2.
Il Signore del Contado
Il diciannovesimo dei centoquindici giorni che Avicenna trascorse agli arresti nella rocca di Fardaqan iniziò calmo, e si preannunciava altrettanto tranquillo e pacioso. Ma quella previsione fu spazzata via dal frastuono che in tarda mattinata riempì l’intero castello con le acute grida di Strillo. Quando arrivò il corriere, accompagnato da cinque aiutanti, portando olio e vettovaglie sui basti di asini e muli, si presentò a Strillo l’occasione per dar sfogo alla sua laringe contro chiunque gli stesse intorno, spronandolo a scaricare quanto portato dal corriere e riporlo dentro i magazzini sul retro, che Avicenna non aveva ancora visto.
Il prigioniero si era destato presto, ma era rimasto ostaggio del suo letto a pensare. Pensava agli sconvolgimenti che aveva intorno e al Trattato sulla colite che sperava di terminare nei giorni a venire e che aveva intenzione di chiudere con un capitolo riservato alla critica di quanto gli antichi medici avevano detto su questa malattia: cioè che poteva insorgere per contagio epidemico dall’esterno del corpo, a prescindere dall’insalubrità dell’aria di un paese o di un altro, o di un essere umano colpito rispetto agli altri. Era una strana teoria. Né i medici contemporanei, né gli storici della medicina lo sostenevano… Chi era dunque quel medico?
Avicenna tentò di ricordare il nome dell’estensore di quella teoria e il titolo del suo libro, ma non ci riuscì. Che si trattasse di Rufo di Efeso, il sapiente vissuto qualche tempo prima di Galeno? Non ne era sicuro… Nel tentativo di ricordare il nome dell’antico medico Avicenna chiuse gli occhi e si stropicciò le palpebre, ma dato che la memoria non lo aiutava, fu preso da un moto di stizza. Quindi richiamò alla mente quel pomeriggio in cui stava seduto a leggere il libro nell’archivio del principe Nuh il Samanide, sultano di Bukhara. Si trovava nella stanzetta accanto al portone della grande biblioteca gremita di libri. Ricordava di aver letto quella frase all’inizio della pagina a sinistra di un foglio pieno di glosse sui margini interni. Quasi ricordava la forma delle lettere. Ma il nome dell’autore era scomparso dalla sua mente, così come il titolo del libro. Era forse I sapienti eccezionali di Hunain ibn Ishaq o il Libro della colite di Yuhanna ibn Masuyeh? Erano parole di Rufo o di Tito di Alessandria? Chi dei due? O era forse qualcun altro?…
I pensieri volarono via dalla testa di Avicenna perché Strillo si era avvicinato alla finestra della sua stanza urtando il suo udito con frasi come: «Forza, pigroni! Tu, cane maguseo, muoviti! Dov’è la biada per i muli? E l’acqua? Sveglia!» Parve che uno degli asini della carovana, infastidito dalla voce troppo alta di Strillo, avesse cominciato a ragliare per rispondergli con la sua voce cavernosa.
Avicenna si alzò imbestialito per il baccano, poi uscì dalla stanza infagottato nella coperta con la quale si era avvolto durante il sonno. Strillo, vedendolo, gli lanciò un saluto e una domanda: «Buongiorno a te, dottore, veniamo ora a portarti la colazione?»
Con riluttanza Avicenna gli fece un sorriso che l’altro prese come un assenso. Quindi Strillo si precipitò verso una stanza vicina dalla quale tornò con un grande vassoio di ceramica in cui c’era un pezzo di formaggio e tre uova semisode sormontate da una schiacciata di pane di Samarcanda. Posò tutto sul tavolo nella camera di Avicenna, lo invitò a mangiare e si sedette.
Un po’ angustiato il Grande Maestro staccò un boccone di pane, vi premette sopra un pezzo di formaggio e lo masticò molto lentamente. Indicando le uova, Strillo disse: «Sono nimbirisht7, se le vuoi completamente sode, o le preferisci fritte, non c’è problema, signor dottore, sono qui al tuo servizio».
«Grazie, ma sono abituato a rimandare la colazione, mi basta una scodella di sawiq8 tiepido».
«Ti sarà portato domani. Il sawiq lo preferisci di frumento, di lenticchie o di orzo?»
«La mattina per me sono tutti uguali, non ti preoccupare per questo. Piuttosto, trattate tutti quelli che sono in arresto qui con questa gentilezza?»
«Naturalmente tu sei diverso, o Principe dei Sapienti».
«Principe dei Sapienti!… E in che cosa mi vedi diverso?»
Strillo rimase un attimo confuso ed esitò, sul suo volto esile il marchio dell’ignoranza fu ancora più visibile. Poi di colpo esplose in una risata che lo fece sembrare un idiota. Si alzò di scatto per chiudere la porta della stanza, poi tornò a sedersi. Era a disagio come chi sta per rivelare un pericoloso segreto. Deglutì prima di dire con voce impastata che si sforzò di mantenere bassa: «Questi sono gli ordini, dottore…»
Avicenna aggrottò la fronte fino a congiungere le sopracciglia, mentre gli occhi si stringevano a fissare Strillo con uno sguardo interrogativo. L’uomo sorrise, poi, una volta assicuratosi che Avicenna avrebbe mantenuto il segreto e non avrebbe rivelato a nessuno quel che gli stava per raccontare, parlò a ruota libera: «Il principe Sama’ al-Daula e il ministro Taj al-Mulk hanno segretamente inviato al comandante Mansur al-Muzdawaj un dispaccio, giunto il giorno del tuo arrivo, in cui c’erano scritte solo due frasi: rendigli tutti gli onori e non scoraggiarlo».
«Questo è strano. Il principe mi imprigiona e poi ordina di rendermi omaggio…»
«Sì, perché vuole dar soddisfazione ai militari».
