3.

Rawan

Prima di arrivare ai diciassette anni, Avicenna non aveva mai immaginato che un giorno sarebbe stato costretto a lasciare Bukhara, la città che racchiudeva tutto ciò di cui aveva bisogno per vivere: la sua famiglia, una casa spaziosa che palesava la vita agiata e la ricchezza di chi l’abitava, un mercato dei libri zeppo di botteghe di copisti e rigattieri ambulanti che per tutto il giorno giravano con manoscritti preziosi e copie calligrafiche delle più famose opere di ogni genere di scienza… E poi lì aveva tutto quello che si poteva augurare: un padre che teneva all’istruzione, una madre affettuosa e il rispetto di tutti quelli che aveva intorno.

Ma poiché la vita non ha sicurezze e i suoi stati non sono durevoli, ben presto turbamenti e problemi si susseguirono uno dopo l’altro e dopo aver compiuto diciotto anni fu costretto a lasciare Bukhara. Il primo inconveniente lo investì il giorno in cui il suo giovane cuore si sottomise alla loro affascinante e micidiale vicina di casa, Sundus, la quale scompigliò i suoi giorni facendolo restare per mesi in confusione, alla ricerca dell’impossibile, e tutte quelle cose di cui racconteremo più avanti.

Il giovanotto sagace era appena uscito dal turbamento interiore causato da Sundus, che su di sui si susseguirono come terremoti eventi esterni. Il sultano di Bukhara morì e il suo erede, non riuscendo a mantenere le redini del comando, fuggì. E mentre i principi di Bukhara si ribellavano contro il loro nuovo debole sovrano, morì anche ‘Abdallah, il padre di Avicenna, seguito dopo un anno o poco meno da sua madre. Poi ‘Ali, suo fratello minore, partì insieme alla moglie e al figlioletto per regioni lontane con l’ambizione di diventare un propagandista degli imam ismailiti. La grande casa si era svuotata dei suoi abitanti e vi abitava la mestizia, le sue pareti tacevano ed erano diventate tristi e squallide… A chiusura del ciclo bukhariota, arrivò Mahmud il Ghaznavide che col suo esercito ambiva a impadronirsi della regione.

Poco prima dell’arrivo del razziatore ghaznavide a Bukhara, Avicenna, all’età di ventidue anni, si mise in viaggio, sospirando di nostalgia per il primo periodo calmo e felice della sua vita. Fuggì prima verso la città di Jurjaniyya in Chorasmia – cioè la popolosa città che in persiano si chiama Gurganj – guidato dalla speranza di stabilirsi alla corte del suo principe Ma’mun e del suo ministro Abu al-Husain al-Suhli, un amante delle scienze, molto protettivo nei confronti di scienziati e luminari in ogni campo. Ma si era appena stabilito lì in compagnia del fior fiore dei migliori geni del tempo, quand’ecco che al principe Ma’mun ibn al-Ma’mun arrivò l’ordine di Mahmud figlio di Sebük Tejin il Ghaznavide di caricare tutti gli scienziati e i sapienti che si trovavano presso di lui a Jurjaniyya in Chorasmia e spedirli nella capitale del suo regno – cioè Ghaznin dell’Afghanistan, che la gente ha preso a chiamare Ghzna – allo scopo di dar lustro alla corte dell’ignorante figlio di Sebük Tejin. Quando il principe Ma’mun ibn al-Ma’mun espose la questione agli scienziati, tutti furono indecisi e confusi sul da farsi. Quanto ad Avicenna prese subito una decisione dicendo che non sarebbe stato un orpello nella corte del figlio di Sebük Tejin, e dunque fuggì di nuovo, senza riuscire a trovare una sede stabile e sicura…

Con l’inchiostro dello spirito e il cuore sanguinante scrisse la sua poesia che contiene queste parole:

Mi son sbarazzato dei compratori aumentando il mio valore.

Nelle peregrinazioni che si succedettero per dieci anni, il Grande Maestro girovagò in ogni angolo della Chorasmia e della Persia, ma nessuna contrada o città in cui entrava si rivelò una buona dimora per lui: non Nisa né Abiward, non Tus, Shaqqan, Samanqan, Jajarm, Gorgan, Dehistan, Rayy… Quest’ultima città e i suoi dintorni erano sotto il governo della principessa persiana daylamita Sayyida e di suo figlio Majd al-Daula. A loro due doveva la sua autorità il principe di Isfahan ‘Ala’ al-Daula ibn al-Kakwayh, che di lei era il cugino, infatti kakwayh in lingua persiana significa “zio da parte di madre”.

Durante il suo lungo girovagare e le sue brevi soste, Avicenna non smise un solo giorno di scrivere e comporre, tranne che nella settimana in cui soffrì di una malattia acuta che lo tormentò con i dolori della colite: non riusciva a stare in piedi e non poteva nemmeno stare seduto, ma si curò fino a superare quel malanno, almeno per un certo periodo. Si era ammalato nella città di Dehistan, che giace tra i freddissimi monti del Nord, per cui fu costretto a tornare a Gorgan per curarsi finché non si fu ristabilito. Proprio a Gorgan Avicenna incontrò il suo allievo e sincero compagno Abu ‘Ubaid al-Juzjani, che lo avrebbe seguito per il resto della sua vita in tutte le sue tappe, viaggi e prigionie.

A Gorgan c’era un uomo amante della filosofia e della sapienza, il suo nome era Muhammad al-Shirazi. Quando Avicenna tornò lì per curarsi, quest’uomo lo accolse con tutti gli onori, comprò una casa acconcia per un filosofo e gliela donò. Una volta guarito dalla malattia che lo aveva assalito a Dehistan, Avicenna cominciò a tenere seminari scientifici in quella casa, incontrandosi con gli allievi e dedicandosi alla scrittura. In segno di riconoscenza per la generosità di Abu Muhammad al-Shirazi, Avicenna gli dedicò il libro Osservazioni astronomiche che aveva finito di scrivere proprio a Gorgan, e il libro La provenienza e la destinazione, che terminò dopo la sua partenza da Jurjan per stabilirsi a Rayy, la capitale dei Buwayhidi.

Mentre risiedeva a Rayy, Avicenna si occupò di curare il suo principe Majd al-Daula dai disturbi della bile nera che gli logoravano la mente, cosa che innalzò la sua stima agli occhi della madre, la reggente Khatun, la “Signora”. Il suo nome era Sayyida, cioè “Signora”, parola che in persiano corrisponde al nome Khatun. A Rayy Avicenna curò le malattie di molti nobili e notabili della corte, ma anche dei poveri. Spesso infatti faceva l’elemosina agli indigenti, musulmani e non, e camminava disinvolto fra la gente. La sua fama crebbe agli occhi di tutti: la sua presenza in quella città popolosa li rendeva felici. Tuttavia in quel periodo pensava di trasferirsi in una città più meridionale, come per esempio Isfahan, per sfuggire al clima freddo delle regioni del Nord che lo aveva portato a soffrire i dolori della colite.

Dietro la fama però si nasconde sempre qualcos’altro, e infatti Sayyida, la reggente di Rayy, una mattina, mentre gli si rivolgeva affabilmente informandosi su come stesse, gli chiese di applicarsi alla cura di un suo parente. Ad Avicenna il suo discorso suonò strano, quindi le domandò dettagli sulla faccenda. La donna spiegò che era un giovane adolescente, la gioia degli occhi della madre, del padre e delle sorelle, senonché era affetto da uno strano stato o malattia di cui non aveva mai sentito prima. Sayyida era molto prudente nel parlare, e dopo un momento di mesto silenzio disse che suo padre era un parente della famiglia degli insigni Buwayh, vale a dire di suo cugino materno e suo sostenitore, l’illustre al-Kakwayh, nonché uomo nobilissimo. Aveva ricevuto il dono di quel figlio dopo aver generato cinque bambine, quando quasi disperava di avere un maschio. Ad Avicenna sembrò che Sayyida stesse sul punto di piangere davanti a lui – e questo non stava bene – quindi si affrettò a interrogarla sui sintomi della malattia che aveva colpito il ragazzo.

«Di recente ha cominciato a camminare a quattro zampe» disse lei, «emette suoni come muggiti e a tutti quelli che ha intorno dice di essere una mucca e che devono scannarlo e cucinare le sue carni».

«Questo è davvero strano, mia signora. Mi adopererò per curarlo. Come posso vederlo?»

«Dovrai andare da loro a Qazvin, è lì che risiede con la sua famiglia. Non sarebbe sicuro farlo venire fin qui».

Sentendo il nome di Qazvin Avicenna provò irritazione, pur sforzandosi di non dare a vedere l’apprensione che lo pervadeva e i pensieri angosciosi che gli riempivano la mente… Qazvin, di nuovo le montagne del Nord… E siamo alle porte dell’inverno… O Signore dei mondi!… Io avevo intenzione di andare a sud per il caldo, e i destini mi scagliano verso i freddi del Nord che mi fanno ammalare. Però non è corretto avanzare giustificazioni alla Signora, né evitare di acconsentire alla sua richiesta, dopo gli onori che lei mi ha reso e l’accoglienza che i Buwayhidi hanno riservato al mio arrivo… Che fare? Non ho che da affrettarmi a partire, forse riuscirò a tornare prima che il freddo si faccia troppo rigido… Mi stai mettendo alla prova, o Creatore dell’Universo, o hai predisposto per me qualcosa che io non so?

«Che cosa ne dici, Abu ‘Ali?»

«Agli ordini, mia signora, sarò pronto a partire da domani».

«Che Dio ti benedica, dottore, e che domani il tuo viaggio sia il più comodo possibile».

Quella notte il Grande Maestro non dormì proprio, nell’eventualità che la partenza per Qazvin fosse l’indomani, come di fatto fu. Voleva finire di scrivere l’opera che aveva iniziato a comporre a Gorgan, dal titolo La provenienza e la destinazione, di cui aveva terminato solo la prima parte, cioè un terzo del libro, quella il cui titolo indicava il contenuto: “Dimostrazione del Principio Primo, della sua unicità e dei suoi attributi”. In essa distingueva fra l’essere possibile e l’essere necessario, e fra ciò che è necessariamente esistente per altro da sé e ciò che è necessariamente esistente di per sé, ossia il Creatore dell’Universo, il Bene puro, il Completo, l’Amante Amato, l’Ordinatore del cielo – Sua è la potenza. La seconda parte del libro verteva intorno ai gradi dell’emanazione nell’essere dall’Essere Primo fino all’ultima delle esistenze, e ai concetti di creazione e di causa prima. Rimaneva poi la terza e ultima parte, alla quale si dedicò dal pomeriggio di quel giorno fino all’alba del giorno seguente. Ne aveva fatto un sunto di trenta pagine ritagliate sulla consueta carta di pregio. In essa distingueva fra l’anima e il corpo dell’uomo, facendo riferimento al complesso delle realtà intellettive, fra cui vi è l’eternità dell’anima, e i concetti di eterna felicità sostanziale e di eterna miseria oltremondana. Concluse quella parte con un serio discorso sulla profezia, la santità spirituale e sugli eventi straordinari che la gente chiama miracoli.

Sayyida mantenne la promessa e fornì ad Avicenna due servitori e cinque robusti cavalli; ordinò anche che fosse accompagnato nel viaggio da una scorta di soldati del principe.

All’alba uscirono sulle cammelle, i loro volti furono punti dal freddo mattutino mentre percorrevano le vie che portavano a nord passando accanto ai villaggi della provincia di Rayy, finché non raggiunsero un villaggio chiamato Teheran, dopo il quale deviarono verso i rilievi dei monti ai quali si avvicinarono verso mezzogiorno. Poi si diressero a ponente sulla via che li avrebbe portati a Qazvin, dopo un cammino di tre giorni. Durante il lungo tragitto Avicenna non smise di voltarsi verso destra a contemplare da vicino le montagne dal capo brullo, mentre nella sua testa frullavano tante idee. Si diceva che in quelle regioni elevate e montane il respiro diventasse faticoso, e questo dimostrava una riduzione nell’aria di quella forza che i medici chiamano spirito. È quello che manca agli abitanti delle montagne, dacché i loro toraci sono più ampi di coloro che abitano nei bassopiani o nelle calde regioni meridionali. I loro organi di respirazione e il ritmo delle loro pulsazioni deve per forza essere migliore. E l’unica via per trovare conferma a ciò è il metodo della dissezione. Quindi – pensava – mi eserciterò in segreto a esaminare i cadaveri dei defunti e le carcasse dei grossi animali, ogni qualvolta ne avrò occasione, per vedere quali differenze appaiono fra i corpi degli abitanti delle montagne fredde rispetto alla gente delle pianure temperate…

A mezzogiorno la carovana si fermò per un’oretta per far riposare i cavalli e rifocillarsi con l’indispensabile per sopravvivere. Tutti mangiarono in silenzio e, dopo aver ripreso il cammino, Avicenna tornò al dialogo interiore con se stesso. Fino a quando continuerò in questo incessante peregrinare? Ecco che mi avvicino ai quarant’anni e ancora non conosco una sede stabile in una qualsiasi terra, o una dimora di sorta. Queste regioni non danno stabilità né quiete, poiché da più di cento anni vi si svolgono battaglie fra re e principi, e continueranno a girare come la macina di un mulino per i prossimi cento anni. La vita è breve. Fuggire dove? Dovrei fermarmi da qualche parte per terminare due grandi libri, uno sulla sapienza, la teologia e la filosofia, che chiamerò La guarigione. L’altro sulla medicina, che sarà una sorta di registro che includa tutte le voci più disparate. Sì, non posso far a meno di scrivere su tutte le scienze mediche, generali e settoriali, in cui includere capitoli specifici sui rimedi e le terapie. Ma ho bisogno di tempo per portare a termine tutto questo, quanto ne richiede il vaglio delle opinioni autentiche e della scienza sperimentale: questi infatti sono appunti sparpagliati, trattatelli che ho scritto e scrivo, ma che non placano la sete, non sono sufficienti per il principiante e nemmeno utili agli esperti. Avrebbe dovuto farlo Ibn Zakariya al-Razi cento anni fa, invece di scrivere quegli appunti sparsi fatti di discorsi riassuntivi, senza alcun ordine, che vanno sotto il titolo di Il raccoglitore della scienza medica. Dio abbia misericordia di lui, che ha sofferto nel suo mondo pieno di calamità, e che penso avesse intenzione di lavorare a quegli appunti per trarne un’opera organica in un grande libro. Ma le vessazioni che l’allora governatore di Rayy gli mosse contro a causa delle sue opinioni filosofiche si frapposero fra lui e il completamento dell’opera. Nel grembo di principi e governanti non c’è sicurezza per scienziati e filosofi, eppure gli uni non possono fare a meno degli altri… Qual è la soluzione? Guarda la condizione odierna di Abu al-Rayhan al-Biruni, che si trova al seguito del sanguinario figlio di Sebük Tejin… Abu al-Rayhan è uomo di buoni sentimenti e amante della verità, e nonostante ciò ultimamente ha sbagliato, a mio avviso, e io sono quello che lo ha introdotto per la prima volta fra i regnanti. In fin dei conti è sì infelice, ma è più ricco degli altri uomini di scienza. Come starà ora con quel governante che al pari di suo padre fu schiavo ed è divenuto re, e oggi vuole diventare sultano? Ho saputo che si fa accompagnare da Abu al-Rayhan nelle campagne militari e nelle infinite razzie, durante le quali viene sparso sangue col pretesto di sostenere l’islam e la dottrina sunnita. Strano. Si sostiene la religione e se ne diffonde la dottrina soltanto con il sangue! Che Dio ti aiuti, o al-Biruni, e aiuti me e tutte le creature!

