno delle arnie».
«Giusto, chiederò al Signore del Contado di farmene portare un po’. Ma dimmi, signor dottore, le mie condizioni sono gravi?»
«No, ma non trascurare la cura».
Tornando ai suoi pazienti, Avicenna vide che Mahyar sorrideva. Continuò a impegnarsi nelle cure per l’intera giornata, e quando la sera si ritirò in solitudine si coricò per un’ora, poi passò tutta la notte a scrivere finché all’alba non terminò il quinto capitolo sulla sezione della teologia, “Sulla conoscenza”, che chiuse con una frase generale sulla necessità della profezia in ragione del fatto che gli esseri umani hanno bisogno di qualcuno a cui obbedire. «Gli uomini hanno bisogno che questa persona imponga loro, mediante promesse e minacce, degli obblighi in cui si faccia menzione delle ricompense, qualora li rispettino, e delle punizioni se li trasgrediscono. A Dio la potenza e agli uomini la pietà!» E aggiunse una frase: «La profezia è lo strumento che tiene saldo il genere umano, la sua stessa esistenza: se non ci fosse, l’umanità non esisterebbe».
Nei due giorni e nelle due notti seguenti, Avicenna rilesse i capitoli del libro e le sue tre sezioni, quindi lo concluse aggiungendo una sezione sulla felicità sensitiva e intellettiva. In essa diceva che il piacere si differenzia in base al livello delle anime: il più basso è il piacere sensitivo a cui tendono le persone semplici e il volgo, i quali preferiscono seguire la via della legge religiosa in quanto immaginano che la ricompensa nell’aldilà sia di tipo sensibile, e che non vi sia altro tipo di piacere che quello dei sensi. Proprio come un bambino quando immagina che non ci sia altro piacere che il gioco che sta facendo, e che i piaceri della mente, quelli che prediligono gli adulti, siano invece colpi di follia… Concluse il capitolo finale del libro con queste parole: «Non si dia tutto questo peso alle realtà sensibili, e si sappia che i princìpi eterni sono in posizione più elevata e ben più meritevoli di essere desiderati».
Nel ventinovesimo giorno dall’arresto, un venerdì, Avicenna mandò il suo libro La guida al fratello ‘Ali insieme a una nota in cui lo invitava ad affrettarsi a partire per Isfahan e a restare lì insieme ad Abu ‘Ubaid al-Juzjani e alla sua famiglia. Fu buon auspicio che il giorno dopo una grande carovana proveniente da Qazvin e diretta a Isfahan attraversasse il Contado, con una scorta di guardie armate: quindi partirono insieme a quella. Avicenna poté così rilassarsi, sentendo di essersi levato un cruccio che gli pesava sul petto.
Alla fine di quella settimana oberata dalle cure mediche, l’attività terapeutica scemò e non lo tenne più occupato per tutto il giorno come in precedenza. Il giovedì del trentacinquesimo giorno a Fardaqan, al-Muzdawaj portò ad Avicenna un dono in segno di gratitudine per averlo guarito dopo tante sofferenze. Il dono era un letto di ottone con morbide coperte. Al-Muzdawaj avrebbe voluto accompagnarvi un altro regalo, che però Avicenna rifiutò. Dopo che i servitori ebbero montato il letto nel lato più lontano dalla porta, la stanza prima desolata era ora diventata una camera ospitale… e meno di due mesi dopo sarebbe diventata un paradiso o una delle sue aiuole. Congedati i servitori, al-Muzdawaj fu contento di vedere i segni della soddisfazione sul viso di Avicenna, quindi gli sussurrò che c’era un altro regalo in arrivo, entro due o tre giorni… Avicenna gli chiese chiarimenti e lui disse: «Io so, caro dottore, che soffri per la perdita delle donne e la mancanza di concubine, quindi ti procurerò una bella schiava tutta per te che di notte ti scaldi questo letto e si metta al tuo servizio… Verrà da te ogni notte dopo il calare dell’oscurità e se ne andrà all’alba nella sua stanza nel “piccolo regno”. Terremo nascosta questa cosa, la sapranno soltanto due guardie fidate».
«Non spingermi a questo, Mansur. Naturalmente ti ringrazio per la tua generosità e per il tuo interessamento, ma io non indulgerò in cose del genere, le ritengo ripugnanti».
«Ma perché, Abu ‘Ali? Sarà una schiava riservata a te, sarà tua personale proprietà, non una di quelle indiane da quattro soldi…»
«Un detenuto non può avere una simile proprietà personale, né mi par giusto questo concubinaggio di straforo. In ogni caso io sto bene così, e resistere pazientemente ai desideri è un modo per esercitare l’intelletto. E parlando di detenzione, caro Mansur, non pensi che dovremmo prendere in considerazione la condizione dei prigionieri delle segrete? Di sicuro anche loro avranno bisogno di cure…»
«Come vuoi, dottore. Ma se cambiassi opinione riguardo alla schiava, dimmelo, non tarderò a esaudire il tuo volere».
«Che Dio ti protegga, Mansur, e con la Sua grazia ti preservi da ogni male».
Quando al-Muzdawaj se ne fu andato, Avicenna si sedette sul divanetto a osservare il letto con le sue quattro gambe luccicanti e slanciate. Non poteva immaginare che anni dopo proprio su quel letto e in quella stessa stanza avrebbe dormito il principe ‘Ala’ al-Daula ibn al-Kakwayh, quando si rifugiò per un periodo nella rocca di Fardaqan per fuggire da Mahmud il Ghaznavide.
Con la pace nel cuore Avicenna andò al tavolo e vergò degli appunti per due paragrafi del suo grande libro sulla medicina per il quale aveva scelto il titolo La regola. Innanzitutto affrontò l’introduzione, per la quale, dopo il proemio, scrisse: «Questo libro comprende le regole della medicina generale e particolare, in una maniera che unisca spiegazione dettagliata e concisione, precisione e comparazione. Vi parlerò prima delle questioni generali e universali e dei due settori della medicina, quello teorico e quello pratico».
Senza saperne la ragione, d’improvviso Avicenna si interruppe, chiedendosi se avesse senso scrivere quel che stava scrivendo. «Quando finirò questo libro, se mai lo finirò? Quando la finirò con questo mondo terreno le cui ore, col loro passo pesante e la cadenza ottusa, son divenute terrifiche? In esso non trovo alcuna passione che, fosse anche solo per un momento, mi scombussoli o che mi distragga dal mio inesorabile destino finale. Non c’è aspirazione che, anche solo in maniera illusoria, allontani da me la certezza che la distruzione di questo mondo si sta avvicinando… Mentre io curo un malato, a migliaia vengono sterminati da malattie, guerre, dalla demenza del potere e la superbia dei potenti! Alla fine vincerà l’estinzione. Mentre scrivo di scienza e di logica, ovunque aumentano le pretese dei folli, e gli uomini sono sopraffatti soltanto da ignoranza e superstizione. Non ha senso scrivere. Che senso ha la discesa delle anime dal loro mondo metafisico in questa valle terrena destinata a scomparire, condannata alla morte e all’estinzione? E per quale motivo è stata fatta precipitare dalla sua altezza se in questa vita non c’è conoscenza e questo mondo non ha una ragione per cui sia stato creato? Davvero gli spiriti hanno nostalgia della loro esistenza eterna, precedente la creazione dei corpi, e anelano a sopravvivere dopo la corruzione e l’annientamento di questi ultimi? Oppure semplicemente soffrono la confusione di questo mondo e si augurano di lasciarlo verso spazi più alti a causa dell’infima posizione della sua realtà inferiore?»
Avicenna si assopì per alcuni minuti, durante i quali il tumulto che aveva dentro si placò, poi si alzò per muovere le gambe. Prese un paio di piccoli sorsi da una coppa di vino e restò a lungo a contemplarne il colore lucente, e con quello ritornarono prepotenti i ricordi delle settimane che erano seguite al rapimento di Rawan e a come erano trascorse quelle ore di tensione: in quei giorni non aveva avuto pace durante la veglia né felicità durante il sonno, a causa dell’immensa sensazione di vergogna e di grave impotenza che provava. Era costantemente angosciato, estraniato, intollerante verso tutto quel che aveva sopportato e per esser stato sopraffatto dalla natura umana. Quella natura che determina il destino dell’uomo: se è represso si smarrisce e viene domato, se è stimolato sogna.
Girovagò fra quei ruderi di memorie per un certo tempo, poi Avicenna tornò alle sue carte arrendendosi a un destino incomprensibile, o forse rispondendo alla voce che gli veniva da dentro e che gli ripeteva come un’eco quelle parole. Quindi registrò in un appunto quel che gli si era palesato nella mente senza dover fare molte cancellazioni. E scrisse quanto segue:
Libro della Regola. Capitolo quarto: sulle malattie mentali e i turbamenti dell’anima. Sezione finale: la passione. È una malattia ossessiva simile all’umor nero, chiamata in greco melancholia; trascina l’uomo in se stesso istigando i suoi pensieri a sovrastimare l’immagine dell’oggetto della sua passione, e potrebbe indurlo a quel desiderio. Fra i suoi sintomi ci sono: sguardo assente, alterazione dell’umore e del battito cardiaco, deperimento delle membra. Se chi soffre di passione non riconosce l’oggetto della propria passione, quest’ultimo lo si può individuare menzionando nomi, vie e case dei dintorni, tastando contestualmente i battiti del polso. Questi infatti si agiteranno e varieranno sensibilmente alla menzione dell’oggetto della passione o di quanto gli concerne. Questa cosa l’abbiamo sperimentata, e una volta saputolo abbiamo dedotto ciò che poteva essere utile a colui che pativa di quella passione. La migliore terapia per chi soffre di passione è mettere insieme l’appassionato con l’oggetto della sua passione su un unico piano, sempre che sia consentito dalla religione e dalla legge. L’abbiamo constatato più volte. Se in questo vi fossero difficoltà, la cura potrebbe essere tenere impegnato l’appassionato in varie occupazioni che gliela facciano dimenticare, oppure divergere la sua passione verso un altro oggetto di passione, sostituendolo con qualcosa che sia permesso dalla legge. Per esempio con l’acquisto di schiave, favorendo il congiungimento con esse, trovandone sempre di nuove per sostituire quelle vecchie, cosicché si giovi della loro presenza. A meno che questa euforia non si spinga verso un forte desiderio. Se invece all’appassionato ciò è vietato, per ragioni razionali, gli gioveranno consigli, prediche, ramanzine, come anche imporgli delle donne anziane che gli raccontino favole che mettano in cattiva luce l’oggetto della sua passione. In questo esse siano prolisse e si sforzino di trasferire progressivamente l’interesse dell’appassionato verso un diverso oggetto di passione.