Avicenna non sembrava convinto di quel che aveva udito, quindi Strillo prese a chiarire il concetto per guadagnarsi la fiducia e assicurarsi la buona disposizione del Grande Maestro nei suoi confronti. Disse che la situazione politica era ovunque tesa, e che sarebbe presto scoppiata la lotta fra i due principi Buwayhidi Sama’ al-Daula e ‘Ala’ al-Daula: di conseguenza bisognava per forza guadagnarsi la simpatia dei militari e dei soldati…
Contrariamente alle sue abitudini, Avicenna interruppe l’interlocutore chiedendogli seccato: «E cosa c’entro io con la lotta imminente, i militari e i soldati?»
«Mio signore» rispose Strillo senza strillare, «il principe Sama’ al-Daula sa che i militari non ti amano, da quando eri ministro di suo padre. Si sono arrabbiati per il libello che scrivesti a quel tempo, cui desti il titolo di L’amministrazione dell’esercito, dei mamelucchi e dei militari, perché consigliavi al governo di allontanare i militari dalle città e di non esagerare nelle elargizioni verso di loro. Il risultato fu che il principe cominciò a guardarli con diffidenza e ridusse il loro potere, diminuendo le loro provvigioni. Tu ricordi cosa ti hanno fatto in quei giorni, e il principe non vuole che azioni simili, delle cui conseguenze non si può aver garanzia, si ripetano. Specialmente se è alle porte una guerra con ‘Ala’ al-Daula, che ti vuole bene e ti stima. Anche lui ti vuole bene e ti stima. Per questo ha ritenuto giusto allontanarti da Hamadhan per il momento, per non aggravare la situazione».
I segreti confidati da Strillo sollevarono nel cuore di Avicenna un polverone di ricordi per lui dolorosi e opprimenti, data la sua impotenza. Il suo sguardo viaggiò lontano nel richiamare alla mente scorci drammatici delle sue memorie, e la lacerazione di quel giorno terribile in cui i militari sediziosi avevano assalito la sua casa a Hamadhan e rapito Rawan dal suo abbraccio.
Anni prima del suo arresto, gli ufficiali dell’esercito e dei mamelucchi si erano adirati contro il Grande Maestro e gli avevano messo contro la massa dei soldati, ma lui non se ne era curato. Questo li irritò ancor di più e si moltiplicarono le voci diffamatorie contro di lui, per rimuoverlo dalla posizione di ministro del principe Shams al-Daula Abu Tahir il Buwayhide, padre dell’attuale principe Sama’ al-Daula. Tramavano affinché il principe lo destituisse, ma lui non se ne era curato. Questo li irritò ancor di più e arrivarono a pensare che lui stesse ordendo una congiura per farli fuori. Così anche loro tramarono svariate congiure contro di lui, tutte fallite… La cosa andò avanti e la situazione si fece più seria, fino a che il risentimento raggiunse il limite massimo anche fra i soldati. Alcuni rivoltosi si radunarono aizzando anche una torma di zotici villani che assalirono e depredarono la casa di Avicenna a Hamadhan e lo portarono in prigione. A gran voce gridarono al principe Shams al-Daula di permettere loro di ucciderlo, e il principe temette che se si fosse rifiutato avrebbero potuto attaccare lui. D’altra parte però aveva in stima la posizione di Avicenna, quindi negoziò con loro per arrivare a una soluzione intermedia, cioè bandire Avicenna dal paese e allontanarlo da Hamadhan e dai suoi dintorni.
Senza fare alcuna obiezione, liberarono Avicenna perché partisse all’istante, ma lui non rispettò la sentenza di esilio. Si nascose invece in casa del suo amico Ibn Dukhduk, sottraendosi a ogni sguardo per quaranta giorni. Dopodiché il principe Shams al-Daula fu colpito nuovamente da attacchi di colite che Avicenna aveva già curato in passato con le migliori terapie, fino a farli regredire. A quel punto gli uomini del palazzo partirono alla ricerca del Grande Maestro, perché curasse il principe, la cui malattia si faceva sempre più acuta facendogli quasi intravedere la morte. Quando Avicenna riapparve, il principe si scusò per quanto accaduto e gli riaffidò l’incarico di ministro, dandogli garanzie che la prepotenza dei militari e il barbaro comportamento dei soldati non si sarebbero ripetuti. Lo avrebbe accontentato in ogni modo pur di far tornare la situazione com’era prima. Avicenna curò il principe Shams al-Daula riuscendo a guarirlo dalla sua malattia per un certo tempo; ma dopo un po’ il principe tornò a trascurare la terapia e a contravvenire alle disposizioni mediche che gli erano state imposte, così la malattia tornò. Quando morì, salì al trono suo figlio Sama’ al-Daula che volle ancora designare Avicenna come suo ministro, ma questi, scusandosi, declinò, e scomparve. Voleva partire per Isfahan e stare alla corte del principe ‘Ala’ al-Daula ibn al-Kakwayh, perché allora si era ormai rassegnato a non ritrovare più la sua amata Rawan.
Dopo un momento di silenzio pesante, Strillo riprese il discorso dicendo, in sostanza, che la situazione attuale a Hamadhan era peggiorata: l’arroganza dei militari si era fatta ancor più molesta, ma c’era anche più bisogno di loro. Fra la gente di lì si era diffusa la voce che Avicenna avesse scritto al suo amico il principe ‘Ala’ al-Daula suggerendogli l’idea di impadronirsi della città e dei suoi dintorni.
«Ma io non gli ho scritto nulla di tutto ciò…»
«Perdonami, dottore. Tu gli hai mandato un messaggio, ma il messaggero ti ha tradito e ha consegnato la lettera al generale Taj al-Mulk che l’ha resa nota ai suoi soldati. E questi si sono messi in agitazione…»
«Fra noi non c’è stato alcun scambio di corrispondenza. Gli ho inviato con un corriere un solo comunicato in cui gli chiedevo il permesso di andare a stare da lui. Ero terrorizzato dalla situazione di Hamadhan, lì non mi volevano. E anche perché il clima di Isfahan mi è più consono. Nella mia lettera non c’era altro che questo».