Nel primo pomeriggio la carovana passò nei pressi di un grande posto di sosta alle pendici della montagna, vicino alla pista, e Avicenna vide dei bambini che giocavano nel piazzale. Scorse anche una donna nascondersi in fretta dietro la porta. I bambini fecero cenni di esultanza strappando un sorriso dalle labbra di Avicenna, che levò la mano destra per salutarli. Quelli si misero a ridere e stavano quasi per avvicinarsi alla strada, ma un uomo da davanti la casa li richiamò e loro ripresero subito i loro giochi. Avicenna tornò alle nuvole dei suoi cieli e a immergersi nelle sue speranze domandandosi: cosa succederà quando avrò finito di curare questo giovane pervaso da melancolia che immagina di essere una mucca? Abbandonerò quelle regioni? Sì, lascerò la Persia e la Chorasmia, attraverserò la regione di Diyar Bakir per evitare di passare per il turbolento Iraq, e poi scenderò verso la Siria e di lì in Egitto, che ha clima temperato ed è sotto il governo dei califfi Fatimidi. Qui la gente mi associa alla loro dottrina a causa di mio fratello ‘Ali, senza sapere che nella filosofia e nella logica mi son liberato da qualunque dottrina e da tutte le ideologie che si scannano fra di loro. E forse anche da tutte le esteriorità della religione. Attenendomi sempre a ciò che vuole il Creatore dell’Universo, il Donatore dell’Intelletto, che sia esaltato per la bontà del Suo essere, la perfezione dell’anima umana e l’eccellenza della scienza e della conoscenza… Qui la gente ignorante, fra il volgo ma anche fra i governanti, immagina che io sia uno sciita, mi accusano di nefandezze fra cui la meno importante è la simpatia verso le opinioni degli imam ismailiti. Ma io non ho simpatie se non per ciò che detta l’intelletto e che la logica conferma. In Egitto nessuno mi accuserebbe di niente, giacché starei vicino a saggi imam che rispettano gli uomini di scienza. Il padrone dell’Egitto, al-Hakim bi-Amr Allah, è uscito dal suo palazzo fuori dalle mura del Cairo per andare incontro all’illustre Ibn al-Haytham17 giunto da Bassora per rispondere al suo invito a visitare l’Egitto, e questo è un grande onore. Qui non troverei nessuno che farebbe lo stesso, per quanto a lungo io viva.

Però al-Hakim ha compiuto anche azioni contraddittorie e su di lui ci giungono strane notizie a cui è difficile credere, ma che, se fossero vere, sarebbero la prova di una predominanza oscura in lui e di una sua tendenza ai capricci… Forse potrei curarlo? No, sarebbe rischioso… Non è sicuro stargli vicino, dato che per lui è molto facile uccidere anche per una minima divergenza. Qualche anno fa ha ucciso Barjawan, l’uomo che era stato il suo tutore. Che strano nome… No, l’Egitto non sarà il posto giusto per me con un governante violento e sensibile alle critiche; e poi agli egiziani in generale non piace la filosofia né oggi la coltivano più, sebbene in origine sia proprio da loro che ci è pervenuta, quando ad Alessandria fiorivano tutte le scienze. I tempi cambiano, e anche le persone… Non sarò il benvenuto in Egitto. Dove andrò quindi?

Quando il sole scomparve dietro le cime dei monti, la carovana arrivò a una caserma governativa cinta da alte mura che la facevano sembrare una fortezza. Lì sostarono e si prepararono a passare la notte. Il Grande Maestro aveva intenzione di dormire un paio d’ore per poi svegliarsi e riprendere a scrivere un trattato sulle Terapie cardiache, ma dovette rimandare, perché non appena si riebbe dal suo breve sonnellino apprese da uno della scorta che i suoi due allievi Abu ‘Ubaid al-Juzjani e Bahmanyar lo avevano seguito ed erano arrivati alla caserma dopo il tramonto. Quindi uscì dalla sua stanza e si unì a loro per discutere a lungo di vari argomenti e capitoli della logica, finché, passata la mezzanotte, andarono a dormire per prepararsi a proseguire il viaggio all’alba.

Dopo due giorni giunsero a Qazvin e lì trovarono il Buwayhide che, angosciato per la malattia del figlio, era uscito insieme ad alcuni parenti per andare loro incontro ai margini della città. L’uomo diede a tutti il benvenuto e nel salutare ribadì la sua riconoscenza per l’arrivo del Grande Maestro, mettendosi in punta di piedi per baciarlo sulla testa… Nei suoi occhi si vedevano delle lacrime, e Avicenna lo prese in disparte lontano dagli altri e in persiano gli sussurrò quel che si può tradurre così: «Stai tranquillo, mio signore».

«E come, dottore? Il malato è grave. Per il troppo dolore sono arrivato a desiderare la morte del mio unico figlio maschio che era la sola gioia e consolazione di questa mia vecchiaia».

«Ogni male ha il suo rimedio, e non è il caso di disperarsi eccessivamente. Raccontami tutto quello che è successo a tuo figlio, come è iniziata questa malattia e in che stato si trova adesso».

Prima ancora che arrivassero nella spaziosa ed elegante residenza, il Buwayhide aveva già spiegato ad Avicenna il problema di suo figlio. Fino a pochi mesi prima era un ragazzo come gli altri, ma di colpo e senza alcun preavviso si era isolato dal mondo: si era chiuso nella sua stanza, rifiutava il vitto al punto che il suo corpo era ormai smunto e negli occhi che sporgevano all’infuori apparivano i segni dello squilibrio. A poco a poco il suo stato era arrivato alla totale follia, notte e giorno strillava fino allo sfinimento delle forze, alla perdita di coscienza, fino a cadere svenuto. Il mese prima aveva cominciato a urlare contro sua madre, le sue sorelle e chiunque vedesse che lui era una vacca e che voleva essere sgozzato, ripetendo in continuazione: «Sgozzatemi e cucinate le mie carni, sgozzatemi e cucinate le mie carni!»

Il Buwayhide non riuscì a terminare il discorso, aveva la voce rotta ed era sul punto di piangere. Avicenna prese la testa dell’anziano sofferente e stringendosela al petto la baciò. L’uomo stava quasi per cadere a terra per la troppa emozione. Nei pressi della porta della casa Avicenna gli chiese di raccogliere le forze per continuare a ricordare quel che era successo e cosa avevano detto i medici che erano venuti prima di lui.

«Qui al momento non abbiamo dei bravi medici, il massimo che hanno fatto è stato consigliare di legare il ragazzo perché non nuoccia a se stesso e di infilargli a forza il cibo in bocca perché non perda completamente le forze fino a morire».

«E voi l’avete fatto?»

«Sì. Ma alimentarlo a forza non fa che aumentare il suo sconvolgimento».

Il Buwayhide stava per entrare nel portone della sua casa che i due servitori avevano aperto, ma Avicenna si trattenne fuori per chiedergli di provvedere per sé e per i suoi due allievi un posto per la notte all’esterno della casa: voleva osservare il ragazzo malato da lontano, senza che quello potesse scorgerlo. Il Buwayhide disse che le stanze già predisposte per accoglierli si trovavano dietro il giardino della casa, lontano dalla stanza del giovane, che non l’aveva più abbandonata da quando gli accessi di follia si erano acutizzati. Avicenna fece un cenno di assenso col capo e tutti entrarono lentamente e in silenzio, affinché il giovane non si accorgesse del loro arrivo.

Il Grande Maestro rimase a osservare il suo paziente per due giorni, poi domandò al padre di portargli il più noto dei macellai e salumai di Qazvin… Il padre convocò il più rinomato, e quello arrivò sfoggiando il suo grembiule imbrattato di sangue, mentre dalla cinta annodata intorno alla vita spuntavano coltelli lunghi oltremisura. Dietro di lui veniva il suo aiutante, con il suo stesso ripugnante aspetto. Avicenna chiese al macellaio di togliersi i vestiti e, fra lo stupore dei presenti, indossò quei suoi stracci dopo essersi tolto il turbante. Poi chiese al suo allievo al-Juzjani di mettersi quel che aveva indosso l’aiutante del macellaio, e di assumerne le sembianze. E gli rivelò con un sussurro il trucco della terapia.

Quindi Avicenna entrò sbraitando alla maniera dei macellai nell’ampia camera del giovane, seguito dal suo finto garzone, brandendo il lungo coltellaccio puntato verso il ragazzo dalla mente malata, e gli chiese: «Sei tu la vacca che sono venuto a sgozzare?»

«Sì» rispose il giovane in tono arrendevole.

Avicenna fece un cenno ad al-Juzjani che lo spinse con la fronte a terra preparandolo alla mattanza, quindi il Grande Maestro pose il coltello sul collo del rassegnato ragazzo e sembrava quasi sul punto di scannarlo, ma di colpo si levò e disse con voce altisonante: «Ma questa vacca è macilenta, bisogna nutrirla meglio e metterla all’ingrasso prima di poterla macellare…»

Quando Avicenna e quelli che erano con lui uscirono dalla stanza, il ragazzo fu preso da attacchi di grida e gemiti, quasi gli esplodeva il cuore per la pena e il dispiacere di non essere stato scannato. Quando il pianto divenne molto forte, la madre entrò da lui portando il tavolino con il vitto e lo lasciò lì senza dire una parola. Pian piano i lamenti e i gemiti del ragazzo cessarono e lui smise di piangere, e prese a osservare il cibo con sguardo sgomento. Poco dopo si alzò e lo ingoiò tutto con un frenetico appetito. Voleva che la vacca ingrassasse. Il cibo pesante gli appesantì la testa e, preso da sonnolenza, cadde in un sonno profondo.

La mattina dopo gli portarono una colazione abbondante e lui la mangiò tutta senza dire una parola né strillare, quindi di nuovo si acquietò e si addormentò. Passata una settimana in questa maniera, il giovane recuperò la salute e ritornò gradualmente in sé; tuttavia manteneva atteggiamenti asociali con chi gli stava accanto, restava silenzioso per tutto il tempo, confinato nel suo letto senza mostrare desiderio di staccarsene. Negli occhi rabbuiati albergavano dolore e trasparente tristezza.

Avicenna andò da lui e gli prese la mano per tastargli il polso; il ragazzo non lo riconobbe e con voce sommessa gli domandò: «Tu sei il dottore che mi curerà?»

«Sì, sono il medico che ti sta curando».

«Che cosa mi è successo?»

«Niente, un disturbo psichico che capita perché hai trascurato il fisico e il corpo si è indebolito. Ma cos’è che ti ha portato a questo?»

Il giovane tacque e il suo sguardo vagò lontano, poi i suoi occhi si riempirono di lascrime e Avicenna capì che il giovane era ferito dentro, o forse innamorato. Ma non voleva interrompere il dialogo che aveva iniziato con lui, quindi con parole semplici gli spiegò che c’è un legame fra la condizione psichica e fisica dell’uomo, e che quando per una qualsiasi ragione si trascura il cibo e il bere, le energie decadono precipitosamente e le facoltà cognitive della mente vengono meno, così che l’intelletto si piega alle stesse inclinazioni che prendono i maniaci e si arrende a soverchianti allucinazioni: queste in lui avevano preso corpo facendogli immaginare di essere una mucca che voleva essere macellata… «Volevi morire» gli disse Avicenna in tono gentile, «ma non avevi il coraggio di suicidarti».

Sentendo ciò il giovane chinò la testa e si asciugò le lacrime, poi levò gli occhi rivolgendo ad Avicenna uno sguardo colmo di vergogna.