«Ci vedremo domani mattina, mio signore, buona serata».
«Mahyar, sei ancora qua! Ormai si è fatto buio…»
«Sì, mio signore, ero nell’altra stanza a contare le dosi dei medicinali per non ritrovarci senza all’improvviso. Uscire ora non mi mette agitazione, ho con me la chiave».
«Benissimo, allora buonanotte. Ma prima dimmi: come mai vedo che tu parli soltanto in arabo e non usi parole persiane?»
«È l’influenza del “Professore”, mio signore, lui ci proibiva di parlare altra lingua che l’arabo. Diceva sempre: “Preferisco che qualcuno mi insulti in arabo piuttosto che mi elogi in persiano o in qualsiasi altra lingua”».
«Ah… Strana questa cosa di Abu al-Rayhan, porta avanti il cosmopolitismo e il sentimento antiarabo, pur sostenendo l’arabo!»
«Ma lui aderisce al partito dell’arabo, ci scrive anche…»
«La distanza fra amore e adesione è grande, Mahyar. Io amo l’arabo e lo scrivo perché le scienze degli antichi sono state tradotte in arabo e in arabo sono state fissate al meglio. Ma questo è un discorso lungo che richiederebbe tempo. Te ne parlerò domani. E tu mi racconterai della tua amicizia con Abu al-Rayhan, se ne avremo il tempo».
Avicenna stava per rimettersi a scrivere, ma notò che Mahyar non si era mosso, quindi lo guardò, e vide che nei suoi occhi danzavano domande che volevano uscire. Così ripose la penna nel calamaio e si appoggiò di nuovo all’indietro per chiedere a Mahyar a cosa stesse pensando e se avesse voglia di esprimerlo. Lui sorrise timidamente e disse: «Mio signore, se mi permetti avrei questa domanda. Come fai a continuare a lavorare duramente per tutta la giornata e poi dedicarti di notte alla scrittura? Per questo prendi forse qualche farmaco rinvigorente, oltre a quei sorsetti di vino?»
«L’ardore, quando infervora, diventa più efficace e incisivo dei farmaci».
«E cosa stai scrivendo, signore?»
«Sono appunti per un grande libro di medicina…»
«Ti andrebbe di dettarmelo?»
«No, Mahyar, sarebbe una fatica inutile per te e lo sforzo ti farebbe commettere molti errori di scrittura».
«Già, e sfortunatamente la mia grafia è pessima, mio signore. Mia sorella invece ha una bella calligrafia, e lei naturalmente spera che tu voglia dettarle qualcosa».
«Tua sorella sa scrivere bene?»
«Certamente, mio signore, e legge anche tanto! Vuole redigere un trattato sulla medicina delle gestanti da portare ai librai sotto uno pseudonimo che ricordi i nomi degli antichi sapienti indiani».
«Che strano discorso. Una donna che legge, scrive e compone trattati di medicina… È mai possibile? E dove trova il tempo? E dove ha studiato? E suo marito e i suoi figli?»
«Lei non è sposata, mio signore, perché… perdonami…»
«Perché cosa? Dimmelo, non esitare».
«Perché, mio signore, lei dice: “Non trovo mai un uomo alla mia altezza”».
«Ma cosa… Vai a dormire ora, Mahyar, ci vediamo domattina».
«Buonanotte, signore».
Avicenna allungò la mano e prese la penna, stava per intingerla nel calamaio, ma si arrestò all’udire il cigolio della serratura della porta che divideva il passaggio fra il castello e il “piccolo regno”. Scosse la testa stupito per quanto gli aveva detto Mahyar: chi era quella ragazza presuntuosa? Di certo era una squilibrata, o forse una civetta. O magari una stupida madornale! Come osa dire cose del genere? Eppure è gemella di Mahyar e lui è di bell’aspetto, di sicuro anche lei sarà bella come lo è lui. No, non è per forza così. Fra i gemelli ce ne sono di identici e non identici, la cosa più probabile è che loro non siano identici e lei sia il contrario di lui, cioè brutta. E dal momento che è ricca gli uomini non le piacciono, perché quelli aspirano solo ai suoi soldi. Sarà una altezzosa che afferma le stupidaggini che va dicendo per ingannare se stessa o per convincere gli altri di qualcosa che è impossibile da far credere. Non trova un uomo alla sua altezza! È molto probabile che sia malata, che abbia qualche squilibrio mentale e che abbia bisogno di cure. Ma adesso la situazione non consente di preoccuparsi di cose come queste, che per lo più sono inguaribili: l’instabilità mentale è cronica.
I pensieri di Avicenna presero a vagare e divagare assopendosi nei desideri dell’immaginazione, giustificati dal fatto che non aveva ancora visto Mahtab.
Il giorno dopo fu più tranquillo dei precedenti. Il sole splendeva ingentilendo la temperatura, e Avicenna concluse la cura dell’ultimo gruppo di pazienti. Gli rimaneva soltanto da seguirne lo stato di salute per aver conferma che i loro corpi rispondevano alle medicine, mentre per alcuni di loro le operazioni chirurgiche non erano urgenti, quindi Avicenna vi avrebbe riservato un paio d’ore nei giorni successivi, dalla tarda mattinata fino a mezzogiorno.
Nel pomeriggio Avicenna si sedette in camera con Mahyar per consumare l’appetitoso pranzo che Mahyar stesso aveva portato con sé. Era un tabahij27 con carne aromatizzato con coriandolo e cipolle, servito con profumato pane rustico di semola. Quando il Grande Maestro mostrò di apprezzarne il sapore, Mahyar sorrise e riferendosi alla cucina del castello disse: «Mio signore, le donne cucinano senz’altro cose più buone e saporite, e mia sorella Mahtab, per sua natura, è un’esperta in tutto ciò che fa…»
Con una serenità che provava per la prima volta da quando si erano incontrati, prima di finire il liquore del dopopasto, Avicenna appoggiò la schiena al muro e, contemplando soddisfatto il bicchiere che rigirava delicatamente fra le dita, disse a Mahyar: «Tempo fa mi hai detto che sei stato allievo per quattro anni di Abu al-Rayhan. Dove è stato e quando vi siete ritrovati la prima volta?»
«A Jurjaniyya di Chorasmia, mio Signore».
«A Gurganj? E quando? Ai tempi del principe Ma’mun il Samanide?»
«Sì, il Professore risiedeva nel palazzo del principe».
«Sì, lo so, ma io lì non ti ho visto».
«Ti racconterò ogni cosa, mio signore».
L’espressione di Avicenna era piena di interesse, quindi Mahyar cominciò a raccontare la sua storia. Mahyar e la sorella gemella erano nati nell’anno 995 nella magica città di Shiraz, nota per i bei lineamenti dei suoi abitanti e la bellezza e i modi aperti e gentili delle sue donne. Il padre, uno dei ricchi ereditieri della città che gestiva lucrosi commerci e poderi, si chiamava Shirwin ibn Rustam ed era noto col soprannome di al-Nabil, “il Nobile”. Amava la sua bellissima moglie di un amore speciale, al punto da prometterle che non avrebbe mai avuto una concubina né sposato un’altra moglie, perché per lui lei era, come le sussurrava spesso all’orecchio e dichiarava anche apertamente, l’unica femmina del creato! Ribadiva – ed era sincero – che nel mondo c’erano molte donne, ragazze, schiave e principesse, ma la sua unica donna era lei. Anche quando tardò di diversi anni a rimanere incinta, la sua passione per la sua donna non diminuì di un grammo, anzi si infervorava col passare del tempo. E questa negli uomini è cosa inconsueta. L’unica volta che rimase incinta gli diede due gemelli, Mahtab e Mahyar. In questo lui vide un dono del cielo e la fonte di una gioia inesauribile.
Era un uomo che amava le lettere e le scienze, e per i suoi gemelli mandò a chiamare maestri e professori per poi affidare la loro educazione a un uomo sapiente fra i suoi parenti. Era di età ben avanzata, ma dalla mente e la memoria forti. Si chiamava Farhad ed era uno dei più famosi allievi del filosofo noto come Abu al-‘Abbas al-Iranshahri28. Shirwin era molto orgoglioso di sua figlia, che rivaleggiava col fratello per discernimento, acume e senno.
A diciotto anni Mahyar sposò la figlia di un socio d’affari di suo padre, il nobile Abu Zuhair, noto come Signore del Contado. La sua gemella Mahtab invece preferì rimandare finché non avesse superato i vent’anni, sennonché il loro padre morì all’inizio del 1014. Lei aveva precedentemente dato il consenso al suo fidanzamento con un ricco uomo di Rayy per accontentare suo padre, ma quando questi morì Mahtab sciolse il fidanzamento perché, a suo dire, aveva trovato che il fidanzato aveva il cervello vuoto ed era un ignorante, mentre lei sarebbe stata appagata solo da un uomo raffinato come suo padre.
Nel 1015-1016 la situazione peggiorò a causa della guerra fra il principe soprannominato Abu al-Fawaris e suo fratello Sultan al-Daula, il governatore di Shiraz. L’intrepido Abu al-Fawaris, volendo prendere il potere con la forza della spada, avanzò con un grande esercito per cogliere di sorpresa Shiraz. Ma dopo un certo numero di battaglie, scontri e disastri che terrorizzarono la popolazione, si ritirò, rifugiandosi in Afghanistan; là si mise al servizio di Mahmud il Ghaznavide, di cui divenne un gran sostenitore e un importante generale. Nel flusso di quelle sventure e col precipitare della situazione che colse Shiraz, Mahyar, con sua moglie, sua madre e sua sorella, si trasferì a vivere nel villaggio al centro del Contado, stabilendosi in una grande casa al centro di alcuni poderi che avevano comprato. L’animo di Mahyar però si distrasse dal commercio, perché desiderava completare il percorso di studio e conoscenza, quindi partì alla volta del gruppo di scienziati che stava a Jurjaniyya, cioè Gurganj, con la speranza di diventare allievo di uno di quei grandi sapienti. Con un tono estremamente gentile Mahyar disse ad Avicenna: «Mi trovavo allegro e speranzoso sulla via per Jurjaniyya in Chorasmia, sognando di poter studiare medicina e filosofia presso di te, mio signore, di poter approfondire i principi della scienza matematica dal Professore al-Biruni, l’astronomia da Mansur ibn ‘Iraq29… E mi auguravo anche di poter assistere ai seminari di filosofia dell’illustre Abu Sahl al-Masihi…»
Il Grande Maestro ascoltava attentamente il racconto di Mahyar e rimase in silenzio fissando le bollicine della sua bevanda come se nella coppa vedesse cose che gli altri non vedevano, finché al termine della frase non venne fatto il nome di Abu Sahl al-Masihi. Allora sbatté le palpebre e in lui si manifestò un imbarazzo dovuto a un terribile ricordo. Mahyar tacque per un istante, ma Avicenna gli fece cenno di continuare a parlare, quindi con tutta la gentilezza che poteva, disse: «Appena arrivato seppi che tu, mio signore, avevi lasciato la città molto arrabbiato, perché Mahmud il Ghaznavide aveva mandato una lettera al governatore Ma’mun ibn al Ma’mun in cui gli ordinava di far trasferire al suo palazzo di Ghazna tutti gli scienziati che aveva presso di sé. E a te la cosa non era piaciuta…»
«Naturalmente, come poteva piacermi! Alla corte di al-Ma’mun c’era la metà di tutti gli scienziati della terra, sarebbe stato giusto che fossero andati tutti a Ghazna per intrattenere quell’ignorante sanguinario, con tutti i massacri e le aggressioni indebite contro i regni che gli si attribuivano?»