«Io lo so, dottore. E lo sanno anche il principe Sama’ al-Daula e il generale del suo esercito Taj al-Mulk. Ma quei due adesso non vogliono entrare in conflitto con i soldati, quindi hanno trovato più giusto allontanarti finché le cose non si chiariranno. Se venissero sconfitti da ‘Ala’ al-Daula, potrebbero usare te per negoziare, se invece trionfassero, il principe ne uscirebbe rafforzato e avrebbe meno bisogno dei militari, quindi potrebbe rilasciarti… Insomma, signore, tu vincerai in entrambi i casi, devi solo portar pazienza per qualche tempo».
«Per un tempo di cui non è fissato il limite…»
«La tua attesa non durerà a lungo: la guerra è imminente, e subito dopo le cose si definiranno. L’importante è che tu, quando la tua situazione volgerà al meglio, ti ricordi di me, per favore. Io sono un fedele servitore, mio signore, e sarò per te un ottimo accompagnatore e un obbedientissimo assistente».
«Va bene, vedremo quel che sarà».
«Andrà tutto bene. Ora ti lascio in pace, si avvicina il mezzogiorno e da un momento all’altro al-Muzdawaj tornerà dalle celle».
«Le celle?»
Strillo si affrettò a sussurrare al Grande Maestro che addossate alle mura del castello, sul lato sud, c’erano delle stanze che in passato venivano chiamate “celle” perché vi abitavano i sacerdoti zoroastriani adoratori del fuoco. Erano rimaste a lungo in disuso, finché al-Muzdawaj non aveva provveduto a ristrutturarle per farne la sua residenza, e scherzosamente le chiamava dolat kochek, cioè “piccolo regno”. Attualmente lì dimoravano le sue due mogli, i figli, i servi e le serve. Lui ci andava la notte per vedere la sua famiglia e anche per incontrarsi di nascosto con informatori, spie, sentinelle… Concluse dicendo: «Non raccontare a nessuno quel che ti ho detto, mio signore, che Iddio ti protegga».
Strillo lasciò la stanza tutto contento al pensiero di aver fatto un grande passo in avanti sulla strada delle sue ambizioni. Non sapeva che di lì a qualche settimana quei suoi passi ambiziosi lo avrebbero portato alla rovina…
Placido come l’occhio di un ciclone Avicenna rimase seduto per un lungo tempo dopo l’uscita di Strillo. Ripresosi poi dallo spaziare dei suoi pensieri errabondi, prese fogli e calamaio deciso a completare il suo trattato sulle coliti. «A chi soffre di colite» scrisse, «col perdurare della malattia viene meno la propensione a gustare il vitto di cui non riesce ad apprezzare alcunché, provando nausea per i cibi grassi e i dolci. Questi sintomi possono manifestarsi all’inizio della colite, poi si protraggono e si acutizzano col suo aggravarsi, e a questi si combinano altri e diversi sintomi».
«O Primo dei Dottori, è arrivato Abu al-Zuhair».
La voce stentorea di al-Muzdawaj gli giunse da oltre la porta, chiusa per tener fuori il freddo, annunciando l’atteso arrivo dell’uomo che portava articoli medici e medicinali. Udendo quel richiamo, Avicenna abbandonò i suoi pensieri, il calamaio e i fogli, e si alzò impaziente di vedere cosa avesse portato Abu al-Zuhair, il Signore del Contado.
Quando uscì dalla stanza, Avicenna scorse al-Muzdawaj e il suo seguito salire i due gradini dai bordi consunti della scala di pietra che saliva dalla corte del castello alla sala di rappresentanza. Nei pressi della porta della sua stanza c’era ad aspettarlo una guardia snella, mentre accanto al portone del castello stava il mulo del Signore del Contado attorniato da tre dei suoi mamelucchi. In cielo avanzavano nuvole cupe che preannunciavano l’arrivo di aria fredda.
Avicenna avanzò alle spalle della guardia che lo stava aspettando e salì i due gradini, poi deviò sulla destra e trovò al-Muzdawaj con al fianco il Signore del Contado seduti su un elegante pancone di legno. Vicino a loro Strillo sedeva con ostentata compostezza, e poi c’era un giovane dal viso radioso e l’abito splendido, che forse non raggiungeva i trent’anni. Avicenna li salutò, e loro si alzarono per dargli il benvenuto e accoglierlo come si conviene a uno del suo rango.
Il Signore del Contado era un uomo alto, con la barba, il volto affilato, con il mantello e la sciarpa e l’aspetto elegante e sontuoso. I suoi grandi occhi scintillavano d’intelligenza. Salutò Avicenna stringendogli la mano e dicendo con un sorriso benevolo: «Finalmente ti conosco, Dio sia lodato! Ma ti trovo giovane nel pieno dell’età… perché mai ti chiamano il “Grande Maestro” se hai a malapena quarant’anni?9 Sarebbe più appropriato appellarti il “Piccolo Maestro”, anche perché hai primeggiato fin da quando eri un giovanotto!»
«Ti ringrazio, mio signore, ma ora non sono più tanto giovane. Ho superato i quaranta, essendo nato nel 980».
Al-Muzdawaj rise, e rivolgendosi al Signore del Contado disse: «Calma, signore di questa provincia, non provare invidia per il Grande Maestro, dato che tu hai più ragioni per essere invidiato e quest’oggi non ti lasceremo finché non ci svelerai il segreto della tua, di giovinezza, o Giovane Maestro!»
«Non ho più alcuna giovinezza di cui rivelare il segreto…» gli rispose quegli a tono, e poi declamò il famoso verso: «Mi son stancato delle noie della vita, e chi ha vissuto ottant’anni – che tu sia senza padre! – è ben stanco»10.
In quell’istante Avicenna si stava mettendo a sedere, dopo aver stretto la mano anche al giovane dai lineamenti splendenti che accompagnava il Signore del Contado, e rimase doppiamente sorpreso, per l’eloquente pronuncia dell’arabo e la prontezza di spirito del Signore e per lo sguardo che il giovane gli rivolse, uno sguardo colmo di significati diversi, dalla gioia all’inquietudine…
Non appena si sedettero tutti insieme, un servitore venne a posare sul tavolino un grande piatto con frutta secca e caldarroste. Il Signore del Contado prese un sacchetto che aveva portato per lui il giovane dai lineamenti splendenti e lo porse ad Avicenna, dicendo in tono cortese: «Questo, dottore, è un piccolo regalo per te, spero che incontri la tua soddisfazione».