Il Grande Maestro ebbe la conferma della salute mentale del ragazzo: era semplicemente innamorato, anzi follemente innamorato. Quindi pensò a un modo per poter sapere chi fosse la sua amata… Chissà, forse Avicenna avrebbe potuto trovare un’analogia fra la condizione del giovane invaghito e la sua ai tempi della sua giovinezza e della sua disperata storia con Sundus.

Mentre stavano pranzando nel giardino di casa, Avicenna domandò al Buwayhide di convocare la madre e le sorelle del ragazzo. Quando queste arrivarono chiese loro di elencare tutti i nomi delle donne e delle ragazze del circondario di fronte al giovane degente, mentre Avicenna gli avrebbe tenuto il polso per sentirne le pulsazioni. Suggerì di far questo nel corso di un discorso vago su matrimoni e feste di nozze nelle quali la gente si riunisce, come se fosse un argomento casuale di conversazione… La cosa si svolse in questo modo la sera, e poi la mattina seguente, finché fra le pieghe dei discorsi delle donne spuntò il nome di Zahwa. Allora le pulsazioni del ragazzo si alterarono. Nella seduta successiva una delle sorelle del giovane si mise a parlare di Zahwa eseguendo la precisa richiesta di Avicenna, il quale aveva notato che il ragazzo cambiava umore e provava imbarazzo ogni qualvolta al suo orecchio giungevano notizie di quella ragazza.

Quella sera Avicenna apprese dalle donne che il Buwayhide aveva un podere fuori Qazvin, confinante con quello di un uomo di origini arabe che aveva una sola figlia, l’unica a portare il nome di Zahwa. Le due famiglie si scambiavano spesso visite e si frequentavano, fino a quando, qualche mese prima, era scoppiata una lite fra l’arabo e il Buwayhide per un diverbio riguardante le guerre avvenute fra i compagni del Profeta. La questione fra i due era andata avanti, i rapporti si erano interrotti e l’ostilità aveva preso il sopravvento. Quel che nessuno sapeva era che il figlio dell’uno era innamorato della figlia dell’altro. Quando le cose gli apparvero chiare, Avicenna chiese al Buwayhide: «Non è possibile appianare questa divergenza in vista di un possibile matrimonio fra il folle innamorato e colei che lui ama?»

«Io non ho obiezioni, dottore, ma dietro quella divergenza ce n’è un’altra. Lui è un sunnita, di dottrina maturidita18, mentre io, come tu sai, sono sciita».

«E cosa c’entra questo con la passione e il matrimonio?»

«Il matrimonio fra famiglie di due diverse confessioni è riprovevole e ripugnante per molte persone».

«Ciò che è ripugnante è soltanto l’ignoranza di quelle persone, mio signore. Non c’è alcun impedimento, razionale o giuridico, che ostacoli questo matrimonio, che libererebbe tuo figlio dalla sua infelicità e a te porterebbe dei nipotini».

«Non so, dottore… Se anche io acconsentissi, l’arabo acconsentirà?»

«Fagli sapere che io vorrei vederlo e combina un appuntamento con lui: ci andremo insieme. O, ancor meglio, gli scriverò una lettera in cui chiedo di incontrarlo. Portatemi inchiostro e carta».

Preso da improvviso entusiasmo Avicenna scrisse all’arabo un messaggio dai toni gentili. A una delle sue figlie – per l’esattezza a una delle ragazze della sua casa che Avicenna pensava fosse sua figlia – il Buwayhide disse: «Vai tu, Rawan, con la lettera del dottore e consegnala personalmente ad Abu Qasim al-Tamimi».

Un’ora dopo Rawan tornò con la risposta che l’arabo aveva scritto sul dorso della lettera, contenente una sola parola: «Benvenuto». Il Grande Maestro lo reputò un ottimo segnale e tutta la famiglia e la gente della casa ne fu contenta. La mattina seguente lui e il Buwayhide andarono insieme a casa del suo vecchio amico.

L’incontro durò ore, durante le quali l’arabo ascoltò quanto accaduto al giovane invaghito e gliene furono chiare le conseguenze. Per qualche momento la sua mente si distrasse, sembrava indeciso, ma poi tornò in sé e risoluto disse: «Dio sa quanto ho amato questo ragazzo, guardavo a lui come a uno dei miei figli, e ora gli voglio ancora più bene di prima, perché il suo amore è sincero. Tanto si è dato pena di tenerlo nascosto che è quasi uscito di testa, e questo al giorno d’oggi è cosa rara. Non troverò mai per mia figlia un marito migliore di lui. A una sola condizione: che suo padre prometta di non parlar più male dei compagni del Profeta e di non insultare mai la “Madre dei Credenti” ‘A’isha, né Talha né al-Zubayr19, per lo meno in mia presenza».

«Questo te lo prometto, Abu Qasim: né in tua presenza né in tua assenza farò menzione di loro in termini negativi. Questa è una nazione lacerata, ha avuto i suoi guadagni e le sue perdite».

«Che Dio ti benedica. E speriamo che Dio la renda un’unione di armonia, affetto e misericordia».

Lungo la strada del ritorno alla casa del Buwayhide, Avicenna gli chiese ti aspettare un poco prima di informare il figlio degli accordi che erano stati presi su di lui, perché la troppa felicità non sconvolgesse la mente del ragazzo così come aveva fatto in precedenza la troppa tristezza. Il Buwayhide fece come gli era stato detto, e riportò al figlio informazioni sommarie per due giorni, durante i quali Avicenna diede da bere al ragazzo dei preparati ricostituenti e dei leggeri tranquillanti. Gli faceva bere in continuazione miscele di medicinali rilassanti per il cuore che aiutano a regolarizzare il battito, come menta e valeriana. La situazione volgeva al meglio, e dopo una settimana la gioia e la felicità pervasero tutti quanti.

Durante i giorni della terapia e della cura, Avicenna notò che la fanciulla chiamata Rawan gli dedicava una particolare attenzione. Lui abbassava lo sguardo secondo quanto previsto dalle regole, ma era sconcertato da come gli occhi di lei restavano fissi su ogni suo movimento o pausa, e poi era rallegrato dal fatto che lei si affrettasse a esaudire ogni richiesta prima ancora che lui la formulasse. Stava quasi per cedere, ma respinse ogni idea inopportuna, perché gli sembrava fossero solo pensieri passeggeri che ben presto si sarebbero trasformati in pallidi ricordi, e che poi avrebbe voltato pagina… Ma non fu così.

Qualche giorno prima del matrimonio del giovane innamorato con la sua amata Zahwa, il Grande Maestro si preparò a lasciare Qazvin temendo l’arrivo dell’inverno di cui già apparivano le avvisaglie. Il giorno della partenza il Buwayhide gli offrì, in segno di riconoscenza, un insieme di regali e doni preziosi, fra cui il più importante furono queste sue parole: «Dottore, giuro che se io ti donassi tutto ciò che possiedo, non sarebbe abbastanza per ripagarti del debito che ho con te. Mia moglie dice di aver percepito che ti piace Rawan, ed effettivamente lei è ben degna. È nata in questa casa da una madre schiava e un padre schiavo anch’egli, entrambi appartenenti alla tribù turca dei Çigil, le cui donne sono rinomate per la bellezza e la bontà d’animo. Rawan è cresciuta fra le mie figlie, come fosse una di loro. È vergine e pura, nessun uomo l’ha mai toccata e non ha mai frequentato cattive persone. Io te la dono, con la speranza che possa in qualche modo ripagare i tuoi favori. Ecco qui il certificato di proprietà…»

Dopo il suo ritorno a Rayy, Avicenna rimase diversi giorni a osservare Rawan, ma senza avvicinarsi: la seguiva da lontano, soltanto con lo sguardo, ogni volta che lei gli passava davanti con il suo agile passo da gazzella. Sembrava avere una ventina d’anni ed era di una bellezza riposante: un portamento disinvolto, affascinante e slanciato come l’asta di un giavellotto con due seni eccezionali, pur tendendo più alla snellezza che alla corpulenza. Avicenna pensava invece di avere una preferenza per le donne paffute e sode… Pensava questo di sé, dai tempi della sua adolescenza e prima giovinezza a Bukhara, cioè ai tempi di Sundus, che Iddio la perdoni…

Non era ancora passata una settimana che nella spaziosa residenza in cui Avicenna abitava a Rayy l’influenza di Rawan cominciò a palesarsi, grazie alla sua leggiadria e ai piccoli accorgimenti per abbellire la casa che aveva imparato in casa del Buwayhide a Qazvin. Prima di lei la casa aveva angoli freddi e spazi poco accoglienti, ma Rawan la rese più elegante, più calda, e vi spargeva sempre profumo d’incenso. Rese più morbido il letto e ogni sera lo profumava con essenza di basilico e gocce di acqua di rose che spruzzava sui cuscini. Nel cortile della casa due alberi malmessi, le cui foglie in autunno si erano seccate e ingiallite, ricoprirono i loro rami di nuove foglie dopo che lei li ebbe potati e sfrondati… Un giorno, subito dopo il suo rientro pomeridiano dal quartiere dei cartai, lei gli chiese con voce sommessa: «Cosa ne pensi di quegli alberi ora, o mio signor dottore?»

«Ah! Sono diventati belli e leggiadri come te!»

«Le tue parole sono dolci, mio signore».

Avicenna avrebbe voluto prolungare la conversazione per continuare a godere dei suoi sorrisi luminosi e dei suoi occhi lucenti, invece lei si ritrasse e preferì correre nella sua camera che si apriva sul cortile della casa. Dopo un lungo momento Rawan tornò da lui portando un vassoio di ceramica in cui c’erano le squisite pietanze del pranzo. Una volta finito il cibo, lui si sedette al tavolo vicino alla finestra per mettere per iscritto gli appunti della sezione sulle scienze naturali del suo grande libro La guarigione, mentre Rawan si sedette al suo solito posto sulla panca nell’angolo vicino alla porta e si mise a osservarlo di soppiatto, stupita di come lui stesse in silenzio incurvato sui fogli.

Poi Avicenna si alzò per la preghiera della sera e lei andò a preparargli la bevanda di cui lui beveva qualche sorso nel corso della sera per poi appartarsi di nuovo al solito posto. Le domandò come mai restava sveglia lì tutta la notte e lei rispose che temeva che lui potesse aver bisogno di qualcosa e non la trovasse. A quanto gli disse, lei non poteva dormire se lui era insonne.

«Non soffro di insonnia, questo è il mio abituale modo di impegnarmi nella scrittura».

«E quando riposi?»

«Mi riposo scrivendo. Questa è la mia vita, come è stata fino a ora e come sarà in futuro».

«Che Dio benedica la tua vita, mio signore. Ma se il fatto che io stia seduta qui non ti dà fastidio, lasciami stare vicino a te».

«Come vuoi. Ma cosa ti spinge a questo, dal momento che potresti andare a riposare nella tua stanza?»

«Ho paura a dormire lì da sola, qui invece mi sento al sicuro».

Avicenna le fece un sorriso, per mettere in chiaro che non ci trovava nulla di strano a permetterle di dormire sulla panca vicino alla porta della sua grande stanza, anzi, era contento della calma quiete e l’allegra presenza che gli aveva fatto provare in quei giorni… Ma si trattenne subito: non voleva che la sua mente si turbasse e che i suoi pensieri smettessero di espandersi, quindi troncò il discorso e cercò di completare gli appunti che stava scrivendo sul moto dei corpi fisici nel mondo naturale. Con molta calma scrisse: «Il moto coercitivo è mosso dall’esterno e non è dipendente dalla natura di ciò che si muove. Fra questi moti ve ne sono di contrari alla natura di ciò che viene mosso, come accade nel moto delle pietre verso il basso, e anche in ciò che è esterno alla natura per quantità, come nel caso di un aumento del volume delle tumefazioni o nell’avvizzimento e il dimagrimento che si verifica durante le malattie. Quanto all’avvizzimento che si verifica a causa dell’avanzare dell’età, è chiamato minutezza senile. Infatti…»

Mentre intingeva la penna nel calamaio, Avicenna si voltò casualmente verso Rawan e vide che lo stava osservando sorridente e con espressione compiaciuta, le spalle avvolte in uno scialle annodato sul petto. Le chiese se voleva bere qualcosa che la scaldasse, ma lei declinò ringraziando e ribadendo che non conosceva il sapore di quella bevanda e che non aveva mai assaggiato del vino in vita sua.

«Quanti anni hai, Rawan?»

«Diciassette e qualche mese, mio signore. Non sono piccola».

«Pensavo venti… Ti piace stare qui a Rayy?»

«Sì, fintanto che ci abiti tu, mio signore».

Regnò un silenzio durante il quale i due si scambiarono rapidi sguardi, poi Avicenna lo ruppe domandandole se avesse nostalgia di Qazvin. Con evidente sensibilità e un senso di sconforto che richiedeva un abbraccio, lei rispose: «Certamente ne ho nostalgia, ma ho sempre saputo che un giorno me ne sarei andata e che potrei non tornarci mai più…»

Quelle parole suscitarono la curiosità di Avicenna, che girò la sedia verso di lei e con una risatina le domandò: «E come facevi a saperlo?»

Con lo sguardo smarrito puntato sul pavimento della stanza, la voce sommessa e un poco confusa, lei gli rispose: «Non saprei, mio signore… Me lo sentivo, lo vedevo nei miei sogni negli ultimi due anni, in particolare dopo la morte di mia madre…»

«Dio abbia misericordia di lei… E tuo padre, invece? È ancora vivo?»

«Non lo so. Io non me lo ricordo, è andato a Isfahan quando ero una lattante, e da allora non è più tornato».

«E cosa lo spinse ad andare lì?»

«Quando ero bambina mi dissero che era partito da Qazvin dopo che il Buwayhide lo aveva affrancato, per fare il soldato nell’esercito di al-Kakwayh. Poi mi dissero che si era arruolato nell’armata dei Curdi, ma dopo le notizie si sono interrotte e nessuno ne ha saputo più niente».