«No, mio signore, non era giusto. Allora mi informarono che Abu Sahl al-Masihi era in fuga insieme a te, e che una violenta tempesta di sabbia vi aveva colto durante il cammino. E che lui era morto».
«Sì. Rese la sua anima fra le mie braccia, fra convulsioni da soffocamento. E poco mancò che perissi anch’io con lui. Dio abbia misericordia di lui. Era l’uomo più buono della terra, uno dei più eminenti scienziati e dei medici più valenti».
Avicenna vuotò la sua coppa in un fiato e prese a rigirarla fra le dita, mentre il suo sguardo distratto affogava nella marea dello sconforto. Gli tornarono in mente infatti i ricordi della disgrazia che era avvenuta nel mese di Shawwal di cinque anni prima, nel cuore dell’aspro, immenso e atroce deserto del Kara Kum. Il mezzogiorno del giorno prima della tragedia, il principe Mam’un ibn al-Ma’mun, soprannominato Khwarizmshah, aveva convocato d’urgenza tutti gli scienziati che vivevano alla sua corte nella capitale del regno. Non aveva spiegato il motivo della convocazione di quell’assemblea, che si tenne un giovedì pomeriggio, nonostante fosse uno dei due giorni in cui non si tenevano riunioni fra scienziati alla presenza del principe. Tutti si interrogavano sul motivo di quell’urgenza, e sul perché il principe avesse insistito che fossero tutti presenti, nonché sul mancato invito al loro abituale appuntamento per la sera del sabato. Pensarono che il principe avrebbe comunicato loro la nomina di Abu al-Rayhan al-Biruni come suo primo ministro. C’erano infatti svariati indizi che lo suggerivano, fra cui il fatto che il principe mesi addietro aveva fatto risiedere al-Biruni nel suo palazzo, in segno di stima; gli aveva anche chiesto di misurare l’estensione della terra e calcolare con precisione le longitudini e le latitudini: al-Biruni aveva trovato il modo di farlo e aveva formulato un’equazione grazie alla quale era riuscito a portare avanti il lavoro con successo. Inoltre il principe era stato molto orgoglioso dei due libri che al-Biruni aveva ultimato di recente: Spiegazione dei principi tecnici dell’astronomia, sull’astronomia e i movimenti celesti, e Definizione dei confini dei luoghi per l’accertamento delle superfici delle aree. I membri più ristretti della corte del principe sapevano inoltre quel che aveva fatto per ostacolare l’ingresso dei vertici militari negli affari governativi e le divergenze di questi ultimi con il suo attuale ministro, il sapiente Abu al-Husain al-Suhli, che era ormai in età avanzata e non era più in grado di assolvere al suo lavoro e di sopportare gli oneri del ministero… Per non parlare del risentimento del contingente dei chorasmiani verso il principe, che loro accusavano di alto tradimento rispetto al suo cognato ghaznavide Mahmud ibn Sebük Tejin.
I più grandi sapienti si riunirono dunque in seduta col principe; erano in quaranta e si sedettero secondo la consueta gerarchia. Il volto di Abu al-Rayhan al-Biruni era smunto, di un colore tendente al giallognolo, come se fosse stato d’un tratto colpito da itterizia. Questo aumentò il loro disorientamento. L’imbarazzo raggiunse il culmine quando il principe, accigliato e con in mano un incartamento, entrò senza lanciare il suo abituale saluto. Guardava il rotolo di carta e senza dilungarsi in preamboli o preliminari disse: «Oggi mi è giunto questo scritto dal sultano Mahmud il Ghaznavide, il quale ordina di trasferirvi immediatamente nella sua capitale Ghazna senza obiezioni, ritardi o giustificazioni di sorta. Vuole darsi lustro con la vostra presenza nel suo palazzo…»
Gli astanti furono sorpresi e si levarono brusii, ma il principe li interruppe e col tono di chi si sforza di nascondere l’imbarazzo disse: «La cosa è lasciata a voi, decidete quel che vi pare conveniente, io non vi forzerò a fare nulla, quindi deliberate…»
Per un certo tempo tutti tacquero. Poi Avicenna fu il primo a parlare, e con voce colma di una rabbia violenta disse al principe: «Per Dio, no! Giuro che non accetterò di andare lì per intrattenere il sultano nelle sue serate! Quello è lavoro per cortigiane, cantanti e ballerine, non si addice agli uomini di scienza».
«O Abu ‘Ali, tu sei un insigne dottore, come lo sono tutti i tuoi compagni. Lui vuole farsi vanto fra i governanti della vostra presenza alla sua corte, così che il suo palazzo si fregerà di voi».
«No, mio illustrissimo signor principe. Il sultano di Ghazna non ha alcun interesse per la scienza e per gli scienziati. Al contrario, è notorio che lui ha ammazzato i suoi oppositori. Dovrà cercare qualcun altro che non sono io se vuole farsi bello o vantarsi di qualcuno. Io non voglio diventare un ornamento per il suo palazzo».
«Senti, Avicenna… Io capisco che tu non gli perdoni di aver abbattuto la dinastia dei Samanidi e di aver devastato Bukhara, la tua amata città, annettendola al suo vasto regno…»
«Ascoltami, mio signore, permettimi di interromperti, e ti chiedo scusa per quel che dirò… No, non dirò niente, non ti metterò in imbarazzo con tuo cognato, mio signore. Me ne andrò via da qui al più presto».
«E dove andrai?»
«Non lo so, signore, in tutta sincerità non lo so. Ma la terra è vasta, e la generosità di Dio è ovunque».
«La decisione è tua, Abu ‘Ali. E cosa dice il Professore Abu al-Rayhan? E cosa pensate voialtri?»
In tono infastidito al-Biruni disse: «Non saprei, mio sovrano. Il sultano Mahmud di Ghazna non tiene molto in conto le scienze di cui io mi occupo, anzi, ritiene che la matematica, l’astronomia e la storia delle nazioni antiche non siano scienze utili come quelle religiose che lui celebra…»
Abu Sahl al-Masihi lo interruppe dicendo: «Lui non celebra le scienze religiose in generale, ma soltanto la dottrina sunnita che di recente ha elevato a suo vessillo per dar soddisfazione, temporaneamente, al califfo Abbaside e far dispetto ai governanti Buwayhidi che sono di fede sciita. Lui non riconosce altro che l’islam sunnita di confessione ash‘arita, quindi che se ne farà di me che sono cristiano e che mi occupo, oltre che di medicina, di filosofia e scienze sapienziali che lui considera pari a empietà?»
Dal centro dell’assemblea l’illustre Mansur ibn al-‘Iraq borbottò a bassa voce qualcosa che si capì soltanto dopo che l’ebbe ripetuto più volte: «Vedo arrivare disgrazie, vedo arrivare disgrazie…»
Il dibattito si animò e tutti si misero a gridare spingendo la seduta verso una direzione imprevedibile. I più allarmati erano i dotti noti per le loro simpatie verso la dottrina mu‘tazilita e quelli notoriamente sciiti, ed erano in tanti. In quel flusso di parole il principe rimase taciturno, e spostava lo sguardo sui volti dei presenti che si erano alzati prima del tempo. Quando il suo imbarazzo raggiunse il culmine si alzò di scatto e abbandonò l’assemblea con vergogna, senza dire una parola. Aveva capito che il suo mondo era prossimo alla fine…
A metà di quella stessa notte Avicenna era seduto nella sua camera da letto sommerso dalla stizza e agitato dall’insonnia, quando uno dei suoi servitori venne a comunicargli che Abu Sahl al-Masihi bussava alla porta. Avicenna gli andò incontro e lo trovò avvilito nel cuore e nell’aspetto, quindi gli domandò: «Che cosa succede, Abu Sahl, perché tremi? Entra, fratello, che cos’hai?»
«Ho ricevuto delle notizie proprio ora».
«Siediti e calmati. Di quali notizie stai parlando?»
Era scosso come se avesse la febbre e sussurrò ad Avicenna in un orecchio che un uomo insigne della sua cerchia di nestoriani era venuto da lui poco prima per informarlo che un folto gruppo di soldati si apprestava ad attaccare il palazzo del principe all’alba, con l’intenzione di ucciderlo. Spaventato Avicenna inarcò le sopracciglia e domandò preoccupatissimo: «E come ha fatto quest’uomo a saperlo?»
Non fece quasi in tempo a finire la domanda che Abu Sahl gli rispose in tono risoluto: «È una spia di vecchia data, lo conosco bene e mi fido di lui».
Avicenna era confuso e lo fu ancor di più quando Abu Sahl gli chiese se in casa sua c’era un servitore zoppo di nome Wardan. Sbigottito, Avicenna sollevò le sopracciglia e disse: «C’è, ma come fai a saperlo?»
Abu Sahl gli disse che quel servitore era un infiltrato, una spia del figlio di Sebük Tejin. Lo stesso Mahmud il Ghaznavide gli aveva messo quel nome per lui ironico30. E a voce molto bassa aggiunse che il suo amico gli aveva fatto sapere che coloro di cui quel servitore si era guadagnato le simpatie gli avevano promesso di dargli dei soldi se li avesse informati subito di una eventuale fuga di Avicenna dal paese, cosa che loro prevedevano.
«E poi?»
«Ti inseguiranno per arrestarti e spedirti a Ghazna in manette».
«Ma perché?»
«Perché il figlio di Sebük Tejin ti farà morire in catene, nelle sue prigioni… È in collera con te dai tempi di Bukhara, ed è convinto che tu sia un predicatore della setta sciita isma‘ilita».
«Ma io non ho mai fatto propaganda per nessun dogma dottrinario, e tu lo sai bene».