Il sacchetto, di una stoffa di cotone leggero, più piccolo di una sacca per la biada ma più grande di una borsa per le monete, era legato con un nastro di seta color del cielo. Avicenna lo aprì e vi trovò tre libri: una copia del Libro di Shanaq sui veleni e gli antidoti, un trattato con una selezione di sentenze di sapienti indiani chiamato in arabo Kunkuh11, e un volume rilegato in pelle della celebre opera Terapia rapida di Abu Bakr al-Razi12.
Con un sorriso Avicenna ringraziò il Signore del Contado per quel regalo prezioso, senza naturalmente riferirgli che lui conosceva bene i tre libri, anzi, li sapeva quasi a memoria. Il Signore del Contado, indicando il giovane che era con lui, disse: «È stato Mahyar a scegliere i libri per te, assicurandomi che ti sarebbero piaciuti…» Poi tacque un istante prima di aggiungere: «Mahyar e sua sorella sono per me come i miei figli più amati e cari».
«Che Iddio renda eterni l’affetto e l’amore!»
Iniziato il convivio, il cuore di Avicenna fu lieto ed esultante quando il Signore del Contado gli comunicò che lungo la strada per andare lì aveva incontrato un gruppo di persone provenienti dai villaggi del Contado, fra le quali c’era anche ‘Ali, il fratello di Avicenna, con la moglie e i figli, e un uomo dai modi gentili che diceva di essere stato allievo del Grande Maestro.
«Abu ‘Ubaid al-Juzjani?» domandò Avicenna, come cercando conferma.
«Sì, lui. Mi sono premurato di indirizzarli verso il villaggio centrale, dove è facile trovare una dimora stabile, e ho promesso loro di domandare al comandante Mansur il permesso di venire a farti visita domani».
«Permesso accordato?»
«Certo, immediatamente».
«Vi ringrazio entrambi».
Durante il convivio gli assistenti di al-Muzdawaj, come anche il giovane dai lineamenti splendenti, mantennero un compito silenzio mentre per la stanza aleggiavano discorsi generali sulla situazione del paese e i cambiamenti del tempo, nonché scambi di cortesie fra al-Muzdawaj, il Signore del Contado e il Grande Maestro. Ma siccome fra loro si stavano prolungando i discorsi banali, Avicenna provò a guidare la conversazione verso un’altra direzione chiedendo delle erbe medicinali e dei farmaci. Il Signore del Contado fece un cenno a Mahyar, che tirò fuori dalla sacca un sottile taccuino e lo diede ad Avicenna. Lui lo prese e lo guardò stranito: sfogliandolo vi trovò un elenco di nomi di articoli medici, farmaci, unguenti e tinture. Il Signore del Contado disse che si trattava dell’inventario di una bottega che aveva dato in affitto a uno speziale.
«Un brav’uomo di ottima reputazione» disse, «ma per sua sfortuna è incappato in una bufera di neve mentre da Tabriz tornava al Contado e ha perso il controllo dei suoi arti a causa del gelo. Dopo molte sofferenze, è arrivato al suo villaggio completamente stremato. Ha resistito appena due giorni, il terzo è morto…» Per un momento rimase in silenzio, poi aggiunse che i figli di quello speziale erano piccoli e a parte lui non avevano altra sussistenza né famiglia, quindi se la bottega fosse rimasta chiusa, col tempo tutto quel che conteneva sarebbe andato in malora. Per questo voleva acquistare quanto lasciato da quell’uomo e donarlo al castello come elemosina, per curare i malati, oltre che come aiuto per i due orfani e la loro madre vedova.
«E cosa vuoi che faccia? Quando potrai mandarmi questi farmaci?»
«Fra non molto, forse dopodomani. Quello che ti chiedo è di fare una stima del loro valore, per non essere scorretto verso gli orfani».
«Io non conosco con esattezza i prezzi, mio signore, ma nel complesso, in base alle quantità riferite in questo taccuino, il loro valore potrebbe andare dai seicento agli ottocento dirham».
«Allora gliene darò mille, Dio terrà conto del resto».
«Che Dio benedica la tua salute» disse al-Muzdawaj al Signore del Contado, e quest’ultimo disse ad Avicenna che avrebbe fatto eseguire l’ordine il più presto possibile. Avicenna, guardando al-Muzdawaj, chiese: «Dove metterai quella roba?»
Lui rispose che in quel momento dovevano occuparsi del pranzo e che glielo avrebbe spiegato dopo. «Orsù, a tavola!» gridò come se stesse incitando i soldati alla battaglia, ma ridendo, rassicurato dall’idea che gli era venuta in mente e che avrebbe cominciato a mettere in atto insieme ad Avicenna la mattina seguente.
Mentre consumavano il pasto caldo e appetitoso, il Signore del Contado, indicando lo splendente giovanotto chiamato Mahyar, raccontò pacatamente ad Avicenna che lui era originario di Shiraz ed era il marito della sua figlia minore. Era stato per un certo tempo allievo di Abu al-Rayhan al-Biruni13, noto come “il Professore”, presso il quale era stato per anni, e ora desiderava stare vicino al Grande Maestro per servirlo e apprendere da lui…
«Ma io qui sono un detenuto…» disse Avicenna.
Al-Muzdawaj intervenne dicendo fra il serio e il faceto: «Il castello dà il benvenuto a chiunque voglia farsi imprigionare, specialmente se viene per conto di Abu Zuhair».
«Quanto tempo hai trascorso con Abu al-Rayhan?» domandò Avicenna a Mahyar. «E cosa hai letto con lui?»
«Quattro anni, mio signore» rispose lui in modo sintetico, «e con lui ho letto l’Almagesto e di suo le Antichità sopravvissute dei secoli andati14».