Avicenna, come la maggioranza della gente, sapeva che il governatore di Isfahan Dushmanziyar – noto col sopranome di al-Kakwayh perché era lo zio materno di Sayyida, la reggente di Rayy – si era impegnato a consolidare le basi del suo governo, che suo figlio ‘Ala’ al-Daula, attuale governatore di Isfahan, avrebbe ereditato… Nella lunga vita di al-Kakwayh, piena di turbolenza, un’armata di Curdi gli si era rivoltata contro, e lui aveva represso l’insurrezione alla radice. Si dice che non ne avesse lasciato vivo neanche uno. Rawan dunque era orfana di entrambi i genitori. Non avendo modo di consolarla in quel momento, Avicenna non seppe cosa dire, quindi si alzò per fare qualche passo nel cortile di casa. Rawan lo seguì, come le nuvolette seguono i nuvoloni.

La serata era tiepida, cosa inconsueta per quel periodo dell’anno, e il cielo era più splendente del solito. Rawan si sedette sulla soglia di pietra e fece girare i suoi occhi seguendo Avicenna, che si mise a passeggiare silenzioso; dopo un paio di giri si avvicinò e le si sedette accanto.

«Non sederti per terra, mio signore» disse lei. «Ti porterò una sedia».

«No, Rawan, non voglio nessuna sedia. Voglio che tu mi dica sinceramente: hai avuto paura quando il Buwayhide ti ha donato a me?»

«Mio signore, come potrei aver avuto paura di quel che mi auguravo che accadesse? Prima di suggerire a suo marito di fare quel che ha fatto, la mia signora mi aveva consultato e mi aveva chiesto se mi sarebbe piaciuto partire con te. Io mi sono vergognata e mi sono infilata nel suo abbraccio sussurrandole: “Magari!”».

«E cosa ti ha spinto a farlo? Tu sai che io sono un uomo circondato da libri e malati, uno che non ha gran trasporto per le donne».

«Perché tu sei tenero, e il mio padrone il Buwayhide mi ha detto che sei il più sapiente uomo sulla terra. Ho voluto stare con te ed essere tua perché non avrei mai trovato un padrone migliore».

Avicenna avvertì il desiderio di abbracciarla e sentì che anche lei voleva che lui lo facesse, e che facesse anche di più. E non trovava un solo motivo che gli impedisse di avvicinarsi a Rawan. Lei era sua proprietà ed era bella, la sua presenza rinfrancava lo spirito e nella sua morbida voce c’era una delicatezza seducente… Nonostante tutto questo preferì aspettare… Povero lui.

Nei giorni e nelle notti successive il cuore di Avicenna prese a intenerirsi e a scivolare progressivamente verso il giardino di Rawan, il suo spirito si lasciò guidare piegandosi sempre più verso di lei. Nei lineamenti del suo viso splendente di innocenza vedeva montare le onde dell’amore e della vita, il cozzare dell’innocenza e del desiderio, il turbinio di un fiocco di neve che il vento pungente dell’inverno si diverte a stuzzicare… Avicenna era come un cielo di enorme ampiezza, illimitato, e Rawan era la nuvola leggera, candida, pura. Eppure Avicenna era spaventato da quella passione crescente, e si premuniva dai suoi turbinanti e tempestosi impulsi con la consueta razionale ponderatezza che lo aveva tenuto lontano dalle donne, dalle loro astuzie, dalle loro insidie, dalla loro bellezza che tiranneggia i cuori quando l’amore s’infiamma, si fa potente e diventa una passione che può allargarsi, scavare, tramutarsi in amore folle… Ci era già passato una volta e ne era uscito, e non voleva ritornarci ancora, dopo vent’anni. Lo stupiva anche quella coincidenza numerica: quando era stato traviato e reso folle dall’amore per Sundus lui aveva l’età di Rawan, mentre la sua amata aveva l’età che aveva lui ora. Strano. Dopo aver ponderato la cosa in maniera approfondita, si disse: «Le due sono agli estremi opposti: Sundus era dirompente negli sguardi e nei movimenti, Rawan è vitale… Quella aveva una costituzione solida, un fisico tendente a una compattezza e pienezza eccitante, con un’incantevole carnagione mulatta. Questa è di un bianco senza nei, di una bellezza ammaliante, ha la grazia dello stelo dei fiori di gelsomino. Sono entrambe notevoli, nonostante la grande differenza fra la bellezza e il fascino dell’una e dell’altra. E l’esperienza ha ben dimostrato che la scienza svanisce e la conoscenza s’impoverisce a causa della bellezza delle donne e della quieta seduzione che portano. Ogni cosa seducente è pericolosa».

Questo è quel che pensava il Grande Maestro, prima di riprendersi dalle sue fantasie ed elucubrazioni e capire che ogni donna seducente e bella è un’avventura che merita il rischio.

In una notte tersa il cui mattino sarebbe stato mercoledì 10 febbraio 1014, Avicenna era seduto in camera sua, sulla panca vicino alla porta dove di solito Rawan si addormentava all’alba. Mentre era completamente immerso nella lettura, Rawan entrò da lui sorridente con una brocca di vino; aveva indosso una mantella color del cielo, di seta trasparente dagli orli ricamati in oro, bordata da un nastro nero lucente. Senza volerlo, o forse intenzionalmente, aveva lasciato che il velo si sciogliesse e rivelasse la lucentezza dei suoi capelli annodati in due trecce che le scendevano sulle spalle. Il bianco del suo volto era luminoso, il nero dei suoi capelli rifulgeva: era bella come ogni cosa che mette appetito… Era questa la tentazione?

Rawan si sedette di fronte a lui, che invece riportò il suo sguardo sul libro per continuare a leggere i versi di Rudaki20 da una preziosa copia manoscritta con grafia elegante, annotata con precisione nelle lettere e nelle vocali segnate in inchiostro rosso scarlatto molto vivace, di un pregiato tipo vegetale, così come l’inchiostro azzurro in cui erano scritti i raffinati versi che dicevano in persiano quel che si può tradurre così:

Degli occhi di Salma il mio cuore s’è invaghito

come Majnun delle trecce di Laila s’invaghì.

La tua dolcezza, amore mio,

si scioglie nella mia bocca, e tu mi sciogli coi sospiri.

La tua bellezza supera quella della fascinosa regina di Babilonia.

Sulle tue labbra sboccia il fior del giuggiolo

come scorrono i miracoli sulle mani di Gesù Cristo.

Avicenna si appoggiò all’indietro e sorridendo disse a Rawan che quelli erano davvero versi ammalianti…

«Che cosa dice questa poesia, mio signore?» gli domandò lei.

Lui declamò i versi in persiano e lei fece un sorriso spendente. Poi avanzò verso di lui e teneramente gli baciò i piedi. Lui ne fu sorpreso. In lei vide un gattino che con insistenza cerca tenerezze, quindi la afferrò da sotto le ascelle e la mise a sedere al suo fianco: il suo viso apparve ancor più fulgido e leggiadro accostato alla luce della fiaccola, e i suoi occhi palesavano la sua totale arrendevolezza. Non c’era alcun rischio in lei, dalle nuvole leggere non proviene alcun rischio per la terra assetata, perfino per quella spaccata e bisognosa di esser irrigata. Lei era uno stagno dalle acque luccicanti e tranquille… Con innocenza infantile disse: «Che cosa vuoi, mio signore?»

«Perché all’improvviso sei diventata più bella?»

«Non saprei: a Qazvin la mia padrona diceva che le donne diventano più belle quando amano».

«Ah, espressione efficace la sua… E tu cosa pensi?»

«Io, mio signore, dico: come puoi augurarti di meglio di quel che hai già in mano tua?»

Avicenna pensò che ormai sia lui che lei desideravano entrare in quella fortezza tutt’altro che inespugnabile. Quindi si chinò e stava per attingere da quel lago, ma esitò. Non gli piaceva la sensazione che quella cosa si stesse spingendo troppo oltre, di sentirsi combattuto fra il desiderio e la cautela. Distraendosi per un istante, si alzò e posò il libro di poesia sul tavolo sotto la finestra. La sua mente ardente soppesava pensieri fra loro scollegati: come poteva Rudaki percepire la bellezza della sua amata se era cieco? E come poteva questo suo poema, scritto oltre un secolo prima, descrivere la bellezza di Rawan? Se Sundus fosse viva, oggi avrebbe cinquantotto anni e i suoi fianchi sarebbero ormai inflacciditi… La sostanza della bellezza è una sola, la beltà è un colpo di vento che il Creatore dell’Universo concede alle cose belle per ammaliare le menti degli uomini, cancellarne la rettitudine e far loro perdere la testa. Ma cosa sono questi sofismi? Cos’è che ora mi vieta Rawan, lei che è mia proprietà eppure padrona delle redini del mio desiderio? E che per giunta mi desidera? Appagare il mio desiderio di lei non mi travolgerà di nuovo verso il precipizio delle cascate della folle passione. È la privazione che accende la scintilla della passione e ne appicca il cocente e avvampante fuoco col desiderio, così che la vita di colui che si priva diventa un inferno… Ottenere quel che si desidera è piuttosto ciò che spegne quella fiamma, è l’acqua dolce che scorre delicata e affascinante fra i giardini e le aiuole del paradiso. L’acqua è il segreto della vita. Nessuna incertezza, nessuna esitazione, il mio senno si è scottato in passato e ha preso delle decisioni, ma non ha più senso rimandare…

Avicenna si sedette sul bordo del letto e la invitò con voce delicata: «Vieni da me, Rawan…»

E lei con voce ancor più delicata rispose: «Ai tuoi ordini, mio signore».

Per tre interi giorni Avicenna non uscì di casa e non lasciò nemmeno la sua stanza, se non di rado. E così anche Rawan. Conobbe il significato di un appagamento dietro al quale non c’è né rimorso né sofferenza. E comprese il senso della felicità totale. Ne scoprì anche le più piccole briciole che, nascoste, aspiravano a farsi conoscere… Rawan… Mari profondi, cielo iperuranio… Una bellezza solo in parte evidente, ma per lo più nascosta sotto le vesti: quando si spogliava spavaldamente, la mente gli si annebbiava per tutta quella dolcezza, grazia, splendore. Tutto in lei era fascinoso e magico, in una misura che il cuore di un amante non poteva sopportare e mai era pago di regalarsi. Ancor più perché anche lei era amante, si concedeva ebbra delle coppe e dei respiri tiepidi che dalle sue labbra fluttuavano ovunque sulle curve di lei.

Ormai sedotto, Avicenna non sapeva più se stesse attingendo dal suo fiume o si stesse invece squagliando nel suo mare. Quanto più abbracciandola s’abbeverava del nettare della sua incantevole presenza, tanto più si ritrovava ad aver sempre sete e desiderio di quella fonte. La cosa strana era che lei apriva i lucchetti dell’amante senza bisogno di chiavi, mentre i suoi timidi fiori si schiudevano fra le braccia di lui appena questi ne sfiorava le foglie e le fronde ondeggianti. E nonostante ciò lei continuava a chiamarlo “mio sapiente signore”. Perfino nei momenti culminanti. Lo guardava sempre con l’occhio di chi si vergogna del proprio ardore, di concedersi, di aver voglia sempre di sciogliersi ancora.

E poiché gli uomini, per quanto sapienti possano essere, non si liberano mai della stoltezza infantile, Avicenna si mise a rimuginare sul viaggio e sul percorso che stava facendo, sulla sua scelta, immaginando che avrebbe potuto alleggerirsi da quella sconcertante infatuazione semplicemente distogliendo lo sguardo…

Dopo un mese di ripetute immersioni nei mari di Rawan in cerca di perle, acquistò tre di quelle belle schiave da intrattenimento che sanno suonare e cantare bene. Le scelse come lei, discendenti dalle tribù turche chiamate Çigil, il cui nome in arabo si scrive Shigil. Una di loro pizzicava con maestria le corde del liuto e della ribeca, le altre due erano bravissime nel canto sia in persiano sia in arabo. Tutte e tre erano vergini. Lui pensava che dopo un po’ sarebbe stato attratto da loro e si sarebbe versato mestoli di quei dolcissimi nettari, invece col passare dei giorni capì che nessuna era come Rawan, perché lui – e questo non l’aveva previsto – se ne era innamorato, follemente innamorato…

Nei mesi successivi, i più lieti, la quiete albergò nel suo cuore e la gioia riempì la sua casa. Il suo tempo si distribuiva sempre uguale: la mattina visitava gli ammalati e prescriveva le cure; dal primo pomeriggio fino all’inizio della sera si riuniva con i suoi allievi, dettava loro i suoi libri e dibatteva su questioni di logica, filosofia e teologia; dopo la preghiera della sera si sedeva in convivio per bere e ascoltare la musica e le canzoni; verso mezzanotte si appartava nella sua stanza per dedicarsi alla scrittura copiando in bella gli appunti e le cose che aveva dettato. Infine suggellava la sua giornata con qualche ora nel letto fra le braccia di Rawan, del cui dolce nettare non si dissetava mai completamente.

Una volta, in quei giorni, le domandò quale fosse il recondito motivo per cui lui non si saziava né dissetava mai di lei. Rawan s’infilò nel suo abbraccio e rise timidamente.

«E tu» le chiese ancora «ti sei stancata di me?»

«Si stanca forse un uccellino dell’aria in cui vola?» rispose lei con uno sguardo pieno di pudore.