«Non ha importanza quel che so io, l’importante è quel che pensano loro. E quel che faranno a te e a me. Riferiranno al figlio di Sebük Tejin ciò che hai osato dire oggi nella nostra assemblea, forse lo sanno già, e il loro risentimento nei tuoi confronti crescerà ancora».
Avicenna scosse la testa sconsolato mentre pronunciava in arabo il versetto coranico: «Noi vi mettiamo alla prova con la paura e con la fame»31, e trovò conferma di quel che gli aveva riferito Abu Sahl a proposito del suo servo chiamato Wardan ricordando che pochi giorni prima l’aveva scorto uscire furtivamente di notte per tornare poco prima dell’alba. E quando Avicenna gliene aveva chiesto conto, il traditore Wardan aveva risposto che accudiva degli orfani nella periferia della città, avendo sposato in segreto la loro madre vedova! La sua giustificazione era piuttosto strana e la sua situazione ambigua… Come poteva credergli e fare affidamento su di lui di fronte a tanta stoltezza?
«Non possiamo far a meno di partire prima che spunti l’alba» sussurrò Abu Sahl ancora tremante, al che Avicenna lo portò nella sua stanza e nel tragitto svegliò Qanbar, un servitore fidato che lavorava in casa sua da anni. Nella sua stanza Avicenna tirò fuori i certificati di proprietà di tre schiavi e dell’anziana serva che preparava il vitto, scrisse sul retro di ciascuno dei quattro documenti l’attestazione di affrancamento del suo proprietario e lo siglò col suo sigillo, sul quale Abu Sahl pose la sua testimonianza. Poi dal borsello delle monete prese trenta dinar e insieme ai certificati li diede al suo servo, che era stupito per quanto stava accadendo, e gli disse: «Questa, o Qanbar, è l’ultima cosa che ti chiedo di fare. Parti al più presto senza dirlo a nessuno. Prendi sette di questi dinar per te e fra due giorni dà i rimanenti a ciascuno di loro insieme al certificato di affrancamento. In questi due giorni non permettere a Wardan lo zoppo di uscire di qui o di incontrare alcuna persona, e se necessario incatenalo».
«È un traditore, mio signore, non è vero?»
«Sì, Qanbar, è un infiltrato contro di me».
«Avevo dei sospetti su di lui, maledetto… Vuoi che per questo suo misfatto lo uccida e lo seppellisca nel retro della casa?»
«No, non siamo assassini, e le anime degli uomini non sono una nostra proprietà che possiamo eliminare quando vogliamo».
Appena uscito Qanbar, Avicenna restò un istante indeciso in mezzo alla stanza, poi chiese ad Abu Sahl se avesse bisogno di passare da casa sua prima di partire.
«No» rispose quello, «non ho né figli né beni, e poi il mio amico mi ha messo in guardia dal tornare lì perché loro mi stanno tenendo d’occhio, come tengono d’occhio te».
Protetti dal buio della notte e dai polverosi venti estivi, i due uscirono dalla porta sul retro della casa un’ora prima dell’alba, avvolti in un mantello e con in testa due turbanti sdruciti. Ciascuno dei due aveva in mano e intorno al collo un lungo rosario: avevano assunto l’aspetto di due stravaganti asceti di quella confraternita sufi che la gente conosce come Qalandariyya. Con quel travestimento i due si mossero a passo svelto in direzione di levante, fino a raggiungere l’approdo che si trova sulla sponda del grande fiume Oxus, oggi noto come Amu Darya. Avicenna non informò Abu Sahl del suo progetto di scappare da un destino all’altro, né Abu Sahl gli fece alcuna domanda se non dopo un paio d’ore di navigazione a bordo di una barca diretta a nord, quando il sole della torrida giornata era ormai ben visibile e Abu Sahl si riebbe da qualche sprazzo di sonno. I due erano rannicchiati in coda alla barca e a bassa voce chiese: «Perché siamo diretti a nord, Abu ‘Ali?»
«Perché loro prevedono che noi stiamo andando verso occidente».
«Giusto, è un progetto saggio, ma che accadrà dopo?»
«Verso mezzogiorno, quando ci saremo allontanati abbastanza, attraverseremo il deserto del Kara Kum fino ad arrivare sulla costa del Mar Caspio e da lì navigheremo verso sud su una barca. Poi percorreremo le piste fra i monti dell’Elburz fino ad arrivare a Rayy: lì saremo al sicuro sotto la protezione dei Buwayhidi».
«Bene, ma per attraversare questo vasto deserto dovremo cavalcare per due o tre giorni… che Dio sia con noi e ci tenga lontano dai predoni…»
I due sbarcarono nei pressi di un villaggio affacciato sulla sponda del fiume. Dal servitore di una piccola chiesa ai margini del villaggio Avicenna acquistò due asini macilenti, l’acqua e le provviste necessarie. Quindi senza indugio piegarono il loro cammino verso ponente. L’estensione del desolato deserto è terrificante e angosciante, ed era probabile che fossero in agguato molti pericoli. Ma la mattina del secondo giorno di viaggio nel deserto ebbero un imprevisto, dopo che il primo giorno era trascorso in sicurezza, faticoso ma sopportabile. Di notte avevano acceso un fuoco fra le mura di una casa diroccata, si erano entrambi rallegrati per il vento che si era levato tra fischi e brontolii, perché la cosa garantiva loro l’assenza nei paraggi di lupi famelici o predoni. Tutto a un tratto Abu Sahl, con lo sguardo puntato verso le stelle nascoste dietro la polvere che svolazzava per effetto del vento, prese a cantilenare un inno sacro in lingua siriaca, dal ritmo mesto. Dopo un certo tempo, di colpo si fermò, e con tono rassegnato disse di avere la sensazione che non sarebbero arrivati a Rayy.
Spossato, Avicenna si mise in agitazione. Insieme al suo compagno era arrivato al punto di concentrarsi su pensieri che lo distraessero, e di tirar fuori qualcosa che gli scuotesse la mente e l’esile corpo sfinito e infranto. «Dimmi, Abu Sahl» gli domandò, «hai consegnato ai librai il tuo ultimo trattato sulle malattie infettive e il deperimento per farlo copiare?»
Abu Sahl emise una risata forzata, dimostrando di aver intuito il tranello nella domanda. Non rispose. Anche Avicenna tacque per un momento, ma poi tornò a domandare, come per fare conversazione, quali obiettivi e sensazioni avesse ora. Immediatamente Abu Sahl declamò in arabo i versi di Abu Tammam: «La spada è messaggera più sincera della penna dei libri…» ma non ultimò il verso32. Il suo riso prese a mischiarsi alle contrazioni, e alla fine i suoi occhi presero a lacrimare perché avvertì un sentimento di estrema infelicità.
Su di loro si affacciò un’alba che non sembrava un’alba: era piena di polvere che svolazzava con violenza tutt’intorno… Esitarono un po’ fra il proseguire il viaggio o restare al riparo delle mura diroccate. Nel frangente in cui il vento si placò si affrettarono a partire più contenti, senza sapere che il destino era in agguato.
In mezzo al deserto non c’è riparo né luogo in cui nascondersi. Verso mezzogiorno il vento aumentò facendo danzare all’orizzonte colonne di tempesta, e poi continuò a impazzare sferzando e battagliando con la terra fino a che il cielo non fu completamente ricoperto dalla terra.
Le zampe degli asini non erano più in grado di sopportare il carico né di andare avanti, e non appena i due uomini scesero dalla loro groppa, le bestie liberate furono prese da disorientamento e spavento e partirono col vento impetuoso fino a scomparire alla vista in un turbine di polvere. Avicenna si tolse la tunica e annodò le maniche facendone una specie di torre di stoffa per proteggersi dalle raffiche dell’impetuosa tempesta. Abu Sahl fece la stessa cosa. Ma il mantello non fermava i sassi scagliati dai turbini di sabbia e ben presto le due torri volarono via. Avicenna tentò di proteggere il volto di Abu Sahl che era caduto a terra, in preda a soffocamento e tremori, quindi gli si sedette accanto cercando di fargli scudo dalla sabbia con le logore vesti che gli erano rimaste, ma fu inutile… La furia della tempesta aumentava, le raffiche crescevano e il vento prese a lanciare pietruzze e sassolini che erano posati sul suolo, scagliandoli in aria come dardi. Rannicchiandosi Avicenna cinse con le braccia il suo povero compagno e professore. Sentì il suo esile corpo fremere prima che perdesse i sensi. Lo chiamò con voce indistinta: «Abu Sahl, tieni duro, tieni duro, Abu Sahl…»
Dopo una serie di convulsioni Abu Sahl al-Masihi morì e il vento ne fece rotolare il corpo fino a che fu inghiottito dal deserto ricoperto dalle sabbie…
Quando Avicenna si riebbe dopo essere svenuto e aver perso coscienza per lunghe ore, si ritrovò da solo in mezzo al silenzio. Il volto che il giorno prima il vento aveva lapidato con ciottoli e pietruzze era rigato di sangue misto a terra. Vagò in tondo con passo barcollante nei suoi stracci logori finché non trovò un cumulo di sabbia sotto il quale si scorgeva il corpo del suo povero compagno. Un fiume di lacrime sgorgò dai suoi occhi mentre nel vuoto del deserto urlava con gli occhi rivolti al cielo: «Dio! Dio! È per questo castigo che mi hai creato? Rispondimi, Dio!»
Mahyar comprese che il Grande Maestro era stato trasportato dall’emozione dei ricordi, quindi per educazione e rispetto tacque. Ma poiché il silenzio si prolungava, pensò di provare a consolare Avicenna dicendo: «Mio signore, per quanto orribili siano le cose che hai affrontato in quel viaggio, furono il male minore rispetto a quel che accadde a Jurjaniyya dopo la vostra partenza. Io ero lì e ho visto con i miei occhi le terribili disgrazie che si succedettero».
«Che cosa hai visto, Mahyar? Raccontami».
«Non è meglio rimandare a domani, mio signore? Oggi hai avuto una giornata pesante».
«No, sto bene. E domani passerò tutto il giorno e la notte a scrivere. Raccontami adesso quel che vedesti lì, senza giri di parole».