Al-Muzdawaj, che come al solito urlava quando era sincero, disse con voce stentorea: «Voi cricca dei dottori, lo giuro, siete proprio una meraviglia di questo mondo. Non esiste nulla di più strano dei vostri discorsi, ah ah ah… Che cos’è questa megista e quelle altre antichità che sopravvivono?»
Avicenna fece un sorriso discreto, mettendosi la mano sulla bocca per coprire la risata che si stava allargando, quindi si rivolse ad al-Muzdawaj per spiegargli il senso dei vocaboli: Almagesto era il titolo di un famoso libro di astronomia, matematica e cosmologia composto mille anni prima da un grande scienziato, Tolomeo; quanto alle Antichità sopravvissute dei secoli andati era una delle opere di Abu al-Rayhan.
Al-Muzdawaj lo interruppe con una battuta: «Abu al-Rayhan, dev’essere uno molto profumato!»15
«Smettila di scherzare!» disse il Signore del Contado chinandosi col suo elegante turbante verso al-Muzdawaj. «Si tratta di uno che sta alla corte del sultano Mahmud ibn Sebük Tejin il Ghaznavide…»
«Il Ghaznavide…» gli rispose subito al-Muzdawaj. «O Signore, proteggici da tutti i tormenti, quelli nascosti e quelli evidenti, e con la Tua misericordia tienici lontano da quel Ghaznavide, o Signore dell’Universo!»
«Di cosa hai paura tu, Mansur, che hai trattato con governanti di ogni genere?»
«Di quelli, Abu al-Zuhair, ce n’è un solo genere: tutti quanti, nella loro ricerca del potere, sono spietati. Ma nella spietatezza ci sono gradi e livelli. La spietatezza di quell’uomo è terrificante ed è nota la sua violenza contro gli sciiti, i sapienti e tutti quelli che lo contraddicono. Come si fa a trattare con lui?»
«E allora smetti di agitarti per quelli che lo contraddicono, tu non sei uno di loro».
«Mio caro socio, tu sai che la mia nuova moglie è sciita e che la sua famiglia a Isfahan è ben nota per sostenere quella confessione. Cosa credi che il Ghaznavide farebbe a lei e a loro se arrivasse fin qui?»
«Sta’ tranquillo, non arriverà. È molto occupato in India, e potrebbe averne ancora per lungo tempo».
Sul volto di Avicenna apparve un’espressione di disagio, come se tutto quel che aveva udito sul Ghaznavide fosse accaduto a lui. Anche l’appellativo di “mio socio” usato da al-Muzdawaj per il Signore del Contado gli parve strano, ma represse quel che aveva dentro e non manifestò ai suoi commensali quanto gli passava per la testa, anzi, dissimulò voltandosi verso Mahyar e domandandogli quali scienze intendeva studiare. Lui gli rispose immediatamente: «Medicina». Avicenna approvò con il capo, e sul viso di Mahyar si diffuse un’espressione compiaciuta. Anche il Signore del Contado se ne rallegrò.
Nel primo pomeriggio entrarono molti servitori, preceduti da Strillo che impartiva gli ordini. Portarono via i vassoi e i rimasugli di pane dalla tavola, che era diventata quasi un campo di battaglia. In quel mentre al-Muzdawaj si tirò in piedi, si stiracchiò e invitò i suoi compagni ad alzarsi e andare a sedersi nel giardino che stava fra le due torri, per godersi l’aria pura e bere qualcosa. Finalmente splendeva il sole tiepido del pomeriggio, disse. Tutti d’accordo uscirono dietro di lui, ma il Signore del Contado ribadì con un sorriso che non poteva indugiare troppo, perché altrimenti la notte gli sarebbe calata addosso lungo la via del ritorno. Tutti si alzarono contenti e pervasi da un senso di appagamento. Mahyar rimase in silenzio, come perso nelle sue speculazioni.
La stretta scala di pietra aveva i gradini rivestiti da spesse assi di legno per evitare inciampi, dal momento che il tempo aveva consumato i bordi. Al-Muzdawaj salì per primo e si diresse subito verso la panca accovacciandosi a gambe incrociate; dietro di lui il Signore del Contado conversava a voce bassa ma chiara con Avicenna che saliva alle sue spalle, per poi completare il discorso mentre andavano insieme in fondo al cortile sul lato nord. Avicenna ascoltava con interesse. Mahyar, Strillo e i due servitori si diressero dove stava al-Muzdawaj: i primi due si posero di fianco a lui, gli altri nelle vicinanze pronti a ogni suo cenno. L’aria invernale era corroborante, la benefica luce del sole ammantava pigramente le sommità dei colli lontani di un giallo dorato, infondendo benessere negli animi. Sul lato nord della corte il Signore del Contado raccontava ad Avicenna di esser entrato in quel castello la prima volta insieme a suo padre, quando era ancora un ragazzino; a quei tempi era alle dipendenze dell’emirato di Rayy e del suo governatore Buwayhide. Quando Avicenna gli chiese la ragione della presenza di una fortezza militare in mezzo a quella regione desolata, lui disse che era stata costruita in un tempo molto antico, forse quasi mille anni prima. A quei tempi la regione era circondata dal verde, perché il corso del fiume che scendeva dal monte Qazvin non si era ancora ritirato da lì. Al sentire il nome Qazvin, Avicenna ebbe una stretta al cuore – e il pranzo gli tornò su insieme a ricordi indistinti – ma non lo diede a vedere e il Signore del Contado continuò il suo discorso, raccontando che quello un tempo era il punto di incontro di due rotte commerciali: lì si fermavano a riposare le carovane provenienti dall’Estremo Oriente che portavano seta e spezie e quelle provenienti dall’Iraq e dalla Siria con datteri, olio e ogni genere di beni e mercanzie. Era dunque necessario preservare la sicurezza della valle con quella rocca. Lì avevano eretto anche un tempio del fuoco, di quelli chiamati atash-kadeh, al quale i pellegrini convenivano per ottenere la benedizione, oppure facevano una deviazione durante il loro pellegrinaggio verso la montagna del fuoco sacro che si affacciava sul Mar Caspio.
«Quando sono stato a Qazvin» disse Avicenna «ho sentito parlare di quella montagna, ma non mi sono mai spinto più a nord per vederla. Si dice che il suo fuoco non si sia mai spento».