Un giorno lei volle sapere da lui se desiderasse le sue schiave cantanti. Avicenna rise e disse: «Mi basti tu». A queste parole il suo sguardo si calmò e con incantevole tenerezza lei disse: «Tu hai tutto ciò che ti piace, mio sapiente signore, e a me di te basta molto meno del poco…»

Quella situazione si prolungò per quasi un anno, e fu il periodo più felice in tutti i cinquantasei vissuti dal Grande Maestro. In quel tempo frequentava spesso il palazzo del principe di Rayy per seguire le cure mediche del governatore ufficiale Majd al-Daula, figlio della effettiva reggente Sayyida Khatun, che soffriva di allucinazioni da melancolia e di attacchi di depressione. Il Grande Maestro cominciò a curarlo con i più raffinati preparati medicinali e con accortezze mediche e psicologiche, finché non sembrò sulla via della guarigione. Una volta guarito, o meglio, nel periodo in cui la malattia si era attenuata, il principe cominciò ad apprezzare gli incontri e le conversazioni con Avicenna. I due parlavano di scienza e di filosofia, a volte anche di teologia o di altre cose. In una calda giornata estiva Avicenna, rientrando dal palazzo del principe, aveva la mente occupata. Rawan lo accolse con la sua gentilezza abituale, in una veste leggera che lasciava trasparire quel che copriva. Lui si tolse il turbante dalla testa e si sedette sul letto rivolgendo lo sguardo verso il soffitto della stanza a fissare l’invisibile. Rawan si mise a frizionargli i piedi con olio di mandorle e, lanciandogli uno sguardo di sfuggita, lo vide perso in orizzonti lontani.

«Cosa occupa la tua mente, mio sapiente signore? Sono faccende di questo mondo?»

«No, Rawan, sono questioni dell’oltremondo…»

«Cosa intendi dire, mio signore?»

«Il principe Majd al-Daula mi ha chiesto di redigere un trattato sulla “destinazione”, in cui esporre le mie idee e le opinioni che ritengo più giuste».

«E che cos’è la destinazione, mio signore?»

«Il Giorno della Resurrezione».

Rawan ebbe una stretta al cuore, il suo bel sorriso da bambina si dileguò e lo guardò con uno sguardo pieno di apprensione e smarrimento. Lui le rivolse un sorriso per rassicurarla e mettendole una mano sotto l’ascella la prese e la mise a sedere accanto a sé, mentre con le dita della mano destra le tastò il polso della mano sinistra. Trovandolo agitato la strinse a sé. In quell’abbraccio Rawan stava quasi per calmarsi, quando udirono le voci degli allievi che erano appena arrivati e del servitore che li accompagnava nello studio grande vicino alla porta principale della casa. Prima di lasciare il letto per fare la preghiera del pomeriggio e uscire per raggiungere i suoi cinque studenti, Avicenna disse a Rawan: «Puoi unirti a noi, se ti va…»

«Naturalmente mi piacerebbe» rispose subito lei; quindi si premurò di indossare un vestito adatto alla lezione, ma non trovò nulla di più adeguato di un camicione nero di quelli chiamati chador.

Avicenna si accomodò sulla sua solita sedia e Rawan si sedette ai suoi piedi. Di fronte al Grande Maestro sedeva Abu ‘Ubaid al-Juzjani affiancato da Bahmanyar ibn al-Marzuban, e dietro a questi Ibn Zila e altri due allievi. Avicenna scrutò i loro volti raggianti e l’acume luminoso dei loro occhi, poi con un sorriso comunicò che Rawan avrebbe assistito alla lezione insieme a loro e che se le fosse piaciuto avrebbe potuto seguirne altre. Bahmanyar fece un sorrisetto e disse faceto: «Sta’ attento, o nostro Grande Maestro, anche il saggio Pitagora aveva introdotto delle donne nella sua scuola di Samo, ma i suoi concittadini gli si rivoltarono contro e gli incendiarono la scuola».

«Io non ho una scuola che possa esser bruciata, caro Bahmanyar. Comunque la cosa importante è che stamattina il principe Majd al-Daula mi ha chiesto di redigere un trattato in cui si riassumano le questioni oltremondane e quanto concerne l’emanazione delle anime e il loro ritorno… Pensavo di scrivere la mia dottrina in maniera velata, non in maniera esplicita. Cosa ne pensate?»

Rawan si meravigliò che tutti quanti si rallegrassero entusiasti per la cosa, come se, al contrario di lei, non avessero alcun timore a parlare della morte e di quel che succede dopo.

Abu ‘Ubaid si sfregava le mani ed esultava come un bambino a cui è stato dato un regalo, e con il suo travolgente entusiasmo disse: «Dunque il tuo ragionamento sarà conforme alla dottrina essoterica adatta alla gente comune che si trova nel tuo libro La provenienza e la destinazione, mentre la tua dottrina filosofica esoterica sarà in questo libro…»

Rawan non capì proprio niente di quel discorso, e osservò sbalordita Bahmanyar dire: «Mio signore, io penso che, prima di scrivere, la nostra lezione di oggi vada dedicata a cercare le tue opinioni filosofiche su quanto concerne la destinazione, sulle critiche e le obiezioni che vi si possono muovere e sulle risposte con cui si può replicare alle critiche. Cosa ne pensi, mio signore?»

Avicenna concordò con quanto suggerito e, prima di esporre le proprie idee, cominciò a citare i princìpi fondamentali, fra cui questo: non si può portare come prova una testimonianza orale che sia confutata da una dimostrazione razionale, perché l’intelletto precede per forza la parola, in ragione del suo essere l’universale nel genere umano, cioè il luogo preposto e la sua prima clausola…

Rawan era molto confusa da quelle parole, ma rimase in silenzio. Avicenna aggiunse che i testi tradizionali vengono menzionati nelle leggi per la bocca del popolo e della massa, non per le élite e gli scienziati, quindi la necessità impone che si citino esempi e si usino similitudini per avvicinare meglio le menti ai concetti. Ma spesso i giuristi e i teologi nelle questioni dogmatiche tagliano al volgo la via della comprensione di un concetto, facendogli credere che la testimonianza orale preceda l’intelletto e che non valga la pena di approfondire quanto ricorre nelle fonti testuali. Questo significa impedire all’intelletto di speculare sul senso esteriore o interiore di un testo, che è ciò di cui le verità dogmatiche sono composte e intimamente mescolate. Gli ignoranti quindi suppongono che l’esteriorità delle leggi sia inconfutabile dimostrazione, ma questo è un pericoloso tranello.

Rawan si aspettava che gli ascoltatori ribattessero o chiedessero ulteriori chiarimenti e spiegazioni, ma vide invece che muovevano la testa in segno di assenso e ne fu ancor più sbalordita. E non sapeva che tutto quello non era che una semplice introduzione… Nelle tre ore durante le quali si protrasse la lezione, Avicenna confutò il concetto di trasmigrazione delle anime e l’idea che si possa rinascere nuovamente dopo la morte, portando numerose prove sull’inconsistenza della teoria della metempsicosi. Poi espose loro la sua idea sull’impossibilità che si verifichi un’emanazione fisica, partendo dal concetto, confermato dalla logica e con essa in accordo, secondo cui l’anima umana è più importante e più duratura del corpo; essa è la sostanza che non può subire mutazione né deperimento. Infatti l’uomo può invecchiare e possono alternarsi gli stati del suo corpo fisico, può anche perdere grandi porzioni marginali del suo corpo come le gambe, i piedi, le braccia o le mani, ma la sua anima resta una, né amputata né alterata.

Così non è concepibile prendere alla lettera i testi che parlano della perfezione fisica in relazione all’aldilà. Quelle infatti sono immagini e similitudini usate per essere comprese dal volgo, metafore per avvicinare ai concetti le menti dei non acculturati. Oltre a questo vi è un certo numero di verità, fra le quali che i piaceri intellettivi sono superiori e più elevati di quelli corporei. E di certo il Creatore dell’Universo – a Lui la potenza – non permette nel Suo diritto che ci si vendichi di chi commette degli errori con l’accanimento delle punizioni corporali. Questo è impossibile per il Creatore, e non è in linea con il dogma della Sua benevolenza, perché Lui è l’Altissimo Bene Puro. Ne consegue che il Giorno del Giudizio non è per i corpi, ma soltanto per le anime, giacché l’uomo è uomo nella sua forma psichica e non nella sua materia fisica che ha in comune con tutte le specie animali. Per questo il Creatore parla di “anime”, non di corpi, quando nel Corano dice: «O anima tranquilla, ritorna al tuo signore contenta e appagata…»21 Non dice: «O uomo, corpo e anima»! In base a ciò il ritorno è solo spirituale e tutte le questioni oltremondane riguardano unicamente l’anima umana e non i corpi delle persone.

Non appena il Grande Maestro terminò il suo discorso, si accese la discussione e le questioni si allargarono ai princìpi fondamentali e ad argomenti precedenti, finché la lezione di chiuse con la promessa di riprendere il ragionamento l’indomani.

Rawan era seduta per terra ai piedi di Avicenna, aggrappata segretamente al lembo della sua veste che stringeva con forza, come per non sentirsi sola, come se con questo cercasse scampo dalla recondita paura che il suo sapiente padrone, intento a parlare, si distraesse troppo da ciò che si agitava dentro di lei. Chissà, in qualche oscura forma forse Rawan aveva colto che quelle parole del Grande Maestro sarebbero state causa dell’accusa di empietà rivolta contro di lui e che avrebbero costantemente costituito la dimostrazione, secondo la massa di coloro che lo odiavano, del fatto che lui era uscito dalla religione dell’islam.

Durante un’alba sul finire del mese di febbraio del 1015 Rawan si agitava e agitava il sonno di Avicenna che la stringeva a sé. Le chiese cosa avesse e lei gli bisbigliò che aveva fatto un sogno strano… Era come se fosse ritornata nella sua stanza in casa del suo padrone il Buwayhide, a Qazvin, e ne era felice; ma poi aveva sobbalzato quando la terra aveva cominciato a tremare sotto di lei facendo crollare le pareti. Si era ritrovata da sola in mezzo a un deserto desolato col vento che le strepitava intorno e le tappava le orecchie, consumandole il cuore dal terrore.

Tremava mentre a sussurri gli raccontava il suo sogno. Lui la cinse col braccio sinistro, e con voce sommessa le disse che i sogni sono immagini della fantasia di cui non bisogna aver paura. Sono l’effetto della facoltà immaginativa che si libera quando vengono meno le capacità sensoriali esterne; a volte agisce senza controllo, altre volte invece è il riflesso di una condizione fisica. Poi disse: «Il tuo corpo è caldo, Rawan, penso che questa notte tu abbia avuto la febbre e che queste visioni e sogni confusi siano causati dal ciclo mestruale che si sta avvicinando. Non c’è da preoccuparsi per questo, dovrai soltanto bere spesso tisane calde alla cannella e, se senti dolori al basso ventre, coricarti sulla schiena e mettere sul punto che ti duole una borsa di acqua calda. Queste cose portano giovamento».

A mezzogiorno di quella stessa giornata, il Grande Maestro ricevette due lettere: una veniva da un luogo lontano e l’altra lo avrebbe portato in un luogo lontano. La prima lettera era semplice, l’aveva inviata il Buwayhide residente a Qazvin: in essa salutava Avicenna, gli chiedeva come stavano lui e Rawan e gli annunciava che la moglie di suo figlio, Zahwa, era incinta e avrebbe partorito entro un paio di settimane; quindi lo invitava a partecipare ai festeggiamenti per il nuovo nato. Rawan disse che quel messaggio era l’interpretazione del suo sogno, ma al contrario. Avicenna sorrise.

Un’ora dopo gli arrivò l’altra lettera dal palazzo del principe. In essa Sayyida Khatun lo convocava urgentemente. Avicenna corse da lei e rimase al palazzo dal primo pomeriggio fino al tramonto. La sera tornò preoccupato da Rawan, alla quale disse che Sayyida lo aveva scelto per eseguire alcuni incarichi urgenti a Qazvin e Hamadhan. Non entrò nei dettagli, per non suscitare in lei dei timori. Infatti Sayyida aveva ricevuto informazioni che confermavano l’intenzione di Mahmud il Ghaznavide di invadere i regni Buwayhidi di Rayy, Isfahan e Hamadhan per annetterne le province, sfruttando la situazione di reciproca ostilità e di disaccordo fra i vari principi Buwayhidi e il deterioramento delle condizioni di sicurezza alla periferia di Qazvin, dovuto alle incursioni di capitani di ventura e predoni curdi e turchi. Per questo motivo Sayyida voleva mandare Avicenna in missione presso i principi Buwayhidi e i notabili del Daylam, per invitarli a mettere da parte gli attriti che erano sorti fra di loro in modo da poter affrontare il pericolo che incombeva su tutti quanti. Lo aveva anche informato che Mahmud il Ghaznavide aveva scritto in segreto al califfo Abbaside a Baghdad proponendogli di sventolare il vessillo della sunna, professata dal casato califfale, in faccia ai Buwayhidi sciiti che avevano scavalcato e sottomesso i califfi Abbasidi. In quelle lettere il Ghaznavide gli aveva assicurato che avrebbe messo fine alla loro dinastia, il cui potere sulla Persia e l’Iraq durava da più di cento anni. Quel ragionamento era piaciuto al califfo che, augurandosi il successo dell’impresa, aveva fatto del Ghaznavide la prima colonna e il più fido sostegno del califfato, e di conseguenza lo aveva nominato comandante unico delle regioni di Chorasmia, Persia, Afghanistan, Turkestan e di qualsiasi altro luogo su cui il figlio di Subük Tejin avesse esteso il suo potere con la forza della spada.

«Mi porterai con te ovunque tu vada?» gli chiese lei.

«Naturalmente, Rawan, naturalmente».

«E quando partiremo, mio signore?»