Mahyar gli raccontò la sua storia: una volta lasciata la sua famiglia nel Contado, dopo la festa di fine Ramadan dell’anno 1017, arrivò a Gurganj – ossia Jurjaniyya, la capitale della Chorasmia – a mezzogiorno del 12 marzo. Gli fu subito evidente la sua vastità, e l’opulenza e il numero dei suoi abitanti. Era la stagione della pioggia, e non appena arrivato domandò di suo cugino Mahdi al-Shirazi che risiedeva lì da anni, quindi si recò alla sua residenza ai margini della città; col suo aiuto prese poi in affitto una piccola casa nelle vicinanze. Era felice, finché il suo parente, durante la serata di benvenuto, non gli raccontò alcuni fatti inquietanti. Molti nobili e uomini d’arme della Chorasmia infatti, come anche gran parte del popolo, ritenevano che il reggente Ma’mun ibn al-Ma’mun non avesse mantenuto la condotta del padre e sottomettendosi a Mahmud di Ghazna fosse rimasto succube della volontà di quest’ultimo, in particolare dopo averne sposato la sorella, la quale si era intromessa negli affari dello stato. Questo era riprovevole per i Chorasmiani, per natura gente orgogliosa di sé e del proprio paese che si riteneva più nobile e più insigne di quel Ghaznavide che aveva tradito i suoi padroni Samanidi, usurpandone il regno e insediandosi a Bukhara – al confine con Jurjaniyya – per poi impadronirsi con la forza della spada di grandi eserciti di mamelucchi delle regioni meridionali, fra le quali la raffinata Samarcanda. Quando Ma’mun ibn al-Ma’mun aveva ordinato agli imam delle moschee e allo shaikh della Grande Moschea di invocare il nome del Ghaznavide nel sermone del Venerdì, come se fosse il califfo di tutti i musulmani, gli animi erano stati colti dalla collera. La rabbia contro il loro governante era cresciuta ancor più perché prima si era dato l’appellativo di Khwarizmshah e poi si era contentato di mettersi umilmente al seguito del Ghaznavide che loro chiamavano “il sanguinario”.
Quel giorno, secondo quanto disse Mahdi al-Shirazi a Mahyar la notte stessa del suo arrivo, era successo un fatto che andava oltre il previsto e aveva portato al limite la pazienza di quanti nutrivano risentimento per il loro reggente. Gli abitanti della Chorasmia tenevano in gran stima il regno dei Samanidi, che coltivava le scienze e patrocinava sapienti venuti da tutto il mondo, perciò quando il Ghaznavide aveva messo fine alle glorie dei Samanidi, avevano pensato che il loro regno ne avrebbe ereditato le glorie. Ma il Ghaznavide, volendoli umiliare, aveva mandato quella stessa mattina un messaggio in cui ordinava a Ma’mun ibn al-Ma’mun, come se fosse uno dei suoi servi o un infimo cortigiano, di radunare subito gli scienziati e i filosofi residenti a Jurjaniyya e trasferirli a Ghazna, la capitale del suo regno in Afghanistan, che in precedenza si chiamava Ghaznin, e che di recente alcuni avevano cominciato a chiamare Kabil o Kabul.
«Non so, figliolo, come si comporterà Ma’mun in questa faccenda. Tutto quello che so è che ha convocato gli scienziati al suo palazzo per il pomeriggio di oggi. È calata la sera e loro sono da lui. Domani sapremo come sono andate le cose. Ora riposati del viaggio, domani le cose saranno più chiare».
La mattina presto Mahyar si destò dal sonno per l’eco di schiamazzi e le voci urlanti e sconnesse che gli giungevano alle orecchie da lontano. Balzò in piedi spaventato e andò subito a casa del suo vicino parente. Lo trovò sulla soglia insieme alla gente della sua casa: stava serrando la porta con mano tremante. Senza attendere che Mahyar gli chiedesse cosa stava accadendo, gli disse subito: «Va’ immediatamente a prendere tutto ciò che hai paura di perdere, non tardare: ci rifugeremo in un posto sicuro. Corri!»
Mentre raggiungevano una vecchia casa fuori città, riparata dietro gli alberi di un boschetto circondato da giardini non più verdi, Madhi al-Shirazi disse che quel luogo era distante e più sicuro. Dopo aver deglutito aggiunse: «Lasceremo qui le nostre masserizie, le donne e i familiari, poi torneremo in città per cercare di raccogliere notizie certe e capire la situazione».
Nella città, spazzata dal terrore e dominata dal caos in seguito all’attacco dei rivoltosi contro il palazzo del principe, Mahdi al-Shirazi assoldò dieci fra i più forti miliziani del Daylam, che già conosceva e di cui si fidava, per proteggere se stesso e i suoi cari. Con loro ritornò poi verso il rifugio che aveva scelto, e nel cammino apprese che l’esercito dei chorasmiani si era spaccato: la maggioranza si era rivoltata, mentre una minoranza era rimasta, malvolentieri, neutrale. I rivoltosi avevano assaltato il palazzo di Ma’mun ibn al-Ma’mun e l’avevano ucciso brutalmente, depredando tutto quel che avevano trovato fra i suoi beni. Avevano fatto prigioniera sua moglie, per umiliarne il fratello Mahmud il Ghaznavide, così come lui aveva umiliato loro. Dicevano che il caos si era ormai diffuso ovunque e che il Ghaznavide, per vendicare la propria reputazione compromessa, si sarebbe ben presto mosso col suo esercito e avrebbe compiuto le più spaventose distruzioni.
Il giorno seguente fu consigliato a Mahyar di tornare dalla sua famiglia e stabilirsi per un po’ nel Contado, lontano ma sicuro. Lui rifiutò. Il giorno seguente andò in città insieme a due miliziani del Daylam per cercare notizie sugli scienziati e su cosa fosse successo loro. Seppe che Avicenna era partito insieme ad Abu Sahl al-Masihi, mentre Abu al-Rayhan al-Biruni era stato fortunato o forse solo cauto. Non era a palazzo al momento dell’assalto e ora si nascondeva in qualche posto sconosciuto, o forse era partito anche lui insieme all’illustre Mansur ibn ‘Iraq. Due giorni dopo gli giunse voce che al-Biruni si era nascosto in casa del ministro Abu al-Husain al-Suhli, quindi si recò immediatamente da lui. Al principio al-Biruni si rifiutò di uscire di casa per incontrare Mahyar, ma dietro le sue insistenze acconsentì a raggiungerlo nel giardino posteriore. Infastidito e accigliato gli disse: «Che cosa vuoi da me, ragazzo?»
«Vorrei seguirti e imparare da te».
«Questo non è né il momento né il luogo opportuno per queste cose».
«Parti con me, signore, ho un posto in un luogo adatto, in cui non ci si deve preoccupare di nulla. Ho soldi e viveri a sufficienza».
«Non sono mai andato in cerca di soldi».
«Certamente, signor professore, lo so bene. Ma io intendevo dire che casa nostra è sicura e che lì nessun bene di questo mondo ti mancherà».
Come se il cielo fosse stato in agguato su di loro, al-Biruni non fece in tempo a sfiorare l’idea che gli era stata prospettata, che uno dei servitori del ministro al-Suhli entrò urlando in casa dalla porta sul retro. «Le avanguardie dell’esercito del Ghaznavide si vedono in lontananza» disse trafelato, col terrore che lo teneva per le briglie, «mentre gli ausiliari, esploratori, spie e milizie che stavano appostati ora stanno accerchiando la città per uccidere chi ne fugge e depredarlo. E l’esercito della Chorasmia si è messo in marcia contro di loro».
Al-Biruni scattò in piedi pallidissimo, e si affrettò a rientrare in casa dopo aver detto a Mahyar: «Ora va’ per la tua strada, ragazzo, finché non si chiariranno le cose…»
A Mahyar non rimase altro che tornare alla svelta al rifugio fuori città che il suo parente si era scelto; lungo la strada vide la gente ormai colta da grande preoccupazione e in lacrime, giacché immaginava la situazione di Shiraz e quel che era accaduto ai suoi abitanti quando Abu al-Fawaris, mesi addietro, l’aveva attaccata per impadronirsene e sopprimere il governo di suo fratello. In un momento di lucida illuminazione capì che quei governanti, ebbri del vino del potere, dell’euforia di diffondere il terrore e di spargere sangue innocente, erano loro i più infimi depravati dell’umanità, più vicini al rango di animali che a quello di esseri umani, per quanto le loro persone si circondassero della pompa del governo e dei fronzoli del potere, professando la propria nobiltà… In realtà gli unici a essere nobili fra gli uomini sono i sapienti…
I soldati chorasmiani non riuscirono ad arrestare l’incursione dei Ghaznavidi che li sovrastavano per numero e armamenti, e dopo un infausto combattimento furono sconfitti. A quel punto il Ghaznavide attaccò la città e il suo esercito invase ogni quartiere, anche luoghi fino al giorno prima sicuri. Soltanto dopo tre giorni garantirono alla gente di poter uscire dalle loro case in sicurezza, ma non per festeggiare il ritorno alla tranquillità, bensì perché fossero testimoni della vendetta del sultano, per il quale fu allestito un seggio affacciato sulla pubblica piazza della città perché da lì potesse godersi lo spettacolo di una crudeltà senza limiti. I militari fatti prigionieri, quelli che erano insorti tentando di impedirgli di entrare nella loro città, furono condotti a gruppi sotto gli occhi degli astanti e furono sgozzati, perché tutti vedessero e perché quel che vedevano fosse per loro un monito. Il Ghaznavide rideva e i suoi accoliti lanciavano urla di giubilo. Dalle biblioteche che avevano distrutto trassero poi una quantità smisurata di volumi rilegati e manoscritti rari e li bruciarono finché non si levarono alte lingue di fuoco che raggiunsero le nuvole in cielo. Il Ghaznavide rideva e i suoi accoliti lanciavano urla di giubilo. Quindi condussero al centro della piazza i giuristi sciiti, incatenati, a capo scoperto, con le mani legate al collo con le stoffe dei loro turbanti, e li sgozzarono a uno a uno come pecore. Il Ghaznavide rideva e i suoi accoliti lanciavano urla di giubilo. Infine portarono un gruppo di imam mu‘taziliti con i loro allievi, e insieme a questi tutti coloro che sostenevano il primato della ragione sulla tradizione: uno dopo l’altro furono uccisi come eretici. Quando arrivò il turno dell’ultimo, un uomo anziano, di statura alta e affilati lineamenti arabi, avanzò verso il tappeto di cuoio dove gli avrebbero tagliato il collo. Rideva, e aveva sul volto i segni della felicità… La cosa suscitò l’irritazione del Ghaznavide e ne rovinò il divertimento, quindi dal suo scranno urlò all’uomo: «Pazzo, perché ridi?»
«Mi fa ridere la tua impotenza, o figlio di servo!» urlò l’uomo con voce stentorea che tutti udirono. «Tu uccidi me che sono il più inerme dei deboli, e ridi. Ma sai che i soldati di Chorasmia che hanno rapito tua sorella adesso si alternano ad abusare di lei in qualche grotta lontana, e ormai avranno di certo consumato la sua vulva ulcerosa».