«E non si spegnerà mai, te lo posso assicurare. Io l’ho visto più volte, e ogni volta sono rimasto meravigliato dal fuoco che esce tra le faglie delle sue rocce, perfino in inverno, quando è tutto ricoperto da nevi abbondanti».
«Deve esserci una causa naturale, come se sotto le rocce ci fosse del bitume del tipo di quello che appare sulla superficie degli stagni nelle depressioni. Questo si infiamma per una causa accidentale, addirittura basta il sole cocente dell’estate ad accenderlo. Ma che fine ha fatto il tempio del fuoco che c’era qui?»
«Ne sono rimasti dei ruderi, fra cui alcune pietre addossate alle mura meridionali del castello. Erano la residenza dei sacerdoti e dei notabili. Ma tutto questo è ormai scomparso: più di duecento anni fa il governatore della città di Qom attaccò il tempio e lo incendiò, non prima di averne rimosso la porta in oro tempestata di gemme che donò al califfo Abbaside, il quale la depositò nella Ka‘ba a Mecca. Mio nonno, che fu presente all’evento quando era bambino, mi raccontò che il governatore di Qom tirò fuori da questo tempio del fuoco la più antica copia dell’Avesta, il loro libro sacro, e la bruciò. Il fuoco continuò a divorarla per tre giorni, perché era scritta su diecimila fogli di pergamena».
«E perché questi abomini?»
«Per offendere gli zoroastriani e far trionfare la religione di Dio».
«Dio non ha ordinato di dare alle fiamme i templi dei non musulmani, né di attaccarli o di bruciare i libri degli antichi».
«Ma lo hanno ordinato i governatori fanatici e, per quanto li riguarda, loro fanno quel che gli piace. Non è così, dottore?»
«Già, hai ragione… È così che fanno».
Avicenna rammentò un dialogo avuto con il suo allievo Bahmanyar ibn al-Marzuban durante un loro incontro. La sua mente si assentò per una manciata di istanti, poi si riebbe e tornò al discorso col Signore del Contado e gli domandò: «E perché il fiume si è ritratto da qui?»
«Perché più a nord hanno cominciato a scavare dei canali sulle sue sponde per far scendere verso i campi l’acqua necessaria all’agricoltura. Così, anno dopo anno il fiume è regredito, al punto che i villaggi più a sud del distretto, quelli che distano un paio d’ore da qui, hanno cominciato a soffrire di penuria d’acqua… Il terreno che circonda i primi borghi nel Meridione del Contado si sono completamente inariditi, e oggi sono di fatto villaggi in miseria. Eppure in passato erano noti come i “Villaggi dei Fiori” per i tanti prati fioriti che li circondavano».
Al-Muzdawaj li richiamò con voce tonante, quindi i due andarono da lui senza terminare il discorso che Avicenna avrebbe voluto prolungare, per comprendere appieno la geografia di quel luogo dimenticato e delle regioni limitrofe. Una volta ricompostosi il gruppo sul terrazzo, Avicenna tentò di riallacciarsi al discorso che era stato interrotto, e chiese cosa c’era a sud del castello. Al-Muzdawaj gli rispose con i suoi modi scherzosi dicendo: «Le mie due mogli e i miei figli, ah ah ah!»
Fra loro circolavano coppe di vino e bicchieri di succo di frutta, il discorso scorreva spedito fra vari argomenti. Mahyar restava composto in silenzio, tutto preso dalle sue speculazioni. Avicenna si piegò verso di lui e sussurrandogli nell’orecchio gli domandò cosa gli passasse nella mente in quel momento, chiedendogli di parlare in tutta sincerità.
«Nulla, mio signore. Riflettevo sul fatto che la sensazione di solitudine è dura. Ed è ancora più dura quando si è in mezzo alla gente».
Avicenna approvò con un cenno del capo e si meravigliò per la risposta di Mahyar. In quell’istante arrivarono i servitori a portare dei dolci di fattura non perfetta, di cui Strillo trangugiò deliziato una bella porzione… Dopo un breve momento di calma, il Signore del Contado si alzò per prepararsi ad andar via. Tutti si alzarono insieme a lui per accomiatarsi nella corte del castello e Avicenna gli disse: «Spero di rivederti presto, così continueremo il nostro discorso sul Villaggio dei Fiori…»
Quelli che lo circondavano scoppiarono a ridere, ma Avicenna non ne capì il motivo fino alla mattina seguente.
Al tramonto al-Muzdawaj passò a trovare Avicenna; era da solo e fra i due si svolse un breve dialogo a bassa voce.
«Stamattina, quando sono uscito per andare incontro al Signore del Contado, lui mi ha preso da parte per informarmi del suo incontro con tuo fratello ‘Ali e il tuo amico al-Juzjani. Mi ha chiesto il permesso di farli venire in visita da te domani. Permesso che ho subito accordato».
«Ti ringrazio».
«Ma ho una preghiera da farti… La maggioranza degli abitanti dei villaggi del Contado è sunnita e fra loro vi sono anche alcuni fanatici, mentre di tuo fratello si sa che fa propaganda per gli imam Fatimidi. Se lo facesse anche qui, fra la gente si verificherebbero tumulti che metterebbero tutti noi in imbarazzo e di cui faremmo volentieri a meno. Ti prego quindi di impedire a tuo fratello di divulgare le sue idee, non ne verrebbe nulla di buono».
«Lo farò. Anzi, ti ringrazio del consiglio».
«Che Dio ti benedica, Signore dei Sapienti. Arrivederci a domani mattina».
Dopo che al-Muzdawaj uscì per tornare dalla sua famiglia nel suo “piccolo regno”, tutto il castello si calmò e ovunque dominò il silenzio. Anche l’animo di Avicenna era quieto e quella notte stava quasi per riprendere il suo trattato sulla colite, se non fosse che aveva la testa gremita di pensieri sparsi. Quindi cominciò a scrivere appunti su argomenti vari per il suo grande libro sulla medicina, mentre i pensieri pascolavano fra i ricordi di Rawan, di suo fratello ‘Ali e… Sentendo arrivare il sonno, si alzò, sfinito, per andare a letto.