«Domani cominciamo a imballare le nostre cose, partiremo mercoledì, cioè il 23 di questo mese, contando di arrivare a Qazvin prima che cominci il mese di Ramadan».

«E quanto resteremo lì, mio signore?»

«Al momento non lo so. Forse trascorreremo lì tre settimane o un mese. Poi, dopo la festa della rottura del digiuno, il nostro viaggio proseguirà da Qazvin a Hamadhan, dove potremmo fermarci per un periodo più lungo, se la cosa lo richiede».

Gli sforzi di Sayyida non erano destinati al successo, né si sarebbero realizzate le sue speranze di riunire i Buwayhidi e spingerli a levarsi contro il Ghaznavide e le sue illimitate ambizioni di potere. Ma quel suo tentativo posticipò i destini per qualche tempo e gli eventi più irrimediabili furono rimandati di pochi anni, dopo i quali il Ghaznavide razziò con la sua spada Rayy e i suoi dintorni e con l’inganno se ne impadronì. Distrusse le biblioteche, uccise gli scienziati e dispiegò le bandiere della repressione e dell’oppressione. Infine divorò i rimanenti regni Buwayhidi uno dopo l’altro… Il destino di Avicenna volle che lui assistesse a gran parte di queste sciagure prima della sua morte.

La mattina presto, con la prima luce del sole, ogni lato della casa si riempì di movimento. Rawan insieme alle ancelle e ai servi si mise a impacchettare gli effetti necessari, raccogliere i libri, preparare l’equipaggiamento per l’ultima partenza da Rayy. Nella sua testolina si accavallavano molti pensieri contrastanti, perfino opposti: la felicità per tornare a visitare il suo primo paese natio, l’agitazione per essere costretta a doverlo lasciare di nuovo per recarsi a Hamadhan… E per quanta nostalgia il suo cuore avesse per Qazvin, era anche dispiaciuta per la fine dei suoi giorni lieti a Rayy e in ansia per quel che avrebbe trovato a Hamadhan.

Nel tragitto dalla sua stanza alla sala in cui teneva gli incontri di studio, Avicenna domandò a Rawan perché avesse lo sguardo assente, avendola vista distratta con gli occhi puntati sui due alberi. Lui le ripeté la domanda e lei, con la consueta educazione, rispose: «Nulla, mio signore, sto dicendo addio alla casa cui potremmo non ritornare più. E ho paura di dimenticare qui qualcosa di importante di cui potrei aver bisogno in futuro».

«E perché vedo delle lacrime nei tuoi occhi?»

«Mio signore, ogni distacco intristisce i cuori… Qui io ho conosciuto la vera felicità, e non so lì cosa ci aspetta».

«Speriamo per il meglio, Rawan, speriamo per il meglio…»

Al-Juzjani era seduto nella sala studio osservando quel che gli accadeva intorno e pensando al motivo per cui Avicenna l’aveva convocato così presto. Quando il Grande Maestro lo informò che sarebbe partito per Qazvin e poi per Hamadhan non ne fu sorpreso, perché il giorno prima la consueta lezione non si era tenuta a causa della convocazione urgente al palazzo del principe; e poi le cavalcature inginocchiate nella piazza davanti casa, il trambusto generale erano tutti segnali e indizi di una partenza di cui non si vedeva il ritorno… Al-Juzjani non ne chiese i motivi; capiva che siccome il suo professore aveva taciuto ogni spiegazione riguardo le ragioni della partenza improvvisa, la questione non aveva bisogno di essere discussa a parole, almeno per il momento. Quindi si contentò di poche semplici domande: «Posso venire con te a Qazvin?»

«No, è meglio che tu mi preceda a Hamadhan e mi aspetti presso mio fratello ‘Ali, che vive lì».

«E che ne sarà di questa dimora, delle tre schiave e dei servitori?»

«Questa casa era in affitto, la restituirò al suo proprietario. Schiavi e schiave li affrancherò».

«E Bahmanyar? Verrà a Hamadhan e ti aspetteremo insieme lì?»

«Lui può fare come vuole».

Dopo un lungo silenzio, Avicenna ebbe pietà di al-Juzjani e del suo desolato smarrimento, e gli disse di aver ricevuto un incarico importante per conto del principe che lo costringeva a partire. Al-Juzjani non riuscì a trattenersi e con imbarazzo gli chiese: «Mio signore, la tua partenza c’entra forse qualcosa con l’intenzione di Mahmud il Ghaznavide di invadere Rayy, di cui si parla tanto?»

Avicenna fece un cenno di assenso, poi guardò lontano come volendo vedere se ci fosse qualcuno in arrivo nascosto dietro i veli del futuro.

«Potente Iddio» disse al-Juzjani in tono affranto, «quell’uomo non la smette di fare la guerra e spargere sangue, non gli basta quel che ha già?»

«Chi fa di soldi e potere il proprio desiderio non si accontenterà mai».

«Mio signore, questo vale anche per la conoscenza».

La mattina del giorno seguente, un’ora prima della partenza, Avicenna diede alle tre ragazze e ai quattro schiavi i loro certificati di proprietà e di suo pugno scrisse sul dorso della pergamena l’attestato di affrancamento per ciascuno di loro, firmandolo e aggiungendo la testimonianza di alcuni vicini. Quando si separarono, negli occhi dei liberti si mischiarono lacrime di gioia e gratitudine e insieme di afflizione per la separazione, e di grande stima. Da parte loro il dispiacere per l’addio al Grande Maestro e la sua amata Rawan era sincero. La mattina dei festeggiamenti per quella liberazione era presente anche Abu ‘Ubaid al-Juzjani, cui si presentò l’occasione di parlare sottovoce con il suo professore, che appariva contento.

«Ti vedo felice, mio signore, per la liberazione di questi schiavi. Dunque tu avevi comprato degli schiavi per poi affrancarli?» gli domandò.

«La servitù e la schiavitù sono contrarie alla natura umana, perché le persone sono uguali nell’indole e nell’intelletto. Se non ci fossero coloro che appiccano gli incendi delle guerre non ci sarebbero prigionieri da vendere e comprare».

«Eppure questo esiste da tempi antichissimi, o nostro Grande Maestro, e nessuno l’ha mai vietato».

«L’umanità in principio era una nazione sola, come dice il Corano. Poi esseri spregevoli si sono contesi il potere, le guerre si sono propagate e gli innocenti ne hanno pagato il prezzo. Non esiste una sola persona, o Abu ‘Ubaid, che voglia intenzionalmente farsi schiava o serva. Io e te potremmo un giorno cadere prigionieri e non trovare qualcuno che ci riscatti, e quindi essere venduti come schiavi. Anche Platone, il divino filosofo, venne fatto prigioniero e fu venduto come schiavo… Più in generale io penso che nell’affrancare vi sia un dono del Creatore e la pace per l’anima».

«Ma Platone disse che l’indole degli schiavi è per sua natura inferiore; e Aristotele, anch’egli filosofo rinomato, diceva che esiste chi è schiavo per natura, ossia che è stato creato per essere schiavo».

«Aristotele è maestro di grande fama, ma anche lui su questo si sbaglia… Tutti gli schiavi in precedenza erano liberi, anche coloro che sono nati in schiavitù e prigionia, i loro antenati di fatto erano liberi. Ma lasciamo stare questi discorsi, davanti a me ho un lungo viaggio…»

Le sei settimane a Qazvin furono un periodo lieto, pieno di allegria e di sentimenti calorosi, durante il quale Avicenna riassaporò il nettare di sensazioni familiari che aveva dimenticato. Il Buwayhide li ospitò in casa sua, alloggiando lui e Rawan in due camere affacciate sull’ampio giardino dove c’erano cespugli di rose dai colori eccezionali ed effluvi profumati. Quel luogo fioriva come se esultasse per i suoi ospiti, al pari del suo padrone, la cui bocca non abbandonò mai il sorriso per l’intero periodo. Per tutto il mese di Ramadan si tennero banchetti: a volte venivano invitati da esponenti delle famiglie in vista di Qazvin per l’iftar22, altre volte si limitavano a festeggiare l’iftar nel giardino di casa insieme alle due famiglie che erano diventate una sola: il Buwayhide, la sua buona e intelligente moglie, le sue raffinate figlie con i mariti e i nipotini, la bella e incinta Zahwa col suo appassionato, elegante e singolare marito Safawan, suo suocero e tutta la sua famiglia araba. Le fonti della felicità si aprirono poi al tredicesimo giorno del siyam, il digiuno rituale, quando Zahwa partorì un bimbo che fu chiamato Tahir in onore del nonno materno.

Avicenna vide che le figlie del Buwayhide si comportavano con Rawan come se fosse una di loro e che spesso passavano le serate fra chiacchiere e bisbigli, sorrisetti e occhiate furtive, così come fanno le sorelle in una famiglia. Ma gli occhi di Rawan erano sempre puntati su Avicenna, come se lui fosse il suo fidanzato, e non il suo padrone. Lei si affrettava a rispondere al suo volere prima ancora che lo esprimesse e si compiaceva dei suoi sguardi soddisfatti come di quelli del Buwayhide e dei componenti della sua famiglia. E quando loro due si appartavano, veniva sommersa dalla timidezza tipica delle giovani mogli che stanno per congiungersi in casa della famiglia: all’inizio si ritraeva, ma poi, qualche istante dopo, la passione sempre rinnovata la spingeva verso di lui, che le era stato negato per tutto il giorno dagli obblighi rituali, per cui ogni appagamento veniva rimandato alla mezzanotte o oltre… In quei giorni Avicenna capì che quel che aveva letto nel libro di Abu al-Hasan al-‘Amiri23 La felicità e il rendere felici, e prima di quello nel trattato di al-Farabi24 Il conseguimento della felicità, e prima ancora quel che aveva detto Aristotele nella sua Etica Nicomachea, tutto quello non erano che fronzoli e ragionamenti teorici, mentre invece la sensazione della felicità profonda è qualcosa di meraviglioso che il linguaggio non è in grado di esprimere a parole e nemmeno scorgere da lontano. Se non fosse stato per la reverenza verso la filosofia e i vincoli della scienza, avrebbe scritto un breve trattato intitolato “La felicità, il suo nome è Rawan”! Sorrise Avicenna quando quell’idea attraversò la sua mente, e lodò il Creatore per quei giorni che considerava come un dono divino.

La giornata più bella fu quella in cui Tahir al-Tamimi e la sua famiglia vennero da casa loro, nella zona di al-Bashariyyat, a casa del Buwayhide nella zona di al-Zahra’ per celebrare l’iftar con la veglia d’intrattenimento notturno fino a prima dell’alba. Avicenna si sentì appacificato nell’osservare il profondo affetto che legava quei due uomini e tutti i componenti delle loro famiglie, dopo che erano stati a lungo lontani nel labirinto nutrito di settarismo. Cominciò a riflettere su quanto avvenuto fra il Buwayhide sciita e l’arabo sunnita e a come poter liberare la gente dalla tentazione della competizione settaria o tribale. Dopo un lungo ponderare trovò che c’era una sola risorsa salvifica, potentissima per le persone: l’amore. Quando questo manca, non si può fare a meno di una regolamentazione per le azioni pubbliche, e cioè la legge divina, mentre per i comportamenti privati ci sono la logica e i princìpi della conoscenza filosofica.

Durante il breve soggiorno nel paradiso di Qazvin, Avicenna consegnò le lettere di Sayyida ai nobili Buwayhidi parlando a lungo con loro in maniera esplicita dei pericoli che li minacciavano. Ma nel corso dei vari incontri dovette constatare che non valutavano la misura della tragedia che incombeva su di loro. Forse erano convinti che Qazvin fosse troppo lontana dalla portata di Mahmud il Ghaznavide, mentre lontana non lo era affatto. O forse pensavano che, quando fosse arrivato, avrebbero potuto sfuggire al suo esercito nascondendosi per qualche tempo sulle vicine montagne, che i grossi eserciti era improbabile riuscissero ad attraversare per inseguirli. Avicenna non discusse con loro di questo, si contentò di invitarli a riflettere con calma sulla questione e a non sottovalutare un pericolo che in apparenza era lontano, ma che in realtà era vicino.

Qualche giorno prima della festa per la fine del digiuno, Avicenna fu sorpreso dalla visita del suo allievo Bahmanyar ibn al-Marzuban. Stava andando a far visita alla sua famiglia che abitava nella sua città natale, sita sul versante settentrionale dei monti dietro Qazvin, per trascorrere con loro i giorni della festa. Era arrivato all’ora del tramonto, quindi consumò il pasto dell’interruzione del digiuno insieme a lui, poi la mattina presto ripartì. Quella notte si appartò con il suo insegnante per un paio d’ore, durante le quali lo informò che lo avrebbe raggiunto senza indugio a Hamadhan dopo la festa. Gli espose l’ansia e l’agitazione che l’avevano colto per il loro viaggio a Hamadhan, considerati gli antichi dissapori fra Sayyida, la reggente di Rayy, e Abu Tahir Shams al-Din, il governatore di Hamadhan, pur appartenendo entrambi alla famiglia dei Buwayhidi. Avicenna lo tranquillizzò dicendo che forse quei dissapori erano in via di cessazione, ma Bahmanyar non era del tutto tranquillo. Avicenna gli disse che poteva restare nel suo paese in Azerbaijan finché le cose non fossero migliorate e la situazione non si fosse stabilizzata.

«No, mio signore, ti seguirò qualunque cosa accada o accadrà. Nella mia vita non c’è nulla di più importante che stare in tua compagnia e apprendere da te. Tu sei l’ultima scintilla di luce in questo mondo di tenebra».

«Non esagerare, Bahmanyar… Cosa sono quei fogli che hai fra le mani?»