Il boia colpì il collo del mu‘tazilita con la sua larga spada indiana e lo zittì. Il silenzio regnò per un tempo durante il quale tutti furono ammutoliti, storditi per il grande sconcerto. Il Ghaznavide scattò dal suo grande seggio e gridò al boia: «Cane, perché l’hai ucciso in un colpo? Quello era uno che andava ammazzato con pazienza dopo amare sofferenze… Uccidete quel boia!»
Quindi lasciò il suo posto come se stesse fuggendo da qualcosa che aveva dentro, o dagli occhi degli astanti, seguito dagli uomini della sua corte che gli si precipitarono dietro pieni di preoccupazione.
La mattina del giorno dopo i banditori, attorniati da militari ghaznavidi, andarono in giro per la città chiamando la gente a uscire in piazza e minacciando chi non voleva farlo. Una folta folla si radunò con passo timoroso fermandosi lì, uno accanto all’altro. Fra loro serpeggiavano mormorii: proteggici, o Protettore! Ci ammazzeranno tutti? Non c’è altro dio che Dio, non voglio morire! Perché il sultano vuole vendicarsi di noi? O Signore, abbi pietà di noi con la Tua misericordia, in questo grande giorno! Non succederà niente. Perché i musulmani si mettono in fila accanto a quelli di altre religioni? Iddio vi basterà, Lui ascolta e sa. Io sono sunnita. Quando arriverà il sultano? Perché i militari ci circondano? Guarda, il sultano sta arrivando con tutta la corte…
I banditori annunciarono a gran voce i suoi titoli: Sua Signoria, la “Mano Destra dello Stato”, il sultano razziatore Mahmud figlio di Sebük Tejin, propagatore del vessillo della sunna, fustigatore dell’eresia, conquistatore dell’India, distruttore degli idoli, sostenitore dell’islam e dei musulmani.
Il Ghaznavide avanzò, in capo un piccolo turbante che rivelava il rosso dei suoi scarmigliati capelli e gli occhi stretti ancor più stretti per poter scagliare sguardi taglienti alla gente assembrata. Si avviò verso il palco del giorno prima a passo spedito e lo scalò mostrando i segni della rabbia. Dietro di lui arrivò un gruppetto di cortigiani, non apparve il suo amato efebo Iyaz, né gli altri giovani schiavi ed eunuchi che il giorno prima attorniavano il suo seggio. Non appena si fu accomodato sul trono, il banditore si levò per salire verso il palco al centro della piazza e urlare: «L’Altissimo ha detto: “Quelli sono come chi ha acceso un fuoco, e quando s’illumina quel che c’è d’intorno, Dio porta via da loro la luce e li lascia nelle tenebre senza che possano vedere, sordi, muti e ciechi. Eppure non recedono”, e anche “Dio i miscredenti li accerchia”33 – e Iddio l’Immenso dice il vero. Con la benevolenza di Dio, dopo l’indagine le prove si son ora fatte abbondanti. È stato stabilito che la pia e pura martire sorella del sultano Mahmud, moglie del Khwarismshah Ma’mun figlio di al-Ma’mun – che Dio abbia misericordia di loro – è venuta meno per la grande paura e ha esalato il suo ultimo respiro quando i criminali hanno assaltato il suo castello e ucciso suo marito. I criminali hanno tenuto nascosta la sua limpida salma, pensando di sfuggire al loro castigo. Ma Dio, alle loro spalle, è accerchiante! Persone sincere hanno rivelato il loro nascondiglio al sultano e il giudice ha dato conferma che sono stati loro a commettere questo atroce crimine, sentenziando contro di loro il verdetto dell’ignominia. Eccoli, condotti alla morte innanzi a voi, e vedranno!»
Guardiani e boia avanzarono trascinando cinque uomini con le vesti stracciate dai colpi di frusta e i volti deformati dalle fustigazioni. Sistemarono sul tappeto di cuoio i loro colli e con le spade staccarono loro la testa dal corpo. I soldati e gli accoliti del sultano gridarono: «Dio è più grande! Dio è più grande!»
Quindi il sultano si alzò lentamente, si fermò al bordo del palco e mostrando soddisfazione tuonò: «Dove sono gli altri eretici?»
Dal lato orientale della piazza, dove si trovava la sede della polizia, che dopo il loro arrivo era diventata una prigione, un militare del sultano condusse circa cento uomini incatenati, vestiti non di abiti ma di pelli di toro e umiliati, pronti per i boia…
Mahyar ebbe un sussulto quando fra gli uomini condotti a morte vide Abu al-Rayhan, e con lui l’esimio Ibn ‘Iraq e il dotto tradizionista chiamato Abu al-Khair al-Khimar… Quando questi illustri personaggi si avvicinarono al resto del gruppo, molti di quelli assembrati nella piazza si turbarono e si levarono dei mormorii. In quel momento dalla cerchia del sultano si alzò un uomo dai tratti nobili e gli sussurrò alcune parole all’orecchio. Il sultano fece un cenno col capo in segno di assenso e con la mano impose ai boia di aspettare. L’uomo dal nobile volto scese incespicando verso quelli che procedevano rassegnati verso il loro destino e ne isolò un gruppo, venti persone circa, fra i quali al-Biruni, che le guardie riportarono in prigione, conducendo gli altri verso la morte.
Mahyar seppe in seguito che quell’uomo, un cortigiano vicino al sultano, chiamato Abu Nasr Mishkan, aveva intercesso in favore degli scienziati presso il suo sultano, convincendolo che i re avevano bisogno di persone come al-Biruni che, essendo un astrologo, poteva per lui leggere il destino; gli altri invece si occupavano di scienze dei numeri e aritmetica, cioè la base del calcolo matematico di cui il potere ha bisogno per controllare gli affari dei tributi, dei bottini e dei dazi da imporre al commercio.
Quella terribile giornata si concluse con molti altri eventi. Le guardie condussero un gruppo di grandi e ricchi mercanti alla corte del sultano, che guardandoli torvo in faccia disse: «Mi è giunta voce che voi siete dei qarmati»34.
«O sultano» risposero loro a voce alta, «non siamo qarmati, abbiamo dei beni che ci possono esser sottratti, ma siamo innocenti da quell’accusa!»
Quindi il sultano ordinò che ciascuno di loro pagasse metà dei suoi beni, dichiarando ufficialmente di non essere qarmata o eretico.
Quel giorno, inoltre, il sultano proclamò la sicurezza generale, che la Chorasmia veniva annessa alle province del suo regno e che Tutnash, il suo ciambellano, avrebbe assunto l’incarico di governarla. A fine giornata il sultano invitò tutto il popolo al jihad e a diffondere l’islam, incitando i giovani che volevano seguire il buon esempio delle antiche generazioni ad arruolarsi volontari nel suo esercito, che avrebbe continuato a razziare l’India per diffondervi la retta religione.
Dopo che le tenebre ebbero ammantato il cielo, Mahyar seppe che al-Biruni e quelli che erano scampati alla morte sarebbero stati condotti sotto scorta a Ghazna e lì imprigionati, e pensò di seguirli. Il suo parente al-Shirazi gli domandò se questo suo desiderio fosse serio, e Mahyar rispose: «Zio, quegli scienziati sono le fiaccole da cui trarre luce. Un giorno finiranno le loro disgrazie e il sultano dovrà loro soddisfazione e li libererà, e io potrò imparare da loro».
«Ma come fai a saperlo, figliolo, e come puoi imbarcarti in un’avventura come questa, piena di ostacoli e tutt’altro che sicura?… Ghazna e l’Afghanistan sono terre aride e aspre, tu non le conosci…»
«Zio, io so che al-Biruni e quelli che sono con lui sono le persone migliori sulla terra, e loro oggi hanno bisogno di aiuto».
«Se insisti… Ma aspetta almeno fino a domani, può darsi che trovi una strada sicura. Avvertirò al-Ma’mun».
Al-Shirazi era un poeta e un amante delle scienze e della conoscenza, ed era ben certo che coloro che stavano partendo per le prigioni del sultano a Ghazna avrebbero avuto bisogno di conforto. Comprendeva anche il desiderio di Mahyar, quindi si adoperò, tramite le sue conoscenze, per giungere a un accordo privato con un pezzo grosso della guardia ghaznavide che avrebbe accompagnato gli scienziati verso la prigione. In segreto gli passò una somma di denaro in cambio della possibilità di Mahyar di andare con loro, nei panni di un mercante che trasportava un carico di frutta secca in partenza da Jurjaniyya per Ghazna e che voleva la protezione di una scorta. Così Mahyar partì verso il deserto meridionale con il convoglio militare che conduceva gli scienziati alle prigioni. Durante il viaggio, che durò due settimane, si prese cura di al-Biruni e i suoi compagni, intrattenendosi con loro per alleviarne le sofferenze.
Non appena giunto nella capitale del sultanato, il carico, col quale si era messo in viaggio sfruttandolo per accompagnare al-Biruni e i suoi guardiani, costituito da sette cammelle e cammelli battriani, inaspettatamente fu venduto a Ghazna per tre volte il valore che aveva a Jurjaniyya, giacché in Chorasmia ci sono molti orti e frutteti e i suoi abitanti ne fanno essiccare i frutti, invece le regioni afghane sono montuose e desertiche e ci sono pochi orti. Ghazna poi è molto popolosa, perché oltre ai suoi abitanti vi si affollano decine di migliaia di schiavi mamelucchi che il sultano ha acquistato per farne i suoi soldati, oltre a innumerevoli giovani volontari del jihad che avevano risposto agli appelli lanciati di continuo dal sultano. Quanto ai prigionieri e alle prigioniere indiane, erano diventati talmente numerosi che si poteva fare a meno di acquistarli: un singolo uomo veniva venduto per nove dirham di Balkh, ossia un terzo del valore di una capra macilenta.
Così, senza volerlo, guadagnò una bella somma che gli permise di prendere in affitto una casa vicino alle prigioni e di pagare qualche moneta ai carcerieri perché facessero arrivare ad al-Biruni quello di cui aveva bisogno durante la sua detenzione, e gli concedessero di fargli visita ogni volta che ce n’era l’occasione. Quando esaurì i soldi che aveva fortunosamente intascato, fu sua sorella Mahtab a fargli avere quello di cui aveva bisogno. Tramite i mercanti e i corrieri che facevano la spola fra i vari paesi, Mahyar iniziò a inviarle le novità su di sé e notizie del Professore…
Avicenna sollevò le sopracciglia sorpreso e domandò a Mahyar: «E cosa c’entrava tua sorella con Abu al-Rayhan?»
«Lei era innamorata di lui, amava i suoi libri e le sue opere».
«Tua sorella? Ma come… Mi avevi detto prima che si occupava di medicina, di curare le donne… Per quale motivo si interessava di scienze fisiche e matematiche?»