La mattina dopo al-Muzdawaj chiamò Avicenna da dietro la porta chiusa. Questi si alzò abbandonando la scrittura. Al-Muzdawaj lo portò a vedere lo spazio destinato a diventare il deposito dei farmaci che sarebbero arrivati. Vi si entrava da uno stretto corridoio che metteva in comunicazione le due corti del castello, quella anteriore e quella posteriore. Il corridoio, in cui stagnava un odore sgradevole, aveva il soffitto a volta e delle stanze sia in alto che in basso costruite nel centro della rocca con pietre più piccole e più sottili di quelle che costituivano le mura con i grandi blocchi di pietra levigati. Al centro del corridoio Avicenna vide una scala che scendeva verso il basso e, stupito e curioso, chiese informazioni ad al-Muzdawaj. Il comandante gli rispose con indifferenza che portava ai sotterranei dove erano rinchiusi i prigionieri. «Ne risalgono certi grossi topi…» aggiunse scuotendo la sua grande testa. Preso da una commozione mista ad amarezza, Avicenna ebbe una stretta al cuore e sospirò, addolorato per i destini umani.
La corte posteriore era divisa in due da una parete di separazione ed entrambe le metà avevano una porta. Al-Muzdawaj indicò la porta a sinistra, verso nord, e disse che lì dietro c’erano le stalle dei cavalli, i recinti degli animali e le gabbie dei cani. Il soffocante odore di sterco ne dava conferma. La metà meridionale dietro la porta aveva uno spiazzo vuoto con in fondo una stanza lunga e ampia in cui c’erano scaffali di legno ricoperti dalle ragnatele; accanto a questa una stanza più piccola con ancora più scaffali. A destra di queste due stanze, chiusa da un lucchetto di bronzo, si apriva una porticina nel muro della rocca che collegava la corte al “piccolo regno”. Al-Muzdawaj disse che avrebbe ordinato ai servi di pulire le due stanze e il cortile. «E anche il pavimento degli ovili, se possibile» disse Avicenna, «per mandar via quell’odore orrendo».
Con una risatina al-Muzdawaj mosse la testa in segno di assenso e impartì i suoi ordini ai servitori e ai soldati che gli stavano alle spalle, poi invitò Avicenna a sedersi sulla panca di pietra che stava accanto alla porta della stanza più ampia. Quando si trovarono lì seduti fianco a fianco, al-Muzdawaj tacque per un istante come per raccogliere le idee, poi disse: «Signore dei Sapienti, Dio sa che io sono un uomo con molti difetti, ma sono sincero e non mento mai. E in tutta sincerità ti dico che io ti ho voluto bene e ti ho rispettato prima ancora di averti visto. Ma dopo averti conosciuto di persona, la mia stima e il mio affetto sono cresciuti. Infatti trovo che le informazioni che mi erano arrivate su di te nel complesso erano giuste, e confermano la tua insigne posizione. Però quando anni fa mi lessero il tuo libro sull’organizzazione dell’esercito e dei militari, mi dissi: quest’uomo è un saggio, un devoto della verità, ma non conosce le sozzure del mondo…» Al-Muzdawaj parlava in tono sincero, quindi Avicenna gli rispose con la stessa sincerità dicendo: «Ho conosciuto una parte di quelle sozzure, ma ho fatto della bellezza la mia strada. Però il tuo discorso è giusto, quel libro mi ha attirato molte maledizioni».
«Avresti dovuto prevederlo, essendo un uomo saggio. Quei mamelucchi e uomini d’arme, quando si allontanano dai campi di battaglia, dalle fortezze o dai posti di frontiera a cui sono abituati e vanno ad abitare in mezzo alla gente, nelle città e nei villaggi, diventano dei depravati della peggior specie e dimenticano le regole della disciplina militare. Pensano che la popolazione sia una preda, prendono sempre più spazio per ottenere vantaggi anche col sopruso e ambiscono al comando, all’autorità, al potere. Tutti sanno che quando il califfato di Baghdad ha ampliato i suoi confini, è diminuita la forza del suo pugno sulle regioni orientali e occidentali, così lì ciascun condottiero o capo militare si è reso autonomo nella propria regione…»
«Lo dici tu, che sei uno di loro!»
«Infatti all’inizio ero come loro, aspiravo come gli altri ad avere la forza necessaria per comandare. Effettivamente avevo cominciato a radunare soldati e arruolare mercenari per compiere le missioni che i governatori delle provincie mi affidavano, nella speranza di consolidare il comando col passare del tempo grazie al potere della forza. Ero davvero uno dei tanti capi e dittatori. Ma a metà strada ho cominciato a detestare gli spargimenti di sangue, mi sono stancato dei complotti, i tradimenti mi davano la nausea. Mi sono deciso a ritirarmi qui come comandante di questo castello che in fin dei conti è una prigione, un carcere alle dipendenze dell’emirato di Hamadhan, ma ben lontano da lì e dai clamori della politica. Mi sono messo a servire qualunque governante regnasse a Hamadhan e dintorni, senza riservare una speciale lealtà o fare distinzione tra un governante e l’altro. Se arrivasse Ibn Kakwayh a regnare sulla regione, io sarei il suo servitore. Perfino se arrivasse Mahmud il Ghaznavide o uno qualunque dei principi che si fanno guerra fra di loro azzuffandosi come cani: io sarei, naturalmente, suo servitore. E così oggi la mia lealtà è per Sama’ al-Daula e il generale del suo esercito Taj al-Mulk. Domani potrebbe essere per qualcun altro che governerà al posto loro. So che questa non è la scelta migliore, ma ho scoperto che è la via più sana, nonché quella che più ti tiene lontano dal commettere azioni scellerate. Quindi ho scelto questa strada».