«Questi sono dei quaderni che ho chiamato Le ricerche, in cui ho scritto un riassunto delle tue ultime lezioni, mio signore. Te li lascio perché tu dia loro un’occhiata e… se troverai il tempo, considera se rispondono alle tue esigenze. Più in là, quando ci rincontreremo a Hamadhan, mi farai sapere cosa ne pensi, insieme a tutti i nostri discorsi sulla logica, la filosofia e la teologia».

«Queste scienze sono risorse salvifiche. Dammi quel che hai, ci rivedremo a Hamadhan fra due o tre settimane».

«Che Dio ti voglia bene, mio signore, e te lo conceda».

«La tua lingua si è fatta beneaugurante, o figlio del Marzuban, ma come stanno il tuo cuore e la tua mente?»

«Il cuore è agitato, mio signore, e confuso, ma è così da moltissimo tempo ormai».

Avicenna conosceva la profonda mestizia che attanagliava il cuore di Bahmanyar e la furia dei pensieri che tempestavano la sua mente. Nel loro primo incontro avuto a Rayy, Bahmanyar gli aveva raccontato della crisi che lo aveva colpito quando aveva abbandonato lo zoroastrismo, la religione dei suoi padri e dei suoi nonni, benché suo padre fosse un marzuban, ossia un capo molto importante dello zoroastrismo, uno dei sacerdoti del fuoco che gli iniziati chiamavano “secondari”, e il volgo “magi”.

In quell’incontro di circa due anni addietro Bahmanyar gli aveva detto, mentre nei suoi occhi spuntavano le lacrime, di aver riflettuto sullo zoroastrismo e di essersene allontanato, perché di fronte all’islam era stato sconfitto. «Ho visto, mio signore» erano state le sue parole di quel giorno, «che la confessione i cui affiliati sono denigrati non ha futuro, specialmente perché né in quella né altrove trovavo certezze. Tutto ciò che trovavo nella religione zoroastriana erano le ritualità della tradizione, allegorie artificiose di quelli che chiamano “i segreti del fuoco”».

Avicenna gli aveva consigliato di studiare la logica e la filosofia, e lui si era attenuto a quel consiglio e si era incamminato dritto sulla via della razionalità. Eppure nel suo cuore i turbamenti sarebbero sopravvissuti fino alla sua morte, nel 1066, trent’anni dopo la morte del suo Grande Maestro.

Dopo le splendide nottate della festa, Avicenna si trasferì da Qazvin a Hamadhan e lì risiedette insieme a Rawan in una graziosa casa alla periferia della fiorente città, circondata da giardini, con pochi edifici e case nei dintorni. Dopo diversi mesi di tranquilla permanenza, attendendo agli affari di un’anziana e ricca signora – che tutti chiamavano “banu”, parola persiana che in arabo significa “la signora più importante”, vale a dire “la favorita” – la quale possedeva vasti poderi e orti, pian piano intorno a lui cominciarono a sollevarsi dei clamori. Quando il reggente di Hamadhan, il Buwayhide Abu Tahir Shams al-Din si ammalò, i medici erano disorientati sulla terapia da seguire e gli consigliarono di convocare Avicenna al palazzo del principe, cosa che lui fece. Il Grande Maestro colse quindi l’occasione per prendere contatto con molti dei principi e delle persone in vista della famiglia Buwayhide, perseguendo i suoi tentativi di appianare le divergenze che erano sorte fra loro.

Avicenna dunque rispose alla convocazione al palazzo del governatore e rimase lì quaranta giorni consecutivi, durante i quali Rawan continuò a soffrire per la sua lontananza e lui a soffrire per la sofferenza di lei. In quel periodo, grazie al regime alimentare e a pochi semplici preparati medicinali, riuscì a guarire il principe che era dispeptico, vale a dire soffriva di dolori allo stomaco e alle viscere. Il governatore di Hamadhan ne fu impressionato e associò Avicenna alla sua corte più ristretta; successivamente gli propose di assumere l’incarico di primo ministro, e Avicenna fece lo sbaglio di accettare.

Nel periodo del suo ministero, il tempo del Grande Maestro si distribuiva regolarmente tra la frequentazione del palazzo del principe di giorno, il ritorno nel primo pomeriggio fra le braccia di Rawan, dove si assopiva per un’oretta, poi le sedute con gli studenti che si riunivano in casa sua ogni sera dal tramonto al dopocena. Una volta finita la lezione, congedava gli studenti e ordinava cantanti, suonatori e coppe di vino, finché non rinasceva in lui il desiderio per Rawan, che lo faceva correre verso il paradiso del suo letto… Alla marea di queste occupazioni sottraeva del tempo per scrivere alcune sezioni del suo grande libro chiamato La regola della medicina, che avrebbe ultimato anni dopo.

Fu in quel periodo che Avicenna divenne famoso con il soprannome di “Grande Maestro”, mentre alcuni lo chiamavano il “Ministro Dottore” o con altri appellativi onorifici. Le cose procedettero al meglio per un certo tempo, anche se lui appariva un poco deperito. Al-Juzjani – che era progressivamente salito dal grado di allievo a quello di compagno e amico, in ragione della lunga frequentazione e della poca differenza di età – si sentì proprio per questo autorizzato a portare all’attenzione di Avicenna i segni del deperimento e della debolezza che apparivano in lui. Lui rispose che non lamentava alcun problema, che era solo eccesso di ardore per il sesso di cui non era mai sazio e il cui desiderio non si placava mai.

«Mio signore, è troppo, sei sulla soglia dei quarant’anni!»

«E questo cosa vuol dire, Abu ‘Ubaid?»

«Vuol dire che è necessario che tu riduca i tuoi impegni di lavoro e l’affaticamento che deriva da una continua attività sessuale…»

«Può darsi che sia una compensazione per gli anni di astinenza… Comunque, lascia perdere ora questi discorsi e torna da tua moglie e dai tuoi figli, e lungo la strada passa da mio fratello ‘Ali e digli che domani pranzeremo insieme. Portate con voi le vostre mogli e i figli, perché Rawan gradisce la loro presenza e quando sta in compagnia è contenta… La sua felicità è la mia felicità».

«Agli ordini, mio signore. Ma permettimi di chiederti, con tutto l’affetto e l’amicizia, come mai Rawan fino a ora non è rimasta incinta?»

«Perché sono io che non voglio e le ho detto di prender olio di commifera e polpa di melagrana per non concepire, e questi accorgimenti hanno funzionato».

«E perché mai, mio signore, cerchi di evitare una gravidanza?»

«Ora va’ per la tua strada, Juzjani, il discorso si è già fatto troppo lungo».

«Ai tuoi ordini, Grande Maestro, ti prego di non arrabbiarti e di perdonare la mia sfacciataggine».

Avicenna rimase seduto nella stanza delle lezioni restando a lungo pensieroso, finché non arrivò Rawan, preoccupata perché era rimasto appartato da solo così a lungo dopo che i suoi compagni se ne erano andati. Lui si alzò insieme a lei in silenzio, poi, entrati nella stanza, la fece sedere accanto a sé e la strinse a lungo. Infine, guardando dentro i suoi grandi e puri occhi, le chiese se desiderasse avere figli… In quel momento Avicenna, nonostante tutte le sue rare e straordinarie capacità e il suo genio superiore, dimostrò davvero scarsa conoscenza della natura femminile e dei segreti delle donne, altrimenti non avrebbe mai posto a una donna perfetta come Rawan una domanda simile.

Lui ripeté la domanda. Lei rimase muta, ma gli risposero due lacrime che scendevano con seducente delicatezza sulle sue guance perfette. Invece di parlare, Rawan si chinò verso di lui poggiandogli arrendevole la testa sulla spalla; Avicenna la cinse con le sue braccia e prese a parlare quasi sussurrasse a se stesso: «La situazione attualmente è turbolenta ovunque, le macine della guerra girano ai confini e nessuno sa cosa succederà domani… Non è saggio generare figli in un momento come questo. Mi stai ascoltando, Rawan?»

«Sì, mio signore, ti ascolto. E sarò sempre obbediente».

La mattina di giovedì 24 aprile 1018 Avicenna sedeva col principe Shams al-Din nel giardino del palazzo. I due si misero ad analizzare varie informative portate dai capipattuglia di regioni vicine e lontane. L’estate era già iniziata e il clima era temperato. I messaggi degli informatori dicevano che la carovana dei pellegrini era arrivata a Mecca in tutta sicurezza due giorni prima, e che Ibn Hamud al-‘Amiri, il quale contendeva il potere agli Omayyadi in Andalusia dopo l’assassinio del califfo al-Musta‘in bi-Llah, era stato ucciso dal suo servitore slavo un mese addietro; gli era succeduto suo fratello al-Qasim. Le notizie sulle condizioni di al-Hakim bi-Amr Allah, il califfo ismailita che dominava l’Egitto, erano contraddittorie e non preannunciavano nulla di buono: sempre più spesso lasciava il proprio palazzo per ritirarsi in eremitaggio sul monte al-Muqattam, nei dintorni del Cairo, isolandosi dalla vita da re, e nonostante il suo modo di governare deciso e vigoroso non riusciva a tener testa alla sua autorevole sorella Sitt al-Mulk.

Chiacchierarono e discussero di queste faccende come principe e ministro, e quando esaurirono quegli argomenti, il principe Shams al-Din cominciò a parlare ad Avicenna come un amico che si lamenta col suo compagno. «Caro Abu ‘Ali» disse, «qual è la soluzione per questo problema dei militari che si rivoltano? Noto che fra loro in molti complottano o non complottano soltanto per paura o per ambizione, e non sono mai sazi…»

Infervorato, Avicenna rispose: «Mio signor principe, il posto adatto a soldati e militari è ai confini e alle frontiere. Non bisogna affidare loro la riscossione delle tasse o l’esazione dei tributi e dei dazi imposti ai mercanti».

«Dunque qual è la soluzione?»

«Mio signore, i sintomi della malattia si curano col suo opposto».

«Spiegati meglio, io non ho attitudine per queste allusioni e aforismi».

«Mio signore, il lavoro dei militari per sua natura è ammazzare. Ammazzare e gettarsi in battaglia è il loro compito, non conoscono che quello. Con loro la situazione può migliorare solo tenendoli lontano da città e centri abitati, relegandoli nelle loro caserme e nei posti di confine. In questo modo si accresce la loro reverenza e si riducono le loro ambizioni».

«E cos’altro?»

«Bisognerebbe dare una regolata ai loro stipendi e alle loro regalie, senza sprecare né esagerare. E non bisogna restare indifferenti verso coloro che sbagliano, ricompensando invece coloro che sono diligenti. È importante educarne i comportamenti per correggere la loro innata tendenza ad attaccar briga e spargere sangue».

«Potresti mettere per iscritto un riassunto che includa queste cose in modo da farle diventare una legge che vada rispettata?»

«Certamente. Sabato mattina il testo sarà nelle tue mani, mio signore».

Durante quel pacato incontro nessuno dei due sapeva che un gruppo di comandanti militari turchi e curdi si era riunito in quello stesso istante in casa di uno di loro, chiamato Arslan. Si erano confrontati fra loro, pieni di collera, perché il principe in maniera inconsueta aveva eletto ministro un non militare, anzi un “ciarlatano” – così definivano Avicenna – che si sentiva forte e che a soldati e militari non riservava il rispetto che si doveva, anzi, li disprezzava. E questo nonostante il principe non avrebbe potuto fare niente senza di loro; quei funzionari e le guardie di cui si circondava il principe, di origine persiana e daylamita, non servivano a nulla senza di loro: per quanto fossero forti e leali, erano pochi. Conclusero la riunione cospiratoria con la decisione che bisognava senz’altro eliminare quel ministro presuntuoso soprannominato il Grande Maestro, per far sì che il principe fosse dalla loro parte.

Nella tarda mattinata del sabato il principe Shams al-Din uscì dal palazzo dirigendosi verso il suo giardino, dove lo aspettava Avicenna con il testo che gli aveva chiesto di redigere in settanta fogli del solito formato. Il principe fu sbalordito per la grande energia del suo ministro e scrutò attentamente il titolo: Libro delle disposizioni per soldati, mamelucchi e militari, dei loro rifornimenti e della fiscalità dei regni

Il principe restò un’ora a leggere quello scritto con espressione soddisfatta, poi chiamò uno dei suoi ciambellani e gli ordinò di portare di corsa quel libro al mercato dei cartai per farlo copiare su carta pregiata e distribuirne venti copie ai nobili dello stato, mettendone da parte cinque per la biblioteca del palazzo.

Avicenna fu contento per la soddisfazione che il principe esprimeva per il suo libro, la sua mente era distante dalle disgrazie che sarebbero accadute.

Nei due giorni successivi, dopo aver appreso dei contenuti di quel libro, soldati e militari si misero in agitazione. La loro sommossa montò sempre più fino a raggiungere il culmine la mattina del mercoledì: un manipolo di soldati abietti si radunò strepitando davanti alla piazza della moschea vecchia nel cuore di Hamadhan tirandosi dietro una schiera di plebaglia, per cui sul posto si ammassarono diverse centinaia di rivoltosi che la piazza era troppo piccola per accogliere. Nella marea della sommossa uno di quelli prese a strillare con voce alta e sinistra come un urlo di guerra: «Uccidete Avicenna, condannatelo prima che lui condanni voi!»

Il gruppo urlante avanzò a passo svelto brandendo spade, bastoni e pugnali, e attaccò la sede della residenza di Avicenna… Uccisero le due guardie che stavano presso la porta e irruppero nella casa, grande come un palazzo, depredandola. Catturarono i tanti schiavi e le dieci serve che vi abitavano e li condussero fuori legati e ammanettati per spartirseli nello stretto vicolo che portava al retro della casa; quando ciascuno di loro si fu impadronito di una vittima, fuggì con quella per venderla da qualche parte.