«Mio signore, lei dice che le scienze sotto sotto sono tutte collegate fra loro in qualche strana maniera».
«Lei dice questo? Strano, non ho mai sentito di una donna simile…»
«Solo perché la gente non insegna alle donne, mio signore. Ma mio padre lo ha fatto. Non vuoi concederle di incontrarti? Sta aspettando oltre il muro».
«Di quale muro stai parlando?»
«Di questo, mio signore. Abita nella camera adiacente alla tua, ma all’esterno delle mura del castello. Ho avuto dal comandante Mansur al-Muzdawaj il permesso di farla entrare. Me l’ha accordato a condizione che tu approvassi la cosa e che l’incontro con te avvenisse dopo il tramonto. Cosa ne pensi, signor dottore?»
Avicenna era confuso e imbarazzato; si sfregò i baffi e la barba leggera e, dopo una certa esitazione, trovò una via d’uscita e disse a Mahyar: «Lasciamo perdere tua sorella per ora, e finisci di raccontarmi la tua storia con al-Biruni».
Al-Biruni trascorse sei mesi nella prigione di Ghazna, poi, grazie all’intercessione di alcune persone, fu rilasciato perché tenerlo prigioniero non aveva alcuna utilità. Distrutto nell’animo, andò ad abitare in un misero villaggio vicino alla capitale sultanale chiamato Jaifur. Mahyar lo seguì e da lui imparò i dettagli dell’astronomia e della geodesia. Studiò con al-Biruni i metodi della dimostrazione e del calcolo trigonometrico nei quali il Professore eccelleva, e da lui apprese anche il metodo dell’illustre Ibn ‘Iraq nell’utilizzo dei segmenti di cono per risolvere le equivalenze algebriche. Anche Ibn ‘Iraq, che abitava vicino, fu presente ad alcune di quelle lezioni: sedeva in un angolo in silenzio contentandosi di osservare al-Biruni mentre spiegava. Dai suoi occhi traboccava molta sofferenza e ben poca speranza.
Con al-Biruni Mahyar lesse, su consiglio dell’illustre Ibn ‘Iraq, il libro di Euclide sui Fondamenti della geometria e l’Almagesto di Tolomeo di Alessandria. Mahyar constatò di persona la genialità di al-Biruni nella misurazione dell’oceano che racchiude la terra, basandosi sul metodo innovativo che Abu al-Rayhan aveva descritto nel suo straordinario libro L’astrolabio. Era partito dal calcolo della superficie di un “triangolo immaginario” proiettato dall’ombra del sole al tramonto su un terreno piano dal quale si elevavano alte montagne, in maniera che l’altezza delle montagne fosse un cateto di quel triangolo rettangolo e la sua sommità il vertice superiore del triangolo immaginario, mentre i punti proiettati dall’ombra avrebbero originato gli altri due angoli.
Pian piano le cose si stavano appianando per Mahyar che, anzi, era quasi felice: godette per tutto un periodo dell’apprendimento della conoscenza e della compagnia di persone importanti, ed era addirittura intenzionato a chiamare sua moglie, sua sorella e sua madre a vivere con lui in quel villaggio vicino alla capitale del sultanato ghaznavide. Ma nel maggio del 1019 fu invece il sultano a chiamare Ibn ‘Iraq e al-Biruni per comunicargli che sarebbero partiti insieme per la spedizione in India. I due risposero con obbedienza e in completa sottomissione… Mahyar andò con al-Biruni, e insieme a lui vide gli orrori che accaddero in India. Con i suoi occhi lì fu testimone dell’incarnazione della miseria umana, situazioni atroci che sfidavano la religione e l’intelletto.
Tornati a Ghazna da quella spedizione, il sultano chiese al Professore di scrivere un trattato per il califfo Abbaside di Baghdad in cui gli avrebbe raccontato le sue ultime conquiste indiane e tutto quanto era avvenuto durante gli spaventosi mesi trascorsi lì. Al-Biruni non era in grado di respingere la richiesta del Ghaznavide, quindi scrisse quel trattato di cui furono fatte molte copie e la sua diffusione raggiunse ogni regione e paese. In esso diceva: «Ho conquistato ampie porzioni del territorio indiano; sono entrato in una città in cui c’erano mille castelli ben costruiti e mille templi per gli idoli, e in quei templi c’erano tantissimi idoli. La quantità d’oro che ricopriva la statua di un solo idolo si aggirava intorno ai mille dinar. La somma degli idoli d’argento superava i mille dinar per idolo. Lì hanno statue enormi, la cui costruzione fanno risalire a trecentomila anni fa. Abbiamo depredato tutto quello e molto altro; i combattenti della fede hanno fatto gran bottino, innumerevole, incalcolabile, e poi hanno disseminato incendi in tutta la città. Non ne hanno lasciato che il tracciato… Il numero dei morti fra gli Indiani ha raggiunto i cinquantamila. Ventimila si sono convertiti: di questi un quinto li abbiamo destinati alla schiavitù, per cui il numero di schiavi e schiave ha raggiunto i cinquantatremila. Abbiamo ottenuto beni per venti volte venti milioni di dirham, e qualcosa di più in oro».
Mahyar non sopportava la vista degli abomini che erano stati perpetrati in India, e spesso si svegliava di soprassalto, impaurito. Avendo visto le grandi stragi che malattie ed epidemie facevano lì – molte città di quei paesi erano addirittura completamente svuotate, e non vi erano rimaste che case diroccate e cadaveri – gli venne voglia di studiare medicina. Constatato il suo interesse crescente, al-Biruni gli consigliò di lasciare Ghazna giacché il sultano, all’inizio dell’anno, aveva intenzione di riprendere la spedizione in India per depredarne il suo più grande tempio, cioè quello dell’idolo chiamato Sumanath, dove si trovava una statua del loro veneratissimo dio Shiva fatta di oro puro, il cui valore era stimato in migliaia di migliaia di dinar. Il cuore di Mahyar tremava mentre diceva al Professore: «Questo significa spargimento di sangue di migliaia e migliaia di indiani. Riusciremo a sopportare il dolore di quello sterminio e la vista di quei massacri?»
«Qui io sono un detenuto» gli rispose al-Biruni con voce affranta, «e non ho possibilità di scappare. Ma tu invece puoi partire in pace e tornare dalla tua famiglia. Oppure, visto che vuoi studiare medicina, potresti andare a Hamadhan e diventare allievo del “giovanotto perspicace”». Intendeva dire Avicenna.
Il Grande Maestro ascoltava con interesse quel che Mahyar gli raccontava, ma si arrabbiò quando udì quella definizione. «Non so che cosa sia successo ad Abu al-Rayhan» disse a Mahyar, «e perché mi abbia definito “giovanotto perspicace”, quando io ero già ministro, e l’allievo eri tu!»
«Mio signore, lui non intendeva offenderti. Ti aveva già definito così nel suo libro Antichità sopravvissute dei secoli andati».
La spiegazione di Mahyar non convinse Avicenna, che aggrottando le sopracciglia per la rabbia disse: «Mi definiva “giovanotto perspicace” quando entrambi eravamo giovani, ma le Antichità le scrisse quando io avevo trent’anni e lui li aveva superati solo di qualche anno. Quanto allo scorso anno, quando si è svolta quella conversazione fra voi, io ero ormai oltre i quaranta e già mi chiamavano il “Grande Maestro”. Perché dunque mi ha definito in quel modo davanti a te che sei un allievo? Non è stato corretto da parte di Abu al-Rayhan. Mi era giunta voce che avesse scritto un trattato riguardante lo scambio di corrispondenza che avevamo avuto anni addietro, in cui diceva: “Abu ‘Ali, a dispetto del suo acume e il suo ingegno, non è affidabile e non ci si può basare su di lui”, perché trovava strana la mia affermazione che i raggi luminosi siano un corpo fisico».
In quell’istante entrò al-Muzdawaj e, trovando Avicenna arrabbiato e con le sopracciglia aggrottate, disse con tono palesemente ironico: «Cos’è che ti ha fatto arrabbiare, signor dottore? Dimmelo tu, Mahyar, e io punirò subito quel cane che ha dato fastidio al Grande Maestro».
«Niente, signor comandante» rispose Mahyar a voce bassa, «stavamo parlando del professor al-Biruni e del sultano Ghaznavide».
«Ah ah ah, allora io non c’entro niente, né con l’uno né con l’altro: questo al-Biruni non lo conosco, mentre sul Ghaznavide non ho alcun potere! In ogni caso stiamo calmi, le cose orribili che fa il Ghaznavide sono ormai diventate un’abitudine, signor dottore, questa è la condizione della nostra epoca ormai da cento anni, e sarà ancora così per i prossimi cento. E qualunque cosa abbia fatto quell’al-Biruni non potrà mai superare gli abomini del Ghaznavide… Quindi non ti arrabbiare per ciò che fa la gente di questo nostro tempo abietto e spregevole».
Avicenna scosse la testa dispiaciuto, posò il bicchiere vuoto sul tavolo e disse ad al-Muzdawaj: «Caro Mansur, non sono le epoche che hanno una propria condizione o natura, sono le azioni degli uomini che danno il colore ai loro giorni. Gli spargimenti di sangue commessi da quell’uomo e la distruzione che ha seminato con la scusa della guerra sulla via di Dio e della propagazione dell’islam è qualcosa che né l’intelletto né la religione hanno stabilito…»
«Ma ora non dobbiamo occuparci di questo, dottore» lo interruppe al-Muzdawaj. «Ho notizie importanti».
«Buone, fratello Mansur?»
«No, purtroppo non sono buone…»
Al-Muzdawaj si versò un bicchiere di vino e lo vuotò in un sorso, poi ne versò un secondo e si sedette di fronte ad Avicenna e di fianco a Mahyar per informarli che il principe di Isfahan ‘Ala’ al-Daula ibn al-Kakwayh quella mattina si era mosso con il suo esercito diretto a Hamadhan. Si prevedeva che vi sarebbe arrivato entro pochi giorni, e allora sarebbe iniziata la battaglia fra i due principi Buwayhidi.
«E il terzo Buwayhide, il principe di Rayy?» domandò Avicenna.
«Neutrale, per il momento» gli rispose laconico al-Muzdawaj. «Ma in qualsiasi momento potrebbe schierarsi con Ibn al-Kakwayh, che gli è più vicino e più simpatico».
Irritato Avicenna si strofinò più volte la faccia con entrambe le mani, poi proseguì dicendo che la situazione dei principi Buwayhidi suscitava meraviglia e sconcerto: si combattevano fra loro fino all’esaurimento delle forze, pur sapendo quali pericoli incombevano su tutti quanti! A ponente c’era il califfo Abbaside che si teneva in agguato, a levante Mahmud il Ghaznavide, e ciononostante si combattevano per questioni private, senza ricavarne niente e consumando energie. Davvero strana la loro situazione… Al-Muzdawaj interpretò quel che stava accadendo col desiderio dei principi di controllare tutta quanta la regione per fare dei tre regni Buwayhidi uno stato unico, con un solo esercito in grado di respingere i pericoli che incombevano da est e da ovest. Poi sorridendo aggiunse: «Comunque, qui noi siamo al sicuro da questo subbuglio. Questa rocca seguirà qualunque governante prenderà il potere a Hamadhan, ed è abbastanza distante da Mahmud il Ghaznavide. Lodiamo Dio per la sicurezza che abbiamo qui».
Ma la valutazione di Al-Muzdawaj si sarebbe rivelata sbagliata…
La notizia della guerra imminente fra i principi di Isfahan e Hamadhan cadde come un fulmine su Avicenna e Mahyar. Entrambi rimasero muti, i loro pensieri proiettati verso orizzonti distanti e agitati. Quando dalla corte giunse il rumore dei passi delle guardie che portavano il pasto serale, al-Muzdawaj chiese se per mangiare preferissero accomodarsi all’aperto.
«Meglio qui» rispose secco Avicenna, ripresosi dalle sue divagazioni. «L’aria della notte è fredda fuori dalla stanza».
Quando ebbero finito di mangiare con tutta calma, al-Muzdawaj si pulì le mani con un drappo di stoffa inumidita, quindi si infilò la mano in tasca per estrarre dal panciotto un foglietto arrotolato, sul quale c’era un sigillo aperto. Lo porse ad Avicenna che lo scrutò con interesse. Scoprì che era un breve messaggio per al-Muzdawaj da parte di Taj al-Mulk, generale dell’esercito di Hamadhan, in cui diceva in persiano quel che si può tradurre così: «Mantieni alta l’allerta e l’attenzione nei prossimi giorni e non accogliere estranei nel castello».
Avicenna lanciò uno sguardo di stupore ad al-Muzdawaj e gli chiese: «Pensi che con “estranei” si riferisse a Mahyar?»
«No» gli rispose al-Muzdawaj, «intende dire spie e informatori. Lui non conosce né Mahyar né sua sorella…» Strinse le labbra come se fosse indeciso, poi disse con gentilezza rivolto a Mahyar: «Il Grande Maestro ha acconsentito a dare lezioni a tua sorella? E, a proposito, la mia moglie più giovane dice che Mahtab è la più bella donna della terra, ma passa gran parte del suo tempo a leggere libri e scartoffie come fosse un uomo, ah ah ah! Eppure è brava anche a cucinare e a fare dolci!»
La testa di Avicenna cominciò a ronzare, gli venne il desiderio, anzi l’ardente desiderio di vedere quella donna che si comportava come un uomo. E il suo desiderio aumentò quando Mahyar sorridendo rispose: «Sì, signor Mansur, lei legge molto in questi giorni perché vorrebbe scrivere un libro intitolato Accordo fra le opinioni dei due medici Ippocrate e Galeno, sul modello del libro di Abu Nasr al-Farabi Accordo fra le opinioni dei due filosofi Platone e Aristotele».
Avicenna non poté più trattenersi e gridò: «Voglio vederla!»
«Agli ordini, mio signore. La mando a chiamare subito: il sole è ormai tramontato».
«No, non adesso. Dille di venire fra un’ora, poi torna da me e finiamo il nostro discorso su Abu al-Rayhan».
Mahyar andò a dire a Mahtab di prepararsi all’incontro con Avicenna, mentre al-Muzdawaj si alzò dicendo che aveva molto lavoro da fare nella corte anteriore per munire il castello in vista di quello che sarebbe potuto accadere nei giorni a venire. Poi con un sorriso aggiunse: «Ma potrebbe anche non succedere niente…»
Non appena Mahyar rientrò nella stanza, Avicenna gli chiese se in al-Biruni fosse cambiato qualcosa dopo il suo viaggio in India con la spedizione. Lui rispose che quei mesi indiani erano stati molto duri, pieni di atrocità. E nel frattempo al-Biruni era diventato ancor più magro, evitava il cibo e veniva preso da attacchi di panico.
«E cos’altro?» chiese Avicenna.
«Sembrava distrutto» gli rispose Mahyar. «Nei suoi occhi albergava una nobile tristezza, non aveva più energia per discutere nemmeno di questioni scientifiche».
Avicenna perplesso si mise la mano destra davanti alla bocca come baciandosela, ma il suo sguardo rivelava il desiderio di sapere di più, quindi Mahyar aggiunse: «Il Professore era molto angustiato, si adirava facilmente. Una sera mi trovò immerso nella lettura del trattato scritto da Abu Bakr al-Razi intitolato Discorso sui cinque antichi e si arrabbiò con me. Contrariato e stizzito mi disse: “Perché leggi quel formalista prolisso che scrive di teologia, andando ben oltre le sue capacità di farmacista, squarcia-ferite, scruta-urine-e-feci, che così ha infamato se stesso e messo in mostra la sua ignoranza?…”».
«Abu al-Rayhan ha detto questo di Ibn Zakariya al-Razi? Questo è molto strano… Al-Razi è un sapiente rinomato, ha raggiunto i massimi livelli, anzi, per secoli prima di lui non c’è stato nessuno al suo pari, e nemmeno ora che sono passati cento anni dalla sua morte! Perché mai al-Biruni ne parla in modo così negativo?»
«Mio signore, è stata una reazione a ciò che lo turbava, a quello che avevamo visto in India».
«Forse anche quando mi ha definito “giovanotto di cui non ci si può fidare” era una reazione alle disgrazie dell’India?»
«Ma non lo intendeva con cattiveria, mio signore, tu sai che per noi la parola “giovanotto” è legata all’eroismo, e che noi celebriamo le parole che il Profeta ha detto dell’Imam: “Non c’è altro giovanotto – cioè eroe – che ‘Ali”…»35
«Lasciamo perdere queste interpretazioni… Povero Abu al-Rayhan, non doveva restare a Gurganj a farsi tiranneggiare dal Ghaznavide che, dopo aver ingoiato la città, ne ha mortificato lo spirito…»
«Ma cosa poteva fare il Professore, mio signore, se ovunque aleggiava la morte?»
«La morte è più dolce dell’umiliazione. Se al-Biruni fosse stato un filosofo non avrebbe avuto paura della morte».
«Adesso non pensiamo a questo, signor dottore, e non irritare la tua anima generosa… Permettimi, per favore, di farti una domanda: come sono andate le cose nel deserto del Kara Kum dopo la morte di Abu Sahl al-Masihi a causa della tempesta?»
Senza dilungarsi e senza alcun compiacimento, Avicenna raccontò a Mahyar che, passata la tempesta che aveva sepolto lui e tutto ciò che aveva intorno sotto la sabbia e la polvere, si era ripreso dall’annebbiamento che l’aveva colto. La salma di Abu Sahl era finita sotto un cumulo di terra, quindi a gran fatica si era messo a scavare una tomba per poi a gran fatica ammonticchiarvi sopra delle pietre.
Stava esaurendo le forze, aveva creduto che sarebbe morto come il suo compagno in quello stesso luogo, quindi dopo aver allestito quella sepoltura era rimasto fermo al suo posto senza muoversi. Finché, spinto dalla disperazione estrema, si era alzato e aveva preso a camminare barcollando. Dopo un certo tempo, era già pomeriggio, aveva scorto la carcassa di un asino carico di otri d’acqua. Vi si era subito gettato sopra, e aveva recuperato un filo di vita con qualche sorso, poi si era lavato la faccia e si era scrollato la terra dai vestiti. Dopodiché aveva girato in tondo fino a trovare, poco distante, un altro asino disteso che non aveva la forza di reggersi in piedi… Gli si era avvicinato, gli aveva spruzzato la testa con un po’ d’acqua, gli aveva inumidito il muso e quello si era alzato. Dopo che gli ebbe dato dell’acqua da bere, l’asino riuscì a portarlo in groppa. Però si era rifiutato di proseguire il cammino verso ovest e l’aveva riportato invece in direzione di levante fino ad arrivare, dopo il tramonto, alla chiesa in cui era stato il giorno prima.
«E così dalla morte mi ha salvato la saggezza di un asino!» concluse. «Il sacerdote mi domandò del mio compagno, e gli dissi che la tempesta se l’era portato via e aveva finito i suoi giorni nel deserto. Lui pianse e lo compianse come fosse stato un parente prossimo. Trascorsi quella notte ospite del sacerdote della chiesa e la mattina dopo partii in direzione nord-est verso il paese dei Turcomanni. Poi scesi verso sud seguendo il fiume fino ad arrivare a Nishapur. In quel peregrinare passai per tanti paesi: Nisa, Abiward, ‘Ishqabad, Tus, Shaqqan, Samanwan, Jajarim… Quando esaurii i soldi che avevo andai a Gorgan nella speranza di incontrare il principe Qabus, amante delle scienze e della conoscenza, ma non appena vi arrivai venni a sapere che era stato preso e imprigionato in una delle sue fortezze. Sarebbe morto pochi giorni dopo. Per questo mi misi in viaggio verso Dehistan, e lì per la prima volta soffrii di colite. Tornai quindi verso Gorgan e mi incontrai con Muhammad al-Shirazi, un amante delle scienze, che mi affittò una casa vicino alla sua e mi donò uno schiavo e due serve. Prima di partire per Rayy, soggiornai lì per un certo tempo impartendo ad al-Shirazi lezioni sull’Almagesto e dedicandogli, in quei giorni, due libri che avevo iniziato a compilare proprio là: La provenienza e la destinazione e Le osservazioni universali. Ogni tanto mi isolavo per scrivere dei trattati di logica e astronomia, o buttar giù appunti per un grande libro sulla medicina».
«E come lo chiamerai, signore?»
«La regola… Ma ho scelto questo titolo solo di recente».
L’ora era ormai trascorsa, e Avicenna era immerso nei suoi più profondi ricordi, quando quella notte entrò da lui un sole la cui luce si mescolava alla luce della luna e allo splendore delle stelle, e si personificò in un volto la cui bellezza non discendeva da questo mondo che noi conosciamo, ma da un cielo che sta più in alto dei cieli. O Dio, Artefice, Creatore! Da quale oro puro, acqua di rose, nettare di fiori hai inventato questa fanciulla alta e slanciata che entrò dalla porta della stanza e con la stessa voce con cui salutano gli usignoli del paradiso disse: «Che la tua sera sia lieta e felice, o Signore dei Medici».