«Forse è davvero la scelta migliore per te» disse Avicenna, e per un istante ebbe la visione dell’Impero islamico ormai ridotto in tanti frammenti sfilacciati. Il califfato di Baghdad da molto tempo era diventato solo un nome vuoto, una forma senza contenuto. I califfi si godevano i loro piaceri nei palazzi aspettando i bottini e i doni dei principi ormai resisi indipendenti nei paesi di Oriente e Occidente. Sul fronte orientale c’erano i Buwaihidi e i Kakwayhidi, come prima di loro i Samanidi Qabus e Ma’mun ibn al-Ma’mun, e adesso Mahmud figlio di Sebük Tejin, il pederasta, il saccheggiatore dell’India, l’assassino di suo fratello. Sul fronte ovest gli Hamdanidi ad Aleppo, i califfi Fatimidi in Egitto e al Cairo, gli Ziyaditi a Zabid, i principati combattenti nel Maghreb e in Andalusia… Quell’entità che era stata universale si era frantumata, ma la gente viveva sotto la sua ombra senza sapere che si stava avvizzendo e rattrappendo, e ben presto sarebbe caduta sgretolandosi.
«Ti vedo molto distratto… Mi stai ascoltando, dottore?»
«Sì, sì, fratello Mansur, scusami. Andavo col pensiero alla condizione dell’Impero islamico, perdonami. Ma permettimi una domanda: perché ieri ti sei rivolto al Signore del Contado chiamandolo “mio socio”?»
Colto di sorpresa, al-Muzdawaj esplose nella sua solita risata e si appoggiò al muro con le spalle e la testa, quindi disse: «Perché noi, Abu ‘Ali, condividiamo gli stessi intenti. Io mantengo l’ordine in questa fortezza e nei dintorni, lui preserva i villaggi del Contado dagli assalti e dalla distruzione degli eserciti che si combattono fra loro, anticipando con i suoi soldi le somme richieste ai non musulmani come tributo di protezione, come anche le tasse fondiarie imposte ai musulmani. Questo mette un freno alle spinte di coloro che estendono la loro autorità sulla regione, senza alcuna distinzione fra un governante o l’altro, e in tal modo si procura la simpatia della popolazione. Così fecero anche suo padre e suo nonno. E con questa saggia politica hanno protetto le vite della gente dei villaggi e il loro modo di vivere, mentre i governanti guardano al Contado come a un forziere che non bisogna forzare, in particolare perché chi ha la responsabilità di comandarlo non è un militare: il suo coraggio è temuto, ma non è una delle parti in lotta per il potere che debba essere ricompensata o osteggiata. Lui è come me: si attiene all’obbedienza verso chiunque sia al governo, senza simpatie e lealtà speciali per nessuno dei governanti… È in questo senso che siamo soci».
«Sì, per voi due questa è una saggia politica. E ora dimmi, perché ieri vi siete messi a ridere quando ho nominato il Villaggio dei Fiori?»
«Ah ah ah, perché quello è il villaggio più vicino al deserto, e a noi. Quando gli arabi si sono impadroniti di questa regione, centinaia di anni fa, la chiamarono “Pascolo del Villaggio dei Fiori”, per i tanti prati che la circondavano, pieni di fiori selvatici. Ma dopo un certo tempo, senza alcun motivo conosciuto, le piogge si sono ridotte, la terra si è inaridita, si è ricoperta di sabbia e non è stata più coltivabile. Col passare del tempo i suoi abitanti, musulmani, ebrei e magusei, sono diventati poveri e le loro bellissime donne sono diventate le concubine di coloro che possono permettersi di pagare, per loro e per tutta la loro famiglia… Ogni soldato di questo castello ha una donna lì, va da lei ogni dieci giorni e passa con lei qualche notte, raggiunge il suo scopo e torna contento. La maggior parte della gente lo chiama il “Villaggio degli Adultèri”, mentre i più educati, che son minoranza, lo chiamano il “Villaggio dei Fiori”»16.
«Questo è davvero strano, e anche scorretto. Secondo la legge la concubina dovrebbe stare nella casa del suo padrone, quindi come…»
«Io non so nulla di questioni giuridiche, dottore, ma puoi chiedere ad Abu Zuhair quando verrà: è uno che ha studiato diritto e conosce le regole della religione. Quanto a me, conosco solo la condizione e la natura degli uomini, e so che quando gli sono proibite le donne i jinn giocano con le loro menti. Perdono la testa e in loro aumenta la tendenza alla ribellione e alla rissa, eh eh. Quelli non sono dottori come te, sono governati dalle loro inclinazioni».
Avicenna ebbe la sensazione che al-Muzdawaj stesse alludendo a qualcosa prendendola da lontano, senza volersi spiegare esplicitamente, o forse voleva, ma esitava fra il criptico e l’esplicito; quindi gli domandò amichevolmente che cosa sapesse e cosa nascondesse. Dopo aver ponderato per un attimo, al-Muzdawaj gli rispose in tono serio, e incrociando le mani disse che lui conosceva la passione che il Grande Maestro aveva per le belle donne e che non sopportava che il suo letto fosse privo di una bella donna; in quella prigione però avrebbe dovuto avere molta pazienza… Avicenna sorrise timidamente e disse: «Le avversità ci distraggono da noi stessi. E lo stato di necessità ha le sue regole. Ma tu come hai saputo queste cose su di me?»
«Può uno come te tener nascoste certe informazioni a uno come me? Ti ho parlato apertamente di molte cose e ti ho raccontato molto su di me, per cui dimmi, dottore, stai ancora cercando Rawan?»
«Che cosa? Rawan… Chi intendi, Rawan la mia schiava? Chi ti ha parlato di lei? E come…»
«L’ho vista».
Udendo il nome di Rawan, Avicenna rimase attonito e con lo sguardo assente. In quel momento sembrava un bambino su cui, mentre sta dormendo, cade una tarantola in faccia e lo pizzica, e lui resta paralizzato per il troppo spavento. Impietosito, al-Muzdawaj tacque e guardò educatamente da un’altra parte. Non riuscendo a mantenere la sua solita calma e compostezza, Avicenna s’alzò di scatto. Nel suo petto soffiavano turbini di uragani e il suo cuore fu stretto dalla morsa di un vecchio ferro arrugginito.