Al momento dell’attacco Avicenna era in camera sua e stava indossando la sciarpa, preparandosi ad andare al palazzo del principe, con lui c’erano Rawan e una seconda serva. Tutti quanti si spaventarono per il frastuono e le grida provenienti dal pian terreno e nell’ondata di spavento cinque o più miliziani entrarono nella camera. Uno colpì Avicenna alla testa con l’elsa della spada e lui perse conoscenza. Quando si riebbe si ritrovò imprigionato in una stanza con due soldati di guardia. Lo liberarono solo dopo due giorni passati al buio fra indicibili vessazioni, perché il principe Shams al-Din non aveva accolto la loro richiesta di metterlo a morte e anzi adirato aveva detto: «Liberatelo e lasciatelo uscire dai confini di Hamadhan in sicurezza, altrimenti l’esercito del Daylam si scontrerà con i miliziani rivoltosi e accadrà qualcosa le cui conseguenze non sono auspicabili».

Il principe insistette nella sua idea, quindi uno di quegli abietti rivoltosi andò alla vecchia casa in cui era detenuto Avicenna e disse ai suoi guardiani: «Liberatelo, se ne andrà in sicurezza, ma se lo vedrete di nuovo qui, uccidetelo».

Così Avicenna uscì dalla stanza della sua buia prigionia. Non aveva la forza di aprire gli occhi davanti alla luminosità della giornata estiva né quasi percepiva i calci e le sberle di cui l’avevano riempito fino alla fine della strada che portava al luogo della detenzione. Ma strinse i denti e si riprese un poco quando le sue gambe lo portarono verso la grande piazza del settore orientale di Hamadhan dove vide suo fratello ‘Ali camuffato in abiti da sufi, affiancato dai suoi più stretti allievi che attendevano la sua scarcerazione nascosti in una piccola moschea. Gli corsero incontro e lo scortarono per sottrarlo agli sguardi della gente fino al vicino quartiere dei cartai. Entrarono in una di quelle botteghe, il padrone chiuse subito la porta dietro di loro per proteggerli dall’impeto delle folle predatrici che imperversavano ovunque infiltrandosi nelle case. Avicenna osservò coloro che aveva intorno e vide che erano in quattro: oltre al proprietario della bottega, c’erano suo fratello ‘Ali, Abu ‘Ubaid al-Juzjani, Bahmanyar ibn al-Marzuban e Abu Mansur ibn Zila.

Il proprietario della bottega, che conosceva e stimava Avicenna, disse che uscire di giorno per loro non era sicuro perché il caos si era diffuso in città e nei dintorni, ed era meglio muoversi furtivamente sotto il velo della notte per allontanarsi da Hamadhan il più presto possibile. «Andremo a Isfahan» disse ‘Ali, il fratello di Avicenna, «ci rifugeremo presso il suo principe ‘Ala’ al-Daula ibn al-Kakwayh. Presso di lui saremo al sicuro…» I tre allievi di Avicenna, troppo preoccupati, non pronunciarono una sola parola.

Il proprietario della bottega andò a spiare da una finestrella sopra la porta, poi tornò per mormorare che la zona era sgombra e che sarebbe andato a casa sua, lì vicino, per prendere del cibo per il pranzo. «Non andare» si precipitò a dire ‘Ali, «non vogliamo far scoprire il nascondiglio». Ma l’uomo lo tranquillizzò e andò. Si assentò per un’ora e tornò con un sacchetto contenente delle focacce, un grosso pezzo di formaggio e della frutta secca. Mangiarono in silenzio e quando si appressò l’ora del tramonto Bahmanyar chiese quale fosse la via che dovevano prendere per uscire in sicurezza da una delle quattro porte di Hamadhan.

«Non usciremo dalla città» rispose Avicenna.

Il corpo di ‘Ali ebbe un fremito e si sforzò di mantenere bassa la voce mentre in tono vibrato e tremulo disse: «Resteremo qui? Vuoi che ti uccidano qui, e noi con te?»

«Taci, ‘Ali, non dire un’altra parola».

«Ai tuoi ordini, fratello maggiore».

Uscirono dalla bottega guardinghi avvolti dal manto della notte e procedettero in silenzio fino ad arrivare alla residenza di shaikh Abu ‘Ubaid, l’amico di Avicenna noto a tutti col soprannome di Ibn Dukhduk. Lì Avicenna li congedò consigliando loro di non farsi vedere per qualche giorno, finché la situazione non si fosse calmata.

Le cose non impiegarono molto tempo per tornare a come stavano prima, giacché il principe si prodigò con i militari più in vista, che quindi si considerarono appagati. Fece capire loro che il “perfido” ministro non li aveva presi di mira, ma aveva semplicemente risposto a una richiesta del principe in persona di stabilire delle regole generali che includessero un incentivo per l’esercito, per predisporlo ai confronti previsti nel breve termine. A calmare le acque contribuì il fatto che soldataglie e gruppetti di rivoltosi, dopo aver quel giorno depredato la casa di Avicenna come altre abitazioni e botteghe, fuggirono via senza che nessuno li avesse inseguiti in mezzo al caos che regnava ovunque.

Si voltò pagina e ben presto i giorni tornarono a scorrere uguali a prima, come se la tragedia non fosse accaduta e la tempesta non avesse investito la mente e maciullato il cuore di Avicenna.

Il periodo di permanenza in casa di Ibn Dukhduk durò quaranta giorni, durante i quali Avicenna cercò invano di capire cosa fosse successo a Rawan. Passato un mese dagli eventi, uscì di nascosto dopo mezzanotte, celandosi nell’oscurità – era una notte di luna calante – e andò insieme a due dei più forti servitori di Ibn Dukhduk alla sua casa saccheggiata. Non l’avesse mai fatto. Avicenna trovò solo rovine in una oscurità circondata da tristezza, simili a fantasmi… I razziatori avevano preso tutto quel che c’era da prendere, perfino i battenti delle porte e le imposte delle finestre. Avevano addirittura estratto dalle pareti i ganci di rame sui quali venivano appesi i lumi. Dove sei adesso, Rawan?… Avicenna si sedette in mezzo alle rovine smarrito e preso da un’angoscia che lo spinse a parlare in confidenza con il suo Signore: «O Creatore dell’Universo, cos’è questo disonore? Perché mi hai portato a questo mondo che si oppone al bene? Per quale disegno hai fatto abitare la mia anima in un corpo che vive un tempo corrotto? Se il Tuo scopo nel crearmi era che io Ti conoscessi e testimoniassi che Tu sei il Creatore, allora io Ti ho già conosciuto e ho già testimoniato, nel mio cuore non è rimasta neanche una briciola di dubbio sulla Tua maestosità e la Tua onnipotenza. Se la Tua volontà era che io Ti venerassi e venerassi nessun altri che Te, ebbene io l’ho fatto, nella misura del possibile. Prendimi nella Tua misericordia e restituiscimi Rawan, o altrimenti portami via da questo mondo perché io trovi requie. O Misericordioso, o Clemente, Tu che dispensi divieti e raziocinio, le mie fortezze sono crollate tutte, il male subito mi ha schiacciato, ma Tu non sei avaro di bontà: restituiscimela, o restituisci me a Te. Il mondo si è fatto troppo angusto per accogliermi, la pena mi ha accerchiato e io non sono più in grado di tollerarla…»

Quando l’alba fu prossima i due servi si avvicinarono al Grande Maestro e lo trovarono seduto in silenzio, nel buio della sua casa che un tempo era popolata. Aveva la faccia nascosta nel cavo delle mani e scuoteva il capo avanti e indietro. Uno dei due disse: «Mio signore, fra poco la gente uscirà per la preghiera dell’alba che si sta avvicinando. Torniamo, prima che qualcuno ci veda».

Lui si alzò insieme a loro come si alza una cammella che ha una malattia cronica, ma quando si mise in piedi stava quasi per ricadere a terra a causa degli sconvolgimenti che lo colsero al ventre e alla testa. Quella notte compiva quarant’anni, ma a chi lo guardava sembrava un novantenne emaciato, un vecchio svanito.

Passarono dieci notti di tristezza poi, in un mezzogiorno di calura in cui l’aria era molto torrida, Avicenna sedette da solo nella stanza sulla terrazza dove si era rifugiato: con sguardo distante contemplava i foglietti che aveva sul tavolo, indeciso se riprendere a scrivere quegli appunti o cominciare a ricopiarli in bella, oppure smettere per sempre di scrivere e comporre. Non voleva iniziare nulla di nuovo, avrebbe voluto mettere fine a tutto. Nel flusso di quella sua incoscienza, entrò Ibn Dakhduk, il suo ospite. In silenzio si sedette di fronte a lui, poi disse: «Ci sono notizie, o Abu ‘Ali. Il principe Shams al-Din è ricaduto nella malattia e chiede che tu lo curi. I comandanti del suo esercito hanno paura che possa morire in questo momento di tensione, e anche loro ti stanno cercando ovunque perché tu lo salvi dai dolori fortissimi che lo hanno immobilizzato. Dicono che tu sei l’unico che sa come guarirlo».

«È Dio che guarisce, io non ho alcun potere. Ti è giunta qualche voce su quelli che hanno preso Rawan?»

«Nulla, amico mio, nulla. Il suo rapitore ha abbandonato Hamadhan insieme a lei senza lasciarsi dietro alcuna traccia, ed è difficile sapere che direzione abbia preso. Affidati a Dio… Se vuoi una concubina, ti regalo una schiava o un’ancella di quelle belle…»

«Ti ringrazio, Abu Sa‘id, ma non provo alcun desiderio per le donne».

«Va bene, come vuoi. Ero passato per informarti che il principe mi ha convocato d’urgenza a palazzo. Credo che sappia che ti nascondi qui».

«Vuoi che lasci casa tua?»

«No, fratello, Dio me ne guardi! Aspetta il mio ritorno, ti terrò informato sugli avvenimenti».

Ibn Dakhduk ritornò nel pomeriggio insieme a un alto ufficiale del principe e a un gruppo di nobili che supplicarono Avicenna di andare con loro a palazzo. Forse avrebbe potuto alleviare i dolori insopportabili del principe. L’ulcera allo stomaco e le escoriazioni al colon gli avevano tolto le forze, gli impedivano di mangiare e di dormire e le sue energie erano quasi del tutto esaurite. Poteva perdere la vita.

Avicenna curò il principe con sapienti prescrizioni e terapie, che nel giro di un paio di giorni lo misero in grado di alzarsi dal letto e sedersi sul trono del suo ufficio di comando. Di fronte a tutti i presenti il principe chiese scusa al Grande Maestro per quanto accaduto, gli concesse grandi risarcimenti e lo pregò di riprendere la carica di ministro, promettendogli una completa protezione e una residenza in una sede sontuosa adiacente al palazzo del principe.

Avicenna acconsentì solo dopo essersi appartato con il principe e avergli raccontato, struggendosi, quel che era accaduto a Rawan e dopo aver avuto la promessa del principe che avrebbe usato ogni mezzo per restituirgliela e che avrebbe sguinzagliato dietro il suo rapitore spie, informatori e soldati finché non l’avessero portato al suo cospetto per fargli avere la punizione che meritava.

«No, mio signor principe, a me non interessa né lui né la punizione che avrà. Io voglio soltanto che Rawan ritorni da me».

«Tornerà, Abu ‘Ali, tornerà… Quel bandito non può essere andato lontano…»

Il principe Shams al-Din si mostrava fiducioso, ma il rapitore era andato molto lontano con Rawan. Due giorni dopo il principe informò il suo ministro che il rapitore di Rawan apparteneva a una compagnia di militari e si faceva chiamare Shirfan, ma il suo vero nome era Taz, un turco circasso. Era uscito da Hamadhan con la sua preda nel pomeriggio del giorno della tragedia, e aveva con sé dei soldi che aveva rubato. Aveva poi attraversato le montagne ed era arrivato ad Asadabad, dove era rimasto un mese. Poi era ripartito. Lì avrebbe voluto vendere Rawan, ma il prezzo che ne avrebbe ricavato, in assenza del certificato personale di proprietà, non gli andava bene, quindi era ripartito con lei diretto a Kirman. Cioè così aveva detto a chi aveva intorno, aggiungendo anche che aveva intenzione di arruolarsi nell’esercito di Mahmud il Ghaznavide e andare a combattere la guerra santa per diffondere l’islam in India insieme a quei guerrieri… Dal giorno in cui era uscito da Asadabad le notizie si erano interrotte e se ne erano completamente perse le tracce.

Avicenna rimase ammutolito e pietrificato, non poteva mettersi a piangere o abbandonarsi al dolore di fronte al principe, ma non era nemmeno in grado di parlare, né aveva nulla da rivelare, quindi si rifugiò in un silenzio assente…

Il principe si alzò e disse: «Dio ti ricompenserà di lei al meglio, o Abu ‘Ali. Ora alzati per la preghiera del pomeriggio, l’imam ha appena terminato la chiamata».

Siccome a palazzo aveva pregato distrattamente e senza pensare a quel che faceva, una volta tornato alla sua residenza ripeté la preghiera del pomeriggio in camera da letto. E nel corso dell’ultima prosternazione, che fece più lunga, fu assalito da qualcosa di amaro che gli proveniva da un angolo nascosto, eppure era forte ed evidente, poiché nel suo cuore sentì una voce simile al brusio provocato dai rami degli alberi in autunno. Con tono fiducioso e deciso gli sussurrava: «Riprenditi, Husain, il destino si è compiuto, non rivedrai Rawan un’altra volta